Dal temperamento al carattere

Da Teofrasto a Mounier, da La Bruyère a Le Senne ci si è interrogati sul carattere degli uomini, in opere fra loro assai diverse per stile e intenti, così come da sempre l’umanità ha visto nella formazione del carattere la fase culminante, la più ardua e complessa dell’educazione, tanto che essa è, anche nel linguaggio corrente, l’educazione per antonomasia. Che cosa è dunque il carattere? In che misura si può e si deve legittimamente distinguerlo dal temperamento? Come concepire il rapporto fra carattere e temperamento? C’è un aneddoto nella vita di Socrate, che non solo è gustoso, ma è anche estremamente significativo per cercare una risposta alle domande che ci siamo posti. Cicerone lo riferisce in ben due passi, nelle “Tusculanae Disputationes” (IV, 37, 80) e nel “De fato” (5, 10). Zopìro era un fisiognomico, dichiarava cioè di saper riconoscere le tendenze e i costumi di ognuno dall’aspetto fisico, dall’atteggiarsi del corpo, dagli occhi, dai tratti del volto, dalla fronte. Costui sosteneva che Socrate era “tardo di ingegno” e vedeva insiti nella sua natura “un cumulo di vizi”. Quando poi Zopìro aggiunse anche che Socrate era “libidinoso”, a quella battuta Alcibiade uscì in una gran risata, e così gli altri discepoli, unanimi nel contestare la diagnosi del fi-siognomico. Il Socrate di Zopìro non era, infatti, quello che essi conoscevano e amavano. “Ma in aiuto di sè stesso – scrive Cicerone – venne proprio Socrate, il quale disse che quei vizi erano insiti in lui, ma che li aveva scacciati da sé con la ragione”. Come dire: “Il figlio di Sofronisco scultore e di Fenarete levatrice” era come Zopìro l’aveva descritto, ma il Socrate vero – filosofo, educatore incomparabile, cittadino esemplare e insieme anticonformista – era colui che aveva saputo costruire, su quelle tendenze infide e su quelle scoraggianti predisposizioni, un ben diverso carattere.

Che cosa è, dunque, il carattere e che cosa è il temperamento? Kant aveva fissato il concetto speculativo di carattere nell’”Antropologia pragmatica” con una definizione lapidaria: “Avere un carattere nel vero senso della parola significa avere quella proprietà del volere, secondo la quale il soggetto si determina da sé in base a certi principi pratici, che egli si è prescritto in modo inalterabile con la sua propria ragione”. Il carattere è, insomma, il costante atteggiamento della coscienza e della vita in armonia con principi intrinsecamente razionali, liberamente eletti e praticamente seguiti.
È equivoca, pertanto, e generatrice di confusione la sinonimia corrente tra carattere morale e temperamento naturale dell’individuo o individualità fisiopsichica quale risulta dalla costituzione propria di ogni soggetto umano. Il carattere è certamente in connessione vitale inscindibile col temperamento, ma esprime un aspetto logicamente e realmente distinto della personalità umana. L’abito dell’autodeterminazione secondo principi pratici, prescritti dalla ragione, non è, infatti, una proprietà originaria del volere, né una meta che si raggiunga con un singolo scatto di volontà, ma una conquista graduale a cui si perviene attraverso un intenso processo educativo e autoeducativo. Il temperamento è il complesso delle proprie tendenze e inclinazioni, conscie e inconscie, ed è essenzialmente originario, nativo. Il temperamento è natura, anche se, trattandosi di natura umana, esso comprende non solo elementi fisici, fisiologici e nervosi, ma anche qualità e proprietà psichiche e spirituali, come vivacità o lentezza d’intelligenza (per temperamento Socrate era “tardo di ingegno”), intensità o debolezza di energia volitiva, ecc. Ed entra a far parte del temperamento anche ciò che è prodotto in noi senza una nostra consapevole scelta dalle influenze dell’ambiente e dalla pressione sociomorfica.

Quali che siano i tratti particolarissimi dell’uno o dell’altro individuo, si può convenire nel giudicare la natura umana né tutta buona, né tutta cattiva, bensì discorde ed eterogenea nelle sue tendenze, che costituiscono il substrato del temperamento. A causa di questa eterogeneità, il temperamento ci pone spontaneamente in uno stato di lotta, virtuale o attuale, con noi stessi prima ancora che con gli altri. È solo in virtù dell’azione educativa, e in progresso di tempo auto-educativa, che sul temperamento si innesta il carattere.
Il carattere non sorge se non dall’atteggiamento che una persona prende di fronte al mondo, alla vita e a sè stessa: l’io, insomma, si dà un carattere scegliendo innanzi tutto fra le tendenze e gli impulsi che costituiscono il suo temperamento e tra le influenze che si incrociano nella sua via. Di qui la connotazione prevalentemente agonistica del rapporto fra temperamento e carattere. Il carattere, quindi, non può limitarsi ad essere forma della materia di abiti e tendenze offerta dal temperamento, nel senso che debba utilizzare gli uni e gli altri così come si presentano. Del temperamento, infatti, si possono e si debbono utilizzare attitudini, energie, spinte dinamiche, preziose disposizioni; ma sarebbe impossibile utilizzare dal punto di vista etico tendenze moralmente aberranti, se non riportandole al di qua di quel limite in cui comincia appunto l’aberrazione. Un carattere morale non si forma senza un’illuminata e sapiente opera di “potatura”, che l’educazione promuove, ma che solo il soggetto che si educa può e deve operare per sua decisione.

La psicologia, sin dall’inizio di questo secolo – un apposito volume fu scritto dal Paulhan nel 1905 – ha molto insistito sulle cosiddette “mensonges du caractére”; ma le menzogne del carattere si hanno non quando il carattere è diverso e per alcuni lati persino opposto al temperamento, come nel caso di Socrate, bensì quando l’opposizione non è sincera e profonda, ma simulata e superficiale, non veramente fusa nella superiore armonia di una personalità compiuta. Non il carattere in quanto tale, ma la sua assenza e le sue deformazioni, non la funzionalità dinamica e la forza unificante del carattere, ma la sua patologia spiegano quei fenomeni che spezzano l’unità interiore, psicologica prima ancora che morale di tante persone, creando – al posto di uomini e donne che sono pienamente se stessi e su cui altri uomini e donne sanno di poter contare – gli ipocriti, i falliti, gli inaffidabili.
La premessa ovvia della formazione del carattere è la coscienza di sé come individualità fisica e psicologica, e anche del proprio temperamento. È il primo e più elementare significato del monito socratico: “Conosci te stesso”. Tuttavia la coscienza dell’essere proprio di un individuo sarebbe sterile presa d’atto e resa a una situazione di fatto, se scissa dalla coscienza del “Sollen”, del dover essere, di ciò che la ragione ci comanda di far esistere nella nostra vita, di ciò che l’uomo può e deve, di quei valori che costituiscono le forze vitali e propulsive di un’esistenza propriamente umana. L’educazione del carattere è quindi strettamente congiunta al socratico “mettersi in chiaro con se stessi”, cioè all’esercizio della sincerità e del coraggio.

Giornale di Brescia, 23.9.1990.