David Grossman intervistato da Gad Lerner

GAD LERNER: Buonasera a tutti. L’affetto che avete dimostrato verso David è anche amore per la letteratura, e questo ci avvicina davvero. Io ricordo, credo fosse l’estate del 2013, una cena a Gerusalemme con David e la sua famiglia, durante la quale, con gli occhi che gli luccicavano di gioia, a un certo punto lui mi ha detto: “Sai Gad, sto finalmente scrivendo d’altro”. Prima di ogni incontro David Grossman raccomanda a chi sarà il suo interlocutore: “Ricordati, voglio parlare dei miei libri, voglio parlare di letteratura”. E non è un parlare d’altro, ma la storia e la cronaca lo inseguono inesorabilmente. Anche in questo libro, che ha certamente una sua forte dimensione comica, benché impastata con una vicenda di dolore, e che racconta una trama che potrebbe essersi svolta qui a Brescia o in altri posti d’Italia, ugualmente la cronaca lo insegue. È la storia di un orsacchiotto, Dova’le, – il diminutivo di Dov, ‘orso’ in ebraico -, un cabarettista di 57 anni che nel corso di uno spettacolo, al quale ha desiderato intensamente che venisse ad assistere un suo amico d’infanzia che nel frattempo è diventato giudice,un uomo serio e anche piuttosto musone, deve fare un resoconto a se stesso mescolatocon il resto dello show.È con la relazione aggressiva, brutale, spesso volgare che lui instaura un rapporto con il pubblico, che si dividerà e avrà reazioni molto forti al racconto che mano a mano diventa romanzo. All’inizio vi sembrerà di assistere a uno sketch, di quelli che si possono vedere alla televisione, poi gradualmente la letteratura prevale. Ma intanto vediamo come questa satira, questa forma di umorismo, questo gusto del “politicamente scorretto” disegnino una psicologia di massa del nostro tempo. Però, la prima cosa che chiedo a David Grossman è di togliermi una curiosità. Questo libro, che in italiano si intitola Applausi a scena vuota, nella sua edizione originale ebraica ha un titolo che vuol dire: “cavallo entra in un bar”. È l’inizio di una barzelletta piuttosto divertente, perché il cavallo ordina una vodka, ed è l’unica barzelletta che Dova’le, il nostro orsacchiotto, non porta fino in fondo: la lascia a metà nel corso dello spettacolo. Se David Grossman ci vuole raccontare la barzelletta per intero, oppure dire perché rimane interrotta…

 DAVID GROSSMAN: Shalom, buonasera a tutti. Grazie tante per essere intervenuti in questa serata così fredda, mi fa molto piacere avervi tutti qua.

Devo dirvi che in ebraico ci sono un’infinità di barzellette che cominciano con questo incipit: “portare un cavallo dentro un bar”, e poi finiscono in modo differente a seconda della barzelletta. Questo cavallo, portato dentro il bar, chiede al barman un bicchiere di vodka. Il barman è sconvolto, ma versa la vodka nel bicchiere; il cavallo beve tranquillamente e gli chiede quanto costa, e quello risponde: “50 dollari”. Il cavallo paga e se ne va. Il barman gli corre dietro e gli dice: “Scusa, ma io non ho mai visto un cavallo che parla”. Il cavallo si volta verso di lui e gli risponde: “Con i vostri prezzi, non mi stupisce affatto che non l’abbia mai visto”.

 GAD LERNER: Dova’le cattura il suo pubblico e poi lo brutalizza. Anche quando ride, il suo sguardo è concentrato, privo di gioia. “Sembra che sorvegli il nastro trasportatore sul quale rotolano le sue battute”, citando la scrittura straordinaria di Grossman, che più avanti aggiunge: “Quest’uomo – è il giudice, stupefatto tra il pubblico, che ragiona a voce alta – che non è bello, non è eccitante, e neppure affascinante, riesce a toccare il punto preciso in cui gli individui si trasformano in massa, in marmaglia”. Anche tu hai fatto radio, anche tu sai essere dominatore del rapporto con il pubblico. È un personaggio sgradevole questo Dova’le; in qualche modo hai voluto identificarti nelle dinamiche che crea?

 DAVID GROSSMAN: È vero, all’inizio del libro, lui è moltobrutale, è aggressivo, volgare. Ma la cosa interessante, è che lui sa perfettamente cosa l’audience si aspetta da lui. Flirta con il pubblico con la sua aggressività; è conscio che per interessare l’audience deve passare da lì. Come se, così facendo, decodificasse una linea speciale di comportamentoper il pubblico israeliano, che capisce che entrambi parlano la stessa lingua. Dova’le ne sceglie una particolarmente volgare proprio per riuscire ad avere un aggancio con il pubblico. Ma dopo un po’ ha inizio un cambiamento nell’audience, in Dova’le, nel suo linguaggio, che diventa sempre più sensuale, delicato, più intimo. Ma stranamente, quando Dova’le diviene più dolce e più tenero non riesce lo stesso ad avere successo, il pubblicocomincia a lasciare la sala e andarsene via.

Tu dicevi qualcosa prima relativamente ai media, a quanto riescano ad avere un potere di manipolazione sulla gente. Questo è un tratto tipico della nostra era, dei nostri giorni: non ci si stupisce quasi più nel vedere come i media riescano ad esercitare un potere sugli individui affinché essi, tutti insieme, possano diventare prima massa e poi addirittura gruppo violento. E c’è forse proprio questo atteggiamento, del far leva sul kitsch e sul sentimentalismo e sulle varie modalità di manipolazione emotiva, attraverso le quali i media riescono, per così dire, ad ammucchiare i lettori in una falsa collettività che rende più inclini alla manipolazione sia da parte dei mediasia da parte dei politici.

 GAD LERNER: Arriveremo dopo al secondo Dova’le, alla rivelazione del personaggio che coglie l’occasione di questa serata in cui in verità si rivolge a una persona in mezzo al suo pubblico per fare i conti con una vicenda drammatica e surreale svoltasi 43 anni prima, ai tempi della sua adolescenza. Ma mi fermerei ancora all’aggressività del primo Dova’le, perché questa e la comicità contemporanee sono familiari anche a noi. Se noi tre sul palco, dalla posizione privilegiata in cui siamo, cominciassimo a schernire una persona del pubblico a caso inventandoci qualche difetto, tutti gli altri parteciperebbero al meccanismo della derisione e probabilmente anche gli aggrediti dovrebbero far finta di divertirsi. Ma qui c’è qualcosa che colpisce il lettore, perché sappiamo che l’umorismo ebraico ha una sua tradizione che vediamo in una certa misura anch’essa stravolta e brutalizzata. Leggendo alcune di queste battute “politicamente scorrette”, mi sono chiesto se davvero nella tv israeliana, per esempio in trasmissioni comiche, si scherzi sulla Shoah, o sull’occupazione dei territori palestinesi, o, ancora,se la complicità che lui, Dova’le, cerca attraverso battute da iniziati con il pubblico possa davvero passare, ad esempio, per lo scherzo sul santo Baruch Goldstein, flagellatore degli arabi. Racconta anche quella barzelletta sul palestinese che viene ucciso perché tanto non avrebbe fatto in tempo a tornare a casa prima del coprifuoco; poi quell’aggiunta sul grande problema della sinistra, che non sa ridere. Addirittura quando racconta la storia dei bambini che prendono l’autobus per andare per la prima volta nella loro vita in campeggio, dice: “Mezzi addormentati i genitori ci accompagnavano Umschlagplatz”, – che sarebbe il luogo del ghetto di Varsavia da cui gli ebrei venivano imbarcati verso Treblinka -, e subito si dà una pacca sulla mano esclamando: “Questa mi è scappata. i sono vari esempi di questo tipo. Dentro la vita di guerra o del terrorismo si sviluppa un linguaggio simile?

 DAVID GROSSMAN: Sì, c’è questa lingua, e specialmente penso nell’atmosfera che noi viviamo in Israele. Noi in Israele siamo abituati ed esposti continuamente a una realtà assolutamente violenta, siamo immersi dentro la violenza. Una violenza che sommerge noi e una violenza che anche noi creiamo ed esercitiamo sugli altri. Quindi è inevitabile che la gente diventi più dura, più aggressiva, e per sopravvivere a questo clima estremo che non fai altro che renderti la pelle più resistente. Noi cerchiamo di sopravvivere, o almeno di risolvere questi problemi parzialmente, usando il nostro senso dell’umorismo. Però Dova’le prosegue, compie qualcosa al di là, perché cerca di ridurre in briciole la possibilità che il pubblico ha di sentirsi insieme. Di primo acchito, pare quasi che riesca a pervenire a un accordo con il suo pubblico, come se stipulasse un contratto e dicesse loro: “Attenzione, non perdete la testa, sono solo io che posso fare certe cose”. Poi invece, ed è una cosa interessante, e che si nota dall’inizio del libro, è quasi felice di distruggere non solo se stesso ma anche il pubblico che lo circonda. Forse perché lui ha un tale ego e si sente talmente outsider, forse perché non è mai stato guardato con benevolenza da nessuno vuole fare qualcosa di assolutamente distruttivo. Ed è interessante vedere – e per me è interessante scrivere – come l’audience lo segua quando inizia a essere euforico, e grida: “Bravo to death!”. Sapete, dire qualcosa del genere in Israele… Ma lui libera qualcosa all’interno del cuore dei suoi ascoltatori, permette loro di diventare ancora più violenti, volgari e selvaggi. Li legittima. In quel senso penso che egli sia più ardito rispetto alla media dei comici che ho visto, va un passo oltre loro.

 GAD LERNER: Ci sono in Israele dei comici come lui?

 DAVID GROSSMAN: Ebbene sì. Il libro è stato pubblicato in Israele già da parecchi mesi, e ci sono una serie di cabarettisti e di comici, almeno dieci, che mi hanno scritto e contattato e detto: “Guarda, siamo noi Dova’le, vogliamo fare noi la parte dello spettacolo di Dova’le, perché – continuano a ripetere – questa è la mia storia, lascialo fare a me”. Ed è anche tanto interessante perché molti dei miei lettori continuano a scrivermi barzellette con il suggerimento di metterle nella prossima sequel del libro che scriverò.

 GAD LERNER: Con ciò siamo ben lontani dallo stereotipo del clown triste, come l’ultimo intervento di David ha chiarito, perché c’è questa dinamica di sottomissione e di distruzione che Dova’le pratica continuamente. In particolare, si accanisce nel libro contro una donna, anzi contro una donnina: in italiano, Alessandra Shomronil’ha tradotto come Frugolina, ed è molto ben scelto. È una bambina che ricorda la relazione con Dova’le adolescente, un Dova’le che non era ancora sul palco a esercitare il suo potere, e che lui cerca di distruggere e non ci riesce. Anzi rivela nel rapporto con lei (non voglio raccontare troppo per non rovinare il gusto della lettura) come questo bisogno di brutalizzare e sottomettere gli altri nel comico si sia sviluppato per complicità con i suoi aguzzini al tempo dell’adolescenza.

Dova’le è stato lo zimbello di una compagnia, il ragazzino preso in giro e assoggettato alla ferocia dei suoi coetanei. Sapete che David Grossman ha scritto molto sui bambini e sull’infanzia; questo è un aspetto crudele ma presente, credo, nelle esperienze di tutti noi. Lì si comincia a capire che la personalità di Dova’le è qualcosa di più complesso e che quella sera lui deve dirci qualcosa di importante.

 DAVID GROSSMAN: Gad, mi hai fatto così tante domande che quasi non so più da che parte iniziare a rispondere. Proviamo a partire da Frugolina. Ecco, Frugolina ha incontrato per la prima volta Dovale quando lei aveva 8 anni e lui ne aveva 12/13. Per definirla molto brevemente, diciamo che Frugolina è un po’ una borderline, una ragazza e una donna che non ha mai capito le barzellette, che non riesce a capirle perché ogni volta che ne ascolta una le sembra di ascoltare una storia vera; e quindi nella maggior parte dei casi soffre. Questa cosa l’ho capita molto bene anche io, perché anche io da bambino avevo più o meno lo stesso tipo di reazione. Ogni qual volta che qualcuno mi raccontava una barzelletta o la sentivo raccontare reagivo sempre in un modo diverso, perché ovviamente nella barzelletta c’è sempre qualcuno che viene deriso, qualcuno che viene preso in giro, qualcuno che viene umiliato. Ebbene, io da bambino non ridevo quasi mai, anzi mi venivano le lacrime agli occhi e a volte piangevo anche. Lei lo guarda, e assiste a questo spettacolo assolutamente terribile, volgare, aggressivo che sta facendo Dova’le sul palcoscenico e non riesce a crederci. Lui peraltro la vede, la riconosce e non riesce a credere che lei rimanga lì immobile, seduta, a vedere tutto questo, perché sa come reagisce. Allora le chiede: “Ma stai qui, e vuoi stare qui per tutto il resto dello spettacolo?”. E lei gli risponde, completamente sconvolta: “Ma tu sei stato un bravo ragazzo”, e questa frase così semplice è come se rompesse qualcosa di profondo dentro Dova’le. È quello che capita spesso a moltissime persone, che, vuoi per costrizione, vuoi per necessità, si ritrovano a vivere vite parallele: perdono la loro autenticità, dovendo obbedire a genitori o maestri, o perché particolari, o a causa dello spirito del tempo, lo zeitgeist, e della situazione. A volte sono semplicemente deboli, e quindi facilmente spaventabili, o si vergognano. E quindi finiscono per assumere per anni delle vite parallele, vite che non sono loro. Se sono fortunate, arriva un momento di crisi, un momento quasi magico, dove delle semplici parole riescono a far ritornare indietro questo sé che avevano quasi smarrito. Ecco, la stessa cosa accade in quel preciso istante a Dova’le sul palcoscenico, quanto sente quella brevissima frase che gli viene rivolta: “Ma eri un bravo ragazzo!”. In quel momento tornano in superficie con la potenza di un vulcano in eruzione tutte quelle buone qualità che aveva sempre avuto e tenute nascoste per tutta la vita. È stato proprio nel momento in cui ho messo nero su bianco questa frase: “Ma tu eri un bravo ragazzo”, che sono stato pervaso, quasi spazzato via, da questo sentimento di dolcezza. Spero di provarlo ancora, che non sia l’ultima volta, perché secondo me questo sentire è molto particolare rispetto a quella che è l’arte della letteratura. La letteratura ti dà sempre una seconda possibilità, indipendentemente da quanto traumatica sia la situazione che stai descrivendo, o tragica la scena; la letteratura mi dà la possibilità di avere un punto di vista diverso, di non essere più intrappolato in una serie di eventi esterni, ma riesco a riottenere dentro di me una libertà, un’elasticità interiore che sono delle sensazioni completamente nuove. Posso così muovermi dentro il mio scritto e andare altrove e vedere le cose da un altro punto di vista. In questo modo non mi sento più vittima degli avvenimenti, perché riesco a scegliere dove stare e in che modo farlo. È un po’ come se questa seconda possibilità ci liberasse. Pensiamo a Raskol’nikov, a questo assassino che ha ammazzato due donne: se lo incontrassimo per strada ne saremmo disgustati, non lo guarderemmo neanche in faccia; eppure questo personaggio dostoevskijano riesce, in un modo o nell’altro, a stimolare dentro di noi un sentimento tale per cui, indipendentemente dalla nostra buona o cattiva disposizione nei suoi confronti, ha qualcosa che ci colpisce, anche se lo odiamo o non lo sopportiamo, anche se ci ribelliamo a quello che ha fatto, anche se non lo capiamo. Da quel momento in poi, attraverso questo processo di identificazione, non potremo mai più essere quelli che puntano il dito e lo accusano e basta.

 GAD LERNER: In questa bellissima confidenza che David Grossman ci ha regalato sui suoi meccanismi di identificazione nel corso della scrittura si intravede, credo, la mano di uno scrittore che so che tu ami tantissimo, il deuteragonista di Vedi alla voce: amore: Bruno Schulz. Tu, creando queste operazioni letterarie, sei capace di entrare in una dimensione onirica e di descrivere una realtà molto completa che ciascuno di noi può avvertire come intimamente vera, attraverso i meccanismi della surrealtà. Per cui, ad esempio, Dova’le in alcune circostanze comincia a capovolgersi: cammina sulle mani anziché sui piedi, gli succedono cose importantissime e dolorose. Non le racconteremo tutte, ma si può ricordare l’episodio di quando in campeggio si trovava insieme al giudice, che ora inizia a ricordare ea capire perché è stato convocato allo spettacolo: gli viene in mente di quella volta in cui Dova’le era dovuto tornare verso Gerusalemme per un funerale, e di nuovo si era messo a camminare sulle mani. A un certo punto, chi gli dirà la frase più terribile che segna tutta la sua esperienza futura è un bebè – uno Schulz in pieno secondo me. Ma vorrei che tu ci raccontassi perché il tuo personaggio, all’interno di una storia assolutamente realistica, ad un certo punto si mette a camminare capovolto.

 DAVID GROSSMAN: Perché no? Io da bambino avevo imparato a camminare sulle mani; adesso non ce la faccio più, riesco solo a stare fermo sulle mani durante le mie lezioni di yoga. È proprio il piacere di camminare sulle mani che ti fa cambiare il tuo punto di vista. Quando tu stai sulle tue mani, guardi gli altri con altri occhi, vedi il mondo con altri occhi. Gli altri magari non ti capiscono o non capiscono quello che stai vedendo tu, e però, improvvisamente, tu cambi il tuo punto di vista. Per me questa è l’arte dell’umorismo, nel senso che, di una data situazione – qualunque essa sia -, tu riesci, spostandoti anche magari di una piccolissima frazione, bastano 10 cm, a guardarla con occhi assolutamente diversi. Quindi, una situazione estremamente seria o grave può diventare ilare per tutti noi, se la guardiamo da un altro punto di vista. Un’altra cosa che mi stimola moltissimo è proprio l’elasticità che ne è insita. E mi ricordo, a questo proposito, un cartone animato che avevo visto quando ero bambino, e che ha avuto una grandissima influenza su di me: è la storia di un ragazzino a cui viene dato un puzzle, che avrebbe dovuto raffigurare una tortora o un piccione; invece alla fine il bambino ne tira fuori un pesce. Ebbene, questa scena ha assunto per me un significato profondo. Mi sono detto: “Guarda, con un materiale di questo tipo, con cui avrebbe dovuto costruire l’immagine di un certo animale, quel bambino è riuscito a fare una cosa completamente diversa, che non aveva nulla a che vedere con l’incipit”. Questo stimolo così profondo ha a che fare con quello degli artisti, e cioè cosa fa un artista se non giocare con materiali reali, e scontati, e da essi estrarre una nuova immagine, un nuovo quadro?

Per dire ancora qualcosa sulla flessibilità di quest’arte, Gad, mi ricordo benissimo quando parlavamo del mio libro A un cerbiatto somiglia il mio amore,e tu mi chiedesti: “Ma come diavolo fai a scrivere come una donna, la protagonista?”. Non mi ricordo più cosa ti dissi allora, ma ti rispondo ora. Per me è stato un grandissimo piacere, da uomo, trasformarmi per cinque anni – e non solo scrivere ma essere – in una donna. Vedere il mondo e le cose dal punto di vista di una donna, e non di una qualsiasi, ma di Orah, la protagonista del mio libro. Di solito nella vita quello che capita è che ci si congela, ci si nasconde dietro un senso di paresi, nella quale devi appartenere a un certo genere, la tua biografia è di un certo tipo, il tuo senso dell’umorismo è quello, parli una o due lingue e basta. La vita per noi diventa una specie di definizione rigida, al di fuori della quale non riusciamo più a uscire. Quando scrivo ho il privilegio molto delicato, quasi fosse un soffio, di riuscire a fare uso di questa flessibilità, e cioè a essere un uomo, diventare una donna, poi un lattante e poi un vecchio, una persona con la testa sulle spalle e poi un pazzo completo, un israeliano e un palestinese. Imparo, quasi da autodidatta, come insegnando a me stesso, come, attraverso questo movimento continuo, riesco a utilizzare tutte le opzioni che la vita mi dà: sono tantissime e varie, riguardano chi voglio essere, la vita stessa, il carattere. Ed è come se fosse in questo modo uno stimolo a esplorare tutte queste opzioni, e credo che il piacere nel leggere, non tanto nello scrivere questa volta, consista nel capireche hai queste possibilità, nel renderti conto che la vita si sveglia. È come se tu passassi attraverso un risveglio, ma un risveglio assolutamente piacevole.

 GAD LERNER: Allora andiamo oltre, e chiedo scusa. Vorrei allargare a questo punto il discorso, se tu sei d’accordo, alla visione contemporanea della tua città, Gerusalemme. Io ci sono stato nel novembre scorso, quando si cominciava a parlare di un’intifada silenziosa in corso: incendi, blocchi stradali, paura degli uni ad attraversare determinati quartieri, degli altri di accoltellamenti, minacce intorno ai luoghi sacri e più simbolici, si decide chi ha diritto a salire sul monte del tempio, ecc. Ma questa è una città nella quale è impossibile stabilire frontiere, erigere muri. E conta, se non sbaglio, 400.000 ebrei e 200.000 palestinesi. Che dimensione di conflitto diventa quando hai paura a muoverti nella tua stessa città?

 DAVID GROSSMAN: Vedi, Gerusalemme è il vero cuore del conflitto, perché tutto quello che accade a Gerusalemme viene intensificato, come se ci fossero degli altoparlanti che arrivano dalle migliaia di anni di storia, di retaggio religioso, culturale. E quindi ti chiedi: “Com’è che una città, che dovrebbe essere il cuore della religione, il cuore della cultura e della saggezza, e che lo è stata per più di 3000 anni, riesce a ospitare dei fanatici, dei crudeli, persone che hanno la mentalità così ristretta?”. Perché Gerusalemme, in un modo o nell’altro, ha una situazione talmente esacerbata che tutto diventa un palco: ogni singola cosa diventa una dichiarazione tra l’una e l’altra parte, o contro l’una e l’altra. Quindi Gerusalemme è come se fosse un sintomo assolutamente esagerato di una situazione che sembra sempre più disperata, irrisolvibile. E quindi cosa succede? Che uno è portato a guardare gli israeliani e i palestinesi come sempre meno capaci di liberarsi della trappola che è diventata questa guerra. Accade che sempre più persone, anche alcuni dei miei amici, si rivolgono alle opzioni più terribili e più disperate per poter cambiare, dicendo per esempio che è il nostro destino, che se vivi con la spada in mano devi morire con la spada in mano, che non è possibile risolvere tutto, che resta sempre qualcosa di irrisolto dietro. Ecco, io quando sento questo genere di affermazioni, credimi, come essere umano mi sento umiliato, perché se le persone davvero sono intelligenti, dovrebbero capire che non è possibile essere per sempre delle vittime. Mi rifiuto fino in fondo di accettare questa affermazione, anche perché se noi pensiamo alla meravigliosa e grandissima idea che è stata Israele, alla sua fondazione, che nonostante tutte le difficoltà ce l’ha fatta, l’abbiamo fondato e mantenuto, ebbene questa nazione è stata proprio costituita sull’assunto che la violenza e atti di brutalità non sarebbero più stati perpetrati. E quindi che noi non saremmo più stati vittima di altri e della loro arbitrarietà. Ebbene, Israele è diventato il Paese più forte della regione, e il decimo esercito per dimensioni, forza e strutture a livello mondiale; ha il supporto di grandi potenze come gli Stati Uniti, la Germania, la Francia, l’Inghilterra – e per essere educato dico anche l’Italia. Però non si riesce a capire come uscire da questo vicolo cieco dell’essere e sentirsi vittime, del dover sempre convivere con questa idea del nemico o comunque di avere dei partner e dei nemici; di guardare i palestinesi come se fosse successo qualcosa di sbagliato, con paura e sempre sulla scorta dell’abbrivio di situazioni drammatiche passate, che non fanno altro che mantenerci perennementeall’interno di questo stato di intrappolamento, dal quale sembra spesso impossibile uscire, perché nessuno osa o ha il coraggio di provarci. Penso che sia veramente necessario fare dei passi avanti, che le cose si possano risolvere, che la pace coi palestinesi sia possibile. Noi non dobbiamo più sentirci messi all’angolo, perché siamo vulnerabili, perché vediamo tutta una serie di pericoli. Questo, sia per i singoli, sia a livello di umanità, sia per la collettività. Io devo dire basta a questo sentirsi alienati, perseguitati, non capiti, sempre e solo vittime di un incredibile dilagare di aggressività.

GAD LERNER: L’occasione delle prossime elezioni politiche che si svolgeranno in Israele il 17 marzo ha aperto un confronto interessante, di visione sul futuro tra le diverse forze. Il fatto che, ad esempio, Netanyahu abbia posto il problema di stipulare una legge fondamentale che certifichi la natura ebraica dello Stato, ha portato altri a difendere una visione alternativa,? C’è un confronto nobile? In particolare, l’idea della pace fondata sul reciproco riconoscimento di due popoli, di due Stati, resta una formula vuota, alla quale si guarda solo a parole, o riesce a essere concreta?

DAVID GROSSMAN: Si sentono sempre più persone dire che la soluzione dei due Stati non è fattibile, non può esistere, e che la situazione adesso non si può risolvere perché gli insediamenti che sono stati costruiti così numerosi nel cuore della Palestina non permetterebbero una suddivisione territoriale. Sempre più Israeliani, anche appartenenti all’estrema sinistra, e alcuni esponenti palestinesi sono in modo crescente più favorevoli a questo Stato nello Stato, cioè un unico Stato che sia israeliano e palestinese. Francamente però, questa definizione di Stato bi-nazionale non la capisco e sono assolutamente contrario. Non credo che funzionerà, perché questi due popoli che per 110 anni si sono combattuti, uccisi e reciprocamente odiati, non sono maturi né dal punto di vista politico né dal punto di vista civile e quindi non possono riuscire a convivere in questo modo. Forse in cent’anni di pacifica convivenza, fianco a fianco. E soprattutto se nel frattempo gli israeliani e i palestinesi avranno acquisito più fiducia, saranno riusciti via via ad avere più contatti, e, perché no?, anche curiosità gli uni degli altri, e se una certa amicizia si sarà potuta sviluppare tra le due popolazioni – perché io credo che sia possibile, l’avete visto anche voi qui in Europa: una esempio lampante di come, dopo periodi di dominazioni di alcune nazioni terribili, nemiche l’un l’altra, ci sia stata poi una riconciliazione e una volontà di vivere insieme. Forse allora, se allentassimo tutto questo senso di nazionalismo, saremmo in grado di riuscire e voler convivere. Ora come ora no: adesso dobbiamo per prima cosa guarire, perché è come se noi fossimo cristallizzati dentro un’identità che ci riporta continuamente indietro alla guerra, all’odio, a parlare di quello che fu il nostro nemico. Non parliamo mai di una vita normale, perché non sappiamo cosa sia la normalità. Vedete, voi in Italia sapete molto meglio di me cosa significhino la normalità e la pace. Io continuo a parlarne, ne scrivo; è come se avessi fame di pace, è il mio sogno, è il mio carburante, è quello che mi permette di andare avanti. Ma credetemi, io ne parlo, ma non ho mai conosciuto un intero giorno, un intero minuto, di pace. Allora la possibilità di accedere a questo diritto, a questo privilegio, a questa opportunità, deve essere esplorata ma attraverso la normalità. Finché continueremo a percepire pericoli esistenziali, finché non ci sarà un futuro davanti ai nostri occhi, dove noi potremo vedere non solo i nostri figli, ma anche i nostri nipoti e i nostri pronipoti vivere in pace insieme; fino a che non avremo questa maturità e non la avremo sperimentata, uno Stato bi-nazionale non sarà possibile. D’altro canto, guardate il Belgio, che dopotutto è un Paese estremamente più calmo e rilassato di noi: Fiamminghi e Valloni non riescono ancora a convivere in pace. Immaginatevi gli israeliani e i palestinesi, che sono così profondamente feriti, traumatizzati, che non sono ancora politicamente maturi per diventare un’unica entità statale. Ebbene, lasciamo che ciascuno abbia il proprio Stato sovrano indipendente, che i palestinesi ce l’abbiano e mostrino la loro capacità, il loro talento di costruirsene uno; lasciate che noi possiamo costruire, con i nostri talenti, le nostre ambizioni, la nostra nazione. Abbiamo uno Stato nazionale, allora non sprechiamo energia e così tanto sangue dei nostri giovani in un conflitto simile.

GAD LERNER: Penultima domanda. Pensando all’orsacchiotto Dova’le e al suo linguaggio prima della rivelazione che non vi abbiamo raccontato, perché credo che meriti di essere letta, mi vengono in mente Charlie Hebdo e le guerre culturali. Sarebbe pensabile qualcosa del genere anche in Israele? Esiste una dimensione di guerra, di irrisione sul piano culturale di quel tipo? Lo slogan della solidarietà con cui tutti abbiamo partecipato, Je suis Charlie, ha senso in Israele?

DAVID GROSSMAN: La prima reazione che noi in Israele abbiamo avuto agli eventi di Parigi è stata: “Bene, adesso il resto del mondo sa come ci sentiamo noi, quando siamo sottoposti alla minaccia del terrorismo e quando siamo in preda al terrore”. Francamente io non lo auguro a nessuno, nemmeno spero che tutti si accorgano finalmente di cosa significavivere come viviamo noi. La sola parola ‘terrorismo’ ha un potere talmente buio, talmente restrittivo. Il terrore punta proprio alla parte più fragile della nostra società, del nostro essere uomini. Il terrorismo colpisce quei Paesi che magari hanno avuto centinaia di anni di atti di violenza, di brutalità, e che però, piano piano, sono riusciti a gettare dei ponti di comprensione e di accettazione, dove lentamente le persone si sono sentite tutte uguali, hanno iniziato a condividere valori democratici, compreso un culto per la libertà di espressione. Ecco, indipendentemente da quanto sia stato facile o difficile riuscire ad arrivare – e magari ci sono voluti anni – a una nazione di questo tipo, indipendentemente da quanto conflitto precedente ci sia stato, da quanta istruzione ci sia voluta, da quanto lento sia stato il movimento civile e da quale livello in cui si trovano le nazioni, il terrorismo tenta di ridurre in briciole quei ponti che sono stati gettati. Esso ci tiene sotto gli occhi e vuole controllarci tutti, categorizza le cose, nel senso che quando tu vivi con il terrore del terrorismo cominci a farti tu stesso delle categorie: cominci a guardare la gente, a giudicarla dal colore della pelle, da come parla, dall’inflessione della lingua che parla, da come si veste; arrivi a uno stato quasi primordiale, direi bestiale, come se vivessimo nella giungla. Improvvisamente ogni singolo e piccolo pericolo ti sembra reale e una minaccia terroristica, ti sembra una cosa assolutamente impossibile da esorcizzare, ti pare di non avere la forza di superare il clima di terrore. E quindi tendi ad assegnare in modo aprioristico a un certo gruppo, a una certa categoria, e rendi la vita delle persone che giudichi assolutamente umiliante. Umiliante per chi li subisce, ma anche per chi perpetra questo genere di atti e di azioni. Ora, rispetto al nostro caso, non si tratta tanto di stabilire se è in corso una lotta fra musulmani e cristiani, o fra cristiani ed ebrei, o fra ebrei e musulmani. No, si tratta di dire, se vogliamo definire il terrorismo e il terrore, che il terrorismo è fatto da estremisti, da fanatici, da ermetici, che si contrappongono con la loro chiusura alla capacità dialogica o comunque al tentativo di dialogo che noi cerchiamo di promuovere attraverso la libertà di espressione. E non solo con il nostro amore per le parole, ma anche attraverso l’amore per la cultura, proprio perché è per mezzo diquesto che la nostra vita diventa più dignitosa, più sopportabile e che i gruppi non diventano più tanti gruppi – perché, badate bene, siamo sempre più una società multiculturale, multireligiosa, multietnica. Dovremmo non essere razzisti, che è un’altra reazione che il terrorismo evoca e provoca. Dovremmo cercare sempre, proprio alla luce di questa frammentazione in gruppi sempre più numerosi, di sentirci noi al loro posto e di sentirci un pochino più saggi che in passato, e quindi stare più attenti a quello che facciamo, che diciamo, a come lo diciamo. Perché ci ritroviamo tutti, volenti o nolenti, dentro un’altra fase. Il mondo è diventato solo un pizzico più complesso, ma adesso dobbiamo pensare un pochino di più: al come, al cosa, alla nostra sensibilità, certo, ma anche alla suscettibilità degli altri. Certamente nessuno dà diritto a nessuno a far rinunciare agli altri alle cose, o a ferire gli altri – e mi piace particolarmente un’espressione di John Rawls, filosofo americano, che dice: “Attenzione: fate finta di dover scrivere voi la Costituzione del Paese nel quale vivete. Però, mentre la state scrivendo, non pensate al gruppo etnico al quale appartenete, non formulatela sulla base delle vostre convinzioni; sospendetele, e cercate di scriverla con gli occhi della minoranza, dei gruppi più piccoli e meno importanti”. Ecco, questo mi ha fatto imparare molto, mi ha aiutato a ricordare che anche noi siamo una minoranza, tutti lo sono, e se non lo sono adesso arriverà un momento in cui lo saranno. Allora, se vogliamo difendere i nostri interessi, se vogliamo davvero essere uguali, dobbiamo tenere presente i valori della democrazia.

GAD LERNER: Da ultimo, poiché David Grossman ci ha raccontato di non aver mai avuto una giornata intera di pace nel corso della sua vita, mi piacerebbe che ci dicesse come se la immagina, cos’è per lui la pace.

DAVID GROSSMAN: Cercherò di essere breve, perché siete già stati molto pazienti. Il tutto si rifà a una parola: libertà. La pace come la vedo io è la possibilità che ti viene data di essere libero, e libero dalla paura e dall’odio, perché, se ci pensate bene, sia essere odiato sia l’odiare esauriscono, ti tolgono forza. E ti esaurisce altrettanto dover vivere la vita nell’ansia, nella violenza, sempre di fronte a questo tipo di situazioni. Non solo ti sfinisce, ma ti restringe anche la mente, riducendoti a un unico pensiero costante: che c’è un nemico da qualche parte o che tu sei nemico di qualcun altro. Spero davvero che arriverà quel momento in cui ci sentiremo liberi da questi tratti che la guerra ha acuito in tutti noi. Quello che vi posso dire è che sento adesso una grande rabbia, un grande desiderio perché la pace ci sia veramente. Grazie davvero.

(trascrizione dell’incontro promosso dalla Ccdc il 19 gennaio 2015 a Brescia)