Così il fascismo giunse al potere

La psicosi bellica, l’agitazione sociale, la schizofrenia socialista

COSÌ IL FASCISMO GIUNSE AL POTERE[1]

I

Non si fa una sintesi storica senza rischio, se non ci è dato il tempo e il modo di ricostruire gli eventi di un’epoca nei loro fattori, nelle interferenze degli uomini e delle situazioni, nelle sfumature più significative.

D’altra parte, bisogna pur tentare di ricondurre il discorso a pochi punti nodali, a condizione che siano rigorosamente accertati. Il rischio può, dunque, essere consapevolmente assunto nello spirito di quell’aforisma secondo il quale «non è l’abbondanza dei particolari, ma la loro qualità che rende un ritratto somigliante». Qui si vuole, appunto, non narrare i fatti, ma far emergere quelle linee di forza che, a mio avviso, servono meglio a individuare il volto di un’epoca, o se si preferisce a collegare tra loro le scene di un dramma, tanto più dolorosamente appassionante in quanto avrebbe potuto avere uno svolgimento e un epilogo del tutto diversi da quelli che ebbe.

Perché la “nevrastenia del dopoguerra” in Italia portò alla crisi dello Stato liberale e al fascismo? Questo è il problema che ci sta dinanzi. Il tentativo di risposta, per un verso, ci riporta, inevitabilmente, al grande trauma subito dal nostro Paese tra il ’14 e il ’18 (la spaccatura tra interventisti e neutralisti nel 1914-15, l’aprile-maggio del ’15 col Trattato di Londra e le cosiddette «radiose giornate», i mille giorni di una guerra durissima che sconvolse l’economia e incanaglì gli animi); per un altro verso, ci obbliga a cogliere nel loro divenire fenomeni specifici del nostro dopoguerra, quelli che più fortemente e direttamente caratterizzarono sia il cosiddetto «biennio rosso» (1919-20), sia il «biennio della controrivoluzione preventiva» e del congiunto, progressivo sgretolamento dello Stato liberale (1921-22).

 Il Patto di Londra

 Nel 1914-15, e precisamente nel «modo» in cui la classe dirigente giunse a decidere l’intervento – quel modo che si può riassumere in una formula: Patto di Londra e «radioso maggismo» – possiamo già intravedere alcune conseguenze che potevano essere evitate o corrette, e che invece caratterizzarono negativamente gli anni di guerra ed anche il dopoguerra. Che senso ebbero, dunque, le «radiose giornate» del maggio 1915? Esse attestano la netta prevalenza dell’interventismo antidemocratico sull’interventismo democratico di Bissolati, Battisti, Bonomi, Gronchi, Salvemini che reclamava l’intervento contro la minaccia del militarismo tedesco, per l’autodecisione dei popoli e la liberazione delle nazionalità oppresse. Questo interventismo, che nel gennaio 1918 si riconoscerà nei 14 Punti di Wilson, sia per l’interpretazione democratica delle finalità del conflitto, sia per la prospettiva del dopoguerra, sarà sconfitto dall’interventismo violentemente antidemocratico dei sindacalisti rivoluzionari, dei nazionalisti, dei futuristi, che professavano i miti più disparati, ma di fatto convergevano su due punti: propagandavano la guerra, la necessità fascinosa del «caldo bagno di sangue», il solo atto a rigenerare una nazione imbastardita e a dissipare «l’orribile fetore della pace», come allora scriveva D’Annunzio; ed erano altresì concordi nel voler smantellare l’istituto parlamentare.

Nelle cosiddette «radiose giornate di maggio» si vide dilagare nelle piazze, sormontando e convogliando ogni altra corrente, l’interventismo più «torbido e arruffato» (Salvemini), quello che aveva i suoi corifei in D’Annunzio e Mussolini, e le sue truppe d’assalto negli studenti e nei rampolli della borghesia impiegatizia e intellettuale, smaniosi gli uni e gli altri di uscire dal chiuso della loro mediocrità e di correre la grande avventura. Quelle giornate, che qualcuno già allora definì «sudamericane», forzarono la mano al governo e al sovrano, fino all’ultimo incerti e possibilisti sul da farsi, e piegarono per loro mezzo il Parlamento. In realtà quando il 20 maggio ’15 il Parlamento si riunì, la piazza lo aveva esautorato. «Il Parlamento in Italia – aveva scritto Mussolini l’11 maggio sul Popolo d’Italia – è il buffone pestifero che avvelena il sangue della Nazione. Occorre estinguerlo». Turati, all’opposto, nella seduta del 20 maggio, deplorò che la «guerra avrebbe prodotto questo primo effetto, prima ancora di essere scoppiata: di aver abolito fra noi il vigore e la dignità dell’istituto parlamentare». Contro il Parlamento «fu la prima vittoriosa battaglia del fascismo albeggiante. – ha scritto poi Nino Valeri – Cominciò allora la consuetudine delle sagre, sull’esempio di quella di Quarto: corse la teoria del bagno di sangue, dilagò il metodo della diffamazione e del vituperio contro chi manifestasse opinioni contrarie (il tradimento in agguato!) e l’incitamento alla violenza, la caccia all’uomo, le liste di proscrizione, i dialoghi con la folla, le minacce della santa canaglia, il compiacimento dei superuomini… L’imbonimento, usato come discreta arma politica, fu spontaneamente impegnato come menzogna organizzata, diretta a vellicare i sentimenti più bassi».

 Arma politica

 Al processo di sgretolamento del sistema democratico dette un contributo di grande rilievo anche il malessere che ingenerò nel Paese la gretta visione politica con cui i capi della destra liberale antigiolittiana al potere, Salandra e Sonnino, discussero e conclusero, prima, e gestirono, poi, il Trattato di Londra. Proprio perché «armati di sacro egoismo», i capi del liberal-conservatorismo non seppero per nulla conciliare il compimento dell’unità nazionale, la sicurezza dei confini e la solidarietà con i popoli oppressi, anch’essi in lotta e prima di noi, contro l’impero austro-ungarico.

Si intestardirono, invece, in una politica di “ingrandimenti territoriali” ad ogni costo e di dominio esclusivo dell’Adriatico, facendo proprie le rivendicazioni antislave dei nazionalisti, che anche il Di San Giuliano e il Tittoni giudicavano «semplici pazzie» (Christopher Seton-Watson, L’Italia dal liberalismo al fascismo, Universale Laterza, Bari 1973, p. 884).

Il Trattato assegnava all’Italia la Dalmazia e le isole antistanti; ma la Dalmazia e l’arcipelago della Curzolari non erano territori italiani, ed era comunque stolto oltre che iniquo trasferire sotto la sovranità italiana 230 mila austro-tedeschi e 700.000 slavi per meglio garantire gli italiani che vivevano in quelle terre. Era una vera e propria sfida alla coscienza slava e al principio di libertà dei popoli. La coscienza slava, offesa e calpestata, ai primi di maggio rispose contrattaccando e con Sùpilo e Trumbic rivendicò per il futuro Stato jugoslavo non soltanto la Dalmazia, ma anche l’Istria e Trieste. L’Italia pagò subito e a caro prezzo le illusioni e gli errori di Sonnino. Infatti l’appello alla resistenza «contro l’imperialismo italiano» rafforzò enormemente la fedeltà dei sudditi slavi dell’Austria-Ungheria. E Pasic, il Presidente del consiglio serbo, aveva ragione quando dichiarò che gli jugoslavi, se fossero stati costretti a scegliere tra due padroni, avrebbero preferito l’Austri all’Italia (Seton-Watson, op. cit., p. 884).

Dal canto suo il generale Cadorna scrisse che, se fosse stato consultato durante i negoziati, avrebbe fatto osservare a Sonnino che l’annessione della Dalmazia e delle isole era assolutamente da scartare perché avrebbe imposto enormi oneri economici all’Italia e perché quelle terre erano del tutto indifendibili contro uno Stato slavo ostile. Concrete possibilità di correggere l’assurda politica sonniniana si affacciarono durante il conflitto, e soprattutto quando sulla nostra boria si abbatté il disastro di Caporetto.

Fu nell’ora del disastro che il Governo italiano, per bocca di Orlando, riscoprì la «politica della nazionalità» e dell’autodecisione dei popoli. Sembrò che l’Italia finalmente preferisse i princìpi di Mazzini a quelli di Metternich. L’8 aprile del ’18, quando ancora l’Italia si batteva sul Grappa e sul Piave, si riunì in Campidoglio il Congresso delle nazionalità oppresse che si concluse con la firma del Patto di Roma, in cui erano implicite la disponibilità italiana a rinunciare alla Dalmazia e quella jugoslava a non rivendicare l’Istria e Trieste. Orlando accolse il Patto di Roma con grande favore a nome del governo. Sembrava trionfare finalmente la linea democratica bissolatiana, anche se il ministro degli Esteri, Sonnino, aveva rifiutato di assistere al Congresso di Roma. Tuttavia, dopo la conclusione vittoriosa della battaglia del Piave, anche il presidente Orlando non ebbe più dubbi. Da bravo nipotino di Machiavelli, anch’egli seguì la tattica del «passata la festa, gabbato lo santo» e insieme a Sonnino rivendicò nel contempo l’annessione di Fiume, non contemplata dal Trattato di Londra in nome del principio di autodecisione dei popoli, perché quel territorio era prevalentemente abitato da popolazione italiana e, contro quel principio, rivendicò la Dalmazia, le Curzolari, Valona perché a noi assegnate dal Trattato di Londra.

***

La linea contraddittoria della delegazione italiana a Parigi portò alla rottura delle trattative e allo scontro con Wilson. Nell’ebbrezza dei facili applausi, Orlando fu in quei mesi, il principale artefice del mito della “vittoria mutilata”: mito quanto mai deviante per un popolo che, avendo molto sofferto, era troppo facilmente incline a credersi defraudato. Gli interventisti democratici, che riponevano l’onore italiano nel rispetto della dignità degli altri popoli e nella giusta difesa dei nostri diritti, furono zittiti, pestati, accusati di essere rinunciatari, traditori, venduti allo straniero. E sulle ali della «vittoria mutilata», D’Annunzio tornò alla ribalta e parlò di un altro «maggio radioso» e della necessità di far fuori una classe politica responsabile di un così vergognoso fallimento. Fu così che l’angustia mentale di Sonnino e Orlando, alimentando in modo plateale lo scontento per la «vittoria mutilata», pose il governo in una posizione indifendibile e screditò lo Stato liberale, spingendo i giovani e i ceti medi a desiderare ‘estromissione dal potere di una classe dirigente imbelle, il ricorso alla violenza, la fine definitiva del regime parlamentare. Fu in quel clima avvelenato che nel settembre del ’19 maturò l’impresa di Fiume, antecedente e modello della marcia su Roma. L’impresa fiumana insegnò a Mussolini innanzi tutto la necessità di un’intesa con le forze armate. Infatti dietro D’Annunzio non c’erano solo molti sottufficiali e ufficiali, ma anche generali e ammiragli ormai acquisiti all’ideologia nazionalistica, e per essa pronti alla sedizione (G. Salvemini, Le origini del fascismo, Feltrinelli Universale, 1966, pp. 234-235). Con D’Annunzio si schierarono gli arditi, i nazionalisti, i fascisti, i massimalisti e perfino la figura più eminente dell’anarchismo italiano, Errico Malatesta, anch’egli affascinato dal «vate che aveva assestato un duro colpo al Parlamento», l’istituto da seppellire ad ogni costo e con l’aiuto di chiunque. Lo ricorda Pietro Nenni nella sua Storia di quattro anni (2.a ed 1946, p. 38). La «rivoluzione nazionalistica» era pur sempre una «rivoluzione» e quindi un «prodromo di quella proletaria». Si sperava che l’insurrezione fiumana, dilagando in Italia, potesse portare al potere la sinistra! E l’abbaglio non era solo di Malatesta e compagni; era anche di Lenin, il quale nel settembre del ’20, al «Congresso delle nazionalità oppresse» riunito a Baku, aveva parlato di D’Annunzio come di «un autentico rivoluzionario».

II

Dalla grande guerra alla fabbrica

Nel novembre 1918 finalmente ha termine la «grande guerra», ma la psicosi bellica, l’invocazione alla violenza, via risolutrice di ogni problema sociale e politico, nazionale e internazionale, avvelena gli animi di quelli che han fatto la guerra e di quelli che non l’hanno fatta, di coloro che l’avevano voluta e di coloro che l’avevano rifiutata. A guerra finita «l’homme reste mobilisé», ha scritto molto bene Beaumont, non lascia l’uniforme, o ne riprende un’altra. Egli si rimette alla consegna e alle parole d’ordine di un capo, di un comitato, di un partito. La mobilitazione intorno ad uno slogan, a una bandiera, la massificazione si sostituiscono al risveglio morale, all’associazione politica, al dibattito. Alberto Caracciolo annota: «Il fatto militare si inserisce e si scioglie immediatamente nel fatto rivoluzionario o controrivoluzionario».

È una trasformazione radicale nel tessuto civile dei Paesi europei. «Comunque la pensi, ognuno tende a portare nella lotta politica e sociale la mentalità e i metodi della guerra» (Armando Saitta). La lotta si sposta dal piano del confronto a quello della sopraffazione e dell’annientamento dell’avversario, mediante la falsificazione del suo pensiero e la sua stessa eliminazione fisica, del resto propagandata e minacciata ad alta voce. L’appello alla violenza, quali che siano le giustificazioni che se ne danno e le modalità d’uso, genera sfiducia e disprezzo nei confronti della democrazia. Di qui l’attesa della dittatura liberatrice, sia a destra che a sinistra. La vittoria toccherà a Mussolini, un leader che era di sinistra e nello stesso tempo rappresentava l’«uomo forte» invocato dalla destra.

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La crisi economica e sociale del dopoguerra offrì alla febbre agitatoria del «diciannovismo» e degli anni successivi non poche occasioni. I mutamenti operati dalla guerra erano tali da squilibrare l’intero sistema economico. Larghe masse si trovano immerse nella vita di fabbrica. Nella sola Torino tra il ’14 e il ’15 si è passati da 75 a 150 mila operai. La pace impone l’alt, e di colpo, allo sviluppo abnorme dell’industria di guerra. La grande industria ha divorato le piccole imprese, ma ora è incapace di sopravvivere senza il sostegno di pubblici poteri, e il sostegno dei pubblici poteri significa drenaggio del denaro pubblico. Obiettive sono le preoccupazioni politiche e sociali di non ingrossare ulteriormente l’esercito dei disoccupati; ma intanto il protezionismo bellico si consolida nel dopoguerra e il processo di sviluppo economico è distorto e in gran parte parassitario. L’inflazione e l’indebitamento dello Stato salgono alle stelle. La circolazione cartacea passa da 3.454 milioni a 14.465 milioni. Calcolando 100 l’indice del costo della vita nel 1914, esso era già salito a 264 nel 1918.

Il biennio rosso ’19-’20 vide l’importante sviluppo delle confederazioni sindacali socialiste e cattoliche, ma anche, all’interno della Cgil e in molti sindacati di categoria, l’infiltrazione di gente corrosa da una specie di dannunzianesimo di sinistra, da un esasperato attivismo anarcoide pronto ad ogni avventura. D’altra parte, gli stessi dirigenti della Cgil, sebbene non del tutto sordi ai moniti di Turati, «non osavano opporsi risolutamente ai massimalisti che ricoprivano le cariche nell’esecutivo nazionale del Partito socialista» (Salvemini, op. cit., p. 176). Molti poi si illudevano di affrettare il gran giorno della rivoluzione, incoraggiando irresponsabilmente con ogni pretesto qualsiasi specie di sciopero, e trasformando scioperi economici in scioperi politici, e scioperi di gruppi singoli in scioperi generali.

Nondimeno non fu la scioperomania, in sé e per sé, a produrre il peggio; il peggio venne per la visione settaria e infantile con cui fu condotta la lotta sociale e politica. La pressione sindacale assai spesso sbagliò bersaglio e disgraziatamente colpì i piccoli proprietari terrieri, i ceti che vivevano del loro lavoro sia nella campagna che nella città, i coltivatori diretti e gli affittuari molto più direttamente e pesantemente che non i grandi proprietari, assenteisti per vocazione e comunque per lo più al sicuro, lontani dalle loro terre. La demagogia tracotante, l’estremismo ultra-rivoluzionario alimentò e approfondì sempre più la frattura psicologica e politica fra il proprietario rurale e urbano, da una parte, e dall’altra la piccola borghesia dei coltivatori diretti, degli artigiani, dei negozianti, dei lavoratori a reddito fisso, per lo più appartenenti al ceto medio, ormai ridotti al lumicino dall’inflazione galoppante. Queste forze sociali, offese e irrise non si staccarono solo dal socialismo, a cui pure, fino al 1912 avevano dato i quadri dirigenti e molti consensi. Esse, a poco a poco, divorziarono dalla democrazia. E per il Paese fu l’inizio della tragedia.

Si comprese l’isolamento e il fallimento morale a cui la mancanza di un’autentica strategia sindacale aveva portato gli operai, solo quando nel settembre del 1920 si giunse all’occupazione delle fabbriche. Allora si toccò con mano come quella che doveva essere la più alta prova di maturità delle maestranze servì ad attestare – anche a coloro che l’avevano preparata e guidata, e a Torino più chiaramente che altrove – che il continuo sfoggio di petardi rivoluzionari aveva stroncato la stessa classe lavoratrice. La testimonianza in tal senso di Angelo Tasca, rappresentante comunista di Torino al Consiglio nazionale della Confederazione del lavoro, è esplicita e di prima mano e ognuno può meditarla nel suo libro Nascita e avvento del Fascismo. Se il pericolo reale di una rivoluzione di tipo comunista non era mai stato grande, grande era stata la paura. Questa durò per molto tempo dopo il 1920. E la paura è cattiva consigliera. Fu così che ad una rivoluzione fallita fece seguito una spietata controrivoluzione preventiva.

***

Nella crisi del dopoguerra gioca un ruolo di prim’ordine, nell’aggravarla e nell’ostruire un reale sbocco democratico, il Partito socialista. Il massimalismo, di cui proprio il Mussolini direttore dell’Avanti era stato l’esponente più spregiudicato e più applaudito prima del suo passaggio nel campo dell’interventismo, ora si esalta nella trasfigurazione mitologica della rivoluzione russa e nella celebrazione inebriante della violenza proletaria.

Al contrario per Turati, Modigliani, Treves, Prampolini, se un obiettivo storico doveva essere perseguito nel nostro Paese non era la dittatura, non l’abbattimento della democrazia, ma la sua trasformazione socialista, non essendo concepibile un socialismo autentico senza libertà. Ma essi, i maestri e gli iniziatori del socialismo, erano ormai in minoranza nel loro partito, sempre più mal tollerati e disprezzati dai predicatori della violenza levatrice di una storia più alta. «La leggerezza con cui molti gridano “Viva la Rivoluzione” è spaventosa» – deplorava in un comizio a Reggio Emilia, Camillo Prampolini – «Il popolo crede che la rivoluzione porrebbe fine ai suoi guai; ma questa fede nella violenza come mezzo per mutare la storia è una superstizione che non considera gli orrori connessi sia ad una guerra che ad una rivoluzione… Questa orribile indifferenza morale, questo disprezzo delle nostre vite e delle vite degli altri è profondamente borghese… Non si può giocare con la pelle del nostro prossimo» (Corriere della Sera, 19 febbraio 1919).

Nel settembre del ’19 al Congresso nazionale del suo partito, Turati rivolgeva ai suoi compagni il seguente avvertimento: «Quando troveranno utile prenderci sul serio, il nostro appello alla violenza sarà raccolto dai nostri nemici, cento volte meglio armati di noi… Parlare poi di violenza continuamente per rinviarla sempre all’indomani, è la cosa più assurda di questo mondo. Ciò non serve che ad armare, a suscitare, a giustificare anzi la violenza avversaria, mille volte più forte della nostra» (Critica sociale, XXX, n. 17, pp. 264 sgg.). I massimalisti e gli spartachisti italiani, i Serrati e i Bordiga, non ebbero l’intelligenza necessaria per comprendere questi avvertimenti. L’Italia evidentemente non era la Russia, ma per i dirigenti massimalisti, come osservò Turati, valeva una sola parola d’ordine: «Vogliamo il soviet e tutto il resto non conta».

La nuova, furiosa ventata «rossa» consigliò ai massimalisti di prendere una decisione che sarebbe costata cara al Paese: quella di respingere qualsiasi discussione, qualsiasi contatto con i partiti non socialisti e di sabotare con tutte le forze il Parlamento. Maggiore il caos, prima sarebbe venuta l’ora della rivoluzione! Dal momento in cui, alle prime elezioni del dopoguerra, nel ’19, la rappresentanza socialista passa da 52 a 156 deputati, quel partito vive in una condizione di vera e propria schizofrenia: è incapace di fare la rivoluzione che predica ed è nello stesso tempo incapace di qualsiasi alleanza politica; ha un terzo dei parlamentari, ma è violentemente antiparlamentare! Gaetano Arfé nella sua Storia del socialismo italiano (Einaudi, 1965) parla di «divieto al gruppo parlamentare di esercitare col voto una qualsiasi azione positiva» e riferisce l’espressione volgare di Lazzari: «Il Parlamento è la latrina della Nazione e i deputati hanno il compito di intasarla» (p. 278). La funzione del Psi è una sola: è quella di «sasso dell’ingranaggio». Per questo motivo ogni riforma deve essere resa impossibile, a cominciare dalla riforma agraria portata avanti al Partito Popolare. In quelle condizioni nessun Parlamento poteva legiferare e nessun Governo governare.

III

L’illusione di Giolitti, la lucidità di Sturzo

Dei fenomeni che caratterizzarono in varia misura la crisi italiana nel periodo 1919-22 ne abbiamo ricordato più d’uno. Il mito della «vittoria mutilata» e le sue nefaste propaggini; la psicosi bellica, cioè il ricorso alla violenza nella lotta sociale e politica; la crisi economico-sociale e le conseguenze anche politiche di un metodo di lotta sindacale molto discutibile; ed infine la situazione schizofrenica del Partito Socialista, che nel ’19 dispone di un terzo dei seggi al Parlamento ma professa l’antiparlamentarismo più radicale, incapace di un’azione rivoluzionaria e insieme di ogni alleanza politica. Ma a quelle cause bisogna aggiungerne altre e di non minore rilievo.

Un grave fattore di crisi fu costituito dalle fratture interne del raggruppamento liberale e dalla indisponibilità dei suoi capi ad una collaborazione organica con il Partito Popolare Italiano. Le divisioni interne del gruppo dirigente liberale erano molto accentuate, e non si dette mai vita ad un vero e proprio «Partito Liberale», che rendesse meno precaria la leadership di personalità di indubbio valore come Nitti o Giolitti. Talvolta agli avversari sembrava che l’unico cemento del coacervo liberale fosse l’anticlericalismo. E forse fu questa anacronistica mentalità a privare non solo Salandra e Sonnino ma anche Nitti e Giolitti della duttilità e del senso storico necessari per capire il ruolo ormai decisivo che poteva giocare per la democrazia una forza, certamente composita, ma nuova e promettente come il Ppi, guidato da personalità politiche di primo piano come Luigi Sturzo, Alcide De Gasperi, Filippo Meda, Giuseppe Donati, e sorretto da un grande movimento sindacale, con alle spalle una gloriosa tradizione.

Luigi Sturzo era l’uomo nuovo del nostro dopoguerra. Di lui Pietro Gobetti, ci dette un ritratto forte e penetrante. «Sturzo lavora a fare che il popolo creda alla politica attraverso una pregiudiziale morale». Egli sinceramente «crede nella vitalità della democrazia», nella pluralità dei poteri e degli organi della vita associata: è regionalista convinto. Combatte il clientelismo, lo Stato oligarchico e panteista, l’accentramento e la burocrazia, la dittatura e il collettivismo marxista. Egli è «il messia del riformismo» perché crede all’utilità di ogni riforma che combatta e non autorizzi sotto forme diverse il parassitismo e il privilegio. Va al popolo attraverso il Vangelo, ma non scarica sulla Chiesa il fardello delle scelte autonome, ed esposte all’errore, a cui non può e non deve sottrarsi il politico: non confonde la parte e l’universalità, il partito e la religione. La sua profonda religiosità ha superato il dubbio e il tormento: è goethiana serenità operosa, fedeltà nutrita di esprit de finesse, duttilità, inventiva. La sua schietta «aconfessionalità» è la chiave di volta del progetto politico con cui Sturzo – osservava estrosamente Gobetti – «converte le armi dei liberali contro se stessi».

Gobetti seppe cogliere in Sturzo la novità del suo messaggio, l’aderenza al momento politico e a valori di fondo del nostro popolo e delle nostre tradizioni culturali e civili. Quando il Ppi si presentò alle elezioni del ’19, guadagnò di colpo 100 seggi. Fu una disgrazia per l’Italia che persino uomini come Nitti e Giolitti fossero interiormente indisponibili a una collaborazione organica con i popolari, del cui costante apporto avevano peraltro assoluto bisogno per formare qualsiasi governo.

Abituati a considerare i cattolici come «ascari» e come serbatoio di voti, come mera forza di riporta, i liberali non volevano riconoscere l’autonomia programmatica e politica del partito dei cattolici democratici. Il Ppi era, invece, la sola forza di massa organizzata capace di contrastare quasi ovunque, nelle piazze e nelle campagne, la pressione agitatoria e vanamente insurrezionale del Psi; e di dimostrare, al tempo stesso, l’insufficienza di un programma e di un’azione che condannavano in blocco tutto lo Stato e tutti gli altri partiti, come l’espressione di un’unica massa reazionaria. In realtà nella misura in cui un pericolo bolscevico è esistito in Italia, fu il Ppi a stornarlo. E nondimeno sia Nitti che Giolitti, giocarono a colpire il Ppi e a svalutare i sindacati bianchi, negando loro la parità di trattamento con i sindacati rossi. Con Nitti si giunse al punto di accettare la richiesta dei «rossi» che fossero cambiati di sede e d’ufficio i ferrovieri e i postelegrafonici «bianchi» che avevano aderito all’invito del governo a non scioperare! E Giolitti escluse, nel settembre del ’20, la Confederazione bianca dalle trattative seguite alla fallita occupazione delle fabbriche. Il livore anticlericale e antisturziano non permise alle vecchie glorie del liberalismo di vedere che, così facendo, si segavano il ramo su cui erano seduti.

Lo scontro decisivo fra Sturzo e Giolitti avvenne però sulla valutazione del fascismo, sull’illusione tenace di Giolitti di incanalare nella legalità dello Stato liberale le irrequietudini fasciste, sul proposito dello statista di Dronero e di servirsi dell’accrescimento delle forze fasciste per ridimensionare i popolari e ridurre al silenzio i socialisti. A ridosso dell’occupazione delle fabbriche, Giolitti volle le elezioni amministrative dell’autunno 1920 e autorizzò l’ingresso dei fascisti nel «blocco nazionale». Al «blocco» toccò il 56% dei voti. Giolitti credette allora di poter sciogliere anticipatamente la Camera, nella primavera successiva, puntando ancora sull’alleanza elettorale con i fascisti, proprio nel momento in cui l’illegalismo fascista seminava terrore nel Paese. Ma a primavera i conti non tornarono al vecchio manipolatore. La distribuzione dei seggi nel maggio del ’21 non mutò sostanzialmente i rapporti di forza del ’19, ma i fascisti entrarono in 35 in parlamento e fuori del parlamento avevano un’organizzazione armata, pronta a qualsiasi eccesso e impunita. È inevitabile chiedersi: Giolitti fu dunque fiancheggiatore del fascismo? No, senza dubbio. Giolitti tentò solo di strumentalizzare il fascismo e invece, suo malgrado, lo accreditò, attirando su di esso i consensi crescenti del ceto medio e della destra. Nel 1924, nella nuova versione dei blocchi d’ordine, i fascisti saranno i padroni e i liberali saranno l’elemento di copertura e di riporto. Nell’estate del ’22, mentre il fascismo si apprestava all’assalto finale, ci voleva un governo di difesa democratica guidato da Turati e Sturzo, ma questa ipotesi fu fieramente osteggiata nel Psi dai massimalisti e dall’ala clerico-moderata del Ppi, avversa a Sturzo. In ogni caso la condizione assolutamente necessaria perché essa si realizzasse era l’ingresso, o almeno l’appoggio esterno del gruppo giolittiano, cioè della parte più progressiva dei liberali. Ma Giolitti rifiutò quell’appoggio. Il 26 luglio ’22 sulla Tribuna il vecchio leader irrise pubblicamente l’idea stessa di un governo antifascista. «Che cosa può venire di buono per il Paese da un connubio don Sturzo-Treves-Turati?» si chiedeva l’uomo di Dronero, per il quale ormai un ministero antifascista era non solo assurdo ma pericoloso. Quel siluro fu il più bel regalo per Mussolini. Gli dette, infatti, la certezza di aver ormai via libera.

Di fronte alla minaccia di una distruzione totale dello Stato liberal-democratico, neanche l’estrema sinistra fu capace di guardare al futuro con vera intelligenza politica. Il Partito Comunista nel marzo ’22 aveva teorizzato nelle Tesi di Roma l’attendismo e la presunta alternativa «o fascismo o comunismo». Impostazione questa che Mussolini trovò subito quanto mai utile ai suoi fini propagandistici, ritraducendola in «o Roma o Mosca». Soli contro tutti, i comunisti credevano di dover rifiutare ogni contatto impuro. Sul quotidiano del P.C. L’Ordine Nuovo il 26 luglio ’21 Bordiga aveva scritto: «I fascisti vogliono buttar giù la baracca parlamentare? Ma noi ne saremo lietissimi». Un anno dopo, quasi che nulla fosse accaduto o stesse per accadere, il 27 luglio ’22 lo stesso giornale scriveva che «il bieco nemico di classe ha un solo aspetto e un triplice nome: Turati, don Sturzo e Mussolini». Questo giudizio lo si ritrova, purtroppo, sempre su L’Ordine Nuovo divenuto rassegna di politica e cultura, perfino nell’editoriale del 1o settembre ’24, cioè quando Matteotti era stato già assassinato.

«Oggi siamo in linea per la lotta generale contro il regime fascista. Alle stolte campagne dei giornali delle opposizioni rispondiamo dimostrando la nostra reale volontà di abbattere non solo il fascismo di Mussolini e Farinacci, ma anche il semi-fascismo di Amendola, Sturzo, Turati». Spiace dirlo, ma chi scrive queste cose è Antonio Gramsci. I massimalisti del Psi, da parte loro, non trovavano nulla di meglio da fare al Congresso riunito il 1o ottobre ’22, in piena tempesta politica, che riaffermare l’impegno a «mantenere integre le premesse della rivoluzione totale», espellendo come traditore Filippo Turati! Per queste e altre ragioni, e per tutte le possibilità positive che furono sprecate dalla classe politica di quel tempo, la libertà scomparve nel nostro Paese.

[1] Giornale di Brescia, 22, 23 e 27 dicembre 1992.