Cultura e risveglio delle coscienza nel “primo” Agostino (386-391)

CULTURA E RISVEGLIO DELLE COSCIENZE NEL «PRIMO» AGOSTINO (386‑391)[1]

I. Senso della vita e formazione cristiana nel «De ordine»

Non è certo un caso che in uno dei dialoghi di Cassiciàco Agostino abbia subito affrontato, e in modo ternatico, il problema del valore della cultura per la formazione del cristiano. Il primo scritto pedagogico di Agostino è il De ordine (L’ordine), di poco posteriore alla conversione, evento biograficamente databile nell’agosto del 386. Alla conversione Agostino fa seguire alcune decisioni di grande rilievo: la scelta della castità come stato di vita; le dimissioni dall’insegnamento anche a causa di una lesione polmonare da cui era afflitto; il ritiro con gli amici diletti e i familiari nella villa che l’amico Verecondo mise a sua disposizione, in campagna, a Cassiciàco, a una trentina di chilometri da Milano. A Cassiciàco la giornata è intensa: si alternano i lavori di campagna, i momenti di preghiera, la lettura e lo studio, la conversazione, l’approccio alle Scritture, la meditazione personale. Agostino esprime in quel ritiro l’improvvisa, ardente creatività che sgorga dalla sua nuova condizione con una produzione di grande interesse: tre dialoghi – il Contra Academicos (La controversia sugli Accademici), il De beata vita (La felicità), il De ordine – ed uno scritto nuovo anche nel titolo di invenzíone tutta agostiniana: Soliloquia, cioè Conversazioni con me stesso, primo ritratto intimo del loro autore e lontano preludio alle Confessioni. Sono opere di Agostíno «laico» e che tale intende rimanere, scritti di un «convertito» che si prepara a ricevere il battesimo e che desidera «apprendere senza ulteriore indugio il vero non solo con la fede, ma anche con la ragione» (Contra Acad. III, 20,43).

La stesura dell’Ordine, inframmezzata a quella della Controversia sugli Accademici e dei Soliloqui, potrebbe essere collocata con una certa approssimazione tra il novembre e il dicembre del 386. L’andamento di questo come degli altri due dialoghi di Cassiciàco rivela la spontaneità e i ritorni propri del discorso parlato, per cui molti studiosi si sono pronunciati per la loro storicità, pur concedendo un ristretto margine alla finzione letteraria. L’autore aveva allora trentatré anni. L’argomento del dibattito è la razionalità nell’universo e quella che più direttamente dipende dall’uomo, dal modo in cui questi imposta e risolve il problema della vita.

  1.  La radice di ogni alienazione: la perdita della dimensione interiore

Il De ordine si caratterizza in primo luogo per le fresche, acute osservazioni su concreti aspetti e momenti del processo educativo. Per Agostino è una fonte psicologica di irrazionalità e alimenta un disordinato soggettivismo l’incapacità a cogliere una veduta d’insieme in un certo ambito di fenomeni e, ancor più, sul senso stesso della vita. Avere la vista limitata è come percepire solo un quadratino per volta e intestardirsi a notarne le imperfezioni, invece di cogliere l’unitaria bellezza dell’intero mosaico. Se poi qualcosa urta la nostra immaginazione, questa lo ingrandisce a dismisura e si sente autorizzata a proclamare l’irrazionalità del mondo e della vita (I, 1,2). La prima e più radicale forma di alienazione è quella dell’uomo che perde se stesso. L’uomo si smarrisce perché non ha conoscenza di sé. Erroris maxima causa est, quod homo sibi ipse est incognitus (I, 1,3). Non può vivere una sua propria vita autonoma e personale chi non lavora a mettersi in chiaro con se stesso e non si impegna a individuare e a cauterizzare «le piaghe dei pregiudizi correnti prodotte dalla banalità quotidiana». Lo spirito, divenuto estraneo a se stesso, si frantuma in molteplici direzioni e si degrada a una reale mendicità perché la sua natura lo stimola a cercare l’unità, ma la dispersione nella molteplicità glielo impedisce (I, 2,3). Invece, «il filosofo è con Dio poiché ha coscienza della propria interiorità»: sapiens prorsus cum Deo est, nam et seipsum intellegit (II, 2,5).

Il dialogo ha una sua particolare efficacia nel mettere in moto gli spiriti. «Anche coloro che sono profani di studi filosofici – nota Agostíno – possono insegnare qualche cosa quando si sentono per così dire legati dalle catene del dialogo in compagnia di persone che discutono» (I, 5,13). Tuttavia Agostino non si fermava al dialogo: voleva che gli studenti facessero seguire ad esso adeguate letture. Cosa ancor più significativa, i giovani «avevano ricevuto l’ordine che, oltre la lettura, imparassero a riflettere e abituassero lo spirito ad abitare in se stesso» (I, 3,6): bisogna raccogliersi in silenzio perché l’oblio non inghiotta quello che di vero e di bello abbiamo pure intravisto o compreso, perché il filosofare diventi meditazione, emendazione della vita e dell’intelletto, ascesa a Dio e amore di Dio (I, 8,23).

Nel processo educativo interagiscono fattori e fini diversi, ma su di un problema si esige un chiarimento di fondo, in via pregiudiziale: quello del complesso rapporto tra autorità e ragione. Il pensiero di Agostino sull’argomento è, già qui, in quest’opera «prima», delineato con grande forza. «All’apprendimento siamo condotti necessariamente da un duplice principio: l’autorità e la ragione. In ordine di tempo viene prima l’autorità, secondo la realtà è prima la ragione (tempore auctoritas, re autem ratio prior est). Una cosa, infatti, è il principio che si suppone come stimolo all’attività ed altra ciò che si valuta come fine. L’autorità dei dotti è ritenuta più efficace per coloro che ancora non sono istruiti e la ragione più conveniente per le persone colte. Ma la persona colta non è stata sempre tale e chi non è istruito non sa con quale metodo può apprendere. Ne consegue che soltanto l’autorità può dischiudere le porte a tutti coloro che aspirano ad apprendere. Chi è entrato attraverso quella porta segue, senza incertezze, le regole della vita razionale, grazie alle quali è divenuto idoneo ad apprendere e a valutare in che misura fossero fondate le nozioni apprese prirna della verifica razionale e che cos’è la stessa ragione che, risvegliata all’inizio dall’autorità, egli ormai segue e intende» (II, 9,26).

  1. Autenticare il rapporto educativo e le ragioni di una vita più alta

Le linee di una vigorosa educazione morale e civile dei giovani e il profilo dell’educatore sono tracciati nel libro II. L’educatore è tale se unisce ricerca e testimonianza, cultura e vita; si medita una verità tanto più perfettamente quanto più la si possiede, vivendola. Ai giovani bisogna comunicare la gioia della libertà interiore e della generosità perché solo allora essi comprendono le ragioni di una vita più alta. Si deve essere padroni di sé per meglio donarsi agli altri. Sono d’ostacolo al recupero e all’attuazione di se stessi nell’amore totale per Dio e il prossimo la sfrenatezza, il torpore nell’accidia e soprattutto l’avidità. «Si convincano i giovani – scrive Agostino – che l’amore delle ricchezze è il più sicuro veleno di ogni loro nobile aspirazione» (amorem pecuniae totius suae spei certissimum venenum esse credant, II, 8,25). Gli educatori, dal loro canto, stiano attenti a non porre sulle spalle dei giovani pesi che essi stessi non vorrebbero portare. «Si guardino da ogni eccesso nell’usare le sanzioni e, nel perdonare, da ogni difetto. Non puniscano se non giova al meglio, non siano indulgenti se può volgere al peggio. Considerino come familiari coloro su cui è dato loro il potere. Sentano talmente di essere a loro servizio da vergognarsi di esercitare un potere su di loro ed usino tale potere come se provassero diletto a servirli». Ai giovani e ai loro educatori Agostino rivolge un appello umanissimo, che rispecchia non solo il suo ideale educatívo, ma la sua stessa personalità di maestro ed amico. «In ogni condizione di vita, luogo e tempo abbiano degli amici e si adoperino per averli. Rendano omaggio ai degni, anche se non lo sollecitano. Non si preoccupino dei superbi e non lo siano. Vivano in modo saggio e conveniente. Onorino, meditino, cerchino Dio nel fondamento della fede, della speranza e della carità. Desiderino ardentemente per se stessi e per quanti è possibile un effettivo progresso negli studi, una coscienza buona, una vita pacifica» (II, 8,25).

A scuola Agostino mirava innanzitutto a suscitare nei giovani l’amore appassionato della verità. Nella commossa chiusa del dialogo Agostino ringrazia la madre, Monica, le cui preghiere gli hanno ottenuto da Dio «il dono di questa disposizione d’animo: di non preferire assolutamente nulla alla scoperta della verità e di non volere, non pensare, non amare altro che essa». Cercare la verità in spirito e verità, essere ex veritate è l’augurio che Agostino rivolge ai suoi amici e discepoli ed è la via con cui si perviene al Bene più grande, che un giorno conseguiremo e che ora non si ama mai troppo (II, 20,52).

Più avanti, in una lettera, Agostíno osserverà che «nessuno può essere amico di un uomo se non lo è stato in primo luogo della verità: amore questo che, se non è disinteressato, non è assolutamente amore» (nemo enim potest veraciter amicus esse hominis, nisi fuerit primitus veritatis: quod si gratis non fiat, nullo fieri pacto potest, Ep. 155,1,1).

Si comprende, quindi, come egli si sentisse deluso e ferito in ciò che aveva di più caro quando vedeva che tra gli studenti non mancavano quelli che erano mossi da meschini calcoli. «Tu sai – dice rivolgendosi a uno dei giovani interlocutori di Cassiciàco – che nella mia scuola io ero preso sempre da violento voltastomaco (graviter me stomachari solitum), quando vedevo i ragazzi lasciarsi guidare non dall’intrinseca utilità e bellezza degli studi, ma dall’insulsa, stupida sete di ostentazione. Pur di accaparrarsi un credito che non meritavano, alcuni non si vergognavano nemmeno di declamare discorsi altrui. Era proprio un’indecenza, una roba da far piangere» (I, 10,30). La morbosa passione di primeggiare ad ogni costo ingenera, infatti, disposizioni d’animo ostili nei confronti dei compagni e dei maestri. Quando Agostino si accorge che due suoi discepoli traggono una specie di perverso piacere l’uno dalla situazione di disagio dell’altro, le sue parole si fanno accorate e l’appello al primato della bontà fa tacere ogni altra considerazione. «Vi prego, se un qualche rapporto di amore o di amicizia vi lega a me, se capite quanto vi ami, quanto vi apprezzi, quanto mi preoccupi della vostra condotta, se sono degno di non essere dimenticato da voi, se, infine, e Dio mi è testimone, non mentisco quando dico che non desidero per me nulla di più di quanto desidero per voi: vogliatemi bene. E se spontaneamente mi chiamate maestro, ricompensatemi: siate buoni» (Et si me magistrum libenter vocatis, reddite mihi mercedem: boni estote, I, 10,29).

Agostino, che conosce il misterioso intreccio dei sentimenti umani, ha anche presente il rischio di un’oscillazione pendolare fra atteggiamenti opposti, senza che si giunga ad attestarsi sul crinale da cui dominare l’uno e l’altro versante. «Per il fatto che tento di allontanarvi dall’insana rivalità e dalla sciocca ostentazione, non diverrete per questo più indolenti nello studio. Non vi congelerete certo nel torpore dell’inerzia, sol perché siete stati privati del pungolo di una rinomanza priva di significato. Non vorrei che da voi le passioni scomparissero solo per cedere il posto ad altre passioni» (I, 10,30).

  1. Cultura e fede

Il De ordine celebra, senza infingimenti e insieme con equilibrio critico, la capacità formativa delle discipline liberali. «Io, se posso dare un consiglio ai miei, secondo il mio pensiero e il mio sentimento, ritengo che essi devono essere formati alla pienezza del sapere se vogliono avere intelligenza dei problemi» (II, 5,15). Ma anche un programma modesto e rudimentale, quale Agostino vuol tracciare in quest’opera, «rende gli amatori della verità più solleciti nel desiderarla vivamente, più costanti nel ricercarla assiduamente, più disposti ad aderirvi con serenità» (I, 8,24). La filosofia riconduce la molteplicità delle conoscenze a un’unità armonica e tutt’altro che artificiosa, senza della quale avremmo un’erudizione pesante, inutile, farraginosa. Nelle sue due operazioni fondamentali, l’analisi e la sintesi, la ragione cerca l’unità. «Quando analizzo voglio renderla pura, quando sintetizzo voglio renderla integra. Nell’analisi si scartano gli elementi estranei, nella sintesi si congiungono le parti omogenee, nell’un caso e nell’altro si tende a far sì che l’unità risulti quanto più possibile» (II, 18,48). Il livello ontologico delle diverse realtà costituisce il criterio di valore per una gerarchia delle discipline che entrano a far parte dell’insegnamento. Tutte le conoscenze che riguardano il mondo aiutano a capire il posto dell’uomo nella creazione e la natura originale dello stesso soggetto conoscente. Dal mondo esteriore, dalla natura degli esseri a noi dati sensibilmente, da cui vengono quelle insinuazioni che servono alla nostra riflessione, si passa all’interiorità dello spirito. «Ritorno in me stesso e indago chi sia io che indago tali cose», dirà in seguito Agostino (Enarr. in Ps. 41,7). Dall’interiorità dell’anima si ascende a Dio, causa che ha creato l’universo, luce che fa percepire la verità, sorgente a cui si beve la felicità. La filosofia ha la capacità di unificare interiormente la cultura e l’educazione proprio perché il suo problema ha un duplice oggetto: l’anima e Dio (duplex quaestio est: una de anima, altera de Deo, II, 18,47). «Il primo fa in modo che noi conosciamo noi stessi; il secondo che noi conosciamo la nostra origine. L’uno è a noi più dilettevole, l’altro più caro». E l’ordine degli studi per giungere alla sapienza, esige che si cominci dall’anima per giungere a Dio (II, 18,47). Il mondo è per l’uomo, ma l’uomo è per Dio ed è la legge di progressione del valore che comanda la scelta dei contenuti e dei fini dell’educazione.

Lo studium sapientiae, la filosofia, è intesa da Agostino come un esercizio liberante della ragione che per sua forza si apre alla fede nella convinzione, suffragata dal suo stesso itinerario spirituale, che «la legge razionale è valore che, attuato, ci conduce a Dio» (I, 9,27) e che le verità rivelate, le quali integrano e oltrepassano le conquiste della sola ragione, liberandoci dall’incertezza e dall’errore, «non si confondono con le verità razionali, come alcuni dicono, ma non entrano neppure in dissidio con esse, come altri vorrebbero» (nec confuse, ut quidam, nec contumeliose, ut multi predicant, II, 5,16). Contro questa seconda tesi Agostino è assai esplicito. «Le Scritture non insegnano a evitare e a schernire gli amatori della saggezza in senso assoluto, ma gli amatori della saggezza di questo mondo. Chiunque pretende che la filosofia si deve evitare in senso assoluto, pretende semplicemente che noi non amiamo la saggezza» (I, 11,32). Per la sua profonda umanità e universalità, la filosofia può e deve essere esigenza di tutti: l’intelligenza e la dignità morale di chi cerca la verità con tutta l’anima sono beni che oltrepassano le barriere dei ceti sociali e del sesso. Tuttavia la filosofia, come ricerca rigorosa e organica, esige studi preparatori nelle più diverse discipline. «Chi osa irrompere nello studio di certi problemi senza criterio e metodo scientifico diviene non studioso, ma curioso, non dotto ma credulone, non critico ma incredulo» (II, 5,17).

Come per Platone, anche per Agostino la cultura è tutt’altra cosa che «i giardini di Adone» (Fedro, 276 b), che fioriscono in otto giorni e appassiscono ugualmente presto; si impone invece l’assoluta indispensabilità di un lavoro serio, come quello del vero contadino, che esige una scavatura profonda, dei semi scelti, una fatica continua. «Si deve seguire questo lungo cammino o rinunciare a tutto» (II, 18,47). Certo, se prendiamo il termine filosofia nel senso originario, anche una donna come Monica, «timorosa dinanzi all’immensa selva di nozioni» (II, 17,45), è pienamente idonea a creare la sapienza. Essa lo può, infatti, perché vive già su quella vetta a cui ci sospinge l’amore della sapienza. Il primato della bontà e della santità, fine ultimo a cui tutti sono chiamati, Agostino lo afferma chiaramente all’interno di ogni attività e azione umana, così come avverte costantemente l’assurdità e il carattere disumano di una cultura avulsa dal bisogno di verità, chiusa nel menar vanto delle sue produzioni e della sua perfezione formale. Per esserne stato tentato egli stesso, Agostino conosce molto bene l’insidia che in ogni epoca rischia di perdere non pochi uomini d’ingegno e di raffinata sensibilità: l’idolatria delle belle forme, la contrazione e l’estenuarsi dell’umano nell’estetico, il concepire la vita stessa come arte. Ma in tale preoccupazione i cristiani non erano soli, né erano i primi, essendo stati preceduti per lo meno da due tra i maggiori pensatori dell’età classica: Platone e Seneca.

Agostino negli ultimi anni della sua vita, osserverà che «le arti liberali tanti santi le hanno ignorate e tanti che le possiedono non sono santi» (Retract. I, 3,2); quando poi ad esse sono congiunti i contenuti di «mendaci follie e ventose sciocchezze», allora non dovrebbero nemmeno dirsi liberales, cioè degne di formare uomini liberi. Sarebbe errato però considerare queste osservazioni – che in fondo Agostino avvertì sempre come vere, in ogni periodo della sua vita – come se fossero in contrasto con la consapevolezza lucida e drammatica che egli ebbe, attestata dall’esistenza stessa della sua immensa opera, che la mediazione culturale non si salta ed è anzi assolutamente necessaria in una società in cui l’annuncio religioso si confronta di continuo con le idee che in essa circolano, perché gli orientamenti degli spiriti sono tanta parte della condotta della vita. Anzi questa percezione divenne più acuta proprio col passare degli anni, sì che la distinzione, proposta dallo Eggersdorfer e poi dal Marrou, nella pedagogia agostiniana fra un periodo filosofico, a cui appartiene il De ordine, e un successivo periodo teologico, non può essere accolta senza ingenerare pericolosi fraintendimenti. In verità non esiste nel convertito Agostino un solo momento in cui egli non identifichi la ricerca della verità e quella di Dio, né si ha conoscenza di una conversione filosofica anteriore o separata da quella religiosa.

II. La possibilità dell’insegnamento e il Maestro interiore nel «De magistro»

Il De magistro (Il maestro) è stato scritto nel 389, a Tagaste, dopo il rientro dall’Italia. Gli interlocutori sono due, Agostino e il figlio sedicenne Adeodato, il cui ingegno e la cui precoce maturità ispiravano al padre una specie di terrore (Conf. IX, 6,14). Sono di Adeodato i pensieri che effettivamente gli sono attribuiti e il dialogo si svolge quasi alla vigilia della sua morte prematura. L’andamento è aporetico: padre e figlio imbocccano volutamente «la via lunga» (8,21), rivoltando da ogni parte qualsiasi affermazione per saggiarne la validità, «attraverso tanti giri tortuosi» (10,31), a causa delle difficoltà degli argomenti e nella convinzione che «è rischioso ritenere per acquisita una conoscenza che non è tale» (incognita pro cognitis habere periculosum, 10,31). Il problema in discussione, se è possibile l’insegnamento, si snoda attraverso questioni che gli sono strettamente connesse: se esiste davvero una comunicazione di idee mediante le parole, se quando diciamo le stesse parole intendiamo le stesse cose, se c’è corrispondenza rigorosa e costante tra linguaggio e pensiero. Il continuo intrecciarsi di tematiche di gnoseologia, filosofia del linguaggio, pedagogia suggerisce la possibilità di letture diverse del testo agostiniano. La prima parte della breve, densa opera è un’indagine sui presupposti linguistici dell’insegnare; la seconda è volta a reperire il fondamento metafisico e teologico della dottrina, solo ora formulata in modo esplicito, della interiorità del vero e del Maestro interiore.

  1. La parola e il pensiero

Ci si chiede: le idee sono racchiuse nelle parole o chi parla rischia piuttosto di incorrere in malintesi in qualche modo inevitabili? Fin dalle prime battute Agostino, mentre slarga il concetto stesso di linguaggio fino ad includervi ogni tipo di espressione, fa risaltare sia la connessione tra pensiero e parola, sia la possibilità sempre rinascente di una loro disequazione. Senza dubbio, «chi parla esprime esteriormente mediante un suono articolato un segno della propria intenzione» (1,2). Non potremmo, infatti, pensare, dire a noi stessi le cose che pensiamo, se non formassimo in noi un linguaggio interiore, se non ci affidassimo in qualche modo ad una parola interiore (quia ipsa verba cogitamus, nos intus apud animum loqui, 1.2). Anche se tace, chi pensa parla interiormente. Pensiamo per mezzo di parole, che ineriscono alla memoria ed è mediante le parole che stimoliamo a pensare noi stessi e gli altri, sì che pensare e parlare è, in un certo senso, un insegnare a se stessi e agli altri, un’attività rievocatrice che obbliga ognuno – sia che interroghi, sia che risponda – a riflettere sulla propria esperienza. La parola è segno, in un certo senso privilegiato, che usiamo di continuo per esprimere idee e designare oggetti. Le parole si situano semanticamente su piani diversi e tuttavia le rigide partizioni grammaticali non hanno una loro intrinseca giustificazione. Da un punto di vista logico ogni parola diventa, nel discorso di cui fa parte, generatrice di conoscenza, come il nome; sì che, se si guarda, come si dovrebbe fare, alla loro funzione, «tutte le parole sono nomi» (omnia verba nomina, 6,17). «Ogni parola è nome e ogni nome è parola» (5,12).

Che la parola sia stata istituita per la comunicazione tra gli uomini è un’affermazione costante di Agostino (De ord. II, 12,35); ma è sempre da verificare se la possibilità della parola di unire gli uomini venga compromessa dalla dissomiglianza delle parole nei confronti del pensiero. In una discussione due avversari si scontrano su una stessa espressione, perché ciascuno di essi la intende in un senso totalmente differente. In tal caso non è in questione la verità dei pensieri significati, ma il significato stesso dei segni (De mag. 13,59). Quando quel che sembra un dialogo è invece l’intrecciarsi di due monologhi paralleli, allora vuol dire che ci si scambiano parole piuttosto che idee « Se poi si insinua la volontà di mentire, allora le parole servono non a manifestare, ma a nascondere intenzionalmente agli altri quello che si pensa» (13,42).

  1. La realtà e la parola che la designa

Il problema del rapporto tra parola e pensiero induce a considerare quello tra verbum e res, tra la parola e la realtà da essa designata. Nella parola la res viene investita dalla luce della consapevolezza del soggetto che tende ad afferrarne il senso, il valore, il modo di essere e di agire. Il segno verbale, l’universo simbolico non è necessariamente estraneo al reale, pur avendo un suo carattere semantico ed allusivo: tuttavia occorre non cadere nell’ingannevole certezza del linguaggio puramente denominativo e chiedersi se la parola sia di per sé insegnativa del reale o piuttosto strumento per la comunicazione di conoscenze acquisite per altre vie. «È certamente un argomento inoppugnabile e si può sostenere con tutta verità che quando si dicono delle parole, o sappiamo che cosa significano, o non lo sappiamo: se lo sappiamo, esse, più che insegnarci, ci fanno ricordare; se invece non lo sappiamo, esse non ci fanno ricordare, ma forse ci spingono a cercare» (11,36). E il discente, il quale non ha ancora quelle conoscenze che va cercando, riesce a risalire dal segno del linguaggio alle cose significate? Il pericolo che si fermi alla meccanica riproduzione del segno e ritenga di ciò che apprende non il concetto, ma la veste verbale, è fin troppo ricorrente. Indubbiamente le parole, che sono segni e suoni, tendono a significare cose e idee. «Le parole ci sono per essere usate e noi le usiamo per insegnare» (9,26); tuttavia, chi insegnasse solo parole, sarebbe un chiacchierone (loquax amator verborum) e non un insegnante (ibid.). Infatti si usano i segni per insegnare e non si insegna per il gusto di parlare, di usare dei segni (significamus ut doceamus, non docemus ut significemus, 10,30). Altro è parlare, altro è insegnare (aliud loqui, aliud docere, 10,30). «La parola di per sé non mi mostra la cosa che significa» (10,33). Leggere nel libro di Daniele (3,94), nell’Antico Testamento, «le loro sarabare non sono state bruciate» non ha alcun senso per me ed è soltanto un suono se non so che con tale nome sono stati chiamati certi copricapi (10, 33)[2]. La parola mi può indurre a credere, ma non mi dà l’intelligenza delle cose e il vero sapere. La critica del verbalismo non poteva essere più decisa: «per quei segni che vengono chiamati parole non possiamo imparare nulla» (10,34).

Nell’insegnamento non possiamo limitarci a spiegare parole con parole, segni con altri segni, e quelli meno noti con quelli più noti, in una specie di interminabile rincorsa, il cui esito è perlomeno dubbio. Là dove è possibile, è assai meglio mostrare le cose. A chi domandasse che cosa significhino le tre sillabe «parete» o che cosa sia «camminare» si può rispondere, nel primo caso, mostrando col dito la cosa stessa (3,5) e, nel secondo, alzandosi e mettendosi a camminare (3,9). Se conversiamo con un sordo e, ancor più, se gli stessi sordi comunicano tra loro, si vede che per mezzo dei gesti si riesce a «indicare tutte le cose che si vogliono o almeno moltissime» (3, 5). Lo stesso accade ai mimi. Di più: l’estensione diretta del fare può perfino rendere superflua la mediazione del segno. E’ il caso dell’uccellatore, che invece di spiegare al passante ignaro e incuriosito l’uso dei suoi strumenti di caccia, si mette subito all’opera, mostrandone direttamente l’impiego (10,32). I vantaggi del metodo intuitivo su quello esclusivamente verbale sono evidenti. «Con la conoscenza degli oggetti, si effettua anche la conoscenza delle parole; al contrario con l’udire solo parole, non si apprendono neanche le parole, ma il loro suono frastornante (sonitum strepitumque verborum, 11,36)». Tuttavia anche la possibilità di mostrare le cose direttamente e di indicarle col gesto, col disegno, con l’azione o attraverso ciò che ad esse è simile, comporta le sue difficoltà, sebbene meno evidenti delle difficoltà del metodo verbale. Le cose o le azioni come ci vengono direttamente mostrate, in quanto oggetto immediato della nostra percezione, ci offrono proprietà molteplici in cui sono mescolati insieme l’essenziale, il primario e il secondario, l’accidentale. L’atto con cui altri ci mostra qualcosa, senza l’ausilio della parola, e la nostra percezione sensibile nella sua immediatezza, non ci aiutano di per sé né a distinguere tra loro le proprietà dell’oggetto, né a collegarle secondo il loro reale valore. Così, ad esempio, il semplice mostrare col dito una parete – che può essere alta o bassa, larga o stretta, colorata in un modo o nell’altro – può indurre l’allievo a ritenere come specifico e proprio ciò che è inessenziale o casuale. La genialità del De magistro sta proprio nell’aver colto contemporaneamente le insufficienze del metodo verbale e del metodo intuitivo, con una perspicacia ancor oggi insuperata.

La conclusione a cui perviene la prima parte del testo agostiniano è chiara. La parola – di cui Agostino si ripromette di esaminare un’altra volta «l’utilità, la quale, a ben considerarla, non è trascurabile» (14,46) – è insieme necessaria e insufficiente; così come l’intuizione sensibile. Infatti un atto di conoscenza che non si fermi al mero constatare, non si compie senza la parola, mediante la quale il pensiero si formula e si esprime. Ma «le parole sono vuote, se nell’udirle l’intelligenza non abbia effettivamente la possibilità di portarsi ai concetti, di cui esse sono segni» (8,22). Per la conoscenza e per l’insegnamento, se si tratta di proprietà sensibili, ci volgiamo alle proprietà dei corpi, attraverso i sensi di cui l’intelligenza si serve come di strumenti, e all’azione evocatrice della memoria, che serba in sé le immagini di quello che una volta fu percepito. Per ciò che conosciamo con l’intelligenza e il ragionamento, per gli intelligibili, entra ancor più direttamente in gioco l’attività del soggetto pensante. Senza l’attività concettualizzatrice di colui che apprende, senza l’esercizio rigoroso della sua capacità giudicante – per la quale i concetti stessi gli appaiono veri o falsi – non c’è vera conoscenza, ma tutt’al più la mera assunzione di notizie o di schemi mentali. Si può «incamerare il pensato» – quali che siano gli ambiti a cui esso si riferisce, i suoi contenuti e gradi di elaborazione con cui si presenta – senza che ci sia un vero e proprio «pensare» come atto personale. Si hanno allora un sapere ed un insegnamento che opprimono l’intelligenza invece di liberarne il dinamismo, mentre l’insegnamento dovrebbe mirare in primo luogo ad avviare il processo di autoformazione di colui che apprende. Afferrare e capire un discorso significa rendersi conto di ciò che ha in mente chi ha parlato; ma c’è anche il problema di cogliere il suo valore di verità, di sapere se ha detto il vero (13,45). I docenti hanno forse il compito di comunicare agli allievi esclusivamente i loro pensieri o, in primo luogo, quegl’insegnamenti che formano la struttura stessa, la logica interna, il livello specifico di conoscenza di una disciplina? La domanda è di quelle che vanno al nocciolo di una questione. «Chi è tanto stolto e curioso – si chiede Agostino – da mandare il proprio figlio in una scuola ad imparare ciò che pensa il maestro? Quando i docenti spiegano con le parole quelle discipline che dichiarano di professare, i cosiddetti discepoli esaminano per proprio conto il valore di verità di ciò che è stato detto, contemplando secondo le proprie forze la verità interiore: ebbene, solo allora imparano» (14,45). Secondo Agostino non c’è educazione senza autoeducazione, non c’è un reale apprendere senza l’atto personale di intendere e giudicare. Ciò non vuol dire che Agostino neghi l’utilità dell’insegnamento, né tanto meno la concreta situazione di chi apprende, perché a causa della natura sociale dell’uomo nessuno può fare a meno, per diventar se stesso, dell’altrui esperienza. Un’autoeducazione fuori dalla storia appare ad Agostino cosa assurda e astratta (Retract. I, 8,2).

  1. La legge dell’interiorità del pensiero e la dottrina del Maestro interiore

Agostino rinnova originalmente il tema socratico della maieutíca e quello platonico dell’anamnesis, ponendo a fondamento del suo socratismo cristiano «la legge dell’interiorità del pensiero» (É. Gilson), la dottrina dell’illuminazione. Il punto di partenza è la concezione della verità come disvelamento e non produzione. «L’attività razionale non produce la verità, ma la scopre. Prima ancora di essere trovata, la verità esiste per se stessa e, quando vien trovata, ci rinnova» – afferma Agostino in un’opera dello stesso periodo o di poco posteriore, nel De vera religione (39,73)[3]. La mente intuisce ed usa nella ricerca e nella dimostrazione del vero i principi regolativi della sua stessa attività, le interiores regulae veritatis (De lib. arb. II, 12,34). Esse sono presenti in noi, ma non sono da noi; sono interiori e trascendenti. Sono in noi non come una pagina dove si legge, ma come una forza che capacita alla lettura. Per esse la nostra mente è partecipe di una legislazione, la cui sorgente è il Logos, l’Intelligenza creatrice, il Verbo. In tal modo la trascendenza di Dio si coglie nel punto massimo di interiorità. «Non uscir fuori di te, torna in te stesso. Nell’uomo interiore abita la verità. E se trovi mutevole la tua natura, trascendi te stesso! Oltrepassandoti, ricordati che tu trascendi un’anima razionale. Tendi dunque là donde si accende il lume stesso della ragione» (De vera rel. 39, 72) [4].

La dottrina della illuminazione delinea la partecipazione umana al Verbo, cioè a quella vita che è la luce degli uomini. Quella che il Faggin ha felicemente chiamato la «essenziale curvatura teologica» della pedagogia agostiniana qui si manifesta in pieno. Per Agostino «l’uomo, in quanto dotato di intelligenza, è naturalmente un essere illuminato da Dio» (De diversis quaestionibus octoginta tribus q. 54). Abbozzata nel De Beata vita (IV, 35), suggerita nei Soliloquia, questa dottrina si dispiega in tutto il De magistro, toccando il punto più alto proprio nella conclusione. Il monito del Vangelo di Matteo (23,10), unus est Magister vester, «uno solo è il vostro Maestro», trova, a ben vedere, la sua giustificazione nel prologo giovanneo: «nel Verbo era la vita e la vita era la luce degli uomini, luce vera che illumina ogni uomo che viene in questo mondo» (Gv. 1,4,9). Nel Vangelo è la risposta alla ricerca del fondamento per cui tutti gli uomini sono condiscepoli d’un solo e medesimo Maestro, in virtù del quale diviene possibile la loro comunione in una stessa verità. Lo sviluppo sinfoniale che le opere maggiori danno alle intuizioni del De magistro attesta l’essenziale unità del pensiero agostiniano e il singolare valore di un testo metafisico, gnoseologico e spirituale relativamente breve. Dio è più presente all’uomo di quanto l’uomo possa esserlo a se stesso ed è il divino Maestro interiore che, pur ammonendo e sollecitando dal di fuori, attraverso le più diverse situazioni ambientali e sociali, regge la mente stessa e insegna sempre dal di dentro, nel cuore della ragione, nelle profondità dell’anima. «Ogni anima razionale lo consulta. Ma a ciascuno è dato quanto è capace di far suo, secondo la sua buona o cattiva volontà. E se qualcuno sbaglia, ciò non è per difetto della Verità consultata, come non è per difetto della luce solare se spesso i nostri occhi vedono meno bene» (De mag. 11,38). Il Verbo di Dio, che si è rivelato agli uomini nella persona di Cristo, è «il Maestro della scuola comune» (Sermo 299, 1; Sermo 23,11,2; Ep. 144,1; Ep. 166,9). Tuttavia l’influsso divino nell’umana conoscenza del vero non è la conoscenza stessa: questa è effetto della nostra attività, mentre quello ne è la causa prima. Il carattere personale del giudizio di conoscenza è, pertanto, una delle tesi centrali del pensiero agostiniano. L’uomo, quand’anche gli vengano dette cose vere, le conosce solo con il puro occhio interiore (novit contemplatione sua secreto ac simplici oculo, De mag. 12,40). Vero discepolo è solo colui che si fa nel suo intimo discepolo della Verità (intus est discipulus Veritatis, ibid. 13,11). L’attività dello spirito si potenzia, quindi, non nel rifiuto delle necessarie mediazioni storiche, ma attraverso l’acuta avvertenza del loro carattere introduttivo e preliminare.

Il De magistro non è un dialogo sulla impossibilità del dialogo e dell’insegnamento, ma un’indagine sulle condizioni originarie che lo rendono possibile e fecondo. Compito precipuo e insostituibile del docente-educatore è, infatti, non sottomettere a sé chi è affidato alla sua responsabilità, ma «renderlo capace di vista interiore» (intus discere idoneus, 12,40). Tutto dev’essere sempre ricondotto al livello più profondo della coscienza personale, là dove si origina il dialogo tra l’anima che cerca e l’interlocutore divino che la rende bisognosa e capace di Verità.

[1] Humanitas n.2/1987.

[2] Nella Sacra Bibbia, tr. a cura della CEI si legge: «i loro mantelli non erano stati toccati [dal fuoco]»; nella Sacra Bibbia dell’ed. Ancora invece: «i loro calzoni non erano cambiati»; evidentemente il termine originario (ebraico) non è suscettibile di interpretazione univoca.

[3]  A Tagaste Agostino scrive, in risposta alle domande di Romaniano, il De vera religione. Questo più maturo sforzo di Agostino «laico» nel presentare la dottrina cattolica, difendendola dalle false opinioni dei pagani, degli eretici e dei manichei, vede sul terreno pedagogico una ripresa di tre temi di fondo: autorità‑ragione, rapporto tra cultura precristiana e annuncio evangelico, dottrina del Maestro interiore. Tra le due guide disposte dalla provvidenza, l’autorità e la ragione, non vi è contrasto. La prima dispone l’uomo a ragionare, la seconda conduce alla conoscenza e al convincimento; tuttavia neppure l’autorità può fare a meno della ragione quando ci si chiede a chi sì debba prestar fede; ed è certo che l’autorità conosciuta e manifesta è a sua volta autorità di grandissimo peso (De vera rel. 24,45). L’autorità è come il latte per i bambini, a cui succede nel tempo il cibo solido, cioè la dottrina che ci permette di ravvisare nell’Antico Testamento la prefigurazione preziosa, sebbene imperfetta, del Nuovo. Nei primi capitoli Agostino abbozza un consuntivo delle verità che la vita di Socrate e gli insegnamenti di Platone hanno saputo additare agli uomini. Essi per primi adorarono un solo Dio e resero visibile all’occhio interiore dell’uomo il mondo dell’anima: scoperta questa destinata a cambiare profondamente la vita umana. Socrate e Platone non osarono allora opporsi alle superstiziose credenze del volgo; ma se vivessero ora, nei «tempi cristiani», non esiterebbero a riconoscere che certe verità può averle insegnate solo la sapienza divina e che la chiesa cattolica difende in tutto il mondo le verità più alte che essi intuirono. E’ significativo vedere come anche l’Agostino della piena maturità approfondirà queste vedute senza mai abbandonarle. Infatti nel De civítate Dei (VIII, 11) si esalta come autentica theologia naturalis la dottrina dei filosofi socratici sull’esistenza e sulla natura di Dio, contrapponendola al genus mythicon della theologia fabulosa. La genuina filosofia di un Platone o di un Seneca fa sì che le loro dottrine concordino su aspetti non secondari con quella rivelata, sino ad apparire una preparazione alla religione cristiana.

[4] «Noli foras ire, in te ipsum redi. In interiore homine habitat veritas. Et si tuam naturam  mutabilem inveneris, transcende et te ipsum. Sed memento, cum te transcendis, ratiocinantem animam te transcendere. Illuc ergo tende, unde ipsum lumen rationis accenditur». In questo passo Agostino formula nel modo più limpido il principio fondamentale e il metodo speculativo della «metafisica dell’esperienza interiore» e della sua pedagogia.