Chiara, la luce attraverso la filosofia

Chiara Albini frequentava l’ultimo anno del liceo classico quando la conobbi. Venne da me per avere «qualche lezione di approfondimento critico», come mi disse presentandosi, sul pensiero di Kant. A scuola faceva bene in filosofia e aveva un insegnante di primissimo ordine; tuttavia, avendo avvertito che il criticismo kantiano metteva in gioco le sue convinzioni, volle subito fare i conti con esso, senza rinviare ad un altro momento quello che avvertiva come un’urgenza dello spirito. Io, che non amavo affatto impartire lezioni private, in quel caso cedetti. Iniziò così una delle cose più belle della mia vita: una comunicazione libera, da anima ad anima, di riflessioni che riguardavano il senso stesso della vita e l’impegno a cercare con tutta l’anima la verità in qualsiasi campo. Ben presto, com’era giusto, il tramite abituale divenne il libro. Di libri ottimi ce ne sono pochi, ma è un’esperienza spirituale meravigliosa meditarli e discuterli insieme a chi cerca con animo puro. E Chiara era un’interlocutrice molto intelligente e di prorompente franchezza, che andava all’essenziale senza scantonare – è una tentazione per chi è giovane – in questioncelle periferiche o capziose.
All’università Chiara scelse, com’era prevedibile, la facoltà di Filosofia e il saldo impianto tomistico-personalistico della scuola di Padova fu da lei sostanzialmente condiviso. In quegli anni i nostri contatti divennero sporadici, pur rimanendo cordiali.
Tornammo a rivederci più spesso per la scelta della tesi di laurea. Tra i possibili argomenti Chiara volle studiare il problema dell’impianto dei valori nella storia attraverso la concezione di un pensatore contemporaneo profondo e anticonformista, Nicola Petruzzellis, la cui opera prima, Il valore della storia, edita nel 1939, era apparsa all’esule Luigi Sturzo di fondamentale importanza, di gran lunga la migliore tra quelle elaborate in connessione con la metafisica del realismo spiritualistico. In quel tempo, essendosi resa libera al liceo scientifico Luzzago una cattedra per l’insegnamento di storia e filosofia, chiesi al rettore padre Simpliciano Olgiati, di assegnarla senza indugio a Chiara, divenuta nel frattempo «signora Mattei». Credo di non aver mai dato consiglio più opportuno e fecondo di bene.
Chiara in cattedra mostrò ben presto di trovarsi al posto giusto, là dove la destinava la sua vocazione. Infatti, in lei la passione per la ricerca si saldava perfettamente al bisogno di associare a sé, in un alto cammino, coloro che erano affidati alla sua responsabilità e al suo amore. Di certo Chiara si riconosceva nelle parole che il più umano tra i filosofia pre-cristiani, Lucio Anneo Seneca, rivolge al suo corrispondente: «Io desidero trasfondere in tutte le mie conquiste. Nessuna cosa mi diletterebbe, ancorché eccellente e proficua, se dovessi riconoscerla esclusivamente per me solo. Ho gioia di apprendere qualche cosa solo in quanto possa insegnarla. Se mi fosse concessa la sapienza a patto di tenerla chiusa in me stesso e di non comunicarla, la rifiuterei» (Lettere a Lucilio, 6). Mai forse è stata così efficacemente espressa, come in queste poche frasi, la vocazione dell’educatore. E Chiara era un’educatrice autentica. La volontà di servire l’umanità degli adolescenti nella scuola, attraverso l’insegnamento della filosofia, fu la «via» che Chiara percorse, il suo «lavoro»: un lavoro in cui l’aggiornamento culturale è senz’altro condizione necessaria, ma non sufficiente, per insegnar bene. Chiara si rese conto che quanto più ci sta a cuore l’istruzione educativa, che abbia cioè valore formativo, tanto più ci si deve occupare dei modi migliori di insegnare la propria disciplina. Il metodo, però, era e fu sempre per lei mezzo rispetto al fine e non feticcio, immodificabile a priori o, peggio, brevetto di cui vantare l’esclusiva. Dotata di superiore buon senso, di ironia e di auto-ironia, nonché di un sincero sentire cristiano, Chiara percepì sempre che l’efficacia educativa dipende in ultimi istanza dal fattore umano, dal tipo di relazione reciproca tra insegnante e studenti, da quell’insieme di atteggiamenti che il professore assume di fronte ai giovani.
Discutevamo spesso di procedimenti didattici, ma il segreto vero del suo far bene scuola consisteva soprattutto nella determinazione di voler essere di più come persona per dare di più come docente. L’intensità che riusciva a conquistare, giorno per giorno, a livello di esistenza personale, si traduceva in lei in capacità di dono per i suoi studenti. Di qui quel carattere di vivacità gioiosa, di limpida sincerità, di comprensione materna ed insieme esigente del suo stile di insegnante. Non ci si deve meravigliare, pertanto, che la professoressa Chiara ispirasse simpatia e confidenza, permettendo così agli allievi di lavorare senza risparmio. Per questo anche gli studenti meno dotati per la filosofia le volevano bene e vedevano in lei un modello di umanità che afferra il cuore.
Vi è poi un’altra dimensione della vita e della personalità di Chiara, che anima dall’interno la sua attività d’insegnante: è la sua fede nel Cristo dei Vangeli, una fede attinta dalla Scrittura e dalla Chiesa, ripensata e approfondita con vigore, resa vittoriosa su ciò che la nega e, peggio, ne è la contraffazione. Quella fede ha reso luminoso anche il duro tirocinio del suo soffrire. La virile lotta col male, prima, e poi la rinuncia a tutto – rinuncia che alla fine divenne dolce e totale – sono l’ultima e la più alta lezione di cui quella piccola grande donna ci ha fatto dono. È una cosa giusta e degna per i suoi colleghi e i suoi concittadini far memoria di chi ha alimentato in tanti cuori la fiamma dello spirito, prodigando per i giovani tutte le risorse dell’intelligenza e della sua stessa giovinezza. Sono le persone, gli insegnanti come Chiara – loro che lavorano sodo, ma in silenzio – che meritano non solo l’interesse, ma l’ammirazione incondizionata e la riconoscenza di coloro che credono nella bellezza e nella santità della vita.

Giornale di Brescia, 31 luglio 1996.