Contro la riduzione secolaristica della morale greca

Per i greci «compiutezza» e «misura» sono i coefficienti primari, il costitutivo stesso di una vita umana razionalmente vissuta e dunque felice. Anche se con accentuazioni diverse in questo convengono Platone e Aristotele. La vera eudaimonia degli uomini, cioè la loro vita inseparabilmente buona e felice, si ha quando il bisogno illimitato di godimento (àpeiron) che urge in ognuno di noi è umanizzato dal limite (peras) che la ragione gli assegna. L’uomo è un composto, comunque questo dato venga interpretato e presentato (e qui le divergenze fra Platone e Aristotele sono incolmabili), e la felicità per l’uomo sarà pertanto «una vita mista di intelligenza e di piacere», purché innocenti e goduti con moderazione. E’ la tesi del “Filebo” platonico puntualmente riproposta da Aristotele nell’”Etica Nicomachea”.
Da queste considerazioni secondo Francesco Adorno si dovrebbe trarre una radicale conclusione: la ricerca greca della «compiutezza» e della «misura» comporta la «mondanità» come orizzonte esclusivo della condotta umana, per cui tutto si díspiega e si conclude entro l’arco del nascere e del perire. Una prospettiva del genere, a sua volta, impone un vero e proprio capovolgimento nell’interpretazione del messaggio di Socrate, Platone e Aristotele. Adorno non arretra. Per lui il platonismo e l’aristotelismo «ontologici» e «religiosi» sarebbero «costruzioni» posteriori suggerite dall’irrompere di componenti nuove, religiose appunto; non più strettamente greche, ma stoiche, neo platoniche, ebraico cristiane, in virtù delle quali «si giungerà a credere che l’essenza umana è tale non in questo mondo, ma solo oltre questa vita». Di qui una conseguenza paradossale: un pensatore come Epicuro, materialista nella concezione del mondo ed edonista in morale, verrebbe a trovarsi in una linea di continuità diretta con Platone ed Aristotele una volta che questi siano dichiarati estranei al nucleo metafisico e teologico della loro opera. Con Epicuro l’etica strettamente greca, portando anzi a perfezione il suo carattere di mondana restituzione dell’uomo a se stesso e di rifiuto della dimensione religiosa, tocca il culmine e si conclude.
Alla risoluzione secolaristica di tutta la morale greca è difficile consentire e per molte ragioni. Ma prima ci sia permessa un’osservazione: è lecito sovrapporre o dichiarare a priori coincidenti il riconoscimento del limite e la chiusura all’Assoluto? L’asserita identità delle due posizioni è tutt’altro che scontata nel pensiero greco e trova poi in campo cristiano una smentita continua, clamorosa. Si pensi ad Agostino, a Pascal, a Blondel: tre pensatori che sulla ricognizione critica del limite hanno fatto leva per l’affermazione della trascendenza, in epoche assai diverse per intervallo di secoli e per il tipo di cultura che le caratterizza. Certo, il vigoroso richiamo alla «misura» della ragione è aspetto reale e non secondario della saggezza, è un acquisto fatto per sempre e per tutti da Atene. Di quella lezione ha bisogno anche il nostro tempo, perché occorre ben misurarsi con i fatti, e solo chi conosce la dura realtà effettuale potrà impegnarsi a elevarla e a razionalizzarla moralmente, senza fanatismi e intolleranze. Ma la forza dinamica della saggezza greca – protesa a vincere di continuo il cattivo infinito, quello pseudo infinito che è l’illimitato, l’indefinito, il confuso, 1’àpeiron appunto – sta forse proprio nel fatto che, non perdendosi, come fanno quasi tutti i sistemi dell’immanenza, nella infinitizzazione del finito, è già costitutivamente orientata alla ricerca e all’affermazione dell’autentico infinito.
Quali che siano le differenze profonde con la visione cristiana della vita, la saggezza di Socrate, di Platone e di Aristotele tende a oltrepassare l’orizzonte terreno, e non per una sortita casuale. Chi non avverte nell’opera prima di Platone, l’”Apologia”, che la fede razionale religiosa in Dio, nelle cui mani è la sorte del giusto, è il postulato fondamentale della scelta decisiva di Socrate? Bergson ha scritto di Socrate, con l’abituale finezza, che «la sua missione è di ordine religioso mistico, nel senso in cui prendiamo queste parole: il suo insegnamento, così perfettamente razionale, è sospeso a qualche cosa che sembra sorpassare la pura ragione» . In Platone la dimensione teologica non è una fase della sua «scepsi», o un’aggiunta posticcia di interpreti tardivi, ma ciò che anima la trattazione di tutti i problemi. Su questo punto non si può nemmeno giocare alla contrapposizione del Platone del “Fedone” e della “Repubblica” al Platone del “Timeo” e delle “Leggi”. E’ infatti proprio in questi ultimi scritti che la razionale determinatezza dell’opera è invocata ad attestare la finalità della natura e la provvidenza del Dio-misura, cioè principio di ordine, di armonia, di equilibrio nel mondo delle cose e degli uomini. Per Platone la condotta dell’uomo è morale se è «imitazione di Dio» e se l’uomo si fa collaboratore della provvidenza nel finalismo universale. Una scienza del bene senza il Bene, senza la Sorgente prima e il Valore assoluto, sarebbe meramente formale, incapace di vincere l’utilitarismo, l’edonismo, la pressione sociomorfica. Lo stesso eudemonismo dell’etica platonica, sin dal “Gorgia”, rivela nell’ispirazione religiosa il suo profondo significato: il bene non è mezzo a realizzare la felicità, ma fine a sé stesso, valore al quale la felicità è insieme subordinata e intimamente congiunta. Nell’ultima sua opera Platone, quasi a sigillo di una delle più straordinarie avventure del pensiero, scrive le parole rivelatrici: «Chi ignora Dio non potrà mai scoprire la ragione per cui si vive, né farsi un concetto di ciò che riguarda la felicità e l’infelicità» .
Malgrado l’insistenza di Aristotele nell’analisi fenomenologica dell’atto morale e nella reciproca subordinazione – propria dell’Ellade – dell’etica e della politica, è sostanziale la sua adesione alla dottrina socratico-platonica, che distingueva beni esteriori, beni dell’anima e beni del corpo, conferendo non certo l’esclusiva ma senza dubbio il primato ai secondi. Tale primato include, perché l’uomo sia felice, sia il concorso di alcune circostanze favorevoli, sia il retto uso del piacere. Un padre che avesse figli buoni ma li vedesse morire, o avesse figli scellerati che sarebbe meglio non fossero mai nati, non può essere felice, anche se la sua coscienza è serena e se affronta la situazione con dignità e fermezza. La sventura compromette la felicità; e la sventura può avere anche i caratteri della tragedia collettiva, dalla quale assai spesso non ci si può riprendere in breve tempo. «Nessuno potrà essere veramente felice, se farà la fine di Priamo» , scrive con molta verità il filosofo di Stagira e ognuno può aggiornare il paragone come meglio crede! D’accordo con il Platone della vecchiaia, Aristotele insiste per una certa rivalutazione del piacere, ma anche per lui il piacere più degno dell’uomo è il coronamento della vita virtuosa, il conseguente di cui la virtù è l’antecedente necessario. Se il piacere non è il Bene, è però qualcosa di positivo, il cui effetto è quello di perfezionare l’esercizio di una facoltà. Non si deve dire che ogni piacere è male, per il fatto che alcuni piaceri sono ignominiosi; ma se sono ignominiosi, sono poi veramente piaceri? Aristotele, con il suo robusto buon senso, non lo ritiene possibile . Poiché i piaceri differiscono speficamente a seconda delle attività dalle quale derivano, «si potranno dire propriamente piaceri quelli che accompagnano e perfezionano le attività proprie dell’uomo; gli altri invece saranno piaceri solo in via secondaria e del tutto accessoriamente» .
In ultima analisi, l’eudaimonia socratico-platonica-aristotelica può essere sintetizzata dal principio formulato nel “Gorgia” «si deve cercare il piacere per il bene, non il bene per il piacere» ; la felicità che si vuole non è mai ridotta a una «metretica dei piaceri», non è mai edonismo né raffinato, né volgare. Malgrado le gravi aporie che caratterizzano la concezione aristotelica del rapporto tra Dio e il mondo e del destino ultimo dell’uomo, per il filosofo del Liceo la sapienza trae forza e norma dalla contemplazione intellettiva, dall’atto con cui nel coglierla ci impossessiamo della verità di ciò che è al di sopra dell’uomo. E la verità più alta, supremamente disinteressata e proprio per questo supremamente necessaria all’uomo, è quella che riguarda Dio. Anche qui Aristotele continua direttamente Platone, tematizzando sul piano metafisico e morale «la tangenza contemplativa con la vita di Dio», per servirci di un’efficace espressione di Giovanni Reale. Così il precetto platonico che l’uomo deve quanto più è possibile assimilarsi a Dio acquista un più preciso significato: assimilarsi a Dio significa in primo luogo contemplare Dio. La suprema Verità è anche il sommo Bene. «Dio – è scritto nell’ultima pagina dell’Etica Nicomachea – è il fine in vista dei quale la saggezza comanda e qualsiasi cosa che, o per eccesso o per difetto, impedisca di servire o contemplare Dio sarà cattiva».

Testo tratto da AA.VV, Piacere e felicità: fortuna e destino, Liviana Editrice, Padova 1982, pp. 35-38. Il testo completo di note è disponibile in formato .pdf, scaricabile cliccando sull’icona.