Caro, umanissimo Sinjavskij

Con la morte di Andrei Siniavskij, spentosi dopo lunga malattia nella sua fatiscente villa di Fontenay-aux-Roses, alla periferia di Parigi, il 25 febbraio, l’Europa e la Russia hanno perduto uno dei figli migliori, un grande scrittore. Noi abbiamo perduto un amico perché lo scrittore russo è venuto due volte a Brescia, il 12 aprile del 1977 e il 16 ottobre del 1986, su invito della Cooperativa cattolico-democratica di cultura, e io ho avuto il piacere di conversare a lungo con lui e con la signora Maria Rozanova, a Milano e a Bergamo nel 1889 e nel 1991, cioè proprio negli anni in cui si registrava il crollo del comunismo nell’Europa dell’Est e in Unione Sovietica. Tra i dissidenti dell’ex Unione Sovietica è a lui, alla sua persona e al suo modo di testimoniare per la libertà e per l’onore dell’uomo, che è andata la nostra più profonda simpatia.

Siniavskij era nato nel 1925. A ventiquattro anni condusse a termine brillantemente gli studi presso la Facoltà di Filologia dell’Università di Mosca e ottenne un posto come collaboratore scientifico all’Istituto di letteratura mondiale. La sua carriera si prospettava assai promettente e i suoi saggi letterari, di grande acume e di tendenze liberali, hanno successo. Ma ecco che con il critico letterario Siniavskij, brillante e documentato, che può ben farsi accettare ai più alti livelli della cultura universitaria senza mai strisciare dinanzi al potere, convive nascostamente e comincia a scrivere in proprio il suo alter ego, che ha pensieri di feroce ironia, di una fantasia sbrigliata e provocatoria. Prenderà presto il nome di un ladro ebreo del folklore di Odessa, Abram Terz. La data di nascita di Abram Terz è il 1955. A partire dall’anno seguente, con quello pseudonimo appaiono in Occidente, grazie all’amicizia con la figlia di un diplomatico francese, i suoi racconti e romanzi brevi. “Non ero e non sono incline all’avventura – ebbe poi a scrivere Siniavskij – ma non vedevo altra via d’uscita per il mio lavoro letterario al di fuori di questa strada riprovevole agli occhi dello Stato: una strada che comportava un rischioso gioco la cui posta era la propria esistenza, i propri interessi e affetti umani. Non c’è niente da fare, la scelta tra gli interessi dell’uomo e quelli dello scrittore prima o poi si impone. Tanto più in Unione Sovietica dove il destino di tanti scrittori è lì a dimostrare che le strade della letteratura sono perigliose e talora mortali, ma anche che lo scrittore, il quale cerca di conciliare letteratura e benessere materiale, molto spesso lo fa a scapito della prima, cessando di essere un vero scrittore… Un russo che vive nell’età post-staliniana diventa dissidente quando si accorge che la rilevazione dei crimini commessi in nome dell’ideologia, fatta al XX congresso del Pcus, è parziale e che ad essa non si accompagna una qualche spiegazione storica minimamente accettabile; più in generale, quando l’infantile fede nel partito e nell’infallibilità del comunismo cede il posto al giudizio personale e alla voce della coscienza, al senso di responsabilità morale che obbliga ogni uomo a pensare, a parlare e scrivere in modo autonomo, senza uniformarsi ai modelli obbligatori, né alle imbeccate da parte dello Stato”.
Per quasi dieci anni Abram Terz fu ricercato disperatamente in Russia come un delinquente e peggio. In prigionia una volta glielo disse una guardia: “Avessi almeno ucciso qualcuno, sarebbe stato meglio per te!”. In Occidente, frattanto, quegli scritti di grande finezza e originalità destarono crescente interesse per la libera padronanza d’una gamma assai vasta di mezzi linguistici, per la vivezza delle immagini e per l’anticonformismo caustico che li pervadeva. Secondo un illustre critico il suo significato può essere, a buon diritto, accostato a quello che Franz Kafka ebbe per la letteratura europea nella prima metà del nostro secolo. Apparvero allora “Si fa il processo”, “Racconti fantastici”, il grande saggio programmatico “Che cos’è il realismo socialista”, “La gelata”, “Ljubomov” e le note diaristiche “Pensieri improvvisi”, in cui la caricatura e la serietà, il tono tragico e burlesco, il senso metafisico e l’ironia, talora l’invettiva, si sovrappongono e si mescolano felicemente. L’arresto doveva essere inevitabile e venne l’8 settembre 1965.
Il processo intentato contro Siniavskij e Julij Daniel, l’amico di sempre, si svolse a Mosca nei giorni 10, 11 e 12 febbraio del 1966. “Sono stato accusato – replica Siniavskij ai giudici – di aver scritto che ai tempi di Stalin esistevano i lager. Ma ditemi, di grazia: dove sarò condotto quando uscirò da quest’aula?” E in un saggio – che nel frattempo era uscito a Parigi – Abram Terz aveva scritto: “Affinché scomparissero per sempre le prigioni, hanno edificato nuove prigioni. Affinché il lavoro diventasse una soddisfazione, hanno istituito i campi di lavoro forzato. Affinché non fosse più versata una sola goccia di sangue, hanno continuato ad uccidere senza tregua”. Il processo si concluse con la condanna a sette anni di lager a regime severo per Siniavskij e a cinque per Daniel. Il potere sovietico aveva voluto dare un minaccioso avvertimento alla intelligencja con un processo pubblico, ma il processo ebbe una risonanza senza precedenti e produsse un’esplosione di protesta sia in Occidente, sia in Russia. Nel 1958 Boris Pasternak era stato costretto a rifiutare il Nobel e a subire il diktat del potere; ora Siniavskij e Daniel sono al centro di una protesta che non si riesce più a fermare. Tra l’uno e l’altro avvenimento si inserisce nel 1962 il racconto, di cui il regime non aveva minimamente calcolato la pericolosità, “Una giornata di Ivan Denisovic” di Solzenicyn. Quel racconto segnò la rivincita dei valori morali e cambiò il clima spirituale del Paese. Lo si vide dalle inattese reazioni alla condanna di Siniavskij e Daniel.

Spingere un carrello nel freddo intenso, essere attanagliati nei morsi della fame e nello stesso tempo colloquiare nel proprio intimo con Amleto, Puskin, o Gogol e, tornato poi a sera nella baracca in preda ad una mortale stanchezza, trovare ancora la forza di annotare i propri pensieri: non è questa una vittoria dello spirito umano sulle forze oscure che tendono a umiliarlo? E non è forse vero che quanto più penosa è la prova che ad un uomo tocca subire, tanto più essa rivela ciò che quell’ uomo vale? Siniavskij è stato segnato nell’anima da quella severissima prova, che riuscì ad affrontare e a superare attingendo, attraverso la sofferenza, alle sorgenti più luminose della vita. Il mondo fantastico, affascinante e senza gioia, di Abram Terz cede il posto alla mitezza evangelica. Siniavskij condensa in una frase – “Ciò che la vita insegna è che si deve essere riconoscenti” – l’orizzonte nuovo e infinito che gli si spalanca dentro, grazie alla ritrovata fede in Cristo. E ricorda: “Quella volta che una moglie disse a suo marito, riferendosi ad un evaso – Se tu dovessi denunziarlo, io ti pianterei! noi tutti abbiamo capito che grande è la forza del bene e che esso ci guida invisibilmente avviluppato nel manto del male onde conservare il segreto”. Le lettere erano la sola forma di scrittura consentita nel lager e Siniavskij, scrivendo alla moglie, nell’atto di confidarle i suoi pensieri più intimi, andava elaborando un materiale da cui poi sarebbero usciti tre libri: “Una voce dal coro”, “Passeggiate con Puskin” e “Nell’ombra di Gogol”. Tutti e tre appariranno dopo che emigrò a Parigi, nell’agosto del 1973, quando, scontata la pena, ottenne un visto di uscita dall’Urss. Il secondo e il terzo libro vedono il pieno affermarsi di Siniavskij critico letterario; “Una voce dal coro” è, invece, un mix geniale di diario e di riflessioni filosofiche. In quell’opera mirabile poteva pur esserci un qualche cenno alle terribili sofferenze patite, ma non c’è. Al contrario, ci imbattiamo solo in un’avara noterella: “Nel giorno del mio compleanno mi hanno fatto un regalo. Qualcuno – un detenuto che quasi non conosco – mi allunga un sacchettino, e dentro c’è un ricambio per biro: una cannuccia sola… È proprio vero che nella povertà più grande la bontà è più forte”.

Il capolavoro di Siniavskij è “Buona Notte!” di cui la Garzanti ci offrì una magnifica traduzione in italiano. Il romanzo uscì nel 1984. Lo stile alterna il fantastico e il vissuto, come solo Michail Bulgakov aveva saputo fare prima di Siniavskij. Vi sono pagine degne del miglior Dostoevskij, che ci introducono nelle misteriose profondità del cuore umano, ma anche nel fetido “ventre della balena”, cioè nel groviglio di arbitrii e nefandezze dello Stato totalitario. “Buona Notte!” è un libro alla rovescia, in cui il racconto risale dall’epilogo al prologo, dalla vita nel lager all’arresto, dal duello con il giudice istruttore alle illusioni dell’adolescenza, al mondo magico dell’infanzia. La lettura di questo grande libro, ancora così poco conosciuto nel nostro Paese, è indispensabile a chi sappia far sue le parole di Puskin: “Seguire i pensieri di un grande è la scienza più avvincente». A me sono rimasti particolarmente nell’animo tre episodi. Il primo. Nel campo c’è una squallida, e pur agognata, “casa d’appuntamenti”. Lì i prigionieri ricevono una volta l’anno la moglie, mentre l’ufficiale carceriere e guardone spia dal buco della serratura. Il secondo. Andrej passeggia con il padre, nella foresta di Rameno, a mille chilometri da Mosca. Il padre, che è stato socialista rivoluzionario, anticomunista, ha subito la prigionia e l’esilio. In una scena allucinante, egli confida al figlio che, persino nel cuore della foresta, è convinto di essere collegato ai sistemi di ascolto, sorvegliato telepaticamente. Quel colloquio è come una consegna, una tacita premessa agli eventi futuri della vita di Andrej. Il terzo. Nel sogno notturno, ricorrente tra un incubo e un altro, l’ex deportato vede Stalin che infierisce sulle vittime della sua crudeltà e Dio che lo condanna ad asciugare, per tutta l’eternità, le lacrime di coloro che egli ha condotto alla disperazione e alla morte. Siniavskij mi ha detto che quella scena gli si è presentata più volte, quasi fosse una visione.

Giornale di Brescia, 3.3.1997. Articolo scritto in occasione della morte del grande scrittore russo, che era stato ospite della CCDC nel 1977 e nel 1986.