Tommaso D’Aquino

«Omne verum, a quocumque dicatur, a Spiritu Sancto est (Ogni verità, da chiunque sia detta, proviene dallo Spirito Santo)» (Tommaso d’Aquino)

Il genio filosofico di Tommaso

Nella storia si agita una forma infinitamente più misteriosa e potente di quelle naturali: il pensiero. Della sua azione ci rendiamo conto solo a distanza di tempo e allora la vediamo grandeggiare mirabilmente. Nessun contemporaneo, ad eccezione di pochi illuminati da una grazia speciale, intravvide in Paolo di Tarso, in quell’uomo che arringava gli ateniesi e che fu congedato dall’Areopago con condiscendente sussiego, uno dei più poderosi costruttori della civiltà cristiana. In un’epoca meno lontana da noi, nessuno pensava che le meditazioni di Jean Jacques Rousseau sulle ingiustizie sociali gettavano le fondamenta di quell’ideologia rivoluzionaria che avrebbe, nel volgere di alcuni decenni, annientato l’ancien règime e sconvolto la Francia e l’Europa. Quando Hegel delineava la sua concezione dello Stato, nessuno pensava che la statolatria e le dittature disumanizzanti dei tempi posteriori avrebbero attinto a quella concezione motivi di ispirazione e di giustificazione. Grande è dunque la responsabilità del pensiero, perché i conflitti di idee interessano profondamente non soltanto i filosofi, ma tutta l’umanità pensante specie quando si trova a una svolta decisiva della sua storia.

A chi riconosce la forza propulsiva del pensiero nella storia non farà dunque meraviglia che la Chiesa onori e veneri come santo uno dei massimi geni del pensiero, il santo dell’intelligenza, Tommaso d’Aquino, e che un pontefice, Leone XIII, abbia definito la filosofia e la teologia di quel grande «la forza tutelare e l’ordinamento della chiesa».

L’umile silenzio di fra Tommaso sembrava autorizzare le pietose supposizioni ed esibizioni dei condiscepoli e le ironie dei commensali alla corte di Luigi IX; ma già la mente profetica del Maestro Alberto Magno intuì che quel giovane meridionale dal volto «color frumento», dalla testa imponente e dallo sguardo penetrante, portava in sé racchiuso un mondo di pensieri che avrebbe rischiarato le più alte mete della vita e della speculazione. Sotto le apparenze tranquille, Tommaso d’Aquino fu pensatore audace, il quale inserì la sua speculazione nel vivo della problematica assai rischiosa del suo tempo e con una novità di metodo, di vedute e con un vigore polemico tali da procurargli aspri contrasti e dibattiti d’importanza rilevante nella storia del pensiero.

Il coraggio e l’originalità di Tommaso si misurano appieno solo quando si tengano presenti quali erano gli atteggiamenti dominanti negli spiriti del secolo XIII.

– La dottrina della doppia verità permetteva di affermare: ciò che è vero secondo la fede può essere contestato o negato secondo la ragione e viceversa. Si veniva così a creare e a legittimare un clima di ipocrisia, di falsità morale oltre che teoretica, in cui il pensiero si svirilizzava e le coscienze si scristianizzavano.

– La dottrina averroistica dell’intelletto unico insegnava che vi è un solo intelletto, per così dire prestato a tutti gli uomini, senza appartenere in proprio ad alcuno. Si supponeva, pertanto, come esteriore all’uomo quel principio spirituale per cui l’uomo pensa e agisce come soggetto intelligente e libero. Le conseguenze erano tragiche: il principio stesso per cui ogni uomo è persona veniva distrutto, la coscienza morale e la libertà non trovavano più alcuna giustificazione, ogni speranza di immortalità periva. La filosofia araba accreditava l’interpretazione naturalistica e panteistica di Aristotele e l’aristotelismo arabo sembrava travolgere minacciosamente la stessa cultura cattolica del tempo.

– D’altra parte la situazione della cultura cattolica era più che mai incerta: il logicismo dei dialettici e l’apriorismo di Anselmo erano inadeguati ad affrontare i nuovi problemi maturatisi con l’invasione dell’aristotelismo arabo; la grande tradizione patristica era stata obliata e Agostino era più citato come fonte d’autorità che conosciuto e compreso nella sua esuberante potenza di genio filosofico e teologico.

Tommaso torna alla Patristica e ad Agostino (una volta gli sfuggirà di bocca che volentieri avrebbe dato tutta Parigi in cambio di uno scritto – andato perduto – di un Padre della Chiesa); scende poi sullo stesso terreno degli avversari, utilizza ampiamente tutto ciò che di vero trova nella filosofia araba e reinterpreta l’opera filosofica di Aristotele con intenti teoretici più che storici.

L’assunzione della metafisica aristotelica, in ciò che essa ha di perenne, nell’organismo culturale del cristianesimo era – nella situazione storica del sec. XIII – un’opera di singolare ardimento ed esigeva, perciò, una magnanima larghezza di mente e di cuore e un acume critico poderoso. Infatti, se tra Aristotele e Tommaso vi è coincidenza di metodi, di principi, di formule, c’è pure un’immensa differenza nelle principali concezioni riguardanti Dio e l’uomo: la filosofia di Aristotele è manifestamente incompleta, su tutti i massimi problemi «maestosamente tace» e ciò, forse, spiega il fatto che essa sia stata interpretata e proseguita in direzioni diverse ed opposte.

Tommaso giustifica, precisa e potenzia in un inquadramento sistematico unitario le più alte intuizioni agostiniane e le sue proprie inconfondibili vedute, servendosi dei principi logici e metafisici che Aristotele portò al grado di consapevolezza filosofica, ma che appartengono, nel loro valore di verità, alla metafisica naturale della mente umana; principi che, a dire il vero, furono ampliati, trasformati, approfonditi nel loro contenuto e nel loro uso dal genio speculativo dell’Aquinate.

Nasceva così il tomismo, un sistema di pensiero organico e originale che rifiuta gli eclettismi e i prestiti non giustificati, ma che è aperto ad ogni progresso nel vero, per la posizione che gli è propria, e che supera le opposte unilateralità del materialismo e dell’idealismo, del razionalismo autosufficiente e dell’irrazionalismo, del naturalismo e del fideismo.

Un tal lavoro è complesso nel dettaglio, ma alla sua base sta un’intuizione iniziale molto semplice. Se noi ci chiediamo: – quale fu l’ispirazione fondamentale che orientò tutta la vita di Tommaso? – la risposta non può essere dubbia: Tommaso volle giustificare criticamente l’autonomia e la solidarietà reciproca di ragione e fede, di umana ricerca e rivelazione divina, di filosofia e teologia positiva. Tommaso insegna che la ragione ha le sue aspirazioni legittime, i suoi mezzi, le sue proprie certezze; diminuire al di là del giusto i poteri e i compiti della ragione è rifiutare ciò che costituisce la nostra stessa dignità di creature ragionevoli.

La ricerca della verità è un diritto e, al tempo stesso, il più alto privilegio dello spirito umano. Bisogna fermare la mano sacrilega degli iconoclasti del pensiero, i quali temono scioccamente che Dio sia geloso dello slancio del pensiero nella sua creatura. No: se la fede è divina e se la ragione obbedisce all’intrinseca sua vocazione al vero, non si possono temere i liberi sviluppi della ragione. Perché la ragione sia disponibile per la verità, colui che cerca la verità deve però staccarsi da se stesso, dalle proprie come dalle altrui prevenzioni, e decidere con ferrea volontà di sottomettersi unicamente alla verità, rispettando il diritto dei fatti e il diritto delle altre intelligenze. «Ogni verità, da chiunque detta, proviene dallo Spirito Santo» – scrive Tommaso, aggiungendo: «La verità non cambia con la diversità delle persone e chiunque la sostiene è invincibile».

Si sente spesso ripetere, con la superficialità propria dei luoghi comuni, un’espressione particolarmente infelice come se fosse la quintessenza del tomismo: «philosophia ancilla theologiae».

Ebbene, questa espressione non appartiene a Tommaso, ma ai tardi manuali della scolastica. Per Tommaso la ragione non conosce affatto una estrinseca soggezione e una passiva eteronomia nemmeno nei confronti della teologia positiva, da cui non rileva pretesi uffici ancillari.

Il problema di Dio, almeno per quello che riguarda la sua esistenza, appartiene in proprio alla ragione umana nell’esercizio naturale dei suoi poteri, è l’esigenza dell’Assoluto destata in noi dall’esperienza del contingente, è problema la cui soluzione va provata innanzitutto con argomenti schiettamente razionali, «rationibus irrefragabilibus».

Nella indipendenza della sua indagine, rigorosamente razionale, su Dio, la filosofia segna il suo momento razionale più alto e diventa, per sua intrinseca forza e non per presupposti uffici ancillari, «preambulun fidei», preparazione razionale alle verità della fede.

Le verità della fede, d’altra parte, comprendono anche alcune verità a cui l’umana ragione perviene da sola, ma abbracciano verità le quali, senza contrastare, nondimeno compiono e superano di gran lunga non solo le conquiste ma anche le legittime aspirazioni della nostra ragione. La grazia e la fede non distruggono l’umana natura, ma la perfezionano elevandola a una altezza a cui sarebbe stato vano aspirare senza l’amore e l’iniziativa di Dio. Il Dio della rivelazione cristiana non esclude le determinazioni del concetto di Dio che per via analogica è dato conquistare al pensiero umano, ma è infinitamente al di sopra di esso, perché comprende una superiore integrazione a cui l’umana ragione non potrebbe assolutamente pervenire da sola. La fede non contraddice la ragione benché la sorpassi e il credente non si sottrae per nulla agli obblighi del pensiero.

Nella indipendenza della sua indagine rigorosamente razionale, la filosofia, come teologia naturale, segna il momento razionale che precede l’assenso. La sovrannaturalità dell’initium fidei è tutt’altra cosa ed investe il giudizio pratico movente all’assenso, non i giudizi speculativi che in un certo senso lo preparano.

La pretesa funzione ancillare della filosofia, ben lungi dal significare la schiavitù della ragione al dogma, era la proclamazione del valore assoluto della ragione, i cui concetti e le cui leggi possono essere usati anche nell’elaborazione scientifica del dato rivelato.

D’altra parte, in Tommaso la nozione di filosofia assume dei connotati ben precisi: «scientia rei per ultimas rationes; est cognoscere causam propter quam res est et non potest aliter se habere (scienza delle ragioni ultime delle cose; è conoscere la causa per cui una cosa è quella e non può essere un’altra)».

Non è il concetto di filosofia che muta nei vari sistemi, ma ciò a cui si chiede la spiegazione ultima della realtà. Non si può negare la filosofia senza presupporre il suo concetto e senza filosofare. Filosofia è teoresi, conoscenza della vita, pensamento di essa.

Non bisogna confondere l’origine della speculazione filosofica o le condizioni di essa col suo valore. Di qui l’errore di chi (i materialisti in prima linea) riduce il valore sostanziale proprio di un’idea alle nostre disposizioni organiche, o la metafisica a uno stato d’animo morale o immorale (Lucien Laberthonnière), o la filosofia a un sottoprodotto dell’economia (Karl Marx): quando giudichiamo di una legge scientifica giudichiamo forse necessario conoscere le disposizioni organiche degli scienziati e la vita sessuale di coloro che l’hanno proposta? O si può davvero spiegare il valore della Divina Commedia con le pezze di panno che i mercanti fiorentini vendevano al tempo di Dante?

Talvolta per capire il valore non potrò prescindere dall’origine; come la bellezza di un poema non potrà essere valutata da chi ignora le notizie necessarie a sapersi per intendere il significato di fatti, allusioni, ecc., intimamente congiunte con l’origine del poema stesso; ma ciò riguarda la conoscenza nostra di quel determinato valore, il quale in quanto valore estetico esiste anche se il lettore ottuso non lo capisce.

L’influenza di Alberto Magno, le opere

L’opera di Alberto Magno (1206-1280), paragonata a quella di Tommaso (1221-1274), è inferiore dal duplice punto di vista della critica delle dottrine e della loro sistemazione; ma è Alberto che ha formato filosoficamente la mente di Tommaso.

L’opera enciclopedica e relativamente indifferenziata di Alberto Magno comportava virtualità assai diverse, di cui una sola parte avrebbe trovato in quella del discepolo Tommaso il suo completo sviluppo: quella speculativa e religiosa. Alberto aveva sentito ciò che vi era di fecondo per le scienze dell’empirismo aristotelico e aveva ammonito che, accostandosi ai particolari, «experimentum solum certificat in talibus (solo l’esperienza garantisce in indagini così importanti)»; ma il problema teologico e quello filosofico avrebbero invece dominato la mente e la dottrina del discepolo. Nondimeno la essenzializzazione della metafisica aristotelica, liberata da elementi periferici e caduchi, e il realismo metodico (ogni verità filosofica va provata muovendo esclusivamente dal positivo terreno dell’esperienza) costituiscono i tratti caratteristici della filosofia albertino-tomista.

Le opere di Tommaso si possono classificare in tre gruppi.

a) I Commentari: il commento alle Sentenze di Pietro Lombardo ci mostra il suo pensiero in formazione, a contatto con la filosofia araba; fu scritto a Parigi ed è tra i primissimi scritti insieme al De ente et essentia. I Commentari su Aristotele e sullo Pseudo-Dionigi ci mostrano Tommaso intento a penetrare due fonti, di ispirazione così diversa, a cui la sua filosofia e teologia vogliono alimentarsi: sono opere di interpretazione e di critica.

b) Le L’esposizione completa ed essenziale della filosofia è nelle prime due parti della Summa theologiae redatta per gli studenti. La Summa contra Gentiles contiene la stessa dottrina in un rigoroso inquadramento razionale e con discussione approfondita: le soluzioni proposte ai vari problemi sono sottomesse alla prova d’innumerevoli obiezioni ed è solo dopo aver trionfato che sono considerate vere.

c) Le Quaestiones disputatae e le Quodlibetales servono a un nuovo approfondimento di alcuni problemi. Così, per esempio, le Quaestiones de Veritate o il De potentia o il De unitate intellectus contra Averroistas sono non meno indispensabili delle due Summe per chi voglia penetrare fino in fondo il pensiero di Tommaso.

Il metodo

– Tommaso critica il ricorso al principio di autorità. Ogni autorità può essere discussa e, se è il caso, ricusata. Già Scoto Eriugena, esponente di spicco della rinascita carolingia, aveva affermato: «L’autorità procede dalla ragione e non la ragione dall’autorità»; gli stessi concetti vengono poi ripresi dal maestro di Tommaso, Alberto Magno: «Philosophi enim est, id quod dicit, dicere cum ratione (è proprio del filosofo dire con cognizione di causa ciò che dice)». Nella Summa theologiae (I, 2, 4) Tommaso inequivocabilmente afferma che «locus ab auctoritate infirmus est et infirmior ceteris (la prova che poggia sull’autorità è debole e più debole di tutte le altre)», riprendendo pertanto un concetto che il miglior pensiero cristiano aveva fatto proprio da tempo. Infatti Agostino, il più profondo filosofo della patristica, aveva chiarito nel De ordine che due sono le nostre guide nell’apprendere: l’autorità e la ragione. Secondo il tempo è prima l’autorità, secondo la realtà è prima la ragione («tempore auctoritas, re autem ratio prior est»).

– Il metodo storico-critico: un esempio di suprema lealtà metodologica. In Tommaso si trovano congiunte la cautela critica con una sterminata informazione storica: «Ha insegnato al mondo moderno che cos’è la scienza e l’implacabile onestà del sapere» (Jacques Maritain, Il contadino della Garonna).

– Contro la doppia verità praticata dagli averroisti, secondo cui ciò che è vero nell’ordine teologico può essere falso nell’ordine filosofico e viceversa. Per Tommaso è inscindibile e indifettibile l’unità del vero. La verità è una e non conosce altri opposti se non il falso e l’errore. Anche tra verità di ordine diverso vi è solidarietà e non contraddizione.

– Il tomismo è una filosofia della integralità e del dialogo. Tommaso ha un vivo senso della complessità del reale. Il pensiero è orientato al vero quando rispetta il diritto dei fatti e il diritto delle altre intelligenze. La verità va cercata come un bene comune, senza lasciarsi fuorviare da prospettive unilaterali, essendo l’errore l’ossessiva esasperazione di una verità parziale. Non vi è che una regola: tener conto di tutto e situare ogni verità al suo proprio livello. Ogni opinione, ogni tesi, ogni autore, tutto va indagato con spirito aperto, per distinguervi l’anima di verità e farla propria. Occorre pensare in costante collaborazione con chiunque, perché «Omne verum, a quocumque dicatur, a Spiritu Sancto est». La verità non cambia a seconda di chi la scopre e la rende manifesta agli altri. Le verità possono appartenere a ordini diversi; sono pertanto da distinguere a seconda della molteplicità dei gradi e delle forme del reale e delle direzioni multiple del sapere. Non vi è reale progresso che per differenziazione, ma è solo questo metodo che rende possibile una visione più propriamente unitaria. Il più ardito novatore è, infatti, colui che sa meglio penetrare il reale e ascoltare la voce dei fatti e degli altri uomini, senza esclusioni e apriorismi di sorta.

Nel suo commento alla Metafisica (Libro II, lez. 1a; Libro III, lez. 1a) Tommaso scrive testualmente: «I pensatori si aiutano l’un l’altro in un duplice modo: direttamente, in quanto i predecessori scoprono qualche lembo di verità, e i successori, mettendo insieme queste ricchezze, possono arrivare a (più) grandi conoscenze; indirettamente, in quanto quelli che hanno sbagliato forniscono l’occasione, a chi discute sagacemente le loro affermazioni, di far brillare più chiaramente il vero». «Allo stesso modo che nei processi non si può emettere una giusta sentenza senza ascoltare le ragioni delle due parti, lo studioso di filosofia giudica meglio se esamina il contrasto delle idee, considerandolo come quello di avversari nel dubbio».

LA METAFISICA

La metafisica generale o ontologia è la scienza dell’essere in quanto tale, nella sua totalità, e nelle sue cause prime. Dicesi «filosofia prima» o fondamentale in quanto le sue conclusioni si estendono a tutta la realtà. Tenendo presente il significato etimologico con quello acquisito, la metafisica è anche l’affermazione di un principio metaempirico del reale, affermazione contenuta in ogni sistema ancorché si proclami antimetafisico: essa viene dopo la considerazione fisica del reale perché è ad essa ulteriore, non per dignità o ordine di natura, ma per l’acquisizione.

Il concetto di ente

Non è «cosa», come traducono e intendono i filosofi moderni. L’immagine di cosa non conduce al concetto di ente. Non è frutto di un’astrazione impropria e isolatrice, non è assoluta indeterminazione; qualunque momento del reale è ente «quidquid est, si quid est, ens est (tutto ciò che esiste, se esiste, è ente)» e da nulla nel concreto si può prescindere, quando si tratta di tale concetto.

Il pensiero muove dall’oscura e confusa intuizione dell’essere, categoria universale della realtà: «illud, autem quod primo intellectus concipit quasi notissimum et in quo omnes conceptiones resolvit est ens (ma ciò che innazi tutto l’intelletto concepisce come la cosa più nota di tutte e in cui risolve tutti i concetti è l’ente)». L’essere così concepito intuitivamente non è per nulla l’essere astratto, somma generalità che sarebbe un vuoto perfetto per la soppressione di tutto ciò che caratterizza gli esseri; non è un puro in sé, non è un’idea innata, non è un’idea o una categoria soggettiva che l’intelletto proietti sulle cose, non è un a priori che venga sovrapposto estrinsecamente all’esperienza onde la sintesi risulti contaminata da un elemento di irriducibile soggettività. Non si può nominare nessuna cosa che non si presenti al pensiero come essere: prima di essere questo o quello è qualche cosa. L’essere primum cognitum, è immanente in ogni oggetto del pensiero, colto attraverso la duplice fonte dell’esperienza esteriore e interiore; intuito nelle cose e nel pensiero esso ha una ambivalente universalità.

L’idea dell’essere, immanente nelle cose e nell’intelletto, può essere presentata dall’intelletto stesso alla perfetta consapevolezza del pensiero mediante l’astrazione: l’essere balena al pensiero prima nelle cose che nella riflessa autocoscienza del pensiero stesso. Il ripiegarsi dell’io su se stesso per intuirsi come realtà, come essere autonomo rispetto alle cose, rappresenta una fase più matura di riflessione e di giudizio, ma l’essere è radicato nello stesso pensiero e la sua negazione importerebbe anche la negazione del pensiero: anche il pensiero è essere, è il fastigio dell’essere, l’essere in senso proprio. Il primum cognitum include il soggetto e l’oggetto in atto comune, identici l’uno all’altro per questo riguardo; ma, per questo fatto, si trova allontanato il doppio pericolo di idealismo e di soggettivismo, da una parte, e di empirismo e sensismo, dall’altra.

Dall’intuizione dell’essere, immanente al pensiero e agli oggetti di conoscenza, si deducono i supremi principi logici che sono ad un tempo le leggi del pensiero e del reale. I supremi principi logici sono l’ubi consistam del pensiero nella ricerca del reale; le leggi di struttura dell’ente sono leggi di struttura del pensiero e noi ci serviamo di esse sempre: anche la conoscenza di sé è necessariamente soggetta ad esse (se il pensiero non fosse atto a conoscere l’essere, non conoscerebbe neanche se stesso, non esisterebbe in quanto pensiero; esistendo invece in quanto pensiero, il pensiero è essere – sebbene non sia tutto l’essere – e le  leggi dell’essere sono pure le sue leggi).

L’essere non è unità vuota e astratta (l’essere parmenideo), ma è unità nella diversità, analogia, rapporto di proporzionalità e di attribuzione. «Ens dicitur multipliciter»: è fatto di realtà articolata per analogia. L’analogia evita gli scogli del panteismo e dell’agnosticismo. Non è un’affermazione dogmatica: è suscettibile di acquisizione e giustificazione critica. Giustifica la sua universalità, imprescindibilità e implicazione anche nelle più aperte negazioni e nei più ostinati rifiuti. L’idea dell’essere è il nodo di tutti i problemi filosofici, l’idea cerniera dell’ontologia e della gnoseologia. Da essa si irradiano tutti i problemi della metafisica.

I trascendentali

Unità, verità, bontà (e si potrebbe aggiungere bellezza) sono gli attributi pertinenti all’essere come tale.

 Ens et unum convertuntur

Ogni essere è necessariamente considerato uno, cioè «indivisum in se et divisum a quolibet alio (unico in sé e diverso da qualunque altro)». Nulla è molteplice in senso assoluto, altrimenti non se ne potrebbe neppure parlare, perché parlarne è già concepirlo come uno. L’universo stesso è pensabile solo come unità di ordine. Ciò che è uno per essenza (o simpliciter), può essere molteplice per gli attributi, ossia soltanto sotto un certo aspetto (secundum quid): il grado di partecipazione all’essere e di dignità dell’essere determinerà il grado di partecipazione all’unità. L’unità come attributo di ogni ente conduce ad affermare il principio di identità. Pitagora e Platone videro che l’unità significa l’essere pur non aggiungendogli nulla, ma non distinsero chiaramente fra unità trascendentale – sottintesa nel loro pensiero quando affermavano che l’unità si identifica con l’essere – e l’unità come principio del numero, sostanza delle cose e misura omogenea al misurato (donde la sua applicazione alla sola quantità).

Ens et verum convertuntur

Rispetto all’intelligenza creatrice l’intelligibile è il reale stesso («scientia Dei est causa rerum») e l’ente è detto vero secondo la sua conformità con essa; solo indirettamente e per partecipazione l’ente è detto vero per conformità con il nostro intelletto. La verità trascendentale è una, essendo le singole cose vere solo in rapporto a una sola e unica verità prima (S. Theol., Io pars q. XVI, art. 6): questa concezione del vero richiama la dottrina delle idee. Le nostre analisi del reale, per quanto inadeguate, sono fondate in natura, comportano un valore ontologico e, se sono fondate in natura, è necessario che in un modo o nell’altro le contenga la natura naturante o intelligenza creatrice. La verità è proporzione tra l’essere e l’intelligenza.

Ogni ente è vero rispetto allo spirito che lo concepisce o che può concepirlo perché, se c’è, ha un significato, realizza una essenza. Questa tesi della intelligibilità del reale è ben diversa dalla tesi hegeliana della razionalità del reale: c’è anche l’irrazionale, ma anch’esso ha un perché, anch’esso è oggetto della nostra conoscenza o può divenirlo, è quindi intelligibile. Ciò non significa che ogni realtà intelligibile sia per ciò stesso conosciuta – altra forma di presuntuoso razionalismo -; l’intelligibilità è un «verum ontologicum» in atto e un «verum logicum» in potenza, per così dire (il valore della Divina Commedia non si riduce alla conoscenza più o meno perfetta che noi possiamo averne).

Ens et bonum convertuntur

L’essere è buono secondo che è o può essere l’oggetto di una tendenza, di un appetito razionale (consapevole) o sensitivo (inconsapevole); ogni ente in quanto ente ha le sue note essenziali che implicano, in quanto tali, il concetto di valore (bonum) e di fine; i due concetti di bonum e di fine non si possono scindere poiché il valore importa la finalità: «bonum rationem finis importat (il bene presenta il carattere di causa finale) » (S. Theol., Io, q. V, art. 4). L’essere è buono nella stessa misura in cui è. Bontà dell’uomo è l’uomo, bontà dell’albero l’albero: «bonum non univoce dicitur de bonis (non si definisce il concetto di bene in modo univoco per tutte le forme di bene)». Non c’è un bene in sé, come pensò Platone, al di fuori della natura. Dio è causa esemplare ed effettiva di ogni bene, perché è creatore di ogni essere. In tal senso tutte le cose sono buone per la bontà di Dio e nello stesso tempo il loro essere è sufficiente, di per sé, a qualificarle buone (De Verit., q. XXI, art. 4).

Ens et pulchrum convertuntur

L’essere è bello se un ordine immanente o fortunate relazioni lo rendano piacevole a chi lo contempla. Ogni ente è bello, anche se non di ogni ente noi sappiamo cogliere la bellezza. «Nihil est quod non partecipet pulchro et bono, cum unumquodque sit pulchrum et bonum secundum propriam formam» (Commento al De divinis nominibus dello Pseudo-Dionigi).

Secondo Tommaso «pulchrum est quod visum placet»: bello è ciò che veduto piace, ciò la cui apprensione piace, ciò che piace al vederlo. Non è dunque bello tutto ciò che piace: non ogni piacevole è bello (il piacere di una bevuta d’acqua non è estetico). Il bello dice relazione alla conoscenza e alla tendenza o aspetto affettivo ed emozionale del soggetto (e ciò forse spiega quel senso di pienezza che si ha nella contemplazione del bello, in quanto tutte le nostre facoltà intervengono e sono soddisfatte). Nella percezione del bello la conoscenza suscita gioia, placet, interessando indirettamente la tendenza.

L’intuizione estetica è legata al rifulgere della forma bella, tale che questa si lasci apprendere senza lo sforzo e senza il lavoro analitico che si esige per la conoscenza scientifica: questa è la claritas ed ecco perché si dice visum e non cognitum nella definizione dell’arte. L’integritas è quella completezza di parti necessaria per far trasparire la forma dell’oggetto; la terza condizione della bellezza è la debita proportio.

L’arte ci porta a superare ogni interesse utilitaristico, aiutandoci ad amare ciò che è bello nel suo valore di bellezza, in sé. La relativa autonomia della valutazione artistica è forse per la prima volta dichiarata nella storia del pensiero, distinguendo il merito dell’artista in quanto tale e la imputabilità morale: «Et ideo ad artem non requiritur quod artifex bene operatur, sed quod bonum opus faciat. (e pertanto non si richiede all’arte che l’artista agisca bene, ma che realizzi un’opera valida)» (S. Theol., I-II, q. 57, art. 5 ad 1).

Le leggi dell’ente

La nostra mente, a contatto con l’esperienza, formula immediatamente alcuni principi assolutamente semplici su cui si fonda tutto il nostro sapere. Essi sono lo sfondo su cui pensiamo tutte le cose e in essi embrionalmente è contenuta tutta la metafisica. I supremi principi metafisici si deducono dall’intuizione dell’essere; essi sono naturalmente presenti alla mente quali suoi strumenti. Sono le leggi dell’essere e del pensiero. I supremi principi sono così intimi al nostro sapere e così immediatamente acquisiti da sembrare innati.

  1. Il principio di identità

Ogni ente ha in sé ciò che intrinsecamente lo costituisce. Tutto ciò che è ha una natura determinata che lo costituisce tale. Ciò non dispensa affatto dall’indagare a posteriori i costitutivi intrinseci di ciascuna realtà che solo l’esperienza può indagare. La verità di tale principio è immediatamente evidente. Infatti non si può né affermare né negare senza far uso del principio di identità-determinazione. Se io pronuncio una parola con significato, penso qualcosa di determinato, uso quel primo principio: chi non accettasse il principio d’identità non potrebbe dire assolutamente nulla e sarebbe simile ad un tronco, come osserva Aristotele. Il principio d’identità esprime l’esigenza implicita nella nozione di ente; il principio di non-contraddizione è la prima proposizione derivante dalla prima nozione: un principio sgorga dall’altro.

Le maniere false di concepirlo:

– Per Kant, Fichte, Hegel è una inutile e infeconda tautologia: A=A, «un pianeta è un pianeta». «Per conoscere – scrive Hegel – bisogna andare oltre l’identità e dire, per esempio, che un pianeta è un astro che si muove intorno ad un altro». In realtà, così si nega il concetto eleatico di identità, non quello tomistico. I concetti non esauriscono la realtà; mediante una sintesi di concetti parziali noi formuliamo un giudizio che rende esplicito ciò che prima era concepito solo confusamente o connettiamo con un primo aspetto altri aspetti di quella medesima realtà.

– Per il razionalismo cartesiano il principio d’identità è un principio di deduzione a priori del pensiero e non del reale, se non nella misura in cui questo è ridotto a contenuto nell’idea chiara e distinta.

– I panteisti ipostatizzano l’ente indeterminato e lo identificano in Dio. In realtà, quando si dice «l’essere è uno», «l’essere è se stesso» non si vuol già dire che esista un unico ente o che l’essere sia quasi la stoffa uniforme dalla quale siano ritagliate tutte le cose; si vuol dire solo che ogni ente nella sua concretezza è se stesso. Il concetto di ente contiene, actu implicite, tutti i diversi modi di essere degli esseri. È così impossibile anche solo pensare un puro essere che sia soltanto essere, senza pensare implicitamente un essere tale o tal altro.

  1. Il principio di non contraddizione

Per Eraclito ciò che è, non è; in nome del divenire viene negato il valore ontologico del principio di non contraddizione. Gli risponde Parmenide: l’essere è e non può non essere (in nome del principio di non contraddizione viene negato il divenire). Platone: ciò che noi chiamiamo non essere non è contraddittorio, ma solo una realtà che è altra (nel Sofista). Aristotele: il non essere poteva riferirsi al nulla o all’ente in quanto potenziale; il divenire non presenta obiezione contro il principio di non contraddizione: il reale nel suo passaggio dalla potenza all’atto, divenendo, non contraddice l’essere.

Forma ontologica del principio di non contraddizione: dal punto di vista del pensiero è impossibile « affermare o negare una cosa, nello stesso tempo e sotto lo stesso aspetto (simul affirmare et negare secundum idem)». Chiunque nega il principio di non contraddizione nello stesso momento ne proclama la validità, perché altrimenti dovrebbe ammettere che la sua tesi negatrice del principio è falsa. Unica salvezza per rifiutare il principio di non contraddizione è di non fiatare, di ridursi simile ad un tronco.

Discussione.

– Cartesio: se Dio ci avesse infuso altre idee avrebbe potuto essere valido un principio opposto. Risposta: Dio non dipende da sé; egli è l’essere e la fonte degli esseri; la legge dell’ente è dunque immanente, in grado supereminente, a colui che è e fa essere gli esseri.

– Leibniz, Cartesio e Kant: lex mentis, non lex entis; relegato nell’isola d’Elba dell’analicità logica; l’assenza di contraddizioni è per Kant il formale della possibilità, ma bisogna che sia dato un qualche cosa che sottostia alla legge di non contraddizione.

– Hegel: è l’unilaterale astrazione che ha separato l’identità dalla diversità; non esiste, essendo la realtà sintesi di opposti. Hegel quando descrive i momenti ascensivi della dialettica cerca di mostrare che ogni tappa raggiunta non è definitiva, va superata perché contraddittoria; dunque la contraddizione è intollerabile; e se è intollerabile in ogni momento della realtà, come può essere la legge suprema della realtà stessa?

  1. Principio di causalità

Causa è ciò che fa essere quello di cui è causa. «Ex hoc quod aliquod est ens per partecipationem, sequitur quod sit causatum ab alio (poiché dal fatto che una cosa è ente per partecipazione, segue che sia causata da altri)» (S. Theol., I, q. 44, a. I, ad. I). «Tutto ciò che potrebbe non essere, ed è spirito o corpo, ha una causa». Un ente che non ha l’essere in virtù della sua essenza lo partecipa da un altro ente. Aristotele distingue quattro tipi di cause così raggruppate:

– le cause che fanno parte dell’effetto, entrando a costituirlo, che sono la causa materiale (ciò di cui è fatta una cosa, come il bronzo rispetto alla statua) e la causa formale (ciò per cui una cosa è quello che è, è determinata: l’idea espressa della statua attraverso la forma della statua). Queste due cause si studiano in filosofia della natura.

– Le cause che non fanno parte dell’effetto, che sono la causa efficiente (ciò da cui una cosa deriva la sua attuazione: l’artista nei confronti della statua) e la causa finale (ciò in vista di cui si fa una cosa: nell’esempio dato lo scopo per cui un artista fa quella statua).

Causa adeguata o totale è quella che basta da sé a produrre l’effetto; causa inadeguata o parziale è quella che concorre a produrre l’effetto. Causa per se è la vera causa; causa per accidens è ciò che, non necessariamente, è unito alla vera causa. Causa in atto primo è l’ente; causa in atto secondo è l’agire. Causa essendi è quella da cui dipende l’essere di un ente (ad esempio l’aria è causa essendi ma parziale del mio respirare); causa fiendi è quella da cui dipende il cominciare ad essere, il fieri di un ente (ad esempio un costruttore nei confronti dei palazzi costruiti).

In quanto dalla causa dipende l’effetto si può dire che la causa è anteriore all’effetto per natura; nel tempo, invece, la causa in atto secondo, la causa in quanto causa non è anteriore ma simultanea all’effetto (la medicina è causa della guarigione quando guarisce, non prima). La causa in atto primo invece può essere anteriore all’effetto anche nel tempo.

Obiezioni al principio di causalità

L’empirismo e lo scetticismo negano che il principio di causalità sia una verità necessaria e che esso ci permetta di uscire dall’ordine dei fenomeni per elevarci a una causa prima, come Tommaso dimostra nella prima via. L’idea è l’immagine accompagnata da un nome comune, e l’idea di causa è l’immagine comune della successione fenomenale accompagnata dal nome comune di causa (hoc post hoc, non hoc propter hoc); l’abitudine ci porta a credere invariabile la successione fenomenica. In questo senso Sesto Empirico, Epicuro, Occam, Hobbes, Berkeley, Hume, Stuart Mill, Spencer, James, Comte, Littré, Lévy-Bruhl, Durkeim. Per Kant il principio di causalità non è analitico (proposizione che non si può negare senza contraddirsi; per Kant analitico è uguale a tautologico: il principio di causalità non è una tautologia, dunque non è analitico), è una categoria soggettiva, principio sintetico a priori. Kant accetta la critica humiana al principio di causa inteso come legge delle cose in sé, ma non accetta la soluzione humiana che riduce la causa ad una abitudine. Sostituisce allo psicologismo di Hume il suo idealismo trascendentale, sospeso tra realismo e psicologismo. Per Kant come per gli empiristi la causa è il nesso deterministico tra due fenomeni, ma tale nesso noi stessi poniamo nei fenomeni e ciò costituisce l’esperienza stessa. Secondo Croce, la causa è un concetto proprio delle scienze naturali, mentre logicamente è impensabile; è la relazione deterministica tra due serie di fatti (pertanto respinge il tentativo deterministico di risolvere la storia in un succedersi di fenomeni fatalmente connessi, mentre nella storia vi è non solo accettazione, ma ribellione, rovesciamento, prosecuzione o rifiuto dell’antecedente).

Risposta

a. Non importa che la nostra conoscenza giunga o no ad un determinato grado di certezza; ciò che è certo è che nessuna realtà balza dal niente: il nulla sarebbe uguale all’essere. In tal senso, qualunque sia la relatività degli schemi scientifici e delle formule matematiche, nessun fenomeno può darsi che non abbia la sua causa.

b. Nel campo metafisico causa non è mai l’equivalente di determinismo; un ente libero come la persona umana agisce e diventa causa liberamente. E Dio? La connessione dei vari enti fra loro avviene in funzione della loro essenza e in conseguenza della loro attività: nessuno ha diritto di determinare tale nesso senza conoscere la natura dei singoli enti con mezzi più appropriati.

c. Osservazioni alle critiche di Hume. La determinazione delle cause prossime di certi particolari effetti è compito delle scienze particolari, non della filosofia. Si deve distinguere l’antecedente, sia pur abituale, dalla causa: a nessuno, per esempio, viene in mente di dire che il giorno sia la causa della notte, sebbene il giorno preceda sempre la notte. Il principio di causalità è una enumerazione analitica, dedotta dall’applicazione del principio di non contraddizione alla realtà del divenire. La confusione tra il principio «ciò che diviene è causato» e affermazioni particolari «qual è la causa di quel fatto e quali sono i suoi effetti» divenne un idolum per la filosofia posteriore, a cominciare da Kant e da Schopenhauer.

La prima opzione

L’uomo è nell’essere, l’essere è ciò di cui nulla è più vicino all’uomo. Noi siamo. E siamo nell’essere come nella nostra patria connaturale. L’uomo è di fronte all’essere, essere tra altri esseri, e il suo mestiere è innanzitutto pensare ciò che è, nutrirsi di verità. «Quidquid est, si quid est, ens est». Tutto ciò che si offre all’esperienza e ciò che rende logicamente possibile l’esperire è, esiste, non è niente. Se nulla esistesse non sarebbe possibile nemmeno l’errore, l’illusione, il dubbio. Creatura all’orizzonte, l’uomo ha nel suo organismo corporeo il tramite naturale per il quale lo spirito entra in commercio con l’universo. E così l’atto supremamente intellettuale con cui l’uomo si mette in presenza dell’universo è condizionato e in stretto rapporto con l’operazione organica del corpo, dei sensi, che in ultima analisi dipende dall’insieme delle forze cosmiche. Tutto l’universo, con la sua azione, è presente all’uomo e, nel contempo, l’uomo, pur facendo parte lui stesso dell’universo, ne è la ultima perfectio, la creatura più alta, capace di rappresentarsi il senso dell’esistenza, le cause prime, i traguardi supremi. De veritate (2, 2): «La perfezione estrema a cui possa giungere l’anima umana è che in essa sia rappresentato l’ordine totale dell’universo e delle sue cause. Anzi, in questo i filosofi hanno posto il fine ultimo dell’uomo, che secondo noi consisterà nella visione di Dio.

L’intelligenza è «la funzione dell’essere» e l’uomo è essenziale apertura all’essere attraverso la sua partecipazione cosmica, sociale e storica, conoscitiva e religiosa. Tommaso fa del pensiero del soggetto esistente l’energia intellettuale tesa a cogliere nel suo insostituibile valore il significato dell’esistenza, il valore dell’essere. Il filosofo tomista è un uomo per cui le cose esteriori esistono ed esistono coloro che le pensano. Esistere non è un nulla, non è un semplice modo di parlare; è l’espressione di ciò che vi è di più importante e di più profondo nelle cose e nelle persone, poiché è «ciò senza di cui esse sarebbero niente». L’essere è un dato primo per lo spirito, l’oggetto, il termine della prima operazione dell’intelletto. La coscienza è sempre coscienza che qualcuno ha di qualche cosa. Noi esprimiamo il senso primario dell’essere nell’affermazione semplice e solenne dei giudizi di esistenza, in cui certifichiamo l’atto di esistere (actus essendi) sia quando ne prendiamo atto immediatamente, sia quando vi perveniamo attraverso la riflessione critica.

Nel reperire e nell’esperire l’essere è solidale con tutta l’esperienza umana, esperienza di vita, di pensiero, di ricerca. Tommaso in ogni campo della sua indagine vuol «andare alle cose stesse». «Actus non terminatur ad enunciabile, sed ad rem (l’atto di esistere non si limita alla enunciazione, ma tende alle cose stesse)» e questo spirito di programmata fedeltà al reale significa ripulsa d’ogni deteriore soggettivismo e primato della obiettività su ogni interessata deformazione della realtà.

L’esperienza dell’esistenza – la più ricca, la più aperta a ogni approfondimento, la più intima e insieme la più universale – è il cibo stesso del nostro pensiero, il suo oggetto. Le coscienze dominate dalla banalità e dalla massificazione, le filosofie essenzialistiche che ipostatizzano l’impersonale e l’astratto disperdono quelle evidenze. L’autentica metafisica ci aiuta ad uscire dall’oblio dell’esistenza e a riscoprire il senso primario dell’essere e delle grandi domande che l’accompagnano: «perché l’essere e non il nulla?», «qual è la ragione d’essere di ciò che esiste?», «che cosa è l’essere?», «è impenetrabile al pensiero?», «l’essere è necessario o contingente, semplice o composto, finito o infinito?», oppure è l’uno e l’altro? E così dalle considerazioni più semplici sull’essere si irradiano gli altri problemi della metafisica.

L’essere reale e l’idea dell’essere

L’idea o il concetto di essere non è l’essere. Il concetto umano dell’essere, sia come nozione implicita dell’intuizione originaria che condiziona ogni nostra conoscenza, sia come conquista dell’indagine ontologica non può coprire tutta l’infinita ricchezza di ciò che è in cielo e in terra, per usare una frase shakespeariana. Altro è l’essere nella pienezza della sua attualità nell’infinità della sua estensione ideale e della sua comprensione logica, altro è l’idea che ce ne facciamo. Tuttavia di questa idea e del concetto che ne è l’approfondimento sul piano metafisico non possiamo fare a meno, pena il dissolvimento di tutto il nostro pensiero. Il nostro concetto di essere tende a rappresentare intenzionalmente l’essere, ma rimane sempre distinto da esso. Il nostro concetto di essere, ampliandosi e determinandosi sempre di più nel progresso della conoscenza, tende a coincidere con l’essere, ma non perviene mai perfettamente a una coincidenza che sarebbe più divina che umana. L’idea dell’essere è implicita certamente in ogni nostra conoscenza, in ogni giudizio e perciò ne costituisce la condizione e la struttura. Ma l’idea dell’essere, pur avendo un grande significato ontologico, non implica la conoscenza dell’esistenza e della essenza delle cose in cui l’essere si concreta. Il concetto di essere è necessariamente astratto, l’essere è concretissimo nella sua realtà e nel suo significato.

Non si può astrarre l’idea dell’essere universale dalle sue determinazioni particolari. L’idea dell’essere designa un «totum universale in quo partes continentur in actu», cioè un astratto in cui il concreto si dà come tale, in tutta la sua prodigiosa diversità. Ciò significa che il pensiero umano è necessariamente astrattivo, non potendo adeguare l’idea dell’essere nella pienezza della sua attualità, nella infinità della sua estensione ideale e della sua comprensione logica. Ma in che senso si deve o non si deve parlare di astrazione dell’idea dell’essere? Non si deve pensare che sia possibile astrarre l’essere dalle sue determinazioni e differenziazioni. È impossibile astrarre l’essere dalle sue pretese differenze, perché le differenze dell’essere sono ancora essere, altrimenti sarebbero nulla. È impossibile pensare l’essere come a parte, rispetto a cui ogni altra determinazione sarebbe priva di realtà e consistenza. Si può parlare di astrazione in un altro senso: nel senso che l’idea dell’essere è necessariamente indeterminata, perché trascende i generi e le specie, irriducibile com’è all’universale proprio dei concetti univoci (perché l’universale del concetto ordinario fa perfettamente astrazione delle differenze dei suoi inferiori). Ma la necessaria indeterminazione del concetto di essere non autorizza nessuno a pensarlo come vuoto non essere: proprio perché nel concetto di essere è implicita una positività essenziale e onnicomprensiva, per cui esso è una rappresentazione sintetica e potenziale, ma adeguata di tutto l’universo, compreso tutto ciò che potrebbe esistere al di là e al di fuori della mia esperienza, ma come suo logico condizionamento. In ogni essere, la nozione di essere designa tutto, anche le differenze. Quando dico «Pippo è un uomo», «Marco è un uomo» il termine uomo conserva esattamente lo stesso senso, perché Pippo e Marco sono identici in quanto uomini, e diversi in ciò che li fa «questo qui» e «quello là». Ma ciò che lo fa «questo qui» e «quello là» è ancora essere. Non diremo con Platone «l’essere è un genere», e foss’anche il genere sommo, perché al di fuori dell’essere non vi è nulla: l’altro dell’essere è nient’altro che il nulla. «La più grave eresia metafisica» (Jacques Maritain) consiste nel fare dell’essere il genus generalissimum, un concetto unico e una pura essenza.

La nozione di essere in generale (ens commune), in quanto predicabile di tutto ciò che esiste e in quanto abbraccia tutto ciò che esiste, è esistito o mai potrà esistere, non significa affatto che un essere sia comune a tutti gli enti. Solo la nozione astratta di essere contiene tutti gli enti, ma proprio per questo non possiede una realtà propria. L’ens commune non ha realtà separatamente dagli enti particolari, attuali o possibili. L’essere è il più universale dei concetti; ma poiché tutto ciò che ha l’essere attuale è individuale, l’essere comune, per definizione, non è dotato di una propria realtà ontologica. Ipostatizzare l’ens commune è l’errore da cui nasce il panteismo nelle sue varie forme, da Parmenide a Spinoza, a Hegel (l’essere è uno ed è tutto). Il «non-nulla» è pensabile solo nella misura in cui appare realizzato in determinati esseri positivi. Tutto non è Dio, tutto non è me, anche se tutto è essere ed è abbracciato nell’idea dell’essere.

«L’idea dell’essere, ideale cerniera dell’ontologia e della gnoseologia, è il fulcro della ricostruzione filosofica e il nodo di tutti i problemi», osserva Nicola Petruzzellis. Il primato dell’idea dell’essere non è di ordine psicologico, ma logico (in quanto è l’elemento strutturale di ogni altra idea) e ontologico (in quanto ogni concreto include il riferimento all’essere). L’essere non è un’affermazione dogmatica, ma il crocicchio obbligato della ricerca; l’affermazione dell’essere è suscettibile di acquisizione e di giustificazione critica: la metafisica non si costruisce, quando è vera metafisica, con procedimenti aprioristici, ma trae alimento dall’analisi della coscienza, dalla teoria del pensiero, dalla disamina delle istanze antimetafisiche e dalla ricognizione dell’universale compiuta attraverso l’osservazione del concreto. L’idea dell’essere è suscettibile di una funzione critica, in quanto giustifichi la sua universalità, imprescindibilità, la sua presenza e la sua implicazione anche nelle più aperte negazioni e nei più ostinati rifiuti. La presenza dell’essere investe ab intrinseco anche il pensiero, che l’idealismo eresse a suo antagonista: se l’essere fosse quell’inerte blocco di granito, come polemicamente lo concepisce l’idealismo, sarebbe impossibile non solo il passaggio al pensiero, ma a qualsiasi realtà concreta.

Né si può consentire alla contrapposizione infondata tra la persona o l’io come categoria e l’essere. È necessario chiarire che l’essere non esiste allo stato di pura indeterminazione in cui lo concepisce la logica, ma ha un’estensione e una universalità che all’io non competono. In quanto elemento strutturante l’essere è presente non solo nell’io come in altre realtà ontologiche, nella quali si concreta, ma è anche là dove l’io non c’è. La logica coglie e accerta, formula ed esplica nella loro reale funzionalità l’universale validità di diritto delle leggi supreme dell’ente che sono quelle stesse del pensiero. La logica esprime la concreta normatività della filosofia, la struttura e le leggi funzionali del pensiero umano. Punto di partenza: i processi del concreto discorrere. La gnoseologia mira a rendersi conto del valore della conoscenza. L’epistemologia studia i limiti e la portata dell’attività umana impegnata nella ricerca scientifica, in quanto slarga gli orizzonti della conoscenza comune. Le implicazioni metafisiche delle leggi logiche, della gnoseologia diventano esplicite nella metafisica, la quale tende a dar ragione di ogni aspetto del reale e del pensiero, riportandolo ai valori universali e ai supremi principi dell’essere.

La struttura dell’ente

Se i trascendentali sono quei modi dell’essere che seguono l’essere in tutta la sua universalità, i diversi modi di essere distinti in base ai diversi gradi di entità si dicono categorie.

1- La categoria prima e fondamentale è la sostanza. «Sostanza è l’ente alla cui essenza compete l’essere per sé e non in altro». Non si può avere neppure il concetto di ente come ens in alio o come modificazione di un altro, a cui i negatori della sostanza riducono ogni essere, senza avere il concetto di quell’aliud che è modificato e che è per sé. Sostanza prima è la sostanza individua, ad es. Platone. Sostanza seconda è il concetto universale di sostanza: ad es. uomo. Il concetto di sostanza può essere predicamentale, quando implica la distinzione tra essenza ed esistenza, e non predicamentale se ne prescinde. Ogni sostanza si conosce attraverso la sua attività: «nelle cose sensibili ci sono ignote le differenze specifiche, essenziali, e perciò noi le significhiamo mediante differenze accidentali, che derivano da quelle essenziali» (De ente et essentia, cap. VI). Ci sono sostanze corporee e sostanze spirituali: la conoscenza sensibile coglie per così dire le sostanze corporee non in quanto sostanze, ma in quanto colorate, sonore, ecc. Le qualità che i sensi percepiscono esistono in quanto sono in una sostanza e di una sostanza, ma la sostanza (anche corporea) è una realtà intelligibile che non può essere rappresentata con una immagine sensibile. Ogni sostanza è un centro di attività, una natura qualificata, che porta in sé un principio di intelligibilità che la costituisce così come è. La sostanza è definita da qualità il cui essere si manifesta ed è il suo stesso essere diffuso, rilevandone la natura e formando con essa un solo essere. L’accidente nel significato fisico riguarda il modo di essere: si ha quando una realtà esiste rispetto ad un’altra come determinazione di questa. L’accidente nel significato logico riguarda il modo di predicazione: si ha quando una realtà non si predice necessariamente di un’altra. Assoluti sono gli accidenti che determinano la sostanza in se stessa: quantità e qualità. Relativi sono gli accidenti che determinano la sostanza in riferimento ad un’altra sostanza: relazione, azione, passione, tempo, luogo, situs e habitus. Accidenti modali sono le determinazioni di altri accidenti: per esempio la velocità di un movimento, ossia di un’azione. L’accidente proprio deriva dall’elemento «specie»; l’accidente generico deriva dall’elemento «genere». La relazione può essere mutua e non mutua, reale e ideale, predicamentale (l’uomo è uomo prima di essere padre) e trascendentale (entra a costituire il soggetto stesso: ad esempio la relazione tra materia e forma, in quanto la materia è materia solo per la sua relazione alla forma che la specifica).

2- L’essenza e l’esistenza. Ogni realtà ha un significato; la sua intima caratteristica entitativa la costituisce quella che è. Ciò che una realtà è (quid sit res), la sua quiddità indica l’essenza, la sua caratteristica fondamentale: Platone diceva la sua idea. Gli esagerati dualismi della sua teoria non ci devono far dimenticare quanto dobbiamo al suo genio. L’interiorità, il valore di una realtà è la sua essenza. Un’idea, una musica, un pensiero è incarnato in ogni cosa. Ad esempio, ho tra le mani uno spartito di musica. Cos’è la realtà di quello spartito? È ciò che quello spartito esprime, ciò che collega tutte insieme le note di esso, è il suo significato, la sua essenza. Essenza è potenza ad atto di esistere. Aristotele immanentizzò l’idea platonica nella forma (momento specificativo, organizzatore, unificatore della realtà): ogni realtà ha un’essenza, ma intanto è nel campo dell’attualità (e non solo della possibilità) in quanto quell’essenza ha il proprio atto di essere; l’essenza non ha realtà senza l’atto di essere e viceversa. Esistenza ed essenza: non id quod, ma id quo, ciò per cui reciprocamente l’essenza è e l’esistenza si realizza. Forma è il principio attivo a determinare ogni cosa nella concretezza sua individuale; la forma è l’essenza stessa nel suo costituirsi nell’essere. Tutto esiste grazie alla fecondazione di un’essenza mediante un atto di esistere. La distinzione tra essenza ed esistenza è reale in quanto l’essenza non implica necessariamente l’esistenza, almeno in tutto ciò che è finito, e le determinazioni dell’esistenza di fatto non esauriscono tutto il contenuto e la profondità dell’essenza. L’essenza, se in quanto semplicemente pensata è possibile, nella realtà è incarnata nell’esistenza di un singolo ente. Ma l’essenza e l’esistenza non sono separabili con un fantastico iato. L’esistenza non è l’esistente: l’esistenza è un concetto conosciuto dall’intelletto, l’esistente è conosciuto dal senso e dall’intelletto. Nel giudizio esistenziale riconosciamo che un ente particolare attua nei suoi limiti l’essenza universale di cui abbiamo il concetto: in tal senso possiamo affermare l’esistenza nostra e delle cose. Boezio aveva già conosciuto la distinzione tra l’essere e l’essenza, che Tommaso trovò più esplicitamente in Avicenna. L’esistenza non è solo condizione d’attualità degli enti rispetto alla condizione di possibilità, ma è ciò che rende ente un ente. Il grado di perfezione dell’ente trova la misura nella sua essenza.

3- Atto e potenza. Si è dimostrata l’impossibilità di trovare una realtà che non sia determinata e che non sottostia alle leggi supreme dell’ente. Come dobbiamo allora concepire la realtà innegabile del divenire degli esseri senza andare contro i principi supremi dell’essere e del pensiero? L’esperienza del mutamento mi conduce al concetto di potenza. L’essere e il non essere non sono mai insieme, ma possono stare insieme il suo essere in potenza e il suo non essere in atto di ogni concreto ente. Non pura possibilità logica («potentia obiectiva»), ma reale capacità del soggetto mutevole («potentia subiectiva»). Atto è l’esistenza stessa dell’ente, la sua realtà, la sua perfezione. Ogni realtà in tanto esiste in quanto è in atto; se non fosse in atto non potrebbe esistere; ma la realtà che diviene ha un principio attuale e un principio potenziale: tutto ciò che diviene ha in sé della potenza. Dunque tutto ciò che esiste o è Atto Puro o è costituito di potenza ed atto. La potenza attiva significa «principio di mutamento in sé o in altro», capacità di fare; suppone l’atto e ne è una manifestazione (in tal senso si dice: potenza di Dio). Potenza passiva è capacità di ricevere una perfezione. Ogni attività sgorga da una natura determinata: bisogna essere per agire. Atto primo è ciò per cui l’ente è determinato ed esiste (per esempio la forma sostanziale, l’anima; o la potenza attiva, come l’intelletto); atto secondo è l’operazione di quell’essere primo o di quella potenza attiva. L’atto primitivo di ogni esistente, la radice di ogni esistente concreto si chiama «actus essendi», l’atto primo costitutivo di una reale esistenza esprimente una determinata essenza. Atto puro è l’Essere sussistente senza essere in potenza «ad actum superiorem» (come invece lo sono gli angeli): è Dio. L’atto puro dicesi «irreceptus»; l’atto non puro, «receptus». L’«actus entiativus» è la determinazione nell’ordine dell’esistenza. L’«actus formalis» è la determinazione nell’ordine dell’essenza. Atto e potenza non sono «entia ut quae», ossia realtà sussistenti, ma «entia ut quibus», principi e condizioni dell’essere delle realtà sussistenti. Ogni ente è determinato in quanto è in atto, è indeterminato in quanto è in potenza. Il divenire è il passaggio dalla potenza all’atto. Un ente in divenire è sempre qualche cosa di determinato che può in un altro momento essere diverso sotto un certo aspetto. Non può essere insieme in potenza ed in atto rispetto ad un medesimo termine: il divenire non va mai contro il principio d’identità (per esempio non posso essere contemporaneamente in atto e potenza rispetto alla conoscenza della filosofia di Tommaso). D’altra parte, non posso dire che una conoscenza nuova è in me per il fatto che potevo acquistarla: «è necessario che il passaggio all’atto sia determinato da un ente che è già in atto». La potenza si conosce solo in ordine all’atto e in funzione dell’atto, in quanto si fa atto compiendosi.

LA TEOLOGIA NATURALE

La teologia naturale di Tommaso al grande interrogativo: «perché l’essere e non il nulla?», risponde enucleando il principio-chiave «ex nihilo fit», che permette di pervenire alla conclusione: «aliquid est, ergo Deus est».

La teodicea si muove tra due opposti scogli:

a) combatte le dottrine che sminuiscono eccessivamente i poteri della ragione, dichiarando l’incapacità ad innalzarsi a Dio. Storicamente sono le posizioni espresse dal fideismo (Tertulliano, Occam, Lutero, De Bonald, Lamennais) e dall’agnosticismo di Kant (si chiamano agnostici quelli che credono che il pensiero umano, bloccato nella zona della sua esperienza sensibile, non disponga di alcun mezzo che gli permetta di porre il significato stesso del reale al di fuori della sua prova);

b) combatte quelle dottrine che accrescono eccessivamente i poteri della ragione nelle condizioni presenti del suo esercizio. Nella storia del pensiero occidentale sono quelle che presumono valida la dimostrazione a priori che va dalla causa all’effetto (Anselmo, Cartesio, Leibniz, ecc.) o fanno delle affermazioni di Dio e della visione delle cose in Dio il punto di partenza dell’esperire umano (ontologismo, intuizionismo: Malebranche, Gioberti).

Contro il fideismo e l’agnosticismo si ribadisce la possibilità di una dimostrazione dell’esistenza di Dio.

Critica dell’argomento ontologico anselmiano

Non è vero che l’idea di Dio è evidente e che ci sia stata data bell’è fatta. Nella forma più evoluta questa affermazione si rileva nel Proslogium anselmiano: ma essa non è un argomento, è una petizione di principio, un paralogismo «de genere ad genus», in quanto passa dall’ordine del pensiero all’ordine degli oggetti senza poter giustificare il passaggio. Anselmo argomenta così: idea di Dio uguale «aliquid quo maius nihil cogitari potest»; anche l’ateo intende il significato di questa espressione, ciò vuol dire che Dio è in lui almeno come pensato, come idea; non ad ogni idea corrisponde una realtà oggettiva, ma l’idea di ciò di cui non si può pensare nulla di più grande deve necessariamente avere l’esistenza, in quanto ogni altra cosa che esistesse nella mente e nella realtà sarebbe più grande e più perfetta di essa, potendo vantare nei suoi riguardi la perfezione dell’esistenza oggettiva.

Tommaso contesta che la proposizione «Dio esiste» sia evidente in noi.

  1. Essa è evidente per sé, perché il predicato è identico al soggetto (Dio, infatti, è il suo stesso essere): ma poiché noi non conosciamo l’essenza di Dio, quella proposizione ha bisogno di essere dimostrata attraverso ciò che è più evidente per noi, cioè attraverso gli effetti di Dio.
  2. Non è vero che Dio sia necessariamente ed universalmente concepito come ciò di cui nulla si può pensare di maggiore, se è vero che molti l’hanno identificato con un elemento corporeo.
  3. È poi altro il puro concetto di una cosa esistente, altro il giudizio che ne intuisce o dimostra l’esistenza.

Non segue perciò che l’opera di Anselmo sia vana: essa è di grande valore come esplicitazione di ciò che bisogna concepire di Dio quanto alla sua essenza e quanto alle condizioni a se della sua esistenza. Per il non credente è costruita l’ipotesi di Dio, per il credente una teodicea che approfondiva il senso della definizione mosaica di Dio (ego sum qui sum). Nota Nicola Petruzzellis: «Si potrebbe portare una riprova storica, dimostrando che anche coloro che ritenevano di partire da un’idea pura, eminentemente a priori, in realtà quel concetto inconsapevolmente ricavano da considerazioni a posteriori: il momento dell’esperienza, per lo meno dell’esperienza interiore, era dimenticato nell’elaborazione del concetto, ma non mai del tutto assente. Sfuggiva ad Anselmo la genesi a posteriori del suo concetto di Dio; il concetto dell’id quod maius appare infatti al culmine della prova a posteriori del Monologium, che sono un chiaro, per quanto frammentario preludio delle dimostrazioni a posteriori di Tommaso. Vi è concordanza tra la critica tomista dell’argomento ontologico anselmiano e la critica kantiana dell’argomento ontologico della rielaborazione razionalistica e cartesiana. Una intelligenza creata che ha per oggetto a lei proporzionato l’essere creato e finito non può conoscere direttamente che le creature; e da queste può arrivare a conoscere Dio non nella eminente semplicità della sua divinità, ma solamente nella misura in cui Dio ha una somiglianza analogica con i suoi effetti».

Le cinque vie

Tommaso ha dato dimostrazione dell’esistenza di Dio in parecchie sue opere. Le cinque vie della Summa Theologiae avevano l’intenzione di introdurre i principianti allo studio della teologia. Le vie differiscono in numero e intento negli scritti di Tommaso, il quale non ha mai preteso che le cinque vie fossero le sole possibili. L’espressione della verità, traducendosi nel linguaggio del tempo e in funzione delle condizioni culturali allora maturate, ha sempre qualcosa di relativo, di provvisorio. Tommaso non poteva sfuggire a questa legge universale, che fa tutt’uno con la condizione umana. Si tratta di restituire Tommaso alla essenzialità del suo discorso metafisico e di liberare le sue argomentazioni dalle correlazioni e dai riferimenti a un certo sistema di fisica, divenuto insostenibile, per ridare forza alla verità filosofica che sorregge e unifica la ricerca tomista.

Tommaso chiama «vie» le prove filosofiche dell’esistenza di Dio poiché la parola «prova, dimostrazione» possono essere male intese. Dio non riceve da noi e dai nostri argomenti una evidenza che gli mancava; ma l’esistenza di Dio non è immediatamente evidente per noi. D’altra parte, ciò che è reso a noi evidente dai nostri ragionamenti non è Dio in se stesso, ma la testimonianza di lui contenuta nelle sue creature, i suoi segni in questo mondo.

Il punto di partenza per Tommaso va cercato sempre in una situazione empiricamente data a noi nella conoscenza sensibile, in un fatto accessibile a chiunque. Noi nasciamo allo spirito in mezzo alle cose e per mezzo di esse possiamo risalire a Dio. Solo da un’esistenza empiricamente data si può definire legittimamente un’esistenza non data empiricamente. Quindi si parte da un fatto reale: la contingenza, attestata da cinque modi diversi di essere e di manifestarsi. Le cinque vie hanno una medesima unità di struttura (fatto, principi di spiegazione causale del fatto, conclusione). Sono vie diverse ma complementari, che evidenziano cinque aspetti diversi della contingenza:

– ex parte motus, gli esseri si muovono

– si subordinano gli uni agli altri (via della causalità efficiente)

– nascono e periscono (via della possibilità e della necessità)

– hanno una perfezione di grado diverso (via dei gradi della perfezione)

– non possono rendere conto da soli dell’ordine che è in loro (via della finalità).

Esse conseguono la pienezza del loro significato se ciascuna prova è contemporaneamente correlata a tutte le altre, perché allora le loro conclusioni sembrano fondersi e appaiono come determinazioni diverse di un unico e medesimo oggetto. Dio non è solo il primo motore e neppure solo la prima causa o il fine ultimo, Dio è il nome che include tutti i precedenti più un’infinità di altri nomi ciascuno dei quali deve essere preso dalla considerazione di qualche particolare aspetto della realtà, sperimentata dall’uomo.

Le prove tomistiche furono dette cosmologiche perché si radicano nel mondo sensibile. Tuttavia esse possono venire applicate all’uomo, anche nell’attività spirituale che gli è propria. Esse sono infatti prove propriamente metafisiche. Le prove tomistiche non sono legate alla rappresentazione fisica della scienza del suo tempo, come invece hanno sostenuto, ieri, interpreti, e oggi, critici poco avveduti. Tommaso aveva avanzato una pregiudiziale nei confronti di quella rappresentazione fisica, accettandola solo come «ipotesi» e non come «tesi» da sostenere comunque (commento al De coelo di Aristotele). È questa la prima, fondamentale cosa da tener presente. In secondo luogo, le prove tomistiche sono di ordine metafisico e quindi obiettivamente indipendenti dalle rappresentazioni della fisica aristotelica. Il punto di partenza vuol essere un fatto di universale esperienza e non, ad esempio, una norma scientifica o pseudo scientifica del moto. Infine, ciò che Tommaso dice a livello di esperienza universalmente accessibile e di spiegazione filosofica di essa è ben più accettabile oggi, cioè in un’epoca storica in cui la scienza considera il mondo come un universo in progresso, in continua genesi. A questo titolo l’evoluzione fornisce oggi un appoggio in più alle cinque vie tomistiche. Ben lungi dall’essere connesse ad una fisica oggi sorpassata, la struttura logica delle cinque s’applica molto bene alla visione globale che ci offrono oggi le scienze fisiche e naturali e specialmente tutto ciò che, in questa visione, sembra imporre l’immagine d’una vasta evoluzione[1].

 La prima via

«Ex parte motus a rebus quae moventur, prima et manifestior». (la prima via e la più manifesta è quella che si desume dal moto)

1- Il fatto d’esperienza

«Certum est – et sensu constat – aliqua movéri in hoc mundo». È evidente e consta al senso che a questo mondo qualcosa muta, si muove, diviene; c’è passaggio dalla potenza all’atto. È il fatto che più impressiona. Il divenire si riscontra ovunque, nei corpi e negli spiriti, ma nei corpi in modo più evidente. Ciò che esiste, muta; non c’è essere che non muti. C’è novità effettiva e reale, perché reale ed effettivo è il movimento. Il motus di cui si parla nella prima via è la mutabilitas, il divenire, un fatto irrefutabile e non una nozione scientifica o pseudo-scientifica del moto. Nessuna base può essere così larga, così universale; nessuna può essere tanto evidente, dunque tanto sicura. Divenire è cessare di essere ciò che si era o come si era, per cominciare ad essere ciò che non si era o come non si era.

2- Principi di spiegazione causale

a) «Omne quod movetur ab alio movetur (ogni cosa che si muove è mossa da un altro essere)», ogni essere contingente ha una causa e ogni causalità implica un rapporto tra due esseri. Tutto ciò che passa dalla indeterminazione alla determinazione lo fa sotto l’azione di un’altra cosa. Il divenire è passaggio dalla potenza all’atto; ma tutto ciò che passa dalla potenza all’atto compie questo passaggio in virtù di qualcosa che è già in atto («Nihil transit de potentia ad actum nisi per aliquot ens in actu»). Ad esempio questo chicco di grano non è ancora ciò che diverrà, può esserlo e, una volta compiuto il mutamento, esso lo sarà in attuale determinazione. Ma la stessa cosa non può essere in potenza e in atto nel medesimo tempo sotto lo stesso aspetto. È qualcosa in atto, sono le energie fisico-chimiche dell’ambiente che fanno passare il chicco di grano da ciò che è in potenza a ciò che sarà in atto. «Tutto ciò che non esiste da sé, esiste a causa di un altro». «Tutto ciò che non ha in sé la sua ragione d’essere, l’ha necessariamente in un altro».

b) Non si può procedere all’infinito nella regressione delle cause attualmente esistenti; bisogna fermarsi, ananke stênai, quando si risale da una causa all’altra e non continuare all’infinito. Infatti un essere già in atto, la cui azione fa sì che un’altra realtà muti, è essa stessa sottoposta al divenire, è messo ad agire da un altro agente. Immaginiamo pure tutti gli agenti che vogliamo: non possiamo pensarli senza un’azione di un agente primo alla cui azione non causata è sospesa l’azione degli altri agenti. Già Aristotele (, VIII, 5) aveva chiarito che non si può ammettere la possibilità di una serie infinita nell’ordine delle cause realmente dipendenti. È impossibile che il divenire e la contingenza del mondo che sperimentiamo possano essere senza un’ultima e adeguata giustificazione ontologica. Bisogna dunque fermarsi ad un agente primo, onnimovente non mosso, sottratto ad ogni divenire, che attiva e muove tutto il resto. Un regresso all’infinito farebbe svanire l’intera concatenazione causale. Infatti se non ci fosse un agente primo, la ragione dell’azione di tutti gli altri agenti non verrebbe mai data nell’esistenza. In una serie infinita di agenti attualmente subordinati, tutti gli elementi sarebbero degli intermediari che riceverebbero e trasmetterebbero il movimento e questo non potrebbe essere spiegato da nessuno di essi, né dal loro insieme. Mancando il primo agente, il movimento non avrebbe ragion d’essere. C’è dunque una necessità logica di porre un termine al regresso dei condizionamenti. Possiamo moltiplicare le cause seconde all’infinito, ma esse sono eternamente insufficienti a spiegare se stesse e la loro azione senza una causa prima. Bernardino Varisco traduce questo concetto con questa immagine: «Una luce riflessa implica una luce originaria e non serve a spiegarla una serie infinita di riflessioni». La via motus si conclude necessariamente non a una causa prima nel tempo (la filosofia non può scartare l’astratta possibilità della creazione del mondo dall’eternità), ma ad una causa prima nell’essere e nell’esercizio stesso della causalità. In effetti, come ha chiarito Jacques Maritain (Approches, pp. 38-39), è un dato di fede che il mondo abbia un inizio, e non un dato della scienza o qualcosa che possa essere rigorosamente dimostrato.

3- Conclusione

Si impone l’esistenza di una causa suprema del divenire. «Ergo necesse est devenire ad aliquod primum movens, quod nullo moveatur. Et hoc omnes intelligunt Deum (quindi è necessario ricorrere a un motore primo, che non sia mosso da nessuno. E tutti capiscono che questo è Dio)». Vi è un onnipotente Atto Puro che si chiama Dio, quindi vi è Dio. Vi è un primo motore, un onnimovente immoto; l’attualità pura che tutto attiva e muove è ciò che si chiama Dio.

Contro la via motus sono state mosse due obiezioni.

a) L’assioma «ciò che si muove è mosso da un altro» sembra contraddetto da quegli esseri, come i viventi, la cui attività è immanente. Il tomismo, come è noto, difende proprio la tesi che la vita implica una attività immanente, un’azione che emana dal soggetto e termina al soggetto stesso. Ma qui il problema è un altro: il vivente non ha mai dato la vita a se stesso e non può vivere se non rapportandosi all’insieme di condizioni attualmente esistenti che gli permettono di far passare all’atto le sue potenzialità.

b) Qualcuno ha ravvisato nel principio di inerzia una smentita a Tommaso. Per Galileo il moto locale è una stato così come il riposo e un corpo in moto continuerebbe indefinitamente a muoversi con la stessa velocità se la resistenza dell’ambiente non gli facesse ostacolo. Prendendo per acquisito il principio di inerzia (peraltro diversamente formulato da Einstein) il principio di causalità può essere così formulato in rapporto al moto dello spazio: «Ogni corpo che subisce un mutamento in rapporto al suo stato di riposo o di moto cambia sotto l’azione di un’altra cosa». Siamo di nuovo sotto l’assioma: ogni mutamento si produce sotto l’effetto di qualcosa che rende possibile il cambiamento.

4- Discussione

a) Il concetto di divenire. Cos’è il divenire?

– Parmenide e gli eleati negano il divenire dichiarandolo illusione. Ciò non toglie nulla, in quanto il concetto di divenire resta confermato per quanto riguarda l’illudersi e il succedersi delle illusioni, le quali pure costituiscono la realtà del mondo fenomenico, che se non è la realtà profonda non è però il nulla.

– Henri Bergson critica la concezione meccanicistica del mobile che si conserverebbe identico sotto le mutazioni, ma sacrifica il diveniente al divenire: il reale invece è puro fluire. Ma è possibile un volo senza uccello o senza aeroplano che voli? Un pensiero senza pensante? Perché ci sia un divenire occorre un ente diveniente. «Impossibile est non ens moveri (è impossibile che l’ente non si muova)».

– Hume riduce la realtà a successione pura di fenomeni, ma non si può confondere il concetto di divenire con quello di successione.

– L’Idealismo, da Hegel a Croce, afferma che la realtà è sintesi di opposti, onde il divenire è nesso e spiegazione di tutto. La realtà dell’oggetto è quella del pensiero pensante e il divenire ha in sé la spiegazione di tutto; una realtà tipo «motore immobile» non trova spiegazione perché ripugna al pensiero pensarla. Risposta: non si può ridurre il reale a pura attività. L’attività è l’azione di un ente e il modo di agire segue sempre il modo di essere: non si può da un bue attendere un’attività poetica, dice scherzosamente Francesco Olgiati. È nel concetto di ente (in quello di essenza e della finalità intrinseca di essa) che si risolve il concetto di attività, la quale è sempre in rapporto a chi agisce. Inoltre, l’espressione «motore immobile» è assai infelice, ma non è lecito per questo falsarne il concetto: è grave errore identificare il concetto di divenire con quello di attività, in modo che l’attività implichi per sua essenza la mutazione. Bisogna dunque distinguere tra l’attività in quanto diveniente e l’attività in quanto attività. Il mutarsi non è dell’attività in quanto tale, ma dell’attività che implica potenzialità ed attuazione; l’attività dell’Ente, che non ha divenire, è la stessa attività o Atto Puro.

– Tommaso parte dal fatto del divenire; perfino il senso ci fa constatare il divenire, avverte l’Aquinate, che però nello stesso articolo allude al divenire del pensiero e della volontà. In tanto avrò il divenire in quanto avrò l’attuarsi di un ente, il suo passaggio dalla potenzialità all’attualità, comunque si voglia poi interpretarla.

b) La spiegazione intrinseca e ultima del divenire.

Alcuni, prendendo a pretesto la sequenza che va dal germe alla pianta, concepiscono l’universo come un organismo che si svolge, per cui il momento anteriore è la causa o la condizione del momento posteriore e bastano le intime energie dell’organismo a spiegarne l’esistenza stessa. In realtà, non importa sapere se il più vien dopo il meno, ma se ha la sua ragione sufficiente nel meno.

Altri concepiscono il rapporto tra l’Atto Puro e la realtà diveniente come influsso estrinseco di quello su questa, come avveniva al Dio cartesiano a cui Pascal riconosceva il solo compito di dare una spintarella al mondo. Il movere, il far passare una potenza all’atto non implica affatto la negazione dell’attività immanente; il tomismo difende proprio la tesi che la vita implica il «motus immanens»; ma qui il problema è un altro: ogni diveniente in quanto tale (e non in quanto immanente o attività) ha bisogno di un altro vivente il quale gli partecipi la vita. Quale vivente ha mai dato la vita a se stesso? Può «movere seipsum», ma non ha questa essenza «a seipso».

L’obiezione idealistica di un dio distruttore dell’autonomia dello spirito deriva dalla sostituzione di immagini fantastiche ai concetti metafisici. Chi dà all’idealista il diritto di concepire Dio come oggetto e noi come soggetto? Dio, causa prima che muove tanto le cause naturali che quelle volontarie, «sicut naturalibus causis movendo eas non aufert, quin naturales sint actus earum, ita, movendo causas volontarias, non aufert quin actiones earum sint voluntariae, sed potius hoc in eis facit operatur enim in unoquoque secundum eius proprietatem (E come movendo le cause volontarie – Dio – non toglie che i loro atti siano naturali, così movendo le cause volontarie non toglie alle loro azioni di essere volontarie, ché anzi è proprio lui che le fa essere tali: infatti egli opera in tutte le cose conforme alle proprietà di ciascuna)». Il fiat della mia volontà libera ratifica l’atto creatore di Dio che mi ha voluto libero.

Dio non è il primo momento della serie diveniente, che, una volta messa in moto procede per conto suo, ma è colui che ci fa passare in ogni momento dalla potenzialità all’atto. Vanno pertanto considerati inaccettabili quei paragoni di un Dio che sarebbe il chiodo posto in alto a cui è sospesa una catena di anelli; lo stesso si dica della poesiola voltairiana del mondo… orologio che rinvia all’orologiaio. La filosofia cerca la spiegazione ultima delle cose; chi, invece, additasse la ragione di un divenire attuale (ad es. del mondo) in un altro diveniente (ad es. la nebulosa), darebbe una spiegazione estrinseca e prossima, per sua natura insufficiente. «Hic autem non est procedere ad infinitum (qui non è un procedere all’infinito)», fa notare Tommaso; «c’è necessità logica di porre un termine al regresso di condizionamenti» (Charles Renouvier). Tutte le spiegazioni che la scienza potrà accampare non varranno mai a risolvere il problema che sorge in limite scientiae del «perché esiste un eterno divenire di mondi e non piuttosto il niente e perché esiste questo concreto divenire e non un altro». Il problema di Dio non è fugato, né risolto dal progresso delle scienze perché non è un problema di coscienza immediata o di conoscenza scientifica, ma il problema della fondazione definitiva dell’essere, di ogni essere.

La seconda via

«Ex ordine causarum efficientium» (secondo l’ordine delle cause efficienti)

1- Il fatto d’esperienza

Noi vediamo che ci sono cause efficienti (causa efficiente è ciò per opera di cui qualche cosa è), rapporti di connessione e di dipendenza reale tra realtà distinte e diverse. La relazione di causalità efficiente è data a noi nell’esperienza sensibile. Si sperimenta A come causa di B quando A dà qualcosa a B che B non ha. Ad esempio: la palla di biliardo 1 si muove mentre la 2 è ferma. Colpita dalla palla 1, la palla 2 comincia a muoversi. La palla 1 ha comunicato parte del proprio moto alla palla 2. Un altro esempio: un’ape visita una rosa. Non la visiterebbe se i rosai non fiorissero in quella determinata stagione, se il ritmo della vita vegetale non fosse correlativo alla diversità delle stagioni, se la rivoluzione della terra attorno al sole non generasse le stagioni stesse.

2- I principi di spiegazione

a) L’esperienza con cui è data la relazione di causalità efficiente ci fa cogliere in essa un ordine. La causa efficiente dà qualcosa del suo essere a quello dell’effetto e ogni effetto ha quale sua causa efficiente un essere diverso da sé. «Non vi è caso conosciuto, né invero è possibile, in cui un essere sia la causa efficiente di se stesso; perché in tal caso dovrebbe essere antecedente a se stesso, il che è impossibile».

b) Ognuno degli esseri è anche, a sua misura, un agente che collabora alla trasformazione del tutto. Le cause efficienti sono legate tra loro, interdipendenti, complementari, sopraordinate le une alle altre (es. irradiazioni del sole-energia dell’ambiente biologico-pianta), pur essendo di natura diversa. Ma è impossibile risalire all’infinito in una serie di cause attualmente subordinate. «Non importa che le cause intermedie siano parecchie o una sola». Se il problema in discussione è quello di giustificare la causalità efficiente nel mondo, tutte le cause, prese assieme, possono essere considerate come una sola, qualunque sia il loro numero. Se non vi fosse un «primum in causis efficientibus», una causa prima che non è prima in una serie, ma al di sopra di ogni serie, tutte le cause che ne dipendono non esisterebbero affatto. Tolta la causa prima, è tolta ogni altra causa.

3- Conclusione

Poiché vi sono reali cause efficienti, esiste una reale causa efficiente prima, senza la quale tutto il circolo delle cause seconde resta inoperante. Ma essere la prima causa efficiente è implicito nel significato del termine Dio, quindi Dio esiste.

4- L’aseità di Dio

Cartesio polemizza contro quegli scolastici secondo i quali l’aseità ha un senso puramente negativo e significa semplicemente «non essere causato»; concezione indegna dell’essere divino.

Cartesio però s’inganna quando vuol spiegare la verità che ha presentito affermando che Dio è causa sui. Se si portasse questa nozione all’estremo limite, ciò che sarebbe normale trattandosi di applicarla a Dio, si arriverebbe all’affermazione che Dio esiste in virtù della sua libera scelta o in virtù della pienezza del suo volere: Dio esiste perché vuole esistere, dunque, se egli volesse, potrebbe anche annullarsi.

Quando san Gerolamo dice che Dio è la causa della sua propria sostanza, vuol dire che Dio si afferma in qualche modo nell’essere per la sua onnipotenza come per una causa (come Cartesio pensò) ma che non si deve cercare fuori di Dio alcuna causa dell’esistenza di Dio.

La verità è che in Dio c’è l’infinito della necessità e l’infinito della libertà di spontaneità, di indipendenza e di esultanza, atto puro d’intellezione e d’amore.

Cercare la causa della volontà di Dio, è supporre implicitamente che vi possa essere qualche cosa di anteriore alla sua volontà, mentre essa è anteriore a tutto il resto.

Se ci fosse in Dio una causa qualunque della sua propria volontà si introdurrebbe nell’essere che è tutto nella sua pura attualità una distinzione reale di attributi che permetterebbe di contrapporre un attributo ad un altro nello stesso essere: ciò che è assurdo e contraddittorio. Dal nostro punto di vista discorsivo è inevitabile dire che l’intelletto di Dio agisce sopra la sua volontà; ma l’intelletto di Dio è Dio, come la volontà di Dio è Dio.

La terza via

Ex contingentia – il nascere e il perire.

1- Il fatto d’esperienza

Esperienza universale è il nascere e il morire. Il generarsi e il perire non implicano un cambiamento nel senso di un passaggio da uno stato all’altro, ma il passaggio dal non essere all’essere e viceversa. Questa caducità caratterizza in modo essenziale tutto ciò che rientra nel raggio della nostra esperienza e noi sperimentiamo proprio nelle radici più profonde del nostro essere e della nostra spiritualità la nostra «finitudine tragica» (Blaise Pascal). È un fatto visibile che alcune cose nascono, si trasformano e muoiono, il che significa che per gli esseri che entrano nella sfera della nostra esperienza è possibile esistere e non esistere. Essi sono contingenti perché, se la loro esistenza è solo possibile, è ugualmente possibile la non esistenza. E queste considerazioni si applicano a tutte le cose contingenti, singolarmente e collettivamente.

2- I principi di spiegazione

a) La contingenza degli esseri che pendono senza posa verso il nulla («Ciò che può non essere, una volta o l’altra non è»), ci induce a pensare l’impossibilità che esistano o siano esistiti sempre quegli esseri che appunto possono non esistere. «Perciò se in qualche tempo non vi fosse stato nulla di esistente, sarebbe stato impossibile per qualsiasi cosa cominciare ad esistere e così anche ora nulla sarebbe esistente». Ora questa conseguenza è assurda, perché vi sono degli esseri, intorno alla causa prima dei quali stiamo appunto indagando e inoltre esistiamo noi stessi, dal momento che siamo in grado di porci il problema.

b) Per quanto contingenti, finché durano, finché esistono degli esseri esistono secondo le leggi della loro natura e risultano dalle cause che li hanno prodotti. Sono in certo senso relativamente necessari nella stessa misura in cui esistono e sono determinati nella loro essenza in quanto la loro causa li fa esistere. Sono contingenti ma di diverso grado, non assolutamente indeterminati. La contingenza degli esseri, insufficienti ad esistere da sé, attraverso una graduatoria di essa e una corrispondente gerarchia del necessario per partecipazione ci obbliga a concludere all’esistenza di un primo Essere assolutamente necessario che causa negli esseri la loro consistenza e relativa necessità.

3- Conclusione

Posto che il contingente, incapace di esistere da sé e ad essere causa di sé, non è senza il necessario e che gli esseri relativamente necessari che pur si danno nella realtà ci rimandano per le stesse ragioni ad un Essere assolutamente necessario, Ens a se, l’esistenza dell’Assoluto è pienamente dimostrata e non si può revocare in dubbio a meno che non si voglia inabissare nel nulla l’esistenza stessa del contingente, che ci risulta invece incontestabilmente. Chi non voglia mettersi in contraddizione con la realtà, posto che la riconosca, non può negare il rigore logico del passaggio dall’esperienza del contingente all’affermazione dell’Assoluto, che esiste necessariamente.

4- Discussione

a) L’Essere necessario evidentemente non è collezione dei contingenti (una serie di esseri contingenti e relativi, foss’anche senza cominciamento, eterna, non costituisce l’Essere necessario ed assoluto, cioè «solutus ab omni conditione»); non è la loro legge (o rapporto tra più fenomeni o più leggi, che suppone già gli elementi contingenti e transitori di cui esprimerebbe l’unione), né quella misteriosa legge che genera i fenomeni per i quali sussiste.

b) Tommaso si pone sul terreno della comune esperienza non per ingenuo realismo, ma per cercare un terreno comune a tutte le persone dotate di intelligenza e di buona volontà. E il concetto di necessario è un risultato a cui la ragione perviene attraverso l’innegabile esistenza del contingente. Il necessario è richiesto dal contingente anche là dove meno possa apparire, nota Nicola Petruzzellis: ispirazione riposta dell’impacciata deduzione dal noumeno; segretamente operante nell’idealismo (da cui il contingente è inteso come creazione dell’Io trascendentale e contenuto fenomenicamente oggettivo della conoscenza empirica); implicito o dissimulato in ogni dottrina filosofica (varia nella storia la concezione del principio metafisico della realtà, ma sempre esso è stato ed è concepito sotto l’aspetto della necessità, molla imprescindibile di ogni costruzione speculativa).

c) Kant non ebbe presente la formulazione tomistica della prova cosmologica e, se a nessuno è contestabile il diritto, secondo le opportunità, di prescindere da particolari riferimenti storici per esporre una posizione di pensiero nel suo contenuto logico, ciò vale solo nel caso che questo contenuto logico sia veramente colto: Kant ritenne, invece, tipica la formulazione corrente nella tradizione deistica del tempo. Kant frantuma la prova in due parti artificiosamente collegate, mentre il valore della prova è tutto ed unicamente nell’affermazione di un Essere necessario: è arbitrario ridurre la prova cosmologica ad un rovesciamento di quella ontologica. Ora l’efficacia probatoria della dimostrazione tomista non è intaccata neppure dalle aporie gravissime del kantismo: anche se la realtà contingente venga concepita come un contenuto fenomenico di coscienza empirica, non si può non ammettere un principio necessario che renda conto della coscienza empirica e del suo contenuto.

d) Dovendo chiarire a noi stessi il concetto dell’essere che necessariamente esiste, noi torniamo ancora una volta al contingente per far risaltare dal raffronto quei caratteri differenziali, che possono darci alcune determinazioni essenziali dell’Essere necessario. Il contingente è insufficiente a essere per sé; l’Essere che ci è risultato esistere necessariamente deve anzitutto avere ciò che manca al contingente, l’attualità assoluta che è inscindibile perfezione di essere e di esistenza. Non c’è dunque separazione, ma continuità logica di deduzione tra il concetto di Essere necessario e quello di Essere assolutamente perfetto, intrinsecamente ed implicitamente contenuto nel primo: Kant confuse questa stringente deduzione con un ricorso alla prova ontologica. Stabilire la perfezione di Dio si può solo in base al concetto analogico di essere, sufficiente a determinare la perfezione in generale, ma ben lungi dall’esaurire la sovraeminente e inesauribile ricchezza dell’infinita essenza ed attualità di Dio. Dio può essere conosciuto e deve essere affermato come certo e concretamente reale, ma al tempo stesso non può essere penetrato nel suo segreto. Dio «non ha altra essenza che il suo esteso essere» (De ente et essentia, c. VI). Ego sum qui sum (Io sono colui che sono): l’Esodo fonda così la verità da cui dipende tutta la filosofia e la fede cristiana. Dio non è il più grande e astratto dei nostri concetti, ma l’Atto Puro la cui esistenza è al di là di tutte le immagini sensibili e le determinazioni concettuali: un’espressione adeguata di Dio sarebbe Dio (ecco perché la teologia cristiana ne offre una sola, il Verbo). «Noi non sappiamo ciò che Dio è; sappiamo solo ciò che non è, e quale relazione abbia con lui tutto il resto» (Contra Gentes, I, XXX). Non si può definire Dio poiché nessun elemento di definizione può essere comune a lui e alla creatura. I nomi che si danno a Dio sono dunque arbitrari? Non si potrebbero abbandonare alle metafore nozioni che si collegano alla necessità di Dio. La molteplicità e il carattere definito di quegli attributi sono unicamente dal lato della creatura e nella mente di coloro che pensano Dio in funzione della creatura; essi non sono Dio: «Non sunt in Deo» (Ep. ad Rom., I, 6). Non si tratta di giustificare i nomi divini con un’analogia di somiglianza diretta con Dio e la creatura, nel senso che ci sarebbe qualcosa di comune all’uno e all’altro; si vuole notare soltanto una proporzione, un rapporto che egli mantiene con le cose in cui la nostra intelligenza attinge i suoi concetti, in quanto è la loro causa. L’analogia è così del tutto indiretta; Dio è ineffabile. «Balbutiendo ut possumus excelsa Dei resonamus (Balbettando, cerchiamo di dar voce alle cose eccelse di Dio come possiamo)» dirà Tommaso con Gregorio Magno.

e) Dio è trascendente o non serve a nulla. Dio spiega il creato solo in quanto per la sua incondizionatezza, assolutezza, necessità, aseità, infinità non è risolubile nell’ordine di regressione causale. Per lo stesso motivo tentare di pensare Dio in lui stesso («quid sit Deus») è abolirlo, perché equivale a rigettarlo alle categorie, farne, così, un elemento dell’esperienza e allora l’esperienza non ha più spiegazione.

5- Le idee di Dio

Platone aveva ragione proclamando: vi è un fondamento reale dell’idealità, che si manifesta nelle cose e si ritrova nell’intelligenza; Aristotele aveva ragione nel conferire l’esistenza solo al concreto e all’individuale. Il possibile è posteriore, non anteriore al reale, tesi perfettamente tomista per ciò che concerne i fatti contingenti, poiché questi non hanno verità ante eventum, né intelligibilità, dunque nessuna possibilità oggettiva. L’universo non è possibile prima di esistere; la sua possibilità non è acquisita in Dio stesso che posteriormente all’atto che lo crea, e questa possibilità non è che la proiezione all’indietro della sua esistenza.

Il mondo non preesiste realmente sotto forma di idee, anche divine; ciò che preesiste è Dio semplicemente, e ciò che chiamiamo idee non è che la proiezione in Dio per opera della nostra intelligenza degli oggetti del tempo e delle acquisizioni del tempo. Tommaso non ammette attributi in Dio che per la mediazione di un lavoro mentale chiamato analogia. La bontà, per esempio, quale egli l’attribuisce a Dio, non è per nulla il Bene in sé di Platone, verso il quale rivolge la sua critica, tanto quanto verso quello di Aristotele. Rifiutando di realizzare così i trascendentali, egli non si accinge a introdurre in Dio de plano concetti, idee o possibilità oggettive.

Dio non ha che un oggetto: lui stesso. In tal senso si può dire che non ha propriamente conoscenza che non di sé: gli esseri sono compresi in lui stesso, non essendovi nulla di anteriore a Lui. Dio è pura intimità, ma per questo egli è – per la sua identità eminente e virtuale con ogni essere – oggettivamente universale. Il creato emana da lui, prendendone a prestito tanto la sua intelligibilità quanto il suo essere: effetto di Dio, l’universo è un analogo di Dio; ma nulla più che un analogo, perché se si paragona l’essere in sé all’ente causato nella sua stessa esistenza, si ottengono due ordini di esseri insuscettibili di addizione o di sottrazione: essi sono incommensurabili. Dio non concepisce prima e poi crea; la possibilità che è in Dio è Dio e non ce n’è altra. Dio è un infinito di possibilità e non un’infinità di possibili.

Tommaso risolve in questo modo la famosa questione delle verità eterne: le verità eterne sono in Dio = Dio è la verità = Dio è. Le verità sono quell’essere concepito da noi per dar ragione della molteplicità e infinità delle cose; ma sotto il nome di verità non c’è nessuna molteplicità oggettiva in Dio, non essendoci neppure verità distinta da Dio (cfr. Teologia, S. Th., III Via, III, d.).

«L’idea appare dove Dio conosce la sua essenza come principio delle creature, che sarebbero le sue partecipazioni possibili»: e, in questo senso, benché l’essenza di Dio sia una e conosciuta da lui come tale, sono in lui tante idee quante creature. Così dunque, in quanto Dio conosce la propria essenza come imitabile da una creatura, la conosce a titolo di modello proprio e di idea di questa creatura.

In quanto principio in Dio della conoscenza degli esseri, l’idea è ratio, in quanto principio del loro essere, essa è exemplar. Se si tratta però delle idee che potrebbero essere realizzate ma non lo saranno, la loro conoscenza è virtualmente pratica, perché Dio le conosce come oggetti di un’azione virtualmente possibile (De Veritate, III, 3).

La quarta via

La scala degli esseri e dei valori.

1- Schema

a. Il fatto: negli esseri noi distinguiamo un maggiore o minore grado di bontà, di verità, e così via.

b. Principi: ma il più e il meno si predicano di diverse cose secondo il diverso grado di approssimazione al massimo, non potendosi concepire un plus e un minus senza la realtà dell’Essere che avvera senza difetto (maxime) quello che dichiariamo qua più e là meno.

c. Conclusione: vi è dunque l’Essere in sommo grado e perfezione, fonte di ogni ente e perfezione.

2- Discussione

Prova enologica (ens unum) perché s’eleva dal molteplice all’uno, dal composto al semplice. Il senso di questa prova si comprende soltanto collegandola con la dialettica platonica dell’intelligenza e dell’amore: Fedone, Filebo, Simposio. La molteplicità non rende conto, non può, dell’unità di somiglianza che è in essa, ma suppone una unità superiore. Certo, Platone non vide chiaramente che non esistono tipi reali delle essenze, ma solo idee che possono essere pensate separatim dalle condizioni individuanti. Ma la sua gloria senza tramonto sta nella scoperta dell’essenza che ci spinge, ci incalza nella ricerca dell’Uno.

L’ordine realizza per eccellenza il bene ed esprime in tutti gli esseri creati l’unità del loro principio: dall’Uno viene un’opera «una» d’intenzione e di fatto nella varietà degli esseri gerarchicamente ascendenti. Il principio della gerarchia è il grado di atto e di potenza; l’Atto Puro è colui che è Spirito e Vita. L’immaterialità riscatta il difetto sostanziale aprendo lo spirito a tutto, in potenza ed eventualità di conoscenza: così si riflette in ogni spirito umano l’ordine del mondo. Pure intelligenze, che tengano nel cosmo un posto inaccessibile all’esperienza, possono essere pensate per analogia con l’intellettualità umana. Tommaso respinse la teoria agostiniana che prendeva per genere una materia pensandola determinata dalle forme particolari degli spiriti: non essendoci un’individuazione attraverso la materia nella creazione spirituale, vi sono tante specie quanti individui, e quindi altrettante forme di esistenza angelica quanti angeli esistenti. Il conoscere per l’uomo non è che un allargamento dell’essere, un rimedio alla strettezza ontologica di ogni essere preso in sé; ma per l’angelo ciò non può essere, non essendoci una materia o un agente esterno che determini l’attualizzazione di qualche potere esistente in lui. L’angelo conosce dunque tutto nella conoscenza di se stesso come sostanza.

3- Conclusione

Leibniz si è ingannato pensando che per le cose è un male metafisico quello di non essere Dio (come se la perfezione divina fosse loro dovuta e invece il male è «privatio beni debiti (privazione del bene dovuto)». Ma sarebbe un errore inverso disconoscere l’aspirazione a Dio e alla condizione divina che attraversa tutti gli esseri e che esplica insieme il dinamismo della natura e la convenienza o possibilità di inserzione dell’ordine sovrano. «Un asino non desidera di essere cavallo perché se fosse trasferito al grado di una natura superiore esso stesso cesserebbe di esistere». Ma le cose cambiano se consideriamo non più una natura chiusa in un genere e in una specie, ma una perfezione trascendentale nella sua linea metafisica. L’intelligenza, la personalità, l’amore non si annullano passando da un grado inferiore ad uno superiore dell’essere; è perciò che esiste in noi un desiderio di oltrepassare la condizione umana. L’essere che è in me aspira all’esse divinum, ed è a causa di ciò che ogni creatura desidera essere «ut Deus per similitudinem (come Dio per similitudine)», in maniera buona o in maniera cattiva.

La quinta via

L’ente in quanto implica una finalità ricevuta.

1- Schema

a) Fatto: il fatto qui non è asserito come dato immediato, ma come corollario o necessaria interpretazione dell’immediata esperienza: gli esseri sprovvisti di ragione agiscono in maniera conforme al loro fine; il che si rivela chiaramente dal fatto che sempre, o quanto meno spessissimo, operano nello stesso modo per conseguire il meglio.

b) Principi: è chiaro che non a caso, ma per una tendenza determinata, raggiungono il fine, essendo a ciò diretti da un essere conoscente e intelligente, come la freccia dall’arciere.

c) Conclusione: quindi vi è un essere intelligente da cui tutte le cose naturali sono ordinate ad un fine; e questo essere noi chiamiamo Dio.

2- Discussione

La natura agisce. La natura di ogni ente implica un’essenza la quale fa sì che quella realtà sia quella che è e non un’altra; ogni ente agisce e la sua attività, derivante dalla sua natura, dice tendenza, scopo ab intrinseco, attitudine naturale dell’essere a un fine, sia che lo sappia, sia che non lo sappia. Cartesio e Spinoza, evoluzionisti e materialisti, e lo stesso James hanno ripreso la dottrina epicurea per la quale le cause efficienti spiegano tutto: «quand’anche supponessimo il caos dei poeti, si potrebbe sempre dimostrare che grazie alle leggi di natura questa conclusione dovrebbe a poco a poco pervenire all’ordine attuale»; e James ritiene rovesciata dal darwinismo la prova di Dio attraverso le cause finali.

a) È assolutamente ingiustificata l’opposizione delle cause efficienti alle cause finali. Queste non sono che le stesse cause efficienti in quanto definite da ciò che esse devono fare, di ciò che cercano di fare sia esso già fissato nella sua ultima determinazione, sia solo contenuto allo stato virtuale e indeterminabile in anticipo, come vuole Henri Bergson. La finalità poggia sul determinismo delle cause; essa non è che un determinismo ante factum, grazie proprio al determinismo dell’agente.

b) Per i meccanicisti anti-finalisti l’uccello non ha le ali per volare, ma vola perché ha le ali (sarebbe come dire: la madre non ha il latte per allattare, ma allatta perché ha del latte di cui cerca di sbarazzarsi). Dato e non concesso che sia così, occorre sempre ed ancora spiegare questa necessità di conformazione: perché le ali dell’uccello sono fatte in modo da essere adatte al volo? E se i meccanicisti fanno appello ad una causa anteriore più generale bisogna ancora domandarsi il perché di essa. «Ista determinatio – notava in anticipo Tommaso – qua res naturalis determinatur ad unum, non est ei ex seipsa, sed ex alio; et ideo ipsa determinatio ad effectum convenientem providentiam demonstrat, ut dictum est (la determinazione con la quale la realtà naturale è determinata a un solo effetto non è in essa da sé, ma da un altro, e perciò la stessa determinazione all’effetto dimostra una provvidenza conveniente, come si è detto in precedenza)».

c) L’efficienza spiega l’esercizio di un atto dell’agente, ma non la sua specificazione. Perché il pane mi nutre? Perché ho la potenza di assimilarlo. Ma chi dice potenza dice indeterminazione: essa non può precontenere attualmente la determinazione del suo effetto, non la precontiene che nella misura in cio essa è ordinata a tal atto piuttosto che a tal altro come a sua perfezione e compimento. «Potentia ducitur ad actum ( la potenza è condotta all’atto)», è la più alta e la più semplice formula del principio di finalità.

d) Si accusa la concezione finalistica di antropomorfismo: l’uomo, poiché si propone dei fini (ad es. l’artigiano), proietta gratuitamente il suo modo di agire sulla natura e attribuisce a questa una finalità che non può avere (dal momento che per agire per un fine occorrerebbe un fine pensato, una deliberazione, mentre la natura non pensa e non delibera). Risposta:

– È ingenuo credere che tutti i fenomeni siano alla portata dell’uomo e che la finalità possa essere ricostruita a priori.

– La teleologia prescinde dalla consapevolezza o meno degli enti. Ogni ente tende ad agire in funzione della sua natura; questa tendenza dice scopo ab intrinseco, che importa un’attitudine naturale di un essere ad un fine, sia che lo sappia o che non lo sappia.

– Infine non si può travolgere nella condanna dell’antropomorfismo illegittimo la funzione e il valore di quello legittimo; l’uomo è infatti il solo essere nel quale la natura prende coscienza di se stessa. L’universo è un sistema di relazioni intrecciate tra gli esseri di cui l’uomo fa parte; se l’uomo fa parte della natura, non si vede perché il filosofo non si dovrebbe rivolgere all’uomo per meglio concepirla: non c’è ragione a priori perché ciò che è vero dell’essere umano sia falso degli altri esseri, soprattutto se ciò che si considera negli uni e negli altri è l’essere stesso, o le proprietà immediate degli esseri.

e) A Cartesio sembra che i sostenitori del finalismo pretendano di introdursi nel consiglio divino, arrogandosi il diritto di legiferare in suo nome. In realtà, non c’è bisogno di violare i segreti della sua legislazione per conoscere la sua esistenza. Noi non entriamo nei consigli di Dio, ma vediamo ciò che Egli fa e che porta il suo sigillo: ciò che emana da lui, nella misura in cui ne partecipa, tende pure al bene che è la sua forma, forma compiuta. Cartesio, fedele a Platone per la parte in cui Platone si ricollega a Pitagora, l’abbandona in ciò che egli ha di comune con Aristotele e con tutta la tradizione cristiana.

f) Accanto alle negazioni della finalità interna (quella propria di ciascun essere sprovvisto di intelligenza e considerato in se stesso) si sono moltiplicate le negazioni della finalità esterna (subordinazione di alcuni esseri ad altri). Cartesio: «È un assurdo pretendere che il sole, più e più volte grande della terra, non abbia altro compito che di rischiarare l’uomo!». Al contrario, noi vediamo che gli esseri superiori utilizzano gli inferiori, li ordinano cioè al proprio fine: da ciò ne consegue che l’inferiore ha un fine estrinseco non differente dal fine intrinseco del superiore («est idem finis agentis et patientis, in quantum huiusmodi sed aliter et aliter (l’operante e il soggetto paziente come tale hanno l’identico fine, ma sotto aspetti diversi)» (I, q. 44, a. 4). Il paziente, non come essere ma come paziente, ha lo stesso fine che l’agente (ad es. l’alimento e la potenza nutritiva sono ordinati alla nutrizione). È però vero che spesso la finalità esterna ci sfugge così come, nell’insieme, essa ci appare con estrema evidenza (minerali per vegetali, vegetali per animali, minerali vegetali e animali per l’uomo). Da ciò consegue che non è necessario che la finalità esterna sia sempre realizzata, essendo esigita dal superiore e non dall’inferiore (in un’epoca in cui la vita animale non fosse ancora apparsa, la vita vegetale non attingeva il suo fine esterno), e che la nostra ignoranza può provare i limiti del nostro spirito e non già la non esistenza della causa finale.

g) E il caso e i mostri, come si spiegano? Determinismo e finalità sono congiunti nel pensiero di Tommaso sì che in lui diventa più che legittima la domanda: agendo ogni essere secondo quel che è, nell’ipotesi che ci fosse possibile conoscere tutte le tendenze, non ci sarebbe anche possibile prevedere l’interferenza delle azioni stesse? La risposta è negativa. Ragionare così significa dimenticare che il dominio delle leggi è più stretto di quello dei fenomeni; la forma che rinserra ogni materia non la domina mai interamente; e poi non è infrequente il caso del prodursi di fenomeni per l’incontro di serie ordinate ciascuna ad un risultato, ma senza che l’incontro stesso abbia nessuna causa propria. È vero attualmente ciò che attualmente è determinato in sé o nelle sue cause; ma il caso per definizione non ha causa propria, dunque non è attualmente determinato, e non è dunque vero, sebbene dovrà essere tale quando per accidens avrà potuto prodursi. È un fatto che la causalità efficiente talvolta non sbocchi a ciò che era stato preparato e previsto. I mostri sono appunto l’effetto di incontri accidentali e casuali.

h) Le critiche di Kant partono da due presupposti che deturpano la prova così com’è formulata da Tommaso, anche se colpiscono nel segno la formulazione del razionalismo deistico. Kant parte dalla considerazione della finalità di tutta la natura, mentre accanto alle armonie ci sono anche le disarmonie; Tommaso parte dal finalismo intrinseco solo di alcuni enti, che è più facile ad essere indotto.

Kant presuppone che tale ordine sia affatto estrinseco alla natura delle cose ordinate; di qui le note obiezioni. La quinta via dimostrerebbe l’esistenza di un ordinatore, non del creatore. La prova che ci conduce al riconoscimento di una Intelligenza Prima, ci conduce anche all’«Ipsum Esse Intelligens», Atto Puro in cui non si può distinguere colui che costituisce nell’essere gli esseri e colui che li pone nell’ordine, essendo l’ordine la legge immanente agli esseri, la forma intrinseca della loro indeterminatezza e contingenza.

La creazione

Poiché Dio è l’Essere che non presuppone nessun altro essere, è la causa incausata, la creazione è produzione totale dell’essere dal nulla («ex nihilo sui et subiecti») di ogni altra cosa.

a) Dio ha creato anche la materia.

L’attività divina non può presupporre nulla; quando due realtà sono collegate in modo da formare un ordine, bisogna che una di esse sia la causa dell’altra, o tutte e due effetti di una terza; se non c’è un Dio di Dio, bisogna che Dio sia causa della materia stessa.

La difficoltà del problema deriva dall’essere portati a immaginare la creazione come un’azione nel tempo.

– È puerile prendere il termine «nulla» nel senso di vuoto positivo, che il mondo una volta creato avrebbe dovuto riempire.

– Non c’è un’anteriorità illusoria, un tempo anteriore alla creazione: il tempo ha bisogno anch’esso di essere creato.

– È un errore immaginare che vi sia stata da parte di Dio un’iniziativa dopo una non azione. È ridicolo immaginarsi Dio proteso in non so quale aspettativa attendendo che il mondo sia. «La creazione non è un cambiamento, un divenire, è la dipendenza stessa dell’essere creato in rapporto al suo principio» (Contra Gentes, II, c. 18); è una dipendenza assoluta da una perfetta libertà, dalla libertà creatrice della persona divina. La creazione è relazione di origine da parte della creatura, relazione di causalità da parte del creatore.

E in Dio nulla cambia per il fatto della creazione?

Risposta in Contra Gentes, II, c. 35: la causalità divina riguarda il reale in tutta la sua interezza, senza che nulla gli venga presupposto e senza che nulla sia desunto dalla divina sostanza. Colui che è l’Essere medesimo sussistente è la sorgente di tutti gli esseri senza far torto alla sua piena attualità, alla sua perfezione di eterna presenza. Infatti, l’attività creatrice di Dio è solo azione immanente, in quanto la sua essenza non può uscire da se stessa e farsi altro (altrimenti Dio non sarebbe Atto Puro): l’attività di Dio si identifica con la sua essenza. «Nihil igitur prohibet dicere actionem Dei ab aeterno fuisse, effectum autem non ab aeterno, sed tunc eum ab aeterno disposuit (Nulla quindi ci impedisce di affermare che l’azione di Dio abbia origine dall’eterno, ma che abbia disposto l’effetto non dall’eterno, ma nella temporalità, sebbene dall’eterno)». L’effetto, distinto da Dio, segue così come è voluto da Dio, con tutte le condizioni volute da Dio, quindi anche con la temporalità, se Dio vuole che esso sia temporale. Dio può quindi volere ab aeterno che una creatura sia nel tempo. Se si ammette la possibilità metafisica del dono dell’essere dall’Essere, rimane da comprendere la ragione morale di un tale dono.

b) Perché Dio ci ha creato?

Supporre che Dio possa trovare fuori di sé il fine del suo atto, è limitare la sua attualità, è negarlo in quanto Dio; la causa finale della creazione non può essere che la stessa causa creatrice. La liberalità dell’azione creatrice sarebbe un egoismo divino, un’assurda generosità interessata?

Non c’è egoismo possibile se non là dove resta qualcosa da guadagnare. Si agisce per procurare un bene per sé o per gli altri: Dio è il Supremo Bene, quale altro bene potrebbe mai desiderare per sé? Noi ricaviamo sempre dalla nostra azione, anche dalla più generosa – e soprattutto dalla più generosa – un guadagno e un aumento di essere; per noi che abbiamo sempre qualcosa dall’essere da conquistare, ci appare quasi incomprensibile l’atto di un bene che non ha nessun bene da conquistare. «Premio agenti, qui est agens tantum, non convenit agere propter acquisitionem alicuius finis; sed intendit solum communicare suam perfectionem, quae est eius bonitas (Ma al primo agente, cioè a Dio, che è pura attualità non si può attribuire l’operazione fatta per giungere al possesso di un fine; egli mira soltanto a comunicare la propria perfezione, che è la sua stessa bontà)» (S. Th., I, 44, 4 Resp.). Egli non agisce che per darsi, per donarsi, poiché il Signore non creò per sua indigenza ma per nostro amore: «Dio non crea testimoni che l’assicurino della sua propria gloria, ma esseri che ne godano come ne gode egli stesso, e che, partecipando al suo essere, partecipino al tempo stesso della sua beatitudine. Non dunque per sé, ma per noi, Dio cerca la sua gloria: non per guadagnarla, perché la possiede; né per accrescerla, perché essa è di già perfetta; ma per comunicarcela» (Étienne Gilson, op. cit., p. 77).

In tal senso Agostino interpreta le lodi che a Dio decretano le Sacre Scritture: esse non gli aggiungono nulla e non lo ingrandiscono, poiché egli è al di sopra di tutto; ma esse servono a noi per meglio conoscerlo e amarlo. Dio dirige tutte le cose verso di sé come verso il loro fine (=diventare ciò che sono, compiere la loro natura) per partecipare ad esse la sua perfezione nella misura in cui esse ne sono capaci: «Unumquodque tendens in suam perfectionem tendit in divinam similitudinem (Ogni realtà che tende alla sua perfezione, tende a essere simile a Dio)».

c) Creazione e conservazione.

  1. Quando supponiamo che ciò che è stato l’oggetto della creazione possa bastare a se stesso una volta creato, misconosciamo la questione di origine radicale: dove troverebbe l’oggetto di creazione la propria sufficienza? Ogni ente non possiede l’essere per se stesso, ma lo riceve totalmente da lui, vale a dire in una dipendenza sempre attuale. Se Dio cessa di comunicargli l’essere, esso non è più: l’azione creatrice, precisamente perché comunica l’essere a una realtà che non è Dio, non può cessare senza trascinare immediatamente nell’annientamento questa realtà.
  2. L’azione conservatrice di Dio si comprende come prolungamento della sua azione creatrice. Creare è l’operazione prima, conservare è l’operazione seconda la quale non può esercitarsi che nei confronti di un essere esistente. L’azione conservatrice si realizza di fatto secondo l’ordine istituito da Dio nella sua azione creatrice, servendosi delle cause seconde da noi conoscibili come relazioni intracosmiche.
  3. Una creatura può avere il potere di conservare un’altra creatura, ma non se stessa da sé nell’essere. Infatti non si può servire da strumento se non per gli altri; per se stessi non si può che possedere la forma avuta o essere in dipendenza di tale o tal’altra causa, in ragione della stessa forma avuta.
  4. Può Dio far cessare liberamente l’influsso conservatore? Il conservatore nell’essere è un atto libero come il creare. In quanto è, Dio può essere causa soltanto dell’essere: causa propria; del non-essere sarebbe causa accidentale, cessando l’influsso efficace diretto ed immediato che impedisce l’annientamento. Se Dio può ritirare liberamente il suo influsso conservatore, di fatto egli non lo vuole e ciò è più conforme alla sua bontà.

Creazione ed eternità del mondo

1- Perché si vuole che il mondo sia eterno?

Perché sotto il contingente c’è il necessario ed ogni fatto nuovo ne suppone uno anteriore; se vi è un Dio eterno, la sua azione deve essere eterna e quindi anche il suo effetto, l’universo.

Obiezioni.

a) Il necessario che sta sotto il contingente non è necessario, ma un «sempre» che esprime l’estensione temporale del mondo; razionalmente l’idea del cominciamento non implica nulla di anteriore.

b) L’eternità di Dio e l’eternità della sua azione non impedisce la libertà del suo volere; non c’è comune misura tra la sua durata e quella della sua opera: questa sarà ciò che egli vorrà. Pretendere che il mondo abbia a esistere tosto che l’azione creatrice è posta, è soccombere all’illusione di una durata divina anteriore al tempo o di un’azione intermediaria tra Dio creatore e il mondo.

2- Filosoficamente non s’impone nessuna soluzione né pro né contro l’eternità del mondo: se si suppone il mondo eterno, niente sarà cambiato dalla parte di Dio e della sua causalità; solo il suo effetto sarà diverso, dilatato o ridotto alle sue dimensioni temporali, come potrebbe essere nelle sue dimensioni spaziali.

È necessario però chiarire:

a. essendo la creazione una pura relazione tra la creatura e il creatore – relazione temporale e onnitemporale – non si può parlare né di conservazione né di creazione continuata (Cartesio), non conservandosi che ciò che è (e senza la creazione la creatura non è) e non continuandosi ciò che si è cominciato (e la creazione non ha luogo in un momento di quella durata vuota che illusoriamente vien fatta precedere l’universo);

b. conseguenza ben paradossale: la creazione è posteriore nell’essere alla creatura che si crede posta da essa. Infatti essa, di per sé, non pone niente, spiega concomitantemente, è il legame tra Dio che dà e la creatura che riceve. Attributo del creato, appare a priori se la si prende dal lato di Dio, ma in Dio non c’è dipendenza alcuna: Dio non è relativo a nulla.

Creazione e provvidenza

Il mistero dell’azione libera e dell’azione creatrice non si pretende di spiegarlo, ma di non complicarlo con errori e di non abbassarlo con viltà e compromessi che contraddicono l’esperienza dell’uomo e l’inscrutabile abisso di Dio. In filosofia il problema della provvidenza si ricollega a quello delle cause finali. Chi nega la finalità non si chiede se l’universo e gli uomini siano retti da un primo pensiero.

Le immagini pericolose:

– si immagina che Dio crei la sostanza e la lascia in seguito al suo funzionamento;

– ci sembra che Dio agisca partendo dalla nostra anima e dalla nostra libertà in modo da sostituirsi ad esse e da modificare i risultati della loro iniziativa;

– ci pare che tra il creato e Dio ci sia, se non una somma di forze, una composizione o addirittura una concorrenza;

– limitiamo l’azione provvidenziale ad interventi particolari, esercitandosi per mezzo di colpi di pollice e contrapponendosi alla natura e al determinismo.

La soluzione tomista. Tutto ciò che ha l’essere dipende dal primo Essere, dunque anche dall’orientamento che egli ha voluto dare alla sua opera.

a) La prima radice di tutto è l’essere divino nel quale tutto è e che è tutto eminentemente e virtualmente. Egli conosce nella sua essenza una e semplice il principio delle creature e sa come queste sono, perché esse sono come egli le sa; ciò spiega come in Dio ci siano idee degli individui stessi e si può dire soprattutto di questi. Ecco il fondamento metafisico della provvidenza. Ogni attività è una forma di essere; Dio è tutto l’essere eminentemente e virtualmente, dunque è anche tutta l’azione eminentemente e virtualmente.

b) Dio determina gli esseri a essere ciò che sono, li dà a se stessi quali sono. Quando si tratta delle nature non dotate di conoscenza e di libero arbitrio, esse sono mosse secondo la necessità perché solo in tal modo possono concorrere ad un ordine. Tuttavia per ciò che concerne il loro rapporto col comune principio, la libertà è la loro legge nel senso che Dio li crea liberamente e li orienta per mezzo della loro stessa natura. Poiché tutti gli individui della specie agiscono necessariamente secondo la natura della specie, basta stabilire la legge della specie per stabilire il raggiungimento del loro fine agli individui che la compongono (secondo Étienne Gilson «in questo senso la provvidenza divina può vegliare su ogni passerino senza prendere in considerazione ciò che lo distingue dagli altri», cit., p. 116).

c) Come la libertà è compossibile con l’azione creatrice? Le cose sono in vista dell’uomo, e non viceversa; Dio è il fine dell’uomo e l’universo per mezzo dell’umanità lo raggiungerà. Gli uomini per la dignità della loro natura (intelligenza e libertà) e del loro fine (raggiungere il fine ultimo della creazione nella conoscenza e nell’amore) non sono qui solo per la specie ma anche per se stessi, e dunque Dio vuole e governa ciascuno di essi per se stesso. Egli veglia su ciascuna azione libera particolare di ciascun uomo particolare. L’azione di Dio non è un intervento, ma un’azione di partecipazione, di costituzione dell’autonomia dell’essere creato. Io sono perché Dio è, ma agisco liberamente come se Dio non fosse e non agisse. È perché la nostra libertà che ci fa essere noi stessi è un dono e non una costrizione: la creazione, solo forma di azione divina, è infatti una specie di spontaneità della creatura al richiamo del creatore («vocans ea quae facta sunt et ea quae non sunt; che chiama le cose che sono state fatte e quelle che non esistono)».

Creature immortali, gli uomini non sono solo per la specie, ma per se stessi: precisamente perché liberi, le loro azioni sono imprevedibili e diverse per ciascuno di loro e personali. Come Dio crea il mondo, l’uomo costruisce la sua vita e Dio lo associa al compimento della creazione stessa. Secondo il bel detto di Dionigi – nota Gilson – ciò che vi è di più divino nel mondo è divenire cooperatori di Dio; parole che fanno eco a quelle di Paolo: «Dei sumus adiutores». Ora noi siamo tali non presumendo di aggiungere qualcosa alla somma degli esseri creati – ciò che Dio solo può fare – né lasciando l’essere creato nello stato in cui lo si trovò, ciò che sarebbe non far nulla: arricchire l’essere nostro con la fecondità della nostra attività causale significa compiere le possibilità dell’universo, sostituire ovunque l’attuale al virtuale, cooperare all’opera creatrice.

Dio, causa prima, muove le cause (S. Th., 1, q. 83, a. 1, ad tertium). Così in Dio, eterno presente, vive il mio atto libero che mi rivela a me stesso: il fiat della mia volontà libera ratifica l’atto creatore di Dio che mi ha voluto libero.

LA GNOSEOLOGIA

 La natura della conoscenza

La gnoseologia studia il conoscere in quanto conoscere: essa sorge quando il pensiero si ripiega sopra se stesso e si chiede: cos’è la conoscenza?

La nota essenziale di ogni conoscenza è l’intenzionalità. La intenzionalità (da intendere, tendere in) indica quel rapporto essenziale tra conoscente e conosciuto, per cui abbiamo l’identificazione tra soggetto ed oggetto nella interiorizzazione di questo in quello, ma in modo che l’uno e l’altro rimangano nella loro distinzione e nella loro propria natura («cognitio non dicit effluxum a cognoscente in cognitum, sicut est in omnibus actionibus naturalibua, sed magis dicit existentiam cogniti in conoscente»; la conoscenza non dice l’uscita del soggetto conoscente verso l’oggetto conosciuto – come avviene nelle azioni naturali – ma piuttosto l’esistenza del conosciuto nel soggetto conoscente). «L’anima è come trasformata nella cosa, e ciò per comunicazione della forma, che mettendo in atto ciò che è conosciuto, ne costituisce l’attualità ed è come la sua luce» (Liber de causis, I, 6). È ridicolo cercare l’essere fuori del pensiero, quasi che il conoscere non sia per sua natura conoscere l’essere. Anche quando l’intelligenza conosce se stessa, essa non è intelligibile se non in funzione dell’ente, essendo una vivente relazione all’ente.

Non si coglie il conoscere come un oggetto; non consta la conoscenza; constano gli oggetti; ma nel riflettere che quegli oggetti che constano non sono me (per es., la stufa ha i mattoni rossi) debbo ammettere una loro presenza a me, debbo ammettere che io sono aperto intenzionalmente a quegli oggetti, che c’è fra me e gli oggetti una singolare relazione che chiamo conoscenza o identità intenzionale – non intenzionalità reale come tra un oggetto fisico e le sue modificazioni.

Con Aristotele si distinguono le facoltà conoscitive in base ai piani oggettuali e non viceversa, poiché tutto quello che sappiamo della nostra conoscenza lo sappiamo per riflessione. Si chiarisce così, nella sua concretezza e semplicità, lo schema della gnoseologia aristotelico-tomista:

1- Alle qualità in senso stretto (colori, suoni, odori) che Aristotele chiama «sensibilia per se propria» (le qualità secondarie) e alle qualità primarie o «sensibilia per se communia» (figura, estensione, unità, pluralità, moto quiete) corrispondono i sensi che Tommaso distingue in inferiori (olfatto, gusto, tatto) nel quali prevale la soggettività affettiva, e superiori che sono maxime conoscitivi, ossia più oggettivi e rappresentativi (vista, udito). Rimane vero che per Tommaso la classificazione comune dei cinque sensi è empirica e non ne esclude altre. Le due tappe della conoscenza sensitiva sono segnate dalla «species impressa e species expressa».

2- Per renderci conto del fatto che le estensioni qualificate non ci si presentano anarchicamente, ma configurate con certe relazioni tra loro ammettiamo l’esistenza di altre facoltà sensitive, oltre ai cinque sensi: i sensi interni, che caratterizzano quel superiore e concreto atto di conoscenza che è la percezione, la quale incorpora la sensazione e suppone impliciti intellettivi. I quattro sensi interni sono designati come senso comune, immaginazione o fantasia, cogitativa o estimativa e memoria.

3- Agli aspetti connessi con quello di essere corrisponde la conoscenza intellettiva. I ritmi del conoscere intellettivo sono dunque tre:

– la concettualizzazione mediante l’astrazione («simplex apprehensio intellectualis»);

– il giudicare: nel giudizio il verbo essere afferma che, tra ciò che è designato dal soggetto e ciò che è designato dal predicato, c’è identità reale nella distinzione logica;

– il ragionare o sistemare: nel procedimento di acquisizione e di invenzione il ragionamento umano, moto dello spirito, procede da alcune conoscenza intuitivamente apprese (supremi criteri direttivi della conoscenza e del ragionamento che sono in noi in potenza e che si determinano in conoscenze attuali «per species a sensibilibus abstractas») e poi, nel processo del giudizio, ritorna, mediante l’analisi, ai primi principi per esaminare alla luce di questi i risultati della ricerca.

La sensazione

1- Punto di partenza: il dato dell’esperienza sensibile, la quale mi pone in contatto con la realtà (come il testo e l’apparato filologico mi prepara ad intendere il valore estetico di un poema).

2- Le condizioni senza di cui il conoscere non è possibile:

– oggetto materiale esterno;

– trasmissione (l’oggetto giunge a colpire gli organi);

– nostro organismo corporeo vivente, munito di sensi, di sistema nervoso e capace di assimilare e trasformare gli stimoli esterni.

3- Il momento aurorale della conoscenza si ha quando la modificazione fisica e fisiologica, prodotta da un oggetto materiale sul nostro organismo, diventa sentita: quando cioè quell’attività immanente in cui consiste la vita assimila la modificazione e la interiorizza. La minima delle sensazioni non è dunque da paragonarsi ad una macchina fotografica; noi non siamo lastre che passivamente ricevono, perché è l’azione nostra immanente quella che ci fa sentire.

4- Il ponte fra soggetto e oggetto c’è e consiste in un’azione dell’oggetto sul soggetto e nell’assimilazione (altra azione) dell’oggetto conosciuto da parte del soggetto conoscente. Ma che cosa assimila e interiorizza il senziente?

– La «species sensibile impressa», la forma sensibile dell’oggetto stesso, liberata dalle condizioni a cui è legata nell’organo (prima smaterializzazione); è la modificazione per cui il soggetto diventa conoscente in atto.

– La «forma sensibile expressa», per cui dopo che l’oggetto ha impresso la sua forma nei sensi esterni – species sensibile impressa – questa forma sensibile io me la esprimo in una immagine essenzialmente rappresentativa in quanto «tendit ad rem». Il senziente s’impossessa del sentito, ma pur identificandolo con sé, lo fa presente a sé da sé distinto. Il conoscere è del soggetto conoscente, ma si riferisce alla cosa conosciuta. La sensazione è così subbiettiva insieme ed obbiettiva, modificazione del senziente ed apprensione del sentito. La conoscenza sensitiva nell’uomo non è mai allo stato puro, ma è sempre unita alla conoscenza intellettiva.

La percezione

È l’apprensione di un oggetto qualificato, unificato, di un complesso configurato. Percezione è, per esempio, quella di un albero; sensazione quella di un verde. Oggetto della percezione è la realtà corporea appresa direttamente ed immediatamente. La sensazione coglie ciò che modifica il soggetto, la percezione coglie le modificazioni del soggetto stesso, in funzione dell’oggetto sentito. Nella vita cosciente il prius è dato dalla percezione, non dalla sensazione.

  1. Il senso comune (il «sensus interior» di Agostino) è condizione generale di sensibilità il cui influsso è diffuso ovunque; è la coscienza sensitiva per cui si sente di sentire e suo oggetto sono le sensazioni. Restituisce all’oggetto la sua ricchezza attuale che i sensi «propri» particolari avevano per così dire frammentata; è l’occhio dell’anima senziente volto ad afferrare con un solo sguardo quanto si svolge dentro di noi e ciò che i sensi particolari vedono da diversi lati.
  2. Fantasia o immaginazione si ha quando nell’organo sensoriale non si imprime più la forma dell’oggetto (species impressa) e l’immagine che l’ha espressa (species expressa) viene virtualmente conservata ed utilizzata nell’assenza dell’oggetto. Le immagini possono essere riguardate nella relazione che per loro natura hanno con il reale: si ha allora una fantasia riproduttrice; riguardate nella loro entità puramente soggettiva ci danno le fantasticherie, i sogni, le allucinazioni; liberamente associate in nuovo ordine possono, sotto l’influsso delle facoltà superiori, dare origine a nuove immagini: è la fantasia creatrice dei moderni. Notevoli i passi tomisti sull’associazionismo (De memoria et reminiscentia, lectio V; le immagini si uniscono: «ratione similitudinis, propinquitatis vel societatis, loci et temporis, contrarietatis (con l’idea di somiglianza, vicinanza o unione, di luogo e di tempo, di opposizione)». Hume era preceduto di parecchi secoli).
  3. La cogitativa o estimativa è la facoltà istintiva di riguardare le sensazioni non più dal lato conoscitivo, ma dal lato affettivo e pratico, in funzione delle necessità vitali della conservazione biologica. La cogitativa ha il compito di vagliare (coagitare) e apprezzare in concreto il contenuto dell’esperienza col concorso delle altre potenze infrarazionali. Su questo particolare terreno Tommaso aderisce al pragmatismo.
  4. La memoria sensitiva è lo scrigno degli apprezzamenti sensibili; ha per oggetto l’intenzione di rivivere un’immagine del passato, intenzione che di per sé supera il senso (ratio preteriti – idea, immagine del passato). Reminiscentia è l’attività, propria dell’uomo, per far tornare a galla ricordi scomparsi dalla memoria sensitiva. Procede «ex prioribus memoratis (dalle prime cose ricordate)», si avvale delle leggi dell’associazionismo, esige sforzo volontario e concentrazione. La conoscenza intelligibile e l’autocoscienza sono l’essenza e il compimento dell’umano conoscere.

La conoscenza intellettiva

Noi nasciamo allo spirito in mezzo alle cose, ma se il pensiero è preparato da queste non ne è il prodotto: è una creazione originale di cui si deve conoscere la causa propria, senza dimenticare che vi sono cause antecedenti e concomitanti. «Nihil in intellectu quod prius fuerit in sensu (Nulla vi è nell’intelletto che prima non fosse stato nella sensazione)», tranne l’intelletto stesso.

Tommaso combatte la tesi averroista dell’unità dell’intelletto attivo, per cui l’intelletto è in un certo senso prestato agli uomini per la durata della loro vita, ma non appartiene a nessuno in particolare. Secondo Tommaso, se si suppone un’iniziativa esteriore all’uomo per lo sbocciare in lui del pensiero, essendo questa iniziativa il punto di partenza di tutto il processo mentale e volontario, ne segue che l’uomo non è più all’origine delle proprie azioni, non pensa e non agisce quando vuole: così perisce ogni scienza morale e ogni commercio politico. L’attività intellettuale è attività interna di cui i fantasmi e l’intelletto potenziale sono la materia; questa attività non può essere estranea sostanzialmente alla persona, ma le è immanente, se non si vuole fare del conoscere un miracolo. Ogni essere naturale ha ricevuto nascendo i principi sufficienti delle proprie operazioni; il pensiero è una operazione propria dell’uomo che lo definisce uomo; dunque l’uomo ha in sé la propria luce e il proprio dinamismo essenziale. Se Socrate e Platone hanno uno stesso intelletto, Socrate è uguale a Platone e la differenza tra i due sarebbe dello stesso genere di quella che passa tra un uomo vestito di tunica e uno vestito di cappa, e ciò è superficiale e falso. Dio e l’intelletto attivo personale generano il pensiero.

L’intelletto passivo è in potenza a ricevere alcunché, acquistando perfezione nel suo passare dalla potenza all’atto; oggetto dell’attività intellettiva è l’essere nella sua universalità rispetto al quale solo Dio è in atto; quindi ogni intelletto creato sta con gli intelligibili nel rapporto di potenza ad atto. Siamo tabula rasa, la quale dunque è potenzialità e non nullismo. L’intelletto è potenza pura e non ha una natura del genere di quella che deve conoscere: ciò attesta la sua spiritualità. L’intelletto passivo è tale non perché non agisca, se è vero che può diventare tutte le cose («anima fit quodammodo omnia – l’intelletto diviene in qualche modo tutto»), attuandosi nelle singole conoscenze per l’azione che su di esso esercita l’intelletto agente, che rende in atto gli intelligibili in potenza, astraendo le specie dalle condizioni materiali. Esso è una certa partecipazione a una somiglianza della luce increata, nella quale sono contenute le ragioni di tutte le cose (è ben chiaro che per Tommaso quelle ragioni eterne non esistono che sotto la forma dell’unica essenza divina). «Nella luce dell’intelletto agente ogni scienza è in un certo modo infusa» (De Ver., X, a. 6). L’intelletto agente illumina i fantasmi o immagini con un processo di mirabile intuizione astrattiva, mediante il quale assurge al concetto («species o forma intelligibilis»), al concetto formulato ed espresso o Verbum mentis.

Come si conquista il concetto

Conceptus deriva da concipere, cum capere, afferrare (così come in tedesco Begriff deriva da greifen, afferrare). Che cosa afferra il concetto? Il significato di una realtà. Risponde alla domanda – cosa è? – con cui Socrate tormentava i suoi interlocutori.

Ripudiamo il concetto di tutte quelle correnti di pensiero che sostengono il concetto di realtà come organicità, come dinamicità (per le quali il concetto è un artificio per fissare ciò che in realtà è sempre in movimento), relatività e problematicità, soggettività variamente intesa.

I surrogati del concetto sono stati allora contrabbandati come merce di prima qualità.

a) Il razionalismo ricorse alle idee innate. L’idea innata antecede la realtà e non può capire cos’è la realtà e, se ci fosse, non potrebbe offrire nessuna garanzia di rispondenza alla realtà. Il ricorrere poi alla tesi (si veda Rosmini) che pensare è giudicare, sintetizzare l’idea innata col fenomeno sentito o percepito è un cadere nella fenomenizzazione del reale ed è una scappatoia: se pensare non fosse analizzare la realtà, non afferrerei mai la natura di essa. L’idea innata mi dà una universalità senza rapporto immediato con la particolarità.

b) L’empirismo vi sostituisce l’immagine. Essa mi lascia all’esteriorità, alle note generali, al quia; coglie il simile, non l’identico, l’essenziale. L’immagine mi orienta verso la passività, il concetto è generato dall’attivismo dell’intelletto.

c) L’a priori kantiano è soggettivazione del reale, non spiegazione. Se non si vuol negare un significato preciso a parole come azione, vita, intuizione, storia, bisogna pur sapere che cosa vogliono dire, ossia di quelle parole dobbiamo servirci per esprimere altrettanti… concetti.

Per arrivare al concetto parto da una realtà sperimentata (es.: un circolo, un articolo del codice, un fenomeno economico). Il mio intelletto prende quella realtà particolare come rappresentante di tutte le realtà che hanno quella speciale natura: quel circolo mi rappresenta il circolo, ecc. Questo primo passo si chiama astrazione totale perché prescinde da tutte le singolarità materiali concrete, dalle condizioni temporali e spaziali, dalla materialità dell’oggetto, del fatto sperimentato.

L’astrazione formale è la liberazione dell’intelligibile dal sensibile, della forma dalla materia per cogliere della realtà l’elemento essenziale. Quella essenza esiste individualizzata e non può non esistere che così e perciò nulla vi ha di maggiormente reale e concreto dell’universale astratto, nel reale sperimentato e compreso, vera ratio rei, elemento specificatore identico di un essere in un determinato ordine, principio fondamentale della sua costituzione entitativa.

Non è vero che l’antropologia condiziona l’ontologia e che il principio tomista «quidquid concipitur ad modum concipientis (qualunque cosa è figurata come l’immagina chi la pensa)» ci getti nel baratro del relativismo. L’antropologia condiziona l’ontologia «quoad modum concipientis», non «quoad rei conceptae» (quanto al modo di chi immagina, non della cosa immaginata). Ad esempio, un sordomuto si esprime a segni e io distinguo l’id quod dicit dal modus col quale si esprime.

I moderni conoscono e criticano e usano non l’astrazione filosofica, ma quella isolatrice o distinguente, che conduce alle associazioni delle immagini e mai al concreto, separando parte da parte e credendo di scoprire elementi comuni ed elementi propri; procedimento che ha i suoi vantaggi nel campo delle scienza, ove si applicano leggi e formule, ma non ha alcun valore filosofico.

I concetti metafisici non ci possono dare la definizione causale della realtà sensibile, con procedimenti alla don Ferrante. La «quidditas a rebus sensibilis abstracta (l’essenza, la forma astratta dalle cose materiali)» non è l’essenza del… ferro o delle zucche: non si penetra l’essenza di una cosa materiale, ma si può solo designarla descrittivamente col nome della sua proprietà. Noi conosciamo il singolare ma sempre riferendo i nostri concetti all’esperienza da cui li abbiamo tratti: e il singolare può essere immateriale, come ad esempio l’autocoscienza.

L’autocoscienza

Eraclito, in un frammento (fr. 45: «Per quanto tu possa camminare, e neppure percorrendo intera la via, tu potresti mai trovare i confini dell’anima: così profondo è il suo lógos») ricordato da Tertulliano, afferma non potersi i termini dell’autocoscienza raggiungere per alcun viaggio, così profonda ragione essa ha.

L’anima dell’uomo non è mai per se stessa un oggetto di conoscenza, ch’essa potrebbe apprendere come una cosa; ma un soggetto attivo, la spontaneità del quale rimane sempre al di là della conoscenza che egli ha di se stesso. «Animus ad habendum seipsum angustus est (l’anima è troppo angusta per contenere tutta se stessa)», aveva già lapidariamente chiarito Agostino, spiegando il motivo ontologico della profondità del nostro spirito nell’essere «imago Dei». Gli agostiniani, incoerentemente, sostennero che l’anima si conosce per sua essenza dopo aver sostenuto che la sua stessa perfezione ne rende l’essenza inaccessibile.

L’intelletto umano è la capacità di conoscere costitutiva dell’uomo (=intelletto possibile). Ogni ente è conoscibile in quanto in atto: l’intelletto umano è come un ente in potenza; se ne deduce che, per sua natura, ha la capacità di conoscere, ma non quella di essere conosciuto da se stesso, se non quando diventa intelligenza in atto (I, 87, art. 1). Il nostro intelletto si conosce ritornando su quella presenza intenzionale di un oggetto che lo fa intelligente in atto: l’anima conosce se stessa per riflessione sull’atto per il quale essa conosce il sensibile («anima cognoscit seipsam per suum intelligere»).

Le realtà spirituali sono materia di scienza solo a titolo di causa: si noti però che la conoscenza di sé nei suoi atti («Socrate sa di avere un’anima intellettiva perché sa – percipit – di intendere») non è per l’uomo una conoscenza argomentativa. Non ragioniamo così: se c’è un atto, ci dev’essere il soggetto di quell’atto. L’atto di pensiero mi è dato come in me, di me, da me e cogliendo un nostro atto di intendere o di volere conosciamo immediatamente, per la stessa presenza dello spirito, l’io come soggetto determinato da quell’atto.

Per riflessione sui suoi atti e mai per la sua essenza, l’anima studia da un punto di vista teoretico ed universale la sua natura. Ma a ciò non basta che l’anima sia immediatamente presente a se stessa; occorre una ricerca diligente e sottile, perciò molti ignorano o disconoscono la natura, l’essenza dell’anima. Possiamo osservare che la prima forma di autocoscienza è necessaria per l’uso pratico della conoscenza di sé, la seconda forma è di carattere speculativo, filosofico. «L’immagine di Dio si trova nell’anima, in quanto essa si innalza verso Dio, o in quanto la sua natura le permette d’innalzarsi verso di Lui» (I, 93, 8).

Il giudizio e la verità

Noi percepiamo l’esistente; quando vogliamo chiarire che cosa esso sia, dobbiamo esprimerci con concetti astratti. L’atto del vedere se quei concetti che esprimiamo sulla realtà percepita, e che sintetizziamo per coglierla sempre più da vicino, corrispondono veramente a ciò che percepiamo, dicesi giudizio.

Il giudizio presuppone sia la percezione della realtà esistente sia la conoscenza concettuale. Con la «comparatio ad rem» che si compie nel giudizio si ritorna sulla percezione e sulla conoscenza concettuale e si prova sulla realtà più accuratamente studiata la sintesi dei termini anteriormente conquistati. Questo per le verità di fatto. Se si tratta o di verità ideali o di verità necessarie, il punto di partenza, anziché essere una realtà percepita hic et nunc, è una realtà astratta da analizzare ulteriormente («natura absolute considerata»), sebbene ogni soggetto astratto derivi dal concreto e sia riconducibile ad esso mediamente o immediatamente. «L’apprensione semplice di qualche verità intorno a un ente non è in nostro potere, avviene infatti in virtù di una luce naturale». L’atto della ragione è quello col quale dà l’assenso a ciò che apprende.

Se l’oggetto appreso è tale che l’intelletto necessariamente, per sua natura, debba assentire (come per i primi principi e per tutte le verità motivate da un’evidenza oggettiva), l’assenso è sottoposto al comando della natura. Quando certi oggetti appresi non convincono l’intelletto al punto da lasciargli il potere di assentire o dissentire, in tali casi l’assenso o il dissenso cade sotto il comando della volontà. Quando lo spirito non solo vede la verità obiettiva e vi aderisce spontaneamente, ma ne è consapevole e si rende conto del perché e del come si è prodotta la determinazione dell’intelligenza, l’adesione diretta si converte in convinzione riflessa e la certezza raggiunge il grado di certezza scientifica.

In che cosa consiste allora la verità? La parola verità in Tommaso presenta tre significati diversi.

a. Un significato proprio ed assoluto, ontologico: «vero è ciò che è (verum est id quod est)», come aveva chiarito Agostino. L’essere è la condizione fondamentale senza di cui nessuna verità sarebbe possibile.

b. Formalmente la verità «est adeguatio rei et intellectus» ovvero accordo ontologico dell’essere con l’intelletto come tra l’occhio e il colore, «est rectitudo sola mente percepibilis» (Anselmo) perché è ben reale quest’adeguazione e questa dirittura di un pensiero, il quale concepisce che ciò che è è e ciò che non è non è.

c. La verità logica appartiene al giudizio in quanto manifesta e dichiara l’accordo già avvenuto tra l’essere e l’intelletto («ostendit id quod est»). Si obietta: l’intelletto non può paragonare la cosa qual è, che gli sfugge, alla cosa quale se la rappresenta.

Risposta: nessuno ha mai inteso paragonare la rappresentazione di una realtà appresa a quel fantasma che è per noi la cosa fuori da ogni rappresentazione. È l’essenza dell’intelletto poter tutto divenire per via intelligibile, per l’astrazione dell’intelligibile dal concreto: l’intelletto può dunque affermare che un ente è e che è questo piuttosto che quello perché l’essere intelligibile di quell’ente è divenuto suo. Il giudizio non è conforme all’ente, se non perché l’intelletto che l’esprime è divenuto esso stesso prima conforme all’essere della cosa. L’adeguazione che il giudizio stabilisce presuppone l’adeguazione anteriore tra il concetto e l’ente concreto appreso e la rende più esplicita. Noi non troviamo i nostri giudizi nelle cose, e appunto per ciò non sono infallibili, ma l’adeguazione del concetto di una realtà a quella determinata realtà è, in condizioni normali, reale. La verità si trova principalmente nell’intelletto umano, ma anche negli enti rapportati a un intelletto. Anche se l’intelletto umano non esistesse «adhuc res dicerentur verae in ordinem ad intellectum divinum (inoltre le cose si riterrebbero vere in ordine all’intelletto divino)»: l’azione creatrice divina, generando gli esseri, comunica loro per ciò stesso una verità, che è loro inerente: quella della loro entità a cui l’intelletto creato dell’uomo si sente adeguato. E così non ci sarebbe intellezione se l’oggetto sensibile della conoscenza non fosse dotato dalla propria intelligibilità.

La posizione realistica e umana difesa da Tommaso giustifica il valore della conoscenza delle creature e conduce ad una implicita revisione critica e ad uno sviluppo organico del platonismo agostiniano ed in particolare della teoria dell’illuminazione. Per il tomismo, come per l’agostinismo, noi non conosciamo la verità che nelle Idee divine e alla luce del Verbo che rischiara. Per Tommaso l’illuminazione consiste precisamente nel dono fatto da Dio all’uomo, creandolo, di un intelletto sufficiente a produrre la sua verità, di una luce naturale, di un intelletto agente, che, come l’intelletto aristotelico, è capace, al contatto con l’esperienza sensibile, di intuizione astrattiva e di generare i primi principi con l’aiuto dei quali costruirà gradatamente il sistema delle scienze; ma, come il pensiero agostiniano, è capace di generare le sue verità perché è una partecipazione della Verità, è immagine di Dio, secondo un modo analogico.

Così noi raggiungiamo le Idee di Dio per l’interposizione di un intelletto che esso stesso è una somiglianza partecipata alla luce increata in cui le Idee sono contenute. In questo senso il salmista può dire: «Signatum est super nos lumen voltus tui, Domine»: «noi conosciamo ogni cosa per l’impronta stessa della luce divina in noi». Le idee divine non sono dunque l’oggetto della nostra conoscenza intellettiva (il che equivarrebbe a vedere Dio in se stesso), ma la causa efficiente della verità ontologica e della nostra conoscenza.

Precisazioni e sviluppi

1) La conoscenza del singolare. «Quest’uomo» non potrebbe essere conosciuto come «uomo», se non mediante un concetto universale, e non potrebbe essere intuito come «questo» se non con un’intuizione sensibile: «singulare dum sentitur, universale dum intelligitur». «Al singolare non ripugna di essere conosciuto intellettualmente in quanto è singolare, ma in quanto è materiale; e perciò se qualcosa è singolare e immateriale, come l’intelletto, non è impossibile che sia conosciuto intellettualmente» (I, q. 86, art. 1, ad 3. um.). L’universalità del concetto non soffoca il concreto, specie quando l’universale è concepito in re, nella struttura stessa del concreto ed in funzione della conoscenza di esso. In sé il particolare è oggetto di scienza, ma non è tale per noi: nei rapporti umani vi si supplisce con l’osservazione e l’amore.

2) Dal più universale al meno universale (I, q. 86, art. 3). Anche sensitivamente prima ci sono noti gli aspetti più comuni delle cose e poi quelli più particolari e determinati. Ancor più chiaramente si svolge il processo dal più universale – che è il più indeterminato – al meno universale nella conoscenza intellettiva, perché ogni processo conoscitivo è un passaggio dalla potenza all’atto, e prima si perviene all’atto imperfetto che al perfetto. Dunque il primo concetto dell’intelletto nostro è il concetto più universale: quello di essere, conosciuto «sub quadam confusione», come ciò che è comune a tutte le cose, oggetto formale cioè aspetto sotto cui sono considerate tutte le cose che l’intelletto conosce. L’oggetto dell’ontologia è invece il concetto di essere in quanto essere.

3) La riabilitazione del sensibile. Il concetto di ente, sebbene ricavato per la prima volta dalle realtà materiali, si estende a tutto l’essere; l’intelletto umano, il diritto, si estende perciò a tutto l’essere, anche se l’oggetto proprio dell’intelletto nella vita presente è la quidditas rei materialis (l’essenza della realtà sensibile). L’unione dell’anima col corpo è un’unione naturale e la condizione umana che risulta da questa unione è uno stato naturale; il modo di conoscenza che ne deriva è un modo di conoscenza naturale per astrazione dal sensibile. Lo spirito è una realtà positiva per cui pensiamo e amiamo, ma noi non riusciamo a concepirlo se non come un ente senza materia. Di qui la premessa della teologia tomistica: un intelletto, la cui conoscenza poggia naturalmente sulle cose sensibili, non potrebbe avere naturalmente Dio per oggetto, dunque l’esistenza di Dio non è immediatamente evidente per noi. Di qui l’osservazione tomista secondo la quale i nostri concetti debbono sempre mantenere una certa riferibilità all’immagine: e l’immagine è strumento dell’analogia, per la quale possiamo pensare ed esprimere le più alte verità della ontologia e della metafisica.

La riabilitazione dell’ordine sensibile operata da Tommaso e da Duns Scoto, che pure era agostiniano, sventò la tentazione idealistica di Platone da cui fu immune Agostino ma non la maggior parte degli agostiniani: se la causa che fa della nostra conoscenza una scienza non sono gli esseri ma le idee e se le idee non dipendono dagli esseri perché anzi ne sono l’opposto, l’intelletto può conoscere, conoscendo le idee, anche se gli esseri non esistono; si perviene così ad uno scetticismo completo riguardo al mondo dei corpi, scetticismo incompatibile con al visione cristiana.

LA PSICOLOGIA

La spiritualità dell’anima: posizione storica

a) Il materialismo

Viene stabilito un rapporto di causalità e d’identità tra stato cerebrale e stato psicologico; la coscienza si identifica con la fosforescenza cerebrale. Per Feuerbach l’uomo è quello che mangia, mentre per Vogt come i reni l’urina così il cervello secerne il pensiero. Ridicole e fallimentari furono le ricerche intraprese sul peso assoluto dei cervelli (l’elefante sarebbe tre volte più intelligente dell’uomo, mentre Napoleone e Raffaello delusero per il poco cervello) e sul peso relativo del cervello (il cervello dei pesci è ricchissimo di fosforo; nel cervello dei pazzi c’è l’identica quantità di fosforo dell’uomo normale, ecc.).

b) Il positivismo

Secondo Ardigò spirito e materia sono reduplicazione d’una medesima sostanza.

c) Il fenomenismo

Per David Hume, se gli atti e le impressioni sono differenti, sono pure separabili, quindi non hanno bisogno di alcuna sostanza comune. L’io è collezione, flusso, fascio di fenomeni, palcoscenico delle apparizioni delle molteplici impressioni le quali poi passano unendosi in una infinita varietà di situazioni. Analogamente George Berkeley ritiene la mente un ammasso di percezioni e Hippolyte Adolphe Taine l’io un «polipier d’images en dependance mutuelle». Secondo Cartesio l’idea non è più l’id quod e l’id quo intelligitur, ma fenomeno colto dall’intelletto; il pensiero è definito «cogitationis nomine complector illud omne quod sic in nobis est, ut immediate consci sumus (intendo con il termine pensiero tutto ciò di cui noi siamo subito consapevoli non appena è in noi)». Si parla di sostanza pensante, ma l’unità coscienziale sostituisce il concetto di realtà sostanziale. In Locke il pensiero equivale a successione e combinazione di immagini; l’identità personale è unità di coscienza; la persona viene definita come un’idea complessa di relazione tra un io presente e un io passato, la cui continuazione è affidata alla memoria; la sostanza pertanto diviene la finzione di un sostegno a cui ineriscono delle qualità al modo stesso che l’elefante del filosofo indiano sostiene la terra. La persona per il fenomenismo è un puro nome che noi conserviamo come una nave conserva il suo nome anche quando dopo un po’ di anni tutti i pezzi che la compongono sono stati rinnovati; teoria già confutata dalla battuta buffonesca di un antico commediografo greco in Sicilia: al creditore che era venuto a ridomandare il suo, un tale rispondeva che egli, quando molti anni prima aveva ricevuto il prestito, era altro da quello di adesso. Si rivolgesse dunque il creditore a quell’altro. Di quell’altro non intendeva egli rispondere.

d) Il kantismo

Solo il che (dass) del mio esistere è presente al mio atto appercettivo; ignoro l’essenza dell’io. L’io è rappresentazione vuota di contenuto, non è un concetto, ma la semplice coscienza che accompagna tutti i concetti, unità coscienziale sintetizzatrice distinta dalla coscienza empirica o senso interno, la cui forma è il tempo. Non possiamo applicare all’io penso il concetto di sostanza spirituale se non operando un saldo dall’ordine logico (l’essere pensante è concepibile solo come soggetto) a quello reale (dunque esso esiste come soggetto sostanziale). Abbiamo il soggetto-funzione di conoscenza, non il soggetto-sostanza reale.

e) L’idealismo

L’io empirico (uomo concreto o nulla) e il cireneo dell’io trascendentale o assoluto: l’individuo reale positivo è un’astrazione, un concetto assurdo.

Osservazioni critiche su materialismo, fenomenismo e kantismo

Perché si negò l’idea di sostanza? «Per un equivoco – risponde Rosmini (Nuovo Saggio) –; si credette che poter dire d’avere un’idea di sostanza si richiedesse di più che veramente non si richieda. Infatti, basta conoscere che la modificazione domanda un soggetto modificante: ebbene questo soggetto è una realtà sostanziale. Voi direte: questo soggetto io non so chi sia. E certamente non lo saprete mai in via positiva, se lo spogliate delle sue proprietà, dei suoi effetti, delle sue modificazioni. Pure in tale caso ne avreste ancora l’idea, perché sapreste le relazioni che questa incognita ha con ciò che voi conoscere». Il senso comune designa le sostanze per quei nomi applicati a tutti gli esseri che l’uomo percepisce e che in grammatica si chiamano sostantivi. L’ente da noi percepito e conosciuto intellettivamente è una sostanza non immaginaria, ma reale, nel suo reale farsi presente alla nostra consapevolezza. E l’uomo non conosce solo corpi ma anche realtà spirituali e, prima fra queste, la sua anima.

a) Inconsistenza del materialismo

L’equivalenza fra atomi cerebrali e coscienza o tra cibi ingoiati e intelligenza non è stata mai dimostrata; nel suo semplicismo dogmatico l’ipotesi materialista contrasta con l’esperienza umana più elementare. Ad esempio, i concetti che l’uomo si forma anche delle cose materiali sono immateriali e l’analisi di ogni concetto è una confutazione del materialismo. Platone (Fedone, XLVII) denuncia la confusione materialistica tra la causa e i mezzi o le condizioni senza di cui la causa mai non sarebbe causa: il pensiero ha bisogno del cervello per esprimersi, non per essere (uno stato cerebrale è ciò che vi è di azione nascente nello stato psicologico, nulla di più).

b) Note sul fenomenismo

– I fenomenisti sono tratti in inganno dall’immagine spaziale suggerita dall’etimologia di sostanza. È un idolum fori che ha avuto disastrose conseguenze.

– Avendo bandito l’idea di sostanza, conseguirono lo stesso effetto di sostanzializzare gli accidenti e gli atti secondi, moltiplicando di fatto in ridicole sostanze gli stati di coscienza, le sensazioni, il divenire, ecc.

– L’illusione dei fenomenisti sta nel credere di definire l’io senza dirci ciò che dà unità alle percezioni e alla coscienza. Le loro definizioni dell’io sono senza l’io che dovrebbero definire.

– Il fatto dell’unità di coscienza faceva invocare a Hume il «privilegio dello scettico» per non rovesciare la sue posizioni filosofiche. È certo che l’io ha unità, ma come si giustifica tale unità?

L’unità di coscienza manifesta la natura spirituale dell’io (quel farsi tutte le cose da parte dell’anima, rimanendo nella propria sostanziale identità vivente, la quale si svolge e si arricchisce senza che per questo muti quel suo primo atto di essere che l’ha costituita), ma non la realtà ontologica dell’anima spirituale. Ogni liason non è che un simbolo dell’io: l’io è irriducibile all’addizione dei fatti di coscienza e alla stessa unità coscienziale. Contro gli empiristi Kant osserverà che da un mucchio di sensazioni slegate non verrebbe mai fuori una unità, se questa non fosse presupposta alle singole sensazioni. Ma Kant riuscì a giustificare nel suo sistema l’unità di coscienza?

c) Note sulla posizione kantiana

  1. Si potrebbe interpretare tomisticamente la prima affermazione: non conosciamo l’anima dalla sua essenza, se Kant non avesse precluso all’uomo la conoscenza della sua realtà spirituale per un pregiudizio sensistico. Kant vide chiaramente che «ogni nostra conoscenza comincia con l’esperienza», ma commise l’errore di prendere «per sinonimo ordine fenomenico con ordine sperimentale ed ordine noumenico con ordine a priori. All’incontro – notava il Rosmini (Storia comparata e critica dei sistemi intorno al principio della morale) – l’esperienza non domina solo nell’ordine fenomenico, ma pure nell’ordine noumenico, dandoci ella sola i primi dati di entrambi». E Giuseppe Zamboni rimprovera giustamente a Kant di non aver preso in esame nel loro valore conoscitivo i sentimenti, la volontà e la coscienza morale in cui l’io si manifesta soggetto e principio e non spettatore ed unità sintetica.
  2. Imprigionato dal suo nemico, il sensismo, Kant limitò l’uso della ragione alla sua attività trascendentale (l’autocoscienza dell’unità di coscienza) senza pervenire a qualche risultato positivo nella conoscenza dell’anima come sostanza spirituale. E l’autocoscienza kantiana è un caso imbarazzante per Kant; non è un’intuizione, perché non è sensibile, non è concetto perché non è risultato ma presupposto di ogni concetto.
  3. Non c’è un salto dal concetto di realtà ontologica dell’anima alla realtà ontologica dell’anima. Ogni pensiero è pensiero di un ente capace di pensare, di una realtà spirituale da cui emana l’atto del pensare. La sostanza è la radice stessa dell’azione: non si può spiegare una funzione conoscitiva senza un soggetto reale di tale funzione. L’agire qualifica l’agente. Ed è strano che dall’eccessivo rilievo dato ai presupposti sensistici, Kant sia poi passato ad attribuire, senza alcun fondamento, al pensiero umano la funzione creatrice dell’intelligibilità, che si deve riserbare solo a Dio. Forse non solo la filosofia pratica kantiana, ma anche la parte costruttiva della Critica della Ragion pura è espressione di un fideismo tanto nobile nella intenzione quanto tutto da verificare per un pensiero veramente critico. Il tomismo non cerca le prove della sostanzialità spirituale dell’anima – da Kant giustamente scartate – ma nel modo con cui conosciamo gli stessi corpi e nell’analisi dell’attività conoscitiva dell’uomo.

Realtà ontologica e spiritualità dell’anima

«L’anima è il principio per cui primariamente viviamo, sentiamo, intendiamo» (Aristotele, De Anima, II, 2, 414 a, 12-13). L’anima è sostanza spirituale, semplice, sussistente per sé, nel significato importato dalla concezione aristotelica delle sostanze come sinolo di materia e forma. È sostanza spirituale, realtà spirituale nel suo primo «actus essendi» che fa l’unità dell’essenza e dell’esistenza, attualizzando le perfezioni contenute nell’essenza di uomo in questo uomo. Anima è quell’atto primo e sostanziale con cui ho cominciato ad essere e che fa di me un individuo piuttosto che un altro; l’uomo non comincia ad essere due o più volte ed in tal senso metafisico l’io sostanziale è sempre lo stesso, essendo irripetibile il suo atto di essere. Identica a se stessa («in se ipsa manens») l’anima cresce senza moltiplicazioni di parti e distensione di quantità, nella sua natura; non è sempre in atto rispetto alle sue operazioni o atti secondi (in cui è immanente, sebbene non in ognuno secondo tutta la sua virtù), ma l’atto primo costitutivo dell’essere umano non si può ridurre ad una pura potenza (che è qualcosa di negativo e piuttosto un rudimento di essere). Tutti gli atti rimandano ad un atto primo, ad una radice ontologica: i miei atti non sono la mia anima, ma la qualificano. Noi siamo mutevoli in quanto durevoli in continuità di vita.

La spiritualità dell’anima si esprime nella capacità a conoscere tutti i corpi, nella conoscenza dell’universale, nell’intendere. «Agere sequitur esse; quod habemus hoc sumus»: gli atti manifestano e qualificano la natura delle potenze dell’anima e dell’atto primo dell’essere da cui ed in cui sono le potenze e gli atti particolari che le qualificano. Ora è evidente che l’uomo può conoscere la natura dei corpi; per conoscere la natura dei corpi il soggetto della conoscenza non deve avere nella sua natura nulla dei corpi che conosce; se lo avesse, non potrebbe conoscere tutti i corpi, perché ogni corpo ha una sua natura determinata. È impossibile che il principio dell’attività intellettuale conosca per mezzo di un organo corporeo perché la natura specifica di quell’organo corporeo impedirebbe di conoscere gli altri corpi: l’anima umana intellettiva è dunque spirituale ed autonoma. Se esistono esseri corporei che pensano il principio della loro attività conoscitiva, non si trova nella loro corporeità.

Un’altra prova della spiritualità dell’anima è la scoperta di qualsiasi concetto, che l’uomo si forma anche delle cose materiali e, a fortiori, di essere, verità, bene, ecc. All’immagine generale di carattere estrinseco giunge anche l’animale, alla scoperta del concetto universale solo l’uomo. Se dall’immagine dei vari colori delle cose vedute io passo al concetto di colore, devo indicare ciò che costituisce la nota identica di tutti i colori (la qualità che rende visibili gli oggetti). Posso rappresentare questo o quel colore, non il colore. Il concetto si pensa. Anche se è conquistato per astrazione dell’intelligibile dal sensibile, il concetto appartiene soltanto al regno dello spirito; pur mantenendo sempre una certa riferibilità all’immagine, nessun concetto si può spazializzare.

Infine l’uomo sente e intende, sente perché è animale, intende perché è uomo; tanto nel sentire ci vuole l’anima quanto per intendere, ma con questa notevolissima differenza: che l’anima nel sentire è bensì agente principale, ma agisce in unione all’organo corporeo, mentre nell’intendere l’anima è tutto e non ha organi. Il pensiero ha bisogno del cervello per esprimersi, non per essere e l’attività cerebrale sta a quella mentale come – scriveva Bergson – i movimenti delle bacchette del direttore d’orchestra stanno alla sinfonia: la sinfonia supera da ogni lato i movimenti che la scandiscono.

(Se il cervello di Dante o di Marconi non avesse funzionato attivamente non avremmo di certo la Divina Commedia o la radiotelegrafia. Ma il medesimo ritmo specialissimo di quel funzionamento, durante la composizione del poema e la scoperta e il perfezionamento della radio, è opera originaria della coscienza, dell’anima tutta sospesa alla potenza creativa che produce ciò che prima non era. È ridicolo voler spiegare con criteri di quantità, a forza di vibrazioni di cellule nervose, ciò che è assolutamente qualitativo: dal meno non si ricava il più, come la conoscenza e l’amore, del tutto diverso da quel meno che, in questo caso, è il corpo).

Potenze dell’anima

a) «Una est essentia animae, sed potentiae plures»: uno è l’essere sostanziale, molteplici le sue operazioni. Io sono, ma sono io che vivo, sento, penso, amo. Unità non immota, non irrelata, e le potenze non la dividono e non la moltiplicano. L’atto primo di essere è l’universale principio di ogni essere «virtualiter in se omnia praehabens», onde è partecipato non come parte, «sed secundum diffusionem processionis ipsius» (contenendo virtualmente in sé, ma mediante l’esercizio della sua causalità).

b) La distinzione tra le potenze è reale. Ciò spiega quei fatti che costantemente ci mostrano il limite metafisico della nostra unità. Se l’intelligenza fosse tutta l’anima e la volontà fosse pure l’anima, come mai si spiegherebbero i conflitti tra l’una e l’altra facoltà? e le incoerenze? Non si può giungere ad una perfetta scienza morale se non conosciamo le potenze dell’anima come realmente distinte, pur nella loro reciproca, parziale immanenza. Le potenze, cause efficienti degli atti particolari, a cui concorrono necessariamente le cause occasionali, si diversificano e si conoscono quando si compiono in atto.

c) Arricchire le potenze significa arricchire lo spirito: di qui l’importanza dell’esercizio che forma gli Se c’è rassegnazione alle forze impersonali prementi in noi o su di noi si creano le abitudini passive. Nel suo significato attivo habitus è dominio dello spirito su se stesso in rapporto a tutto ciò che entra nella sua esperienza.

d) La legge di unificazione. Per la realtà preminente e onnipresente dell’anima, difficilmente noi esercitiamo una potenza alla volta. Le potenze confluiscono le une nelle altre ed una stessa virtù può essere presente in più potenze sebbene non egualmente: «in una principaliter, in alia vero modum dispositionis, vel diffusionis, vel directionis, vel motivi». Dall’uso sregolato di questa stupenda legge di unificazione deriva il pericolo di veder conferita la forza direttiva propria dell’anima spirituale alle potenze inferiori. La profondità dell’anima umana e la sua aspirazione all’infinito si possono pertanto constatare anche nelle facoltà inferiori dell’ordine sensitivo. «Noi assistiamo allora allo sciagurato spettacolo di una facoltà superiore impazzita che sventuratamente influisce sulle altre. È una triste prova, ma tuttavia è una prova della spiritualità dell’anima». E questa ci pare la risposta da dare a Pietro Pomponazzi, il quale vedeva un’istanza capace di intaccare la natura spirituale dell’anima nel fatto che i più vivono immersi nelle funzioni vegetative e sensitive, quasi senza sospetto di una vita superiore. Sotto l’aspetto psicologico ed etico l’uomo si fa uno, non cessando mai di combattere per conquistare la sua unità.

Anima e corpo

L’uomo è una unità data come tale. Come spiega la filosofia siffatta unità? L’uomo è un tutto che sussiste veramente in una unità naturale del corpo vivente e dell’anima spirituale.

Il corpo è l’organismo tutto proprio adatto all’uomo, in cui la diversità degli organi e delle funzioni è tanto più grande quanto più completo è il principio vivente. «Questa carne e queste ossa costituiscono un uomo perché sono informate dalla forma dell’uomo: sono cioè organizzate in modo tale da servire ai fini per cui l’uomo esiste, cioè l’attività intellettuale e morale». Il corpo non ha attualità né sostanza che non siano ricevute dalla sua anima. Generato dai genitori, il corpo appartiene all’uomo in quanto suo, vivificato dalla sua anima, vivente nella e per la sua anima. Non è dunque l’anima nel corpo, ma piuttosto il corpo nell’anima.

L’anima è «forma hominis». Io sento; io so di sentire e ragiono sulle mie sensazioni. È per la carne vivificata dall’anima che io sento ed è la carne vivificata dall’anima che agisce sull’anima; onde la sua azione mentre è reale e determinata dagli oggetti (l’intelligibile è elaborato dalle forme del sensibile divenute forme del corpo sensibile del soggetto umano della conoscenza) è pur sempre un’azione dell’anima su se stessa. Infatti è l’anima che rende tali potenze operanti ed è in essa che tali potenze sono nel loro principio, come nel composto sono nel loro soggetto. L’anima vive, sente, ma conosce e si conosce e «sé in sé rigira». Ebbene, io non sono animale per un’anima e uomo per un’altra, ma sono animale ragionevole per una stessa e medesima anima, «continens inferiores formas (che ha in sé le forme inferiori)».Tutta in se stessa, per sé, ed in tutto il corpo con una presenza non circoscrittiva, ma definitiva, l’anima esplica le due distinte attività della sensazione e della intellezione, esprimenti la maniera diversa con cui una stessa realtà è legata all’anima, primo ed unico principio in cui soltanto è l’intenzione di sentire e di capire. L’anima è l’atto sostanziale per cui un uomo vive, sente, intende, ama; l’essere dell’anima è dunque la forma contemplativa di tutto l’uomo. Le funzioni animatrici dell’anima devono essere incluse nella definizione della sua stessa essenza per non rompere l’unità umana. E allora che cosa ci impedisce di identificare l’intelletto con l’uomo? Ce lo impedisce il fatto che l’uomo non compie soltanto operazioni intellettuali: la forma sostanziale non è che una parte – ma costitutiva, preminente e unificante – dell’uomo.

In qual senso l’anima è «forma del corpo»? L’anima non è parte, non è cosa mossa e motore, non modificazione accidentale, ma forma, cioè principio immediato dell’attività dell’essere. L’attività specifica dell’uomo in quanto uomo è l’intendere e, poiché è la forma che caratterizza l’essere nella sua attività specifica, il principio intellettivo è la forma di tutto l’uomo e perciò anche del suo corpo che per l’anima è corpo ed è organico (organizzato in modo tale da servire ai fini dell’uomo) ed ha la vita in potenza. Con questo argomento positivo Tommaso spiega quindi per quale motivo lo stesso principio attraverso cui conosciamo intellettivamente è la forma sostanziale del corpo. Tommaso svolge con ampiezza l’argomento polemico tendente a dimostrare l’incapacità delle altre teorie a spiegare sia l’unità dell’uomo sia il fatto che certe forme di conoscenza trascendano il mondo corporeo, per cui si doveva riconoscere nell’anima umana un principio d’operazione indipendente dal corpo nel suo esercizio, e per conseguenza superiore ad una semplice forma del corpo. Il problema imbarazzò Aristotele, il quale fu tentato di ripiegare sul rapporto del pilota con la sua nave, senza prendere una risoluzione chiara: in una formula fuggevole secondo cui l’anima intellettiva viene all’uomo «dal di fuori». Ma come ciò che è forma del corpo individuale e del tal uomo può essere al tempo stesso separato da questo corpo individuale? Averroé dirà che l’intelletto possibile è unico per tutti gli uomini e separato; l’uomo individuo (l’io empirico come direbbero gli idealisti) si limita ad offrire il fantasma, il materiale della conoscenza intellettiva, come un muro colorato offre il materiale all’occhio che vede. Tommaso gli obietterà che con una simile unione l’uomo individuo non è più il soggetto, ma un oggetto dell’attività intellettiva e che, staccando l’intelletto dall’individuo, finisce col fare di questo un animale uguale a tutti gli altri: l’anima umana è, infatti, mortale per Averroé, è immortale solo l’intelletto unico. Agostino si sforza con struggente impegno di salvaguardare l’unità dell’uomo, la spiritualità e l’immortalità dell’anima, ma le sue formule non sempre sono adeguate alle chiare intenzioni. Il tentativo eclettico di far coesistere la concezione platonica dell’anima sostanza spirituale semplice con la concezione aristotelica dell’anima forma corporis fu compiuto da Avicenna ed anche dal maestro di Tommaso, Alberto Magno: ma gli eclettismi non sono facili che in apparenza, mascherano dualismi.

Tommaso riprese da capo la questione per ricostruire completamente la soluzione e questo è un esempio di come, facendosi più veramente filosofia, una filosofia diviene più cristiana. L’anima è forma del corpo in quanto è forma complessiva dell’uomo. La sostanza uomo non è una combinazione di due sostanze, ma una sostanza complessa che deve a uno solo dei suoi principi costitutivi, all’anima intellettiva la sua sostanzialità. Le anime, sostanze immortali, non possono sviluppare la loro attività senza il concorso di organi sensori; per ottenere questo concorso esse attualizzano una materia; questa materia non è un corpo che opera per loro e le anime non sono se stesse che nei propri corpi. D’altra parte, se il principio che dà all’anima il suo essere attuale se ne ritira, il corpo si dissolve; ma la dissoluzione di ciò che deriva il suo essere dall’anima non tocca la realtà ontologica dell’anima spirituale. L’originalità di Tommaso è tutta qui: riconoscere che le forme superiori spirituali – ed in primo luogo Dio, Essere supremamente formale in quanto Atto Puro – possiedono e conferiscono la sostanzialità. Le difficoltà si dileguano quando si supera l’ostacolo dell’immaginarsi una sostanza che non sia corporea.

Immortalità dell’anima

Pirandello esprime alla perfezione la teoria fenomenistica della realtà (Il fu Mattia Pascal, cap. II): l’anima lanternino che ci fa vedere sperduti sulla terra e ci fa vedere il bene e il male e che si spegnerà ad un soffio quando la notte perpetua ci accoglierà dopo il giorno fumoso della nostra illusione. Per Croce tutto ciò che nasce è degno di perire. L’universo serba in sé però tutto ciò che si è pensato e fatto perché esso è niente altro che l’organismo di questi fenomeni e azioni (è l’immortalità dello storicista). Per Wilhelm Maximilian Wundt l’immortalità è la trama psicologica che, trasmettendosi da una generazione all’altra, costituisce una vera continuità morale. Gli idealisti negano l’immortalità della persona, mentre la concedono all’Io Trascendentale, Divenire Eterno; l’«asilum immaginationis» (Giovanni Gentile) suggerisce l’immortalità personale. Secondo Karl Marx, è una questione di frustrazione, di stomaco insoddisfatto che proietta nel cielo i desideri di felicità. L’economia comunista abolirà il problema dell’immortalità dell’anima. Miguel de Unamuno: «Se quando muore il corpo che chiamo mio per distinguerlo da me stesso, che sono io, la mia coscienza torna all’assoluta incoscienza da cui è scaturita, e ciò che accade alla mia, accade a tutti i miei fratelli di umanità, allora il nostro stanco genere umano non è altro che una fatidica processione di fantasmi, che vanno dal nulla al nulla».

C’è una conoscenza naturale, istintiva della propria immortalità, scritta nella struttura ontologica dell’uomo. Segni evidenti di tale conoscenza istintiva, non filosofica, non concettuale sono nella coscienza spontanea, oscura, ma certa, che l’uomo ha sempre avuto di un sé soprafenomenico capace di conoscere la propria esistenza come superiore al tempo. Tra le aspirazioni della persona nessuna è più manifesta dell’aspirazione a non morire: non è tanto spaventevole quanto incomprensibile violenza; è difficile per noi credere alla realtà della morte. La rivolta contro la morte testimonia che la certezza della sopravvivenza è radicata negli strati sotterranei più profondi e immutabili, sebbene meno perfetti e meno fecondi, della ragione.

Tale esigenza psicologica spontanea possiede un significato morale altissimo: crollerebbe l’etica se si negasse l’immortalità dell’anima. Non già che il valore morale di un’azione consista nell’essere posta in funzione di un premio o della minaccia di una pena; tuttavia si dovrebbe proclamare l’irrazionalità del reale se l’unica giustizia fosse quella che si realizza quaggiù.

Obiezione preliminare: anche l’anima, essendo creata, ha una sua «vertibilitas in nihilum» malgrado la sua spiritualità e le sue aspirazioni naturali. Chi può dunque garantirci l’immortalità dell’anima?

Risposta: Dio ha liberamente creato gli esseri con le loro nature, con le loro esigenze naturali; tali esigenze ci rivelano quindi non già una fatalità, ma la stessa volontà divina, il finalismo, l’ordine che Dio ha dato alle creature. «Deus, qui est institutor naturae, non subtrahit rebus id quod est proprium naturis earum (Dio, che è creatore della natura, non sottrae alle cose ciò che è proprio della loro natura)» (II, Contra Gentes, cap. 55, 13° arg.).

Lo schema dell’argomentazione tomista suppone dimostrata la spiritualità dell’anima umana. Secondo la terminologia tomistica una cosa può corrompersi per sé o per accidens. Si corrompe per sé un corpo perché si dissolve nelle parti di cui è costituito e la sua materia assume un’altra forma. Si corrompono per accidens le forme materiali perché separate dalla materia non possono esistere, poiché non sono sussistenti, esistendo in realtà solo il composto. L’anima umana, non essendo un corpo, né un composto di forma e materia, né dipendente nell’essere dal corpo, è forma spirituale, sussistente, non corruttibile né per sé né per accidens.

Memoria sensitiva e intellettiva non appartengono alla materia, ma all’anima: tutti i ricordi sono dunque in noi. Tutti gli impedimenti ed i limiti all’autocoscienza, nello stato di unione sostanziale col corpo, dipendono dalla materia e tutti gli sforzi della conoscenza e della volontà sono in funzione delle successive smaterializzazioni: una volta separata dal corpo, l’anima umana ha presente a se stessa intuitivamente tutti i ricordi delle immagini e delle idee e intende se stessa nella sua essenza. «Sensus non cognoscit esse, nisi sub hic et nunc (I sensi non conoscono l’essere se non sotto le forme dello spazio e del tempo)». «Sed intellectus apprehendit esse absolute et secundum omne tempus. Unde omne habens intellectum naturaliter desiderat esse semper (l’intelletto percepisce l’essere su un piano assoluto e rispetto a ogni tempo. Per questo ogni essere dotato di intelletto desidera naturalmente di essere sempre)» (I, q. 75, a. 6). L’eternità per l’anima umana non è da concepirsi come uno scorrere ed un fluire per un tempo indeterminato, ma come un momento, un nunc stans che solo da Dio può essere influenzato: nulla di più breve perché, fuori del divenire temporale, saremo nell’ictu oculi dell’Eterno; nulla di più lungo perché quel momento non cesserà mai… Come il sole tramontando pare si tuffi nel mare e si spenga, mentre noi sappiamo che non muore, così l’anima nostra sembra finire con la morte mentre continua la sua vita perenne.

Perché l’anima è incorruttibile?

  1. In quanto intelligibile è adatta a conoscere ciò che partecipa dell’essere e della verità; l’universo intero può essere inscritto in essa, se spogliato da ogni condizione esistenziale di materialità.
  2. Gli oggetti della conoscenza umana, presi non come esistenti per se stessi, ma come oggetti determinati intelligibili e ad essa uniti, sono immateriali, in quanto, attraverso l’intuizione astrattiva per la quale guadagnamo il concetto, si prescinde da ogni condizione esistenziale di materialità. Dunque l’atto dell’intelletto umano per cui si conosce immaterialmente è necessariamente immateriale. Tommaso indica tre attività che non possono procedere dal corpo: la conoscenza dell’universale, la riflessione o autocoscienza e la capacità dell’intelletto di conoscere tutti i corpi.
  3. Se l’atto dell’intelligenza umana è immateriale, è immateriale la potenza stessa: poiché è immateriale la potenza intellettuale, la sua prima radice sostanziale (l’atto primo), la sostanza stessa da cui emana e che agisce per sua strumentalità è anche immateriale. Non è la mia intelligenza che pensa in me, sono io che penso in virtù della mia intelligenza che è la mia forma di uomo.
  4. Lo spirito umano dipende dal corpo e dal cervello, se è vero che la sua attività può essere impedita o turbata da un accidente fisico, da un eccesso di collera, dall’alcool o da un narcotico; ma questa dipendenza è estrinseca (un’intelligenza incarnata non può infatti agire senza l’attività congiunta della memoria e della immagine, dei sensi interni ed esterni), non intrinseca perché la sua attività immateriale (conoscere, amare, capacità di esercitare il libero arbitrio) non risiede in nessun organo: l’intelligenza non ha organo. L’intelligenza è dunque incorruttibile.

Individualità e individuazione

Il problema della individuazione: che cosa fa di un uomo il tale e non il tal altro? Il mondo greco da Socrate a Plotino, dagli epicurei agli stoici, non superò mai il piano morale per elevarsi ad una metafisica della persona; né Platone né Aristotele, che tenevano i principi metafisici di questa giustificazione, avevano un’idea dell’individuale come abbastanza alta per pensare ad una simile giustificazione. Per Platone gli uomini partecipano in maniera più o meno incompleta a una realtà comune, cioè al tipo ideale, all’idea di umanità che, una e medesima per tutti gli uomini, è solo veramente reale. Per Aristotele solo degli esseri particolari si può dire realmente che esistano, ma l’essere fisico individuale ha un carattere di irrealtà e di accidentalità quando lo si paragoni all’eternità della specie: in fin dei conti l’individuo che esiste e passa è qui soltanto per assicurare la permanenza di ciò che non esiste, ma non passa. Gli individui sono in vista della specie. Un individuo è un essere concreto, fatto di una forma analoga in tutti gli individui della stessa specie e di una materia che l’individualizza: la forma dell’uomo si unisce con un certo genere di carne ed ossa. La forma, appunto perché specifica, è della medesima natura in tutti gli individui della stessa specie. La forma si individualizza in quanto si unisce ad una materia qualificata che non è materia prima assolutamente indeterminata: così la materia organizzata in vista della forma non diviene principio d’individuazione, se non perché è essa stessa resa individuante da una forma. La materia organizzata trova il suo atto nella forma, ma individua la forma stessa. Se si introduce una differenza individuale nella forma di ciascun individuo, si farà di lui una specie irriducibile ad ogni altra e così, per meglio salvare l’originalità dell’individuo, si sarà distrutta l’unità della specie, senza rendersi conto che la prima condizione per avere uomini è d’avere umanità.

La soluzione di Tommaso è formulata con termini e principi identici a quelli aristotelici, ma l’originalità della sua antropologia – che accentua fortemente la sostanzialità dell’anima spirituale – si ripercuote anche sul problema dell’individuazione.

a. Individuo è un essere diviso da tutti gli altri esseri, e non divisibile lui stesso in altri esseri. Un uomo è distinto da un altro uomo e non si potrebbe dividerlo senza distruggerlo. L’uomo è perciò individuo e indivisibile, pur essendo un composto; il corpo che partecipa a costituire il composto è quindi parte sostanziale incomunicabile a titolo di estensione («materia signate quantitate»), originale, irriducibile ad ogni altro corpo.

b. È principio comune ad Aristotele ed a Tommaso che la materia esiste sempre in vista della forma, come l’inferiore per il superiore o il mezzo necessario per il fine: la diversità delle materie è richiesta dalla diversità propria delle forme per costituire con esse soggetti concreti individui. Questo principio permette d’intendere come la materia possa essere il principio d’individuazione senza che l’individualità vi si trovi per tal modo sottomessa alla materia: l’individuo suppone infatti una materia, ma poiché la materia non vi si trova che in vista della diversità delle forme, in definitiva, la sostanza concreta è dotata d’individualità precisamente a causa della forma. Il problema dell’individuazione si situa sul piano metafisico e basta ed è equivoco e sterile piegarlo ad altri usi di carattere psicologico o pedagogico. Deve essere ben chiaro che per il tomismo la dottrina dell’individuazione vuole spiegare l’individuazione e niente altro. Del fatto che non ci sarebbero individui se non ci fossero corpi umani, non risulta per nulla che il corpo conferisca all’individuo la sua dignità spirituale o ne conferisca l’originalità. Si deve distinguere tra la nozione d’individuazione e quella d’individualità. Le differenze individuali e originali di ciascun essere sono rese possibili dalla sua materia, ma procedono dalla sua forma, alla quale sola appartiene di dare l’atto. Il corpo partecipa all’individualità dell’anima, ma di per sé non è che mezzo, condizione della molteplicità degli uomini, principio, inizio di individuazione e niente altro. Per designare l’individualità propria di un essere intelligente e libero si dice che è una persona. Da questo punto di vista, intimamente connesso con la dimostrazione dell’unità dell’uomo, della spiritualità ed immortalità dell’anima, Tommaso riprende il principio aristotelico che l’individuo esiste solo per la specie per un rovesciamento di conseguenze di schietta ispirazione evangelica.

La persona umana

Persona significa «sostanza individuale d’un essere ragionevole e libero» (Boezio). Per designare l’individualità propria di un essere libero si dice che è una persona. L’uomo è una persona perché nella sua indipendenza ontologica costitutiva si fonda sulla sua razionalità, radice della sua libertà: i suoi atti sono perciò personali, perché partono dalla libera decisione di un essere ragionevole. L’uomo non è solamente un elemento individuale della natura, come un atomo, una stella, un seme, un animale; l’uomo è sì un animale e un individuo, ma non come gli altri. Non esiste solo fisicamente; l’uomo è un individuo che si guida da sé mediante l’intelligenza e la volontà: c’è dunque in lui un esistere più ricco ed elevato, una sovraesistenza spirituale nella conoscenza e nell’amore. La persona umana è così, in qualche modo, un tutto e non soltanto una parte: è un universo a sé, un microcosmo in cui il grande universo può tutt’intero essere contenuto per mezzo della conoscenza e trasformato, in certi limiti, per mezzo del lavoro; mediante l’amore la persona umana può darsi liberamente ad altri esseri, che per lui sono altro se stesso – relazione questa, di cui non è possibile trovare l’equivalente in tutto l’universo fisico. In termini filosofici vuol dire che nella carne e nelle ossa umane c’è un’anima che è uno spirito e che vale più che l’universo materiale tutto intero. Per dipendente che sia dai più piccoli accidenti della materia, la persona umana esiste per l’esistenza stessa della sua anima che domina il tempo e la morte. È lo spirito che è la radice della personalità. La nozione di persona implica quella di totalità e di indipendenza: per povera e oppressa che possa essere, una persona è, come tale, un tutto e, in quanto persona, sussiste in materia indipendente. È questo il mistero dell’umana persona, che ogni uomo porta in sé ed è questo mistero che il pensiero religioso designa quando dice che la persona umana è l’immagine di Dio. La personalità è il segno proprio dell’essere nel suo più alto grado di perfezione e l’uomo è persona perché è opera di una Persona, perché partecipa alla sua onnipotenza, facendosi causa libera, e alla sua provvidenza, perché invece di subire la legge del mondo collabora a farla regnare, governandosi. «Persona significat id quod est perfectissimum in tota natura (persona significa ciò che di più perfetto è in tutta la natura)» perché essa solo partecipa all’ordine delle realtà spirituali che portano l’impronta del Padre degli esseri. La persona umana ha una dignità assoluta perché la sua patria spirituale è l’universo dei valori assoluti di verità, di bellezza, di amore, valori che riflettono in qualche modo il valore eterno e che attraggono la persona a lui. I valori sono immanenti allo spirito umano come potenzialità orientatrici e come categorie discriminatrici, ma hanno una realtà ontologica indipendente e trascendente lo spirito umano. L’esigenza dei valori è un’esigenza di assoluto e l’assoluto non può identificarsi, né comunque risolversi nello spirito umano che, nella sua contingenza, non può ritrovare in sé le ragioni della propria esistenza. I valori sussistono nell’Assoluto nel quale trovano la loro radice e la loro suprema armonia. A questo punto è inevitabile il rovesciamento del rapporto tra uomo singolo e specie così com’era stato delineato da Aristotele. L’uomo non è un mezzo rispetto al fine della specie, perché è persona. L’intenzione della natura tende assai meno verso la specie che verso l’incorruttibile. Se qualche volta essa mira al bene della specie piuttosto che a quello degli individui, ciò avviene nei casi in cui, essendo corruttibili gli individui, la specie sola permane. Ma quando si tratta di sostanze incorruttibili non solo la loro specie rimane in permanenza, ma anche gli individui: ecco perché in tal caso gli individui stessi rientrano nell’intenzione principale della natura. Ora, la parte incorruttibile dell’uomo è l’anima e si deve dire per conseguenza che la moltiplicazione degli individui umani è un’intenzione prima dell’autore della natura, che è il solo creatore dell’anima umana. Fondato sulla spiritualità, sostanzialità e sull’immortalità ch’essa trae con sé, l’essere umano individuale acquista la dignità di un essere indistruttibile, distinto da ogni altro nella sua permanenza stessa, sorgente originale di un’attività razionale, il cui esercizio deciderà del destino futuro di quest’essere responsabile.

L’originalità individuale di ogni persona è data non solo dalla sua particolarissima costituzione psicofisica ereditata, dalle irrepetibili condizioni ambientali in cui nasce e vive, ma dalla individualità di ogni anima creata. L’anima ha la sua idea nell’Essere da cui deriva l’esistenza: in Dio, nella sua semplicissima essenza, che è una e nello stesso tempo unico principio delle creature, c’è un’idea particolare, una «idea esemplare» di ogni anima creata nell’unità della medesima natura delle anime di tutti gli uomini.

Individualità e personalità. L’individualità è un dato, la personalità è sempre armonia di facoltà e di attività. L’individualità risulta dalla costituzione psico-fisica propria d’ognuno e variabile da individuo ad individuo. Nell’individualità ci sono forze disarmoniche, che, abbandonate a se stesse, dilacerano l’unità morale della persona; ma per quanto disorientata e primitiva, l’individualità dell’uomo include le potenze dello spirito chiamate a primeggiare. Anche quando queste si trovino in uno stato, originario o derivato, di atrofia, bastano sempre a differenziare l’essere umano dal bruto e a fare dell’individuo una persona. La spiritualità non è sempre debitamente sviluppata in modo da esercitare il suo primato sulle forze contrastanti della psiche e dell’organismo fisico e fisiologico; l’intelligenza e la volontà, presenti in ogni uomo, non in tutti raggiungono quel gradi di efficienza e di armonia, che consente una piena affermazione di umanità. Ogni uomo è persona, ma non ogni persona è una personalità. La personalità è lo stesso individuale soggetto in quanto si fa portatore di valori universali, è l’individualità che si adegua ai valori, li realizza parzialmente e li armonizza in uno sforzo personalissimo d’inconfondibile incarnazione dei valori e di trasfigurazione della propria esistenza. La personalità presuppone l’individualità e la implica come insostituibile base da cui trae, scegliendosi e disciplinando le insorgenti forze egocentriche e disarmoniche, la sua superiore armonia. L’unità ontologica della persona e l’unità psicologica della coscienza si potenziano e si compiono nell’unità morale della personalità e nella sua formazione integrale. L’ideale della personalità comprende l’attuazione sempre più perfetta ed armonica delle attività spirituali. Queste percezioni sono un coerente sviluppo della dottrina tomistica della persona e ne testimoniano l’inesauribile fecondità. Non si dimentichi, però, che per ogni persona c’è uno speciale limite di possibilità, più o meno indefinitamente spostabile, ma non sopprimibile.

Soluzione di alcune difficoltà

– Origine dell’anima umana.

Poiché l’anima è forma sostanziale del corpo, non è ragionevole ammettere che essa preesista al corpo. Ma poiché è spirituale, ossia poiché è forma sussistente, essa non può sorgere per generazione: non è generata l’anima spirituale, ma il corpo; e quando un corpo è generato, è generato perché la materia è stata trasformata dall’anima. L’anima comincia dunque ad essere solo nel corpo di cui è forma, ma non sorge da esso: essa è creata nel momento in cui va ad informare un corpo.

– Quando l’anima è infusa nel corpo?

È un problema più scientifico che filosofico. Per i medioevali l’embrione è animato prima da un’anima vegetativa, poi da un’anima sensitiva e solo ad un certo punto è infusa l’anima razionale. Le attuali ricerche biologiche hanno messo in luce l’unità dello sviluppo embrionale sì che un tomista oggi deve pensare che l’anima razionale è infusa da Dio nell’atto stesso del concepimento. L’anima non può svolgere subito tutte le sue attività, ma si foggia il suo corpo e manifesta le sue potenze superiori solo quando il corpo è pienamente sviluppato. Il problema dell’origine dell’anima è uno fra quelli che manifestano i limiti della ragione e la necessità della Rivelazione.

– Le anime, individuate nella loro unione col corpo, come possono restare distinte quando siano separate dai corpi? L’individualità di un’anima è corrispondente alla sua infusione in un corpo, ma non è dipendente da questa. Ogni anima esce, per così dire, individuata dalle mani di Dio. Il corpo non è soggetto della conoscenza intellettiva, ma fornisce l’oggetto alla conoscenza intellettiva attraverso le immagini; oltre questa vita, basterà che l’oggetto di conoscenza sia diverso e fornito da altra parte (es. Dio) perché l’anima conosca, pervenendo addirittura al compimento supremo della sua potenza conoscitiva.

L’ETICA

 Orientazione finalistica dell’azione umana

Tra gli atti compiuti dall’uomo si dicono umani quelli che sono caratteristici dell’uomo; sono caratteristici dell’uomo quegli atti di cui egli è padrone; l’uomo è padrone dei suoi atti in virtù della ragione e della volontà.

Tutto ciò che l’uomo desidera, lo desidera in quanto bene; poiché l’inizio di ogni cosa è orientato verso il suo compimento, ogni bene iniziale desiderato è orientata verso il Bene, fine ultimo di diritto. Il fine ultimo, primo nell’ordine intenzionale, è come il principio movente l’appetito. I fini prossimi, per i quali di solito si affaticano gli uomini, spesso assolutizzandoli, non costituiscono il fine ultimo e non ne posseggono i caratteri propri dell’incompatibilità col male, dell’autonomia, dell’interiorità.

Le ricchezze sono beni artificiali che servono per procurarsi quelli naturali; hanno per fine l’uomo, essendo mezzi per aiutare l’uomo a soddisfare i suoi bisogni: dunque non possono essere il fine dell’uomo. Si vuol qui confutare l’utilitarismo: l’uomo non è puramente corporeo e il suo bonum non è solo quello animale (sensibile e utilitario); come atteggiamento pratico è irrealizzabile, non essendo possibile realizzare sempre il proprio utile a scapito dell’altrui utile e diritto; come teoria filosofica dell’egoismo reciproco che dà per risultato l’armonia universale è utopistico per la limitazione dei beni e per l’illuminata estensibilità delle passioni umane.

Gli onori sono in possesso più di chi li dà di chi li riceve; possono quindi seguire la felicità, non darla. Manca loro autonomia e autosufficienza.

La gloria è in rapporto alla conoscenza che gli uomini hanno (così limitata quando non ingiusta), accompagnata da lode.

La potenza e i beni del corpo: strumenti e non mezzi. Il piacere è nulla già in confronto con la stessa infinità spirituale dell’anima umana. Evitare rigorismo ed edonismo: conseguenza, non fine della felicità. Il piacere è una proprietà accidentale che segue alla felicità o ad una parte di essa; onde è evidente che neppure il piacere che segue al bene perfetto è l’essenziale della felicità, non essendo un valore primario. Poesia e saggezza ci dicono che delude.

Felicità per l’uomo vuol dire conseguimento del fine supremo; ma il conseguimento di un fine non consiste nell’atto stesso della volontà; il desiderio è una tendenza, ma non il conseguimento del fine. L’uomo non è perfettamente felice quando gli resta qualcosa da desiderare e la perfezione delle sue potenze si rileva dalla natura del loro oggetto (l’essere, cioè il bene in tutta la sua estensione); ora l’uomo conosce di Dio gli effetti (alcuni) creati e di Dio sa che Egli è, ma non ha attinto l’essenza stessa della causa prima. Dio, intuito nella sua intimità di luce e d’amore, è l’oggetto nel quale soltanto si trova la felicità dell’uomo. Ma niente di ciò che è dato all’uomo, è capace di soddisfarlo: di qui la sua inquietudine pungente. È inutile fare come la filosofia greca che negava il desiderio restringendone l’oggetto: in luogo di mutilare il desiderio, la filosofia cristiana appaga il desiderio rivelandone all’uomo il significato.

L’insaziabilità stessa del desiderio umano ha un significato positivo: non bisogna accontentarci dei beni che ci lasciano inappagati (è follia estenuarsi a saziare una fame che rinasce dagli alimenti stessi che le si offrono), un bene infinito ci sollecita e ci attira interiormente. La causa del nostro amore di Dio è Dio, perché Egli, creandoci, crea in noi la capacità di un amore infinito.

Per Tommaso è naturale che l’uomo ami Dio più che se stesso: questa è dilezione naturale, che la carità sovrannaturale verrà a perfezionare. Infatti se l’uomo ama naturalmente il proprio bene deve, nello stesso tempo, amare necessariamente ciò senza il quale il suo bene sarebbe impossibile. Inoltre, se ogni bene non è che analogia al Bene creatore che ha dato ad esso esistenza, amare ciò che per l’uomo è bene, è amare in esso la somiglianza sua propria con la bontà divina, è amare in esso il Sommo Bene. Se dunque questo o quel bene particolare non è desiderabile se non a titolo di somiglianza e di partecipazione gratuita al Sommo Bene, Dio non può essere desiderato in vista di nessun bene particolare: ma invece ogni bene particolare va desiderato in vista del Sommo Bene. E ciò che vale per l’insieme delle creature, vale ben più per l’uomo in particolare: amare se stessi sarà amare un’immagine di Dio, amare gli altri sarà amare altri analoghi di Dio ed è impossibile amare l’immagine senza amare e preferirle il modello.

Amare Dio di un amore disinteressato è per l’uomo il vero modo per amare se stesso: immagine di Dio, meno l’uomo somiglia a Dio, meno è; più rassomiglia, più è se stesso. Divenire simile a Dio significa ritrovare la propria essenza di uomo, attuarne il fine, eliminare radicalmente quella dissonanza dolorosa che separa l’anima dalla sua vera natura.

Tommaso non ignora che l’amore umano si svia troppo sovente verso oggetti indegni della sua natura; sa che di fatto l’uomo decaduto si preferisce spontaneamente a Dio, perché in ciò consiste la sua decadenza; ma ciò non gli impedisce di ricordarsi che ogni amore creato è una partecipazione dell’amore increato: supporre il contrario sarebbe supporre non secondo la retta ragione naturale che l’uomo ami Dio più che se stesso, sarebbe ammettere che per far poi trionfare nell’anima l’amore di Dio sopra l’amore di sé, la grazia dovrebbe distruggere la natura umana invece di portarla al suo punto di perfezione. Il fine dell’uomo è Dio e il premio di Dio è Dio stesso. Chi non cerca altro premio che l’amore, riceve la gioia (delectatio) che esso dà. Chi cerca nell’amore altre cose che l’amore, perde l’amore e la gioia che dà. All’amore basta di essere per essere pagato. L’amore disinteressato, perché disinteressato, è ricompensato, essendogli coessenziale la gioia che gli dà il possesso del suo oggetto: l’amore accetterebbe di non essere più l’amore se rinunciasse alla gioia che l’accompagna. Il premio della virtù non è che il compimento della virtù.

La libertà

Per Aristotele in ogni essere naturale la forma è il principio dei suoi atti; questa spontaneità acquista una indeterminazione considerevole nell’uomo per il fatto che egli è dotato di un intelletto (capace di divenire in qualche modo tutte le cose per la conoscenza che ne ha) e di una volontà capace di scegliere.

Tommaso riprende la concezione aristotelica, sottolineando come presupposto, radice, sorgente del libero arbitrio sia la libertà sotto l’aspetto metafisico, ossia la reale indipendenza della persona da cause brutalmente necessitanti, estrinseche o intrinseche.

La libertà di esercizio o psicologica o di libero arbitrio è conoscibile per esperienza.

Nell’uomo c’è

a) un appetito sensitivo, ovvero una tendenza limitata a ciò che interessa la vita animale, i suoi bisogni e pericoli; l’istinto muove il soggetto a congiungersi con le cose gradevoli al senso. Vi è qui una certa libertà di movimento o spontaneità, ma nulla di più. (Non si dimentichi, però, che nell’uomo l’apprensione sensitiva non è mai esclusivamente sensitiva. In noi i moti sensitivi per passare all’azione richiedono il consenso della volontà ed è esperienza comune il fatto che il ricorso a considerazioni razionali o irrazionali mitighi o ecciti i nostri sentimenti più immediati);

b) la volontà, ovvero la tendenza di un ente di natura ragionevole verso un fine proporzionale alla natura stessa. Volere è essere libero e nulla è più immediatamente a disposizione della volontà che lei stessa. Non si può far violenza all’atto di volontà in quanto tale: si può obbligare l’uomo a far qualche cosa, niente può obbligarlo a volerla. Questa spirituale impenetrabilità ad ogni violenza è la «libertas a necessitate». Noi «sumus domini a nostrorum actum secundum quod possumus hoc vel illud eligere»: nella «facultas eligendi» è la nota essenziale del libero arbitrio (atto di scelta esercitato dalla volontà). «La radice della libertà è la volontà come soggetto e la ragione come causa» (I, II, q. XVII, art. 1, ad 2um). Ma come nasce e si giustifica e opera la libertà di scelta? L’intelligenza abbraccia nell’idea tutto l’essere; la volontà cerca l’essere dietro l’idea; l’intelligenza ha la nozione di ciò che è buono ampia quanto l’essere stesso; la volontà «in ratione costituita» tende a quel bene trascendentalmente permeante ogni essere e il soggetto stesso: e vi tende necessariamente, ne è interiormente determinata. Il più infelice degli uomini vuole la felicità ed è per questo che è infelice. Il «bonum universali» è l’oggetto proprio della volontà in quanto natura; essa lo avvolge nella sua tendenza profonda: da ciò l’insaziabilità dei nostri desideri, fondamento dei nostri destini, e l’indeterminazione del volere rispetto ad ogni oggetto che non sia il Bene, la Felicità. Ciò che io necessariamente voglio è la Felicità e l’atto intorno al quale l’intelligenza delibera è un bene particolare al quale, per conseguenza, manca qualche bene e che in ciò ha il significato di un non bene: bene sotto un aspetto e non bene sotto un altro. Per questo io posso dunque non volerlo. E così per ogni bene concreto e non solo per quelli particolari e parziali; essendo ogni bene limitatamente amabile da noi, non è saturante e quindi non determina: l’opposizione è dunque libera. Il fine ultimo, Dio, è primo nell’intenzione, è ricercato implicitamente attraverso la ricerca della pienezza della felicità, ma finché l’intelligenza lo afferra con una conoscenza astratta è anch’esso oggetto di una libera elezione. Nell’atto di libero arbitrio la volontà va incontro ad un’attrazione incapace di giungere proprio fino ad essa: risposta gratuita alla sollecitazione di un bene infinito. La indeterminazione del libero arbitrio è attiva e dominatrice, consistendo la libertà proprio nella signoria della volontà sullo stesso giudizio pratico che la determina. Il primato spetta così all’intelletto per il vedere e spetta alla volontà per il volere: in realtà l’uomo esercita la sua intelligenza quando vuole e vuole sotto la direzione dell’intelligenza. L’atto libero appare come il frutto comune dell’intelligenza e della volontà che si inviluppano l’una con l’altra vitalmente in una sola e medesima co-determinazione istantanea. «La volontà è forza razionalmente operativa e muove verso la pienezza della luce l’intelletto stesso che la rischiara: dopo l’illuminazione iniziale è, infatti, la volontà morale che ci fa conoscere la verità più alta» (Comm. in S. Math., cap. 5). Colui che è libero è padrone del suo giudizio perché autocosciente.

Passione e virtù

1- La «libertas bene operandi» è il superamento dei motivi empirici e passionali come tendenza, come abito della volontà protesa al bene. Scegliere secondo l’ordine dei fini significa perfezionare il libero arbitrio, porre la volontà razionale nel pieno possesso della sua libertà e delle sue energie, renderla pronta nell’autodeterminazione buona. La virtù non è frutto di determinismo psicologico, ma di un volere efficacemente esercitato nel dominio dello spirito su se stesso e in rapporto a ciò che entra nella sua esperienza.

Tommaso distingue tra:

a) virtù morali fondamentali, ossia cardinali: prudenza, temperanza, fortezza, giustizia (questa ha il primato);

b) virtù intellettuali: sapienza, scienza, intelligenza (il primato ce l’ha la sapienza, virtù architettonica);

c) virtù teologali: fede, speranza, carità (di ordine soprannaturale).

La virtù è abito, disposizione acquisita e durevole che tende sempre al bene, per mezzo della quale l’uomo sceglie con ferma costanza di vivere rettamente, cioè conformemente alla sua natura razionale. Non va confusa con l’acquisizione di abitudini passive, che sono piuttosto il risultato negativo della diminuzione di libertà a cui si è pervenuti scostandosi dall’ordine dei fini dell’esercizio del libero arbitrio.

2- Le passioni, per gli stoici agitazioni disordinate, per Tommaso sono semplicemente i moti dell’appetito sensitivo, la materia propria delle virtù morali, le quali non possono esistere senza passioni. La virtù non ha infatti il compito di far sì che le facoltà subordinate alla ragione cessino dei propri atti, ma piuttosto di far sì che eseguano il comando della ragione compiendo i propri atti, perciò la virtù dispone le membra del corpo ai debiti atti esteriori, l’appetito sensitivo ai propri moti ordinati.

Ma Tommaso si eleva ad una concezione ancor più profonda quando afferma che dall’esercizio della più spassionata tra le virtù si irradia una gioia generatrice di passioni in un più nobile senso, in quanto si effonde in risonanze che fanno vibrare intimamente la psiche umana, informando e commuovendo di sé anche l’appetito sensibile. «Come è meglio che l’uomo non solo voglia il bene, ma lo realizzi anche con azioni esteriori, così alla perfezione del bene morale si richiede che l’uomo si muova al bene non solo mediante la volontà, ma anche mediante l’appetito sensitivo: “Il mio cuore e la mia carne hanno esultato nel Dio vivo” (Salmo 83)».

«Le passioni dell’anima possono avere rapporto col giudizio della ragione in due modi: prima di tutto antecedendolo; ed in questo modo, poiché obnubilano in qualche modo il giudizio della ragione, dal quale dipende la bontà morale dell’atto, diminuiscono la bontà morale dell’atto stesso (ad esempio, è più lodevole che uno faccia un atto di carità per il giudizio della ragione che per la sola passione della misericordia). Ma le passioni possono anche conseguire al giudizio della ragione:

a) per ridondanza, quando cioè la parte superiore che si muove intensamente in qualche oggetto, e pertanto la passione che ne consegue nell’appetito sensitivo, è segno di intensa bontà morale;

b) per elezione, quando l’uomo, secondo il giudizio della ragione, sceglie di essere affetto da una passione, per operare più prontamente con la cooperazione dell’appetito sensitivo: e così la passione dell’anima contribuisce alla bontà dell’azione» (I-II, q. 24, a. 3, ad. 1).

Legge, coscienza e obbligo

1- La ragione umana segna la direzione e la legge dell’attività morale in quanto è informata dalla legge divina. La legge morale naturale è la partecipazione della legge eterna divina nell’uomo. Violare le leggi della ragione, regola prossima dei nostri atti, è violare la regola prima e fondamentale, quella legge eterna che non è in qualche modo se non la ragione di Dio. A titolo di ragione naturale, la ragione umana – che è speculativa in quanto apprende ed è pratica in quanto volge all’azione ciò che conosce – segue i primi principi della ragion pratica sottomessa essa stessa all’illuminazione divina, regola della coscienza morale.

La legge naturale sta alla legge eterna come l’essere all’Essere e le regole supreme dell’azione derivano da Dio come quelle della conoscenza; sono esse stesse conoscenze da cui si deduce per via di conseguenza razionale la serie infinita dei diversi particolari. La legge morale del Decalogo non fa che mettere sotto gli occhi degli uomini ciò che essi rifiutano di leggere nella loro coscienza in cui la legge eterna è, in certo modo, inscritta. Come l’ente è il primo concetto conosciuto, così il bene è il primo concetto della ragione pratica. Da una parte, l’illuminazione divina rende la ragione capace di pensare per principi necessari; dall’altra, l’esperienza interna o sensibile le fornisce la materia, a cui si applicheranno quei principi, il cui habitus «è naturale secondo incoazione».

Nella conoscenza naturale pratica il principio supremo è quello di finalità: «ogni soggetto operante agisce per un fine che ha ragione di bene»; il primo precetto della legge, il primo dovere sarà dunque: «bisogna fare e perseguire il bene, evitare il male». Tuttavia quando si tratta di determinare il bene morale, si deve tener conto di un elemento speciale che s’interpone tra la promulgazione dei principi per opera della ragione e i giudizi particolari che ne derivano. È la coscienza.

2- La sinderesi è la conoscenza dei primi principi dell’ordine morale; ad essa corrisponde l’habitus dei primi principi della conoscenza speculativa o intellectus principiorum. Applicando i primi principi nell’ordine teoretico si ottiene la scienza, applicandoli nell’ordine pratico si ottiene la coscienza. La coscienza non è una facoltà distinta dalla volontà e dalla ragione, ma un giudizio pratico su un atto compiuto o omesso, che bisogna fare o non fare, che si approva o che si biasima.

Summa Th., I, II, q. 94, art. 4: «La legge di natura, quanto ai primi principi, è identica per tutti sia per il valore oggettivo che per la conoscenza che se ne ha; ma quanto alle applicazioni particolari, che sono quasi conclusioni dai primi principi, la legge di natura è uguale per tutti nella maggior parte dei casi, oggettivamente e soggettivamente».

L’ESTETICA

 Due sono le condizioni esteriori e non sufficienti dell’opera d’arte: la «integritas», cioè ciò che è necessario a far trasparire la forma, l’organicità intrinseca, vita infusa nell’arte, e la «debita proportio», intrinseca armonia, eleganza.

L’essenza del bello è la «claritas» o meglio lo «splendor formae», lo splendore ontologico, vestigia e raggio dell’Intelligenza creatrice. Non è chiarezza concettuale (è troppo e troppo poco). Le cose belle individuano in modo perfetto e singolarissimo la forma, l’essenza, il valore ideale di una realtà o di un atteggiamento della coscienza umana; in essa si ha il traboccare di un’essenza ideale, di un aspetto, di un valore dal limite del finito, attraverso il sensibile, che pure concorre a determinarne e rilevarne la bellezza. Questa esprime un tendere all’infinito, che trascende di continuo i limiti della finita e necessaria individuazione della cosa bella e rinvia all’infinità reale e attuale del suo eterno principio.

Vi è una duplice dimensione del bello: l’individualità, singolarità come opera, valore realizzato in una particolare individuazione, e l’universalità di diritto come valore.

Per Tommaso bello è ciò che veduto piace («id quod visum placet»); si dice bello ciò la cui apprensione piace (conoscenza intuitiva più gioia). Ciò che esalta e diletta l’anima solo in quanto è dato alla sua intuizione mediante i sensi, questo è il bello. L’uomo è aperto all’essere nella sua infinità, ma il bello che gli è connaturato è quello che diletta l’intelligenza mediante i sensi.

Non ogni piacevole è bello; il bello non è il piacevole ut sic, ma è un certo piacevole. Il piacere estetico è disinteressato; mentre l’amore di concupiscenza porta ad appropriarsi della cosa desiderata e quindi a distruggerla nella sua natura, o a ridurla a mero strumento, l’atteggiamento estetico è simile all’amore di amicizia, ci porta a rispettare la cosa bella nella sua natura, a volere che essa sussista in sé, per quel che essa è, per il suo valore intrinseco. Di qui il valore spontaneamente e indirettamente educativo della contemplazione estetica. Perché il piacere estetico ci sia non occorre il possesso della cosa bella, ma solo la visione, la contemplazione.

«Il buono e il bello sono logicamente distinti» (ratione differunt); il buono riguarda l’intenzione e il volere, il bello dice relazione alla facoltà conoscitiva, ma congiunta alla trasfigurazione affettiva, emozionale e fantastica operata dal soggetto. La percezione sensibile non diventa intuizione estetica se non quando è animata da un concetto universale. Nella contemplazione del bello tutte le nostre facoltà intervengono e sono soddisfatte. L’arte ha per solo fine l’opera stessa e la sua bellezza, ma l’artista non è un idolatra o un autolatra: egli esprime la sua aspirazione all’Infinito – condizione dell’uomo che vive con particolare intensità – non per costrizione, ma per schietta aderenza alla realtà profonda della coscienza. Così, dice Tommaso, più l’artista è pittore, meno è necessario alla perfezione della sua opera che essa parli di altri che di se stesso. Non si può confondere il bello nemmeno con l’utile onesto. L’architettura può conciliare l’utile col bello, ma il primato spetta sempre a quest’ultimo, altrimenti l’utile detta legge e si ha l’edilizia e non l’architettura.

L’abilità tecnica non genera l’arte, ma elimina ogni impedimento all’esercizio di essa, è sua condizione materiale ed estrinseca. Le arti meccaniche e le arti belle sono due specie distinte d’uno stesso genere.

La scolastica

Col nome di scolastica si intende:

a) cronologicamente il pensiero cristiano tra la rinascenza carolingia e la fine del medioevo;

b) speculativamente la scolastica rappresenta l’assunzione della metafisica classica, particolarmente aristotelica, nell’organismo culturale del cristianesimo, assunzione già iniziata dalla patristica, particolarmente nei riguardi del platonismo.

Prima della controriforma nelle antiche università continuano ad essere rappresentate le tre tendenze del nominalismo, scotismo e tomismo; a quest’ultimo fondamentale indirizzo appartengono i due grandi commentari classici di Tommaso: il Ferrariense (Silvestro da Ferrara Franciscum de Sylvestri, 1474-1528) e soprattutto il Gaetano (Thomas de Vio, Cardinalis Cayetanus, 1468-1531).

Quanto alla scolastica della controriforma, i principali rappresentanti sono Domenicani e Gesuiti. Tra i domenicani ricordiamo: Francesco di Vittoria (1480–1566), professore a Salamanca; Domenico Soto (1494-1560) e Melchior Cano (1509-1560), allievi di Francesco di Vittoria; Domenico Banez (1528-1604), campione della «predeterminazione fisica» contro il molinismo; Giovanni di S. Tommaso (1579-1644), uno dei migliori interpreti del tomismo.

Tra i Gesuiti ricordiamo Francesco Toleto (1532-1596), allievo di Scoto; Piero Fonseca (1548-1597), che diresse la pubblicazione del Cursus conimbricensius; Luigi Molina (1536-1600), famoso par la sua opera De concordantia liberi arbitrii cum gratiae donis; Francesco Suarez (1548-1617), il maggior rappresentante della neoscolastica nella controriforma; Silvestro Mauro (1619-1687), celebre per il suo commentario al testo di Aristotele. Aggiungiamo per la Germania Gregorio di Valenza (1551-1603), e per i Paesi Bassi Leonardo Lessio (1554-1623).

I neoscolastici gesuiti si preoccupano più di problemi pratico-morali, politico-giuridici che di problemi speculativi, condizionanti i primi, pur compiendo un notevole sforzo verso la concretezza moderna.

A motivo del suo autentico razionalismo la scolastica ha mostrato una scarsa attitudine ai connubi con il pensiero moderno. Il razionalismo scolastico non è aprioristico, ma a posteriori, tantoché persino l’anima e Dio – e analogamente la stessa Rivelazione – sono provati muovendo dal positivo terreno dell’esperienza. Niente pertanto idee innate, illuminismo intuizionistico, ontologismo, che così facilmente possono inclinare verso il panteismo e l’idealismo.

La essenzializzazione della metafisica classica è l’isolamento dei suoi elementi centrali e imperituri dagli elementi periferici e caduchi, relativi a determinate civiltà (per esempio, quella ellenica o quella medioevale). L’elemento centrale può essere schematizzato così: il conoscere è conoscere dell’essere, concepito come diverso dal nulla, altrimenti sarebbe non conoscere; la legge fondamentale dell’essere è quella della incontraddittorietà dell’essere in quanto l’essere è determinato, identico a se stesso. L’essere dell’esperienza assolutizzato risulta contraddittorio, perché sintesi, equazione di essere e non essere in quanto emergente dal proprio nulla: onde la necessità logica di trascendere l’esperienza verso un essere che non sia sintesi di essere e di nulla, ossia essere assoluto e dunque assolutamente incontraddittorio, ossia Dio.

NOTA CONCLUSIVA: La raccolta di scritti di filosofia di Matteo Perrini nasce dall’esigenza di non disperdere il lavoro di una vita volto in primo luogo a chiarificare a se stesso le idee e le concezioni dei filosofi e, conseguentemente, a tradurle in un linguaggio accessibile ma rigoroso per i propri studenti. I materiali riportati nel volume provengono da diverse fonti, utilizzate per differenti finalità e scritte nell’arco di un cinquantennio, all’incirca tra il 1950 e il 2000. Si tratta di schede ad uso interno finalizzate alla sistematizzazione del pensiero di un autore, di appunti su quaderni per preparare lezioni scolastiche, di articoli pubblicati sul Giornale di Brescia o su riviste specializzate.

[1] Per Feuerbach e Marx affermare Dio è negare l’uomo; per Nietzsche Dio è morto e resterà morto, «il vostro Dio ha sanguinato sotto il mio pugnale!»; Gentile afferma che Dio è inconcepibile perché uccide l’autonomia dello spirito, mentre per Hartmann se vi fosse Dio l’uomo sarebbe annientato come essenza etica e come persona. Per Tommaso invece il problema di Dio è il problema essenziale dell’uomo essenziale, il problema dell’ultimo perché della vita e perciò del fine e della norma di ogni suo momento. «Il problema di Dio e il corrispondente atteggiamento dell’uomo non hanno un significato semplicemente e solamente conclusivo, ma esso è in un certo senso anche costitutivo rispetto alla determinazione dell’essere stesso del mondo e dell’uomo» (Cornelio Fabro, «L’uomo e il problema di Dio», in Dio nella ricerca umana, Coletti, Roma 1950, p. 4). Tutti gli altri problemi non hanno una giustificazione piena (arte, prassi, etica, politica, storia, ecc.) se non in funzione del problema fondamentale del perché e quindi del valore della vita.