"Critone", il dialogo tra volontà di vivere e coscienza

Uno dei dialoghi più brevi di Platone, il “Critone”, è anche uno di quelli la cui semplicità è solo apparente. Torniamo, quindi, a riprenderlo in mano, per evidenziarne la trama logica sottesa al procedere confidenziale della conversazione tra i due amici d’infanzia, Socrate e Critone. Il “Critone” non sviluppa motivi polemici e non ironizza, come fa l’”Apologia”; non sospinge neppure i lettori sui sentieri della più ardita dialettica, come accade nel “Fedone”. Eppure, anche questo dia1ogo è altamente drammatico. La ragione l’ha colta lucidamente uno dei grandi pensatori del nostro secolo, Romano Guardini, in un’opera mirabile, “La morte di Socrate” (Morcelliana, Brescia 1984) che non può essere ignorata da quanti vogliono incontrare il grande Ateniese e intenderne il messaggio. “Socrate è solo – annota Guardini – con l’amico d’infanzia, o meglio con se stesso. Il dialogo in realtà si svolge fra la volontà di vivere della sua natura ricca e robusta e la sua coscienza; ed è meraviglioso vedere con quanta purezza la coscienza – che è la realtà più intima e ad un tempo più alta dell’uomo – sa sollevarsi oltre il tumulto, pur essendo immersa nella fiumana della vita, per rispondere al suo postulato eterno, cioè al bene morale e alla verità”.

Man mano che procede la confutazione ferma e affettuosa di Socrate agli argomenti dell’amico, acquistano rilevanza e contorni sempre più netti i tre temi di fondo che caratterizzano il “Critone”. Il primo di essi può essere formulato in questi termini: prima, nelle animate discussioni con amici e avversari, venivano sostenute le ragioni permanenti di una lealtà senza riserve del cittadino di fronte alle Leggi, che cosa pensare ora di esse? E perché resistere alla “tentazione degli affetti”, per servirci di un’espressione efficacissima di Teresio Olivelli, dal momento che nel caso di Socrate ci si trova dinanzi a una sentenza evidentemente iniqua? E perché mai non dovrebbe esser giusto sottrarsi a un’ingiusta condanna? Questi interrogativi, soprattutto il secondo e il terzo, quand’ero giovane avevano per me una loro plausibilità; solo più tardi riuscii a capire che il grande Ateniese non avrebbe avuto per la civiltà e per il mondo quel posto che gli viene riconosciuto ininterrottamente, da 2400 anni, di generazione in generazione, se avesse abbandonato il carcere e fosse fuggito. Ebbene, per Socrate, le verità evidenziate dalla ragione prima della sventura rimangono valide adesso, ed anzi sono autenticate proprio dalla sofferenza che gli viene dal patire ingiustizia. La nuova situazione, pur essendo immeritata e dolorosa, diventa, pertanto, la pietra di paragone, perché con essa viene il momento di tradurre l’idea in azione, mostrando, nel modo più semplice, che Socrate non era certo un vano parlatore. In tal modo, nella vicenda di Socrate, la verità diventa poesia e Socrate parla, sì, bonariamente con l’amico più caro, ma dal suo discorrere con Critone noi siamo inavvertitamente portati in alto, vertiginosamente in alto.

Il secondo tema del “Critone” riguarda la duplice esigenza di conciliare il rispetto della legalità e l’impegno a dare alla polis Leggi più giuste. La legalità è assolutamente necessaria: “A chi mai – si chiede Socrate – può piacere, infatti, una città senza Leggi?” (53 a). E, d’altra parte, custodire le Leggi è estremamente difficile quando esse recassero in sé qualcosa di ingiusto. Voi sapete che la tragedia del nostro Paese si configura proprio, da almeno due decenni, come la violazione sistematica della legalità perversamente congiunta all’incapacità di darsi nuove regole. Si comprende, quindi, quanto sia attuale per noi riflettere sulla lezione del “Critone”. Qui mi limiterò solo a ricordare che per Socrate anche il passaggio dalle Leggi vecchie alle nuove è necessario che avvenga per via pacifica, mediante il confronto e la persuasione. In un altro dialogo di Platone, “Il Politico”, il pensiero di Socrate è sviluppato in modo coerente alle posizioni del “Critone”, là dove ad esempio, si dice che “le leggi sono migliori se rendono possibile, alle istituzioni e ai cittadini, di resistere alla volontà di dominio dei potenti.” (306 a – 308 b) e se “non dividono la cittadinanza in due caste” (310 ae).

Il terzo tema del “Critone” è costituito da un’ affermazione spirituale di sbalorditiva magnanimità, già ampiamente difesa dai violenti attacchi dei sofisti Callicle e Crizia nel dialogo “Gorgia”. Di fronte a una società in crisi e a un uso perverso delle Leggi, di cui egli stesso è vittima, Socrate indica un metodo e un traguardo per i secoli che verranno; la sua visione precorritrice, però, è già per lui concreta forma di esistenza, imperativo morale a cui non intende sottrarsi per nulla al mondo. Egli sa fin troppo bene che su questo punto specifico sarà frainteso e che il suo insegnamento apparirà ostico anche ai discepoli. Dice, infatti, testualmente: “So che pochi soltanto sono e saranno di questo avviso” (49 d). Ebbene, la scelta solitaria e profetica di Socrate, che ispira direttamente o indirettamente ogni altra, è l’etica della non violenza. Il punto di partenza è chiaro: “Non il vivere è da tenere in massimo conto, ma solo il vivere bene, cioè secondo virtù e giustizia” (48 b). E ancora: “Non si deve tenere i figli, né altra cosa in più alta considerazione della giustizia” (54 b). Da questo principio deriva che “l’uomo non deve commettere ingiustizia, in qualunque situazione si trovi e quali che possano essere per lui le conseguenze” (49 a-b). Sorge spontanea, però, la domanda: siamo o no autorizzati a fare del male? La risposta di Socrate preannuncia quella del Vangelo: “Il fare del male agli uomini non differisce per nulla dal commettere ingiustizia nei loro confronti … Dunque non si deve fare del male a nessuno degli uomini qualsiasi cosa si patisca per opera loro… In nessun modo è giusto né commettere ingiustizia, né, avendo ricevuto del male, vendicarsi, rendendo così male per male” (49 c-d).

Per Socrate e Platone il problema delle Leggi si pone in modo drammatico. L’uno e l’altro affrontarono la situazione politica disastrosa del loro Paese con autentica passione civile e posero al primo posto il problema della riforma morale dei cittadini. L’uno e l’altro compresero che il potere e lo spirito non possono essere separati e contrapposti, e che ogni soluzione violenta comporta di per sé il rifiuto dei valori dello spirito, i soli che possano umanizzare la vita degli individui e della città. Tuttavia il maestro e il discepolo su una questione importante si dividono. Per Platone lo spirito deve assolutamente manifestarsi nella forma visibile di una società organizzata. Questa esigenza costituì, come sappiamo, il maggior tormento della sua vita e fu anche all’origine dei suoi ripetuti tentativi d’intervento nella politica di Siracusa. A causa, però, della tensione fra l’universalità dello spirito e la finitezza delle sue realizzazioni, fra il dover essere e l’essere, fra l’utopia e la realtà effettuale, Platone accetta, accanto al metodo del confronto e della persuasione, il ricorso all’uso aggiuntivo della violenza, sia pure per breve tempo e finalizzata al sorgere di una federazione di polis siciliane di cui Siracusa fosse il perno sul piano dell’azione, o all’architettura della repubblica ideale. Come si vede, “una concezione della politica della forza è presente in Platone, ma essa non diventa mai dominante”, come precisa Eric Voegelin (“Ordine e storia”, trad. it. Il Mulino, Bologna, 1986, p. 299). Socrate, invece, su questo punto non conobbe le ambiguità e le oscillazioni del geniale discepolo. In effetti ciò che fa la differenza fra il Socrate storico e il Platone della “Repubblica” è proprio “l’etica della non violenza”, che il grande Ateniese per primo concepì in Occidente e visse con eroica coerenza. È questo, però, un motivo in più per essere grati a Platone, perché nel “Critone” ha rispettato profondamente i tratti peculiari della figura e della missione storica di Socrate. Una figura e una missione storica che – come si vede – non cessano di scuoterci e di interrogarci, ma anche di illuminare il nostro cammino.

Giornale di Brescia, 21.12.1996. Articolo scritto successivamente alla rappresentazione teatrale del “Critone” di Platone.