Con Edith Stein nelle «stanze» dell’essere intimo e verso l’oltre

L’esperienza religiosa come atto unitario che comprende le tre possibilità fondamentali del conoscere, amare, afferrare. E che poggia sulla struttura antropologica in quanto, proprio nel “guardare dentro” alla ricerca di quei “luoghi” profondi e spesso nascosti dell’anima, si inizia un cammino di scoprimento della dimensione trascendente, in quanto “altro” rispetto ai limiti della finitezza umana.
Edith Stein (1891-1942), la filosofa cristiana morta ad Auschwitz, viene raccontata mirabilmente da Angela Ales Bello, professore emerito di Storia della Filosofia contemporanea nell’Università Lateranense di Roma, ieri alla sala Bevilacqua per l’incontro conclusivo delle “Lezioni di filosofia” proposte dalla Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura in collaborazione con i Padri della Pace sul tema “Il problema di Dio nella filosofia del Novecento”.
La giovane Stein fu allieva di Husserl a Gottinga, di cui diverrà assistente a Friburgo (e di cui contribuirà, tra l’altro, a riordinare i manoscritti pubblicati poi come 2° e 3° volume delle “Idee per una nuova fenomenologia pura”), e in questo periodo s’imbatté nell’opera di Santa Teresa d’Avila, mentre stava lavorando sul grande tema “che cos’è l’essere umano”. “Entrare nel “castello interiore” significa per Edith Stein partire dalla coscienza della nostra corporeità, per poi renderci conto che esiste la dimensione psichica ed anche la valutazione intellettuale. L’essere umano – osserva la prof. Ales Bello, che è curatrice dell’edizione italiana delle opere steiniane presso Città Nuova – è molto complesso e stratificato. Il suo nucleo profondo è la straordinaria singolarità, nella quale si ritrova la traccia del divino”. Ales Bello cita l’esempio di filosofi dichiaratamente atei, come Sartre e Nietzsche, che pur “parlano sempre di Dio”, sospinti quasi “naturalmente” a fare i conti con un problema ineludibile, cui si può anche opporre il “rifiuto”, poiché frutto della libertà umana.
L’atto religioso contempla, per Stein, un “riconoscere la presenza di Dio”, quindi amarlo (esserne “attratti”) ed “afferrarsi” a Lui, in una modalità che soddisfa anche, attraverso il tema dell’incarnazione, quella propensione a “vedere e toccare” l’oggetto-soggetto d’amore. La conversione, però, rappresenta un “salto”. Le prove razionali dell’esistenza di Dio (alla maniera di Tommaso d’Aquino) non sono sufficienti a rendere conto di un rapporto che può istituirsi solo nell’apertura e nell’abbandono (come accadde a San Paolo nella “folgorazione”). L’ultimo approdo di Edith Stein, proclamata Santa nel 1998 da papa Giovanni Paolo II, fu il misticismo, esito di un itinerario di esplorazione di tutte le “stanze” del nostro essere intimo, per giungere all’estasi, la “sesta dimora” e procedere ulteriormente, a quel momento in cui, in coincideva con quanto riferiva Santa Teresa, “la presenza di Dio rivela all’anima il tutto”: “L’essere umano capisce molte cose che prima non comprendeva, in un potenziamento della conoscenza. L’amore di Dio si manifesta in modo dinamico, è un movimento trinitario”. 

Giornale di Brescia, 20.4.2012