Detti e Contraddetti 1988 -1° semestre

DETTI E CONTRADDETTI 1988 – PRIMO SEMESTRE

 5 gennaio 1988.

«E I DECENNI TRASCORRONO». Così comincia una lirica della poetessa russa Anna Achmàtova, che fa parte del suo Poema senza eroi, di cui c’è la traduzione italiana, con testo originale a fronte, in un’accuratissima edizione Einaudi. E continua: torture, / deportazioni, uccisioni – cantare / nel presente terrore più non posso. Già nel 1917 la poetessa aveva visto dove la rivoluzione conduceva e in lei ben presto si fece strada una decisione: stare col mio popolo, / là dove il mio popolo, per sventura, era. «La volontà di condividere senza compromessi il destino del suo popolo» – per usare le stesse parole di Blok, un poeta che pare avesse udito «la musica della rivoluzione» – fece sì che la sua poesia diventasse la bocca tormentata con cui grida un popolo di cento milioni.

Quando poi, oltre agli amici più intimi, tra cui il poeta Osip Mandel’stam, l’Achmàtova fu colpita nell’affetto più caro, il suo unico figlio, cominciò anche per lei il calvario come per centinaia e centinaia di migliaia di madri in Unione Sovietica (non ci fu nel trentennio staliniano, dal 1924 al 1953, famiglia in Urss in cui non vi fosse un parente, un amico processato). In attesa della sentenza, si recò al Kresty, il carcere di Leningrado in cui il figlio era imprigionato. L’immensa fila dei congiunti degli imputati, nella quasi totalità donne, si snodava da un’apertura nel muro dell’edificio. A volte capitava di dover fare la fila per due giorni di seguito prima di poter arrivare allo sportello. I familiari dovevano pagare la somma necessaria al mantenimento del detenuto; quando non era più accettata, significava che l’imputato era stato fucilato.

L’Achmàtova ha raccontato questa offesa all’umanità. Citiamo un solo brano, «In luogo di prefazione». «Ho trascorso diciassette mesi a fare la coda presso le carceri di Leningrado. Una volta un tale mi riconobbe. Allora una donna dalle labbra bluastre, che stava dietro di me e che certamente non aveva mai udito il mio nome, si ridestò dal torpore proprio a noi tutti e mi domandò all’orecchio (lì tutti parlavano sussurrando):

-Ma lei può descrivere questo?

E io dissi: -Posso.

Allora una specie di sorriso scivolò per quello che una volta era stato il suo volto».

IL GENIO PROFETICO DI DOSTOEVSKIJ E IL «PRINCIPIO DI SCIGALEV». La statura di Dostoevskij si ingigantisce col passare degli anni. Questo romanziere non è solo un esploratore formidabile delle profondità dell’animo umano e un metafisico; egli assume la dimensione di un profeta. Egli è profeta non per aver predetto l’uno o l’altro avvenimento accaduto dopo (quando è stato tentato di farlo, immancabilmente delude), ma per averci dato la coscienza acuta della crisi del nostro tempo e per averne abbozzato la soluzione. Egli è profeta, inoltre, anche nel senso che ha una straordinaria intuizione della logica della vita e dello sbocco delle idee. Si rilegga, ad esempio, I dèmoni. In esso uno solo dei rivoluzionari si è posto fino in fondo il problema: «che cosa succederà dopo la rivoluzione, che cosa le terrà dietro?». É Scigalev, il capo. Egli rifiuta di essere assimilato ai «narratori di racconti di fate, sognatori e gonzi che si contraddicono da soli, non avendo capito nulla di quello strano animale chiamato uomo». Il rivoluzionario vuole la felicità dell’uomo, ma alle sole condizioni richieste dalla costruzione del paradiso in terra: un decimo avrà sugli altri nove decimi un potere assoluto. In virtù del suo perfettismo presupposto e della esclusione rigorosa di forze e di ipotesi alternative, la rivoluzione, nel momento in cui si realizza, distrugge ogni libertà, invece di rendere effettuale e integrale la libertà stessa. Il principio di Scigalev riassume in questi termini rigorosi la logica del mito rivoluzionario: «partito dalla libertà illimitata, sono arrivato al dispotismo illimitato». Un altro scrittore, che ha sperimentato per anni i lager sovietici, Andrej Siniavskij, ha avuto modo di verificare come i fatti abbiano confermato il principio di Scigalev. «Perché scomparissero per sempre le prigioni – annota nel suo saggio Che cos’è il realismo socialista (Novara 1977) – abbiamo costruito nuove prigioni. Perché cadessero le frontiere tra gli Stati ci siamo circondati di una muraglia cinese. Perché il lavoro divenisse un riposo e un piacere abbiamo introdotto i lavori forzati. Perché non si spandesse neppure una goccia di sangue, abbiamo ucciso, ucciso senza tregua».

«IL PRESENTE GRIDA CHE VUOLE IL MUTAMENTO» scrisse negli anni Sessanta un poeta allora giovane che era andato a vivere nella Germania Orientale. Il nostro voto è che esso sia non-violento, democratico, federativo e che sia per tutti i popoli dell’altra Europa, così legati a noi dalla storia e ancora più dai compiti comuni del futuro. L’Europa del futuro, portabandiera dei diritti dell’uomo in casa sua e nel mondo, respirerà con due polmoni e non più con uno solo. Comprenderà, infatti, l’Est e l’Ovest e andrà dall’Atlantico agli Urali.

 12 gennaio 1988.

 LA SINCERITÀ DI GIOVANNI ARPINO. Giovedì 10 dicembre, un mese fa, Arpino ci ha lasciato. Nato a Pola da padre napoletano, era piemontese, anzi torinese nell’intimo. Di contro ai fanatici che esaltano le magnifiche sorti e progressive dell’umanità e della storia, di cui si illudono di possedere la chiave, Arpino avverte l’orrore che sale. Noi assistiamo al trionfo della barbarie in un mondo che, nell’atto di celebrare i suoi miti (riassumibili nell’«utopia del Progresso» scritto con la P maiuscola), tenta di mascherare il suo vuoto elevando a parametro di vita l’esaltazione dello scontro a coltello per avere di più in ogni campo. «Me la rido delle illusioni degli ultimi cantori di un futuro radioso, ma è la pietà che mi spinge a descrivere la ferocia del mondo che ci siamo creati». Arpino era onesto e sincero. La pulizia dell’uomo e del narratore trova un ulteriore riscontro nell’aver provveduto, negli ultimi giorni, a gettare tra i rifiuti lettere e appunti. «Almeno non lascio niente agli avvoltoi», disse alla moglie Caterina. In un colloquio con Vittorio Messori, riferito nel volume Inchiesta sul Cristianesimo (Torino 1987), negava che esistano gli atei («C’è qualcuno che si mette questa etichetta, ma dietro c’è un barile di roba velenosa, di problemi irrisolti») e confidava: «Sono spesso tentato dalla fede». Come guardava alla Chiesa cattolica Arpino? «I barbari irrompono sulla scena della storia, ma Roma ha una sua strategia, quella di sempre: seminare armonia, farsi arbitra dei dissidi tra gli uomini, annunciare la pace. I frati guerriglieri e i preti clericali – vere mostruosità d’oggi – non sono certo col papa polacco nel continuare in quel progetto. La chiesa passa un momento terribile: deve amministrare l’agonia della cultura dell’umanesimo. Se non moriremo, sarà anche grazie a lei». È difficile non pensare ad Arpino come ad un aspirante alla fede, ma già in lotta per essa. È, infatti, ben lui che ha scritto: «Cristo è stato l’uomo del mondo possibile. Per chi voleva ascoltarlo, disegnò la mappa di una storia vivibile. Era tutto l’uomo: un grande rivoluzionario pieno di passione e, insieme, un grande umanitario, pieno di compassione. Due cose contraddittorie in una stessa persona. Lui, invece, è riuscito a unirle. Alla roulette della vita è Cristo che tiene il banco, lo zero è il suo. Vince lui, per forza».

 «CHIAMATEMI SOLTANTO SIGNOR…» Infastidito dallo spreco di tanti superlativi assoluti ed espressioni adulatorie, lo scrittore Pietro Citati ha invitato chi dovesse rivolgersi a lui a scrivere: «Signor Pietro Citati» e basta. Rifiutare per sé ogni traccia di servilismo è un aiuto anche per gli altri ad avere schiena dritta e spirito di libertà. Non è questo un motivo in più per onorare nello scrittore l’uomo?

 SEMPLIFICARE IL LESSICO FA BENE ANCHE ALLA CHIESA. Ne scrisse Jacques Maritain, il pensatore cattolico che più influì su Paolo VI, in una delle sue ultime opere, La Chiesa del Cristo (Brescia 1972). «È giusto che tutto ciò che sembra innalzare i servitori di Cristo al di sopra degli altri uomini sia eliminato e che pertanto si chiami “Signor Cardinale” chi era stato fino ad ora “Vostra eminenza”. Il vescovo ami farsi chiamare “Padre”, mettendo definitivamente da parte “Eccellenza” o, come si faceva qualche decennio fa in Francia, “Vostra Grandezza”. Ogni abuso di linguaggio svia lo spirito».

DA CINQUEMILA ANNI ABBRACCIATI. In Inghilterra in questi giorni, a Bedfordshire, è stata scoperta una tomba preistorica, con i resti di una bambina e di un maschietto appena più grande di lei. La bambina getta le braccia al collo del bambino, poggiando il capo sulla sua spalla; lui sfiora con le labbra la fonte di lei. Nel momento supremo della morte, non sappiamo se dovuta a cause naturali o a un barbaro sacrificio rituale, quelle due piccole creature seppero essere sublimi. Nei loro cuori, infatti, la tenerezza più delicata ha trionfato sull’orrore.

BREVE POEMA DELL’AMICIZIA. Quali sono i modi concreti in cui si manifesta e si alimenta ogni umana amicizia? La domanda è importante, perché è troppo grande il valore dell’amicizia. Ecco la risposta, soffusa di delicatezza, che ci viene da un grande suscitatore di amicizia. «Gli amici avvincono i loro animi con sempre nuovi legami. I colloqui, le risa in compagnia, lo scambio di cortesie affettuose, le comuni letture di libri ameni, i comuni passatempi ora frivoli ora decorosi; i dissensi, senza rancore, come di ogni uomo con se stesso, e i più frequenti consensi, insaporiti dai medesimi, rarissimi dissensi; l’essere ognuno dell’altro ora maestro, ora discepolo; la nostalgia impaziente di chi è lontano, le accoglienze festose a chi ritorna: queste e altre simili manifestazioni di cuori che si amano l’un l’altro e si ripagano d’amore – espresse dalla bocca, dalla parola, dagli occhi e dai mille gesti gradevolissimi – accendevano come scintille le anime e di molte ne facevano una sola». Chi ha scritto questo breve poema dell’amicizia possedeva in grado eminente il dono della simpatia per coloro che lo avvicinavano e ciò gli permetteva di raggiungerne la vita più intima. È Agostino e il brano si legge nelle Confessioni IV, 8.

19 gennaio 1988.

IL LAMENTO È PROPRIO SENZA USCITA? Il mondo di Robert Musil – lo scrittore austriaco che per quarant’anni, con la dedizione d’un asceta, si affatica intorno al suo capolavoro, L’uomo senza qualità, e ai suoi Diari – è dominato da un sentimento angoscioso del nostro tempo, «la non-legge del relativo». E tuttavia… Sì, l’incantevole e ripugnante, diluviale vivisezione della tragedia del nostro vivere trova anch’essa la sua catarsi, magari in forma interrogativa, proprio in quelle brevi annotazioni, in cui Musil passa dal chiuso, che rischia di asfissiare lui e i suoi lettori, all’aperto della speranza. Come in questo passo sul problema di Dio. «Era un’idea sorprendente quella che occupava la mente di Ulrich… Ulrich era abituato a ragionare non tanto da negatore di Dio quanto da uomo che sta al di fuori di Dio, che secondo l’uso della scienza significa lasciare in balia del sentimento ogni possibile moto verso Dio poiché questo non può promuovere la conoscenza, ma soltanto portare all’assurdo. Egli in quel momento non aveva alcun dubbio che questo fosse il solo atteggiamento giusto… Ma il pensiero che lo tentava disse: E se questa libertà da Dio non fosse altro che la via moderna verso Dio?! Ogni tempo ha avuto una via diversa, secondo le sue più possenti forze spirituali; non sarebbe, dunque, nostro destino, il destino di un secolo di intelligente ed intraprendente esperienza, negare tutti i sogni, le leggende e i concetti lambiccati, solo perché, giunti al sommo della ricerca e delle scoperte, ci volgeremo di nuovo a Lui e stabiliremo con Lui un rapporto di incipiente esperienza?» (da L’uomo senza qualità, Torino 1956, p. 1053).

 LINEA RECTA BREVISSIMA. La ricchezza degli altri. Il maggior bene che possiamo fare agli altri non è comunicare loro la nostra ricchezza, bensì rivelargli la loro (Louis Lavelle).

La paralisi del cuore. Il peggior guaio che possa capitare al cuore non è di sanguinare. È di paralizzarsi (Paul Bourget). Quando si pensa Dio. Soprattutto, non giudicate Dio dalla balbuzie dei suoi servitori (François Mauriac).

Alla prova dei fatti, sgradevolmente uguali. I partiti sono tutti impegnati a discutere la loro identità, quasi fosse una identità metafisica e non si rendono conto che nei gesti concreti sono tutti sgradevolmente uguali (Mino Martinazzoli).

 SIMULAZIONE, SPIRITO GUIDA DELLA SOCIAL LIFE. «Tutto sta diventando più difficile, perché la gente, ormai, non ha più un’anima». A dirlo è Elisabetta Catalano. La famosa fotografa si riferisce ai vip più vip d’Italia, di cui è pure confidente. «Come si fa a fotografare uomini e donne che, invece di essere se stessi, tendono a diventare – nel volto, nelle mani, nei modi – solo il ruolo che rappresentano? La simulazione è ormai lo spirito guida della social life dei nostri giorni, ha tagliato le gambe ai fotografi che vogliono far ritratti veri… La gente ama solo quei ritratti che corrispondono all’idea che essi hanno di se stessi. Sembrano essere non uomini e donne, ma nient’altro che presidenti di se stessi, solerti amministratori della propria immagine. Oltre tre quarti del mio lavoro consiste nel togliere alle persone quell’eccesso di consapevolezza che hanno di se stessi, fino a scoprire la vita interiore. Se ce l’hanno, naturalmente».

 LA FEDE ETICO-POLITICA DI SALVEMINI E LA SUA SORGENTE. «Non facciamo questione di parole. Se altra parola esiste per quella concezione della vita pubblica, secondo la quale l’azione politica deve essere diretta a liberare da ogni parassitismo, non solo borghese ma anche sedicente proletario, lo sviluppo della ricchezza nazionale, a promuovere un continuo elevamento economico morale e politico della classe lavoratrice a beneficio di tutto il Paese, a suscitare nella classe lavoratrice medesima la coscienza e la organizzazione che le consentano di essere essa stessa artefice prima delle proprie conquiste; se per indicare questa posizione ideale e pratica si trova che la parola “democrazia” non può servire, anzi crea degli equivoci, e si preferisce un’altra parola, noi accettiamo quest’altra parola senz’altro». Queste parole furono scritte nel 1912, quando già i fiumi della retorica nazionalistica avevano dato alla testa di molti italiani e la democrazia era oggetto di sistematico discredito. Quarant’anni dopo, nel ‘52, entrando nel dibattito tra Croce e Parri sulla questione se l’Italia prefascista fosse stata una democrazia, quei concetti erano ribaditi con limpidezza e vigore. «La democrazia è quel regime politico nel quale tutti i diritti personali e politici sono assicurati a tutti i cittadini, non solo dalla legge scritta, ma anche dalla effettiva prassi quotidiana – e per giunta tutti i cittadini senza eccezione partecipano con intelligenza e probità alla vita politica, avendo a cuore sempre e solamente il benessere generale». L’uomo che aveva questa fede etico-politica non era un ingenuo, ma uno storico di razza ed un politico che per tutta la vita aveva combattuto una battaglia molto simile a quella che oggi bisogna condurre, «cercando – sono ancora sue parole – di educare i giovani al senso della realtà, al bisogno dell’azione concreta, al disgusto per le astrazioni». È Gaetano Salvemini. Storico, ma non storicista; laicista, ma non ateo; incapace di capire la Chiesa, e tuttavia, per una piena ed esplicita confessione, anch’egli innamorato di Gesù Cristo. «Ho trovato una guida, e mi sono trovato bene – scrive senza mezzi termini lo storico pugliese – a lasciarmene guidare. E questa guida è stato Gesù Cristo, che ha lasciato il più perfetto codice morale che l’umanità abbia mai conosciuto… Non pretendo crediate che io ho fatto sempre tutto quanto dovevo, per praticare l’insegnamento di quel maestro: dico che avrei dovuto essere sempre fedele a quell’insegnamento». (Il testamento di uno “storico empirico”, Il Ponte, gennaio 1968, pag. 49-50).

26 gennaio 1988.

 IL SOFISMA CORRENTE. Un filosofo francese, Jean-François Lyotard, ha scritto: «Che cos’è il consenso ottenuto tramite la discussione? È una violenza nei confronti della eterogeneità dei giochi linguistici». Così, in nome dei «giochi linguistici», Lyotard pretende di giustificare un diritto assoluto alla eterogeneità. Secondo lui sarebbe questa la condizione post-moderna. Insomma, in termini etici, ognuno dovrebbe fare solo quel che gli pare e piace e la ricerca del consenso a un valore o a una regola di convivenza sarebbe, di per se stesso, un attentato alla differenza. Un paio di osservazioni. Per con-vivere gli uomini devono convenire almeno su alcune cose fondamentali. Una delle due: o si cerca il con-senso mediante la libera discussione o, al suo posto, ci sarà, inevitabilmente, l’imposizione violenta. Se proviamo a sostituire «giochi linguistici» con «giochi d’interessi», il presunto diritto assoluto alla eterogeneità altro non è che la giustificazione della legge del più forte.

BEN TORNATO, BERNANOS! Quest’anno ricordiamo i quarant’anni della morte di Georges Bernanos e il centenario della sua nascita. Era, infatti, nato a Parigi nel 1888 e lì morì nel 1948. «La sua opera rivela poco a poco un’estrema fecondità e la sua figura si ingrandisce di anno in anno, dopo la sua morte. Egli apparve all’inizio come un romanziere nato, come forse non ce ne sono stati altri dopo Dostoevskij: appare poi come una specie di genio profetico, che annunciò molti avvenimenti futuri e li definì e scoperse in profondità, una volta avvenuti. C’è in lui, insieme ad una straordinaria ricchezza spirituale, una conoscenza molto lucida della vita umana nei suoi aspetti più familiari come nei suoi più misteriosi segreti». Questo è il giudizio che di lui dette nel 1957, nell’ultimo libro, Profilo della Francia, Albert Béguin, una delle più belle e pure figure di critico letterario e di scrittore responsabile, che, insieme a Jean-Marie Domenach, alla morte di Emmanuel Mounier, nel ‘50, aveva assunto la direzione della prestigiosa rivista Esprit. Di Bernanos il Diario di un curato di campagna, che è del ‘36, è un capolavoro in assoluto da leggere o da rileggere; ma autentico capolavoro è pure l’unico testo teatrale dello scrittore francese, il mirabile dramma Dialoghi delle Carmelitane, scritto su dieci quadernetti di scuola, nell’inverno del 1947-48, in Tunisia, e pubblicato postumo.

Bernanos non è solo uno dei grandi scrittori del nostro tempo: egli è una coscienza libera e fedele («Solo l’uomo libero può amare»), un implacabile smascheratore di ipocrisie, che sapeva guardare in faccia la civiltà contemporanea con una profonda ansia per l’uomo. Un giorno si rileggeranno anche i suoi libri «politici» come si leggono ormai quelli di Charles Péguy e si vedrà meglio la portata del loro messaggio.

SPIRITO D’INFANZIA E SENSO DELLA VITA. Da che proviene che il tempo della nostra prima infanzia ci appaia così dolce e radioso? Un marmocchio ha le sue pene come tutti; è, nel complesso, così disarmato contro il dolore, contro la malattia! L’infanzia e l’estrema vecchiaia dovrebbero essere le due grandi prove dell’uomo. Ma è dal sentimento della propria impotenza che il fanciullo trae umilmente il principio della sua stessa gioia. Si rifugia in sua madre, capisci? Presente, passato, avvenire, tutta la sua vita, la vita intera, è compresa in uno sguardo; e questo sguardo è un sorriso… Ebbene, ragazzo mio, la Chiesa è stata incaricata dal buon Dio di mantenere nel mondo questo spirito d’infanzia, questa ingenuità, questa freschezza. Vorrei aver qui uno di quei dottoroni che l’accusano di oscurantismo. Ecco cosa gli direi: «Quel che avete fatto contro di essa, l’avete fatto contro la gioia. V’impedisce forse di calcolare la processione degli equinozi o di disintegrare gli atomi? Ma a che cosa vi servirebbe fabbricare la vita stessa, se avete perduto il senso della vita? Fabbricate la vita finché volete! L’immagine che date della morte avvelena a poco a poco il pensiero della povera gente; oscura, scolora lentamente le loro ultime gioie. La cosa andrà ancora bene finché la vostra industria e i vostri capitali vi permetteranno di fare del mondo una fiera, con meccanismi che girano a velocità vertiginose… Ma aspettate, aspettate il primo quarto d’ora di silenzio. Allora la sentiranno la parola. Non quella che hanno rifiutato, che diceva tranquillamente: Io sono la Via, la Verità, la Vita – ma quella che sale dall’abisso: Io sono la porta chiusa per sempre, la strada senz’uscita, la menzogna e la perdizione».

Questa pagina del Diario di un curato di campagna ha l’attualità autentica di ciò che è vero e profondo.

«CHI AMA GLI UOMINI, AMA ANCHE LA LORO GIOIA». Sono le parole di Zosima, il santo monaco de I fratelli Karamazov, il capolavoro di Dostoevskij. Ad esse fa eco il discepolo Alojosa, rivolgendosi ad un gruppo di piccoli amici. «A voi parlano molto della vostra educazione, però un bel ricordo della casa paterna, specialmente se è un ricordo dell’infanzia, è forse la migliore educazione. Chi riesce a raccogliere alcuni di questi ricordi e a portarli con sé nella vita, è salvo per sempre».

2 febbraio 1988.

 LA FORZA DELL’AFORISMA. Per anni ho ritagliato, perché meritevoli di essere conservati e riletti, dalla terza pagina del Tempo di Roma gli aforismi di Dino Basili. Ed ecco finalmente il libro che raccoglie quelli e ne offre altri, inediti, alla nostra riflessione: Tagliar corto, edito dalla Mondadori. Basili ha avuto la sorte di osservare da vicino troppi primi attori e rispettive comparse, traendo dall’esperienza di ogni giorno chissà quanti spunti per i suoi taccuini. C’è dunque il vissuto in questo libro denso e arguto; ma è un vissuto che assurge a un livello che pochi raggiungono, quello dell’autentica ironia, la quale cela sempre in sé qualcosa di socratico e di cristiano, il desiderio che la maschera cada perché la vita non ha da essere un carnevale senza fine, un gioco di presunzione e di irresponsabilità. Qualche assaggio? Nelle pagine dedicate a Silva, la figlia adolescente, si legge: Bisogna essere capaci di dare l’anima sopra un re minore mentre il resto dell’orchestra stona e la platea bisbiglia. – A chi sollecita un regalo utile manda un libro di poesie. – Aggiungere al decalogo un articolo sette-bis: non permettere di rubare.

Altri aforismi fanno pensare alla commedia che si recita da parte di uomini che pure riempiono di sé il teleschermo e le pagine dei nostri quotidiani. Qualche esempio. Polemiche dure, batti e ribatti. Cultura di mazza. – La retorica ha un amore sviscerato per la parola «sfida». – Non sfidarsi è meglio. – Alla rilettura della Colonna infame un tema s’impone: come mai tanta autorità sulle spalle di uomini così meschini e ignoranti? – Fare politica e fare dispetti sono azioni che mal si conciliano. – Il disastro, al microscopio, risulta formato da una catena di errori apparentemente senza conseguenze.

 L’ADDIO PRIMA O POI ARRIVA. Quell’ora bisogna metterla in conto. E agire di conseguenza. E quando quell’ora è già arrivata, ci assale il rimorso di non essere stati grati e generosi come pure avremmo voluto e dovuto. Stranamente si pensa che per rendere visibile il nostro io migliore c’è tempo. E invece… i figli dovrebbero – osserva Dino Basili – abbracciare sempre i genitori con l’affetto che mettono quando li stringono all’indomani della morte improvvisa della madre o del padre d’un caro amico. Ai miei occhi una delle prove della straordinaria umanità di sant’Agostino si ha nell’elogio che di lui fa la madre Monica morente, a Ostia, ove si era recata per imbarcarsi alla volta dell’Africa. «Le chiusi gli occhi – narra Agostino – e una tristezza immensa si addensò nel mio cuore. Mi confortava però la testimonianza che mia madre mi aveva dato proprio durante la sua ultima malattia. Ripagando con una carezza i miei servizi, mi chiamava buono e mi ripeteva con grande effusione d’affetto di non aver mai udito uscire dalla mia bocca una frecciata dura o una parola offensiva al suo indirizzo» (Confessioni IX, 12). Il rapporto tra Agostino e sua madre era stato assai difficile, quasi fino a poco tempo prima della conversione. Persino da lei, e forse proprio a causa delle sue eccessive premure, erano venuti al figlio influssi che questi non esitava a giudicare sfavorevolmente; ma dalla bocca di Agostino non uscì mai una frecciata dura o una parola offensiva al suo indirizzo.

IL CORAGGIO DELL’ONESTÀ. «A rischio di passare per un incorreggibile ingenuo, voglio dire che tocca ai partiti, oggi, subito, sentire l’ondata di indignazione che sale dal Paese per il dilagare del malcostume e correre ai ripari. Si è riusciti a stento a evitare nell’ultima amnistia l’estensione del beneficio ai corrotti che sarebbe stata invereconda. Ma nuove leggi si impongono. Siamo stufi di retoriche promesse di rigenerazione o di rifondazione. Attendiamo fatti concreti. Se tutto dovesse continuare come è oggi, tanto varrebbe cancellare dal codice penale le fastidiose figure criminose che vanno sotto il nome di peculato, malversazione, corruzione e via dicendo: malinconici residui di un moralismo stantio». Sono parole sacrosante di Alessandro Galante Garrone. Da girare a quanti gestiscono il denaro pubblico.

LINEA RECTA BREVISSIMA. Quasi soltanto a teatro accade. Gli attori escono di scena dopo aver recitato la loro parte. A teatro. Prima o poi si fermerà. Anche il meccanismo della dittatura non è un moto perpetuo. Non è lo scrittore satirico a rendere ridicole le cose che lo sono già. Gli altri hanno ridicolizzato tutto, e io mi prendo immeritatamente gli allori di scrittore satirico. Domanda e offerta di libertà. Ricordatevelo, il prezzo che bisogna pagare per la libertà diminuisce quando cresce la domanda. Per essere ascoltati. Capita di dover tacere per essere ascoltati. Giganti dai piedi d’argilla. Il tallone di Achille si nasconde spesso nella scarpa del tiranno. I peccati di omissione contano, eccome. Nella storia contano anche i fatti non avvenuti. Le parole di cui non si fa più uso. Di un’epoca dicono di più le parole di cui non si fa uso che non quelle di cui si abusa.

L’autore di queste pungenti riflessioni è il polacco Stanislaw Jerzy Lec, i cui Pensieri spettinati sono stati pubblicati dalla Bompiani (Milano 1984).

9 febbraio 1988.

 LINEA RECTA BREVISSIMA. L’egoismo non consiste nel vivere come ci pare, ma nell’esigere che gli altri vivano come pare a noi. Il cinico è una persona che conosce il prezzo di ogni cosa e il valore di nessuna. L’esperienza è semplicemente il nome che gli uomini danno ai propri errori. Chi, essendo amato, è povero? Niente è più pericoloso quanto l’essere troppo moderni. Si corre il rischio di diventare all’improvviso fuori moda. Chiunque può simpatizzare col dolore di un amico, ma solo chi ha un animo nobile riesce a simpatizzare col successo di un amico. L’autore di questi pensieri arguti e brevi è l’irlandese Oscar Wilde, che non li pubblicò mai in antologia (ce n’è una, però, Aforismi, negli Oscar Mondadori), ma li disseminò nei suoi scritti. Flâneur, dandy, scialacquatore del suo stesso genio, Wilde fu scrittore che seppe come pochi accordare la lingua come un violino e cercare la verità attraverso «la via dei paradossi».

«SE IL CIELO FOSSE CARTA E I MURI INCHIOSTRO…» Sul muro di un monumento, che è stato eretto a Como, si leggono queste parole: Se il cielo fosse carta e tutti i mari del mondo inchiostro, non potrei descrivervi le mie sofferenze e tutto ciò che vedo intorno a me… Dico addio a tutti e piango. È la frase di un ragazzo ebreo, di nome Chaim, ucciso durante l’olocausto. È un grido, un urlo che il tempo non deve disperdere, fino a quando la sua misura sarà la coscienza. Sorge, però, inevitabile, una domanda: come è possibile preservare la propria immagine di essere umano, quando il mondo che ci sta intorno uccide ogni forma e sentimento di umanità? Se tutto dovesse finire qui, come vincere il dubbio e la disperazione nell’ora in cui la notte più buia sembra inghiottire ogni cosa?

DUE VERSI UMANISSIMI E UNA SPAVALDA INVETTIVA. Nella sua Antologia di Spoon River (la prima traduzione italiana risale al 1943) il poeta statunitense Edgard Lee Masters raccoglie epigrafi che immagina scritte nel cimitero di una piccola città del Middle West, passando spietatamente in rassegna passioni e ipocrisie di una società asfittica e spesso malvagia. Non mancano, però, personaggi liberi e disinteressati, con i quali il lettore ama identificarsi; e, per fortuna, sono tanti gli sprazzi di autentica poesia. L’autore dell’Antologia di Spoon River aveva letto e riletto le tragedie greche perché in esse «si pensa secondo valori universali», come amava dire. Ben diversa, evidentemente, l’ispirazione di chi ha voluto, nel cimitero di Rocca di Papa, far incidere sulla lapide che ricopre le sue ceneri, l’ultimo e il più inutile degl’insulti: «Vita sei bella, morte fai schifo». C’è da chiedersi: può un uomo, per quanto reso celebre dalla sua possente voce, irridere, oggettivamente, forse anche al di là delle proprie intenzioni, quanti in quel cimitero e altrove si accostano alla morte con rispetto e anche con speranza? Ha senso, dinnanzi all’universalità e al mistero della morte, inveire spavaldamente contro di essa per il fatto che non concede esoneri o rinvii? L’elogio ad ogni costo della vita è banale, così come è ovvio il ribrezzo della morte; ma l’uomo ha ben altre ragioni per vivere, e per dare un senso anche alla propria morte. Lee Masters è giunto a scrivere: C’è qualcosa nella morte che ricorda l’amore. Insomma, comunque la si esamini la questione, quelle parole sono fuori posto. Un motivo di più, forse, per aver pietà di chi le ha volute sulla tomba. È la pietà che l’uomo all’uom più deve, scrisse nobilmente il nostro Pascoli.

LA LIBERTÀ DI DISCUSSIONE, NON IL BLA-BLA-BLA. Democrazia significa governo fondato sulla discussione, ma funziona soltanto se riesce a far smettere di discutere. Evidentemente, per passare a decidere. La frase è di Clement Attlee, il premier laburista nell’Inghilterra del primo dopoguerra (per l’esattezza dal luglio del 1945 fino alle elezioni del ‘51). È questa una delle ragioni principali per cui la democrazia nel nostro Paese non funziona come dovrebbe. Sono molti, infatti, i politici che dopo una brillante analisi di un problema credono che il loro compito sia finito. Allora passano a tenere altri discorsi su problemi diversi, che a loro volta saranno accantonati per cedere il posto ad altri ancora. Da noi si discute di continuo, si decide di rado. Per questo anche la discussione, malgrado lo spreco di sottigliezze e anche di giuste osservazioni, rischia di apparire chiacchiera.

NEI MINUTI PARTICOLARI. Prendo tra le mani un numero della rivista di sinistra Micro Mega. Reca il seguente motto: «Colui che vuol fare del bene a un altro deve farlo nei Minuti Particolari. Il Bene Generale è la scusa del furfante, dell’ipocrita e dell’adulatore». Sono parole di Gregory Bateson. Quando la sinistra narcisista farà veramente sue quelle parole, allora soltanto si libererà dai miti che ben conosciamo: la dittatura redentrice; il capitalismo di Stato come struttura di base di una società non alienata; il Partito-Stato che deve «tutto correggere, designare e costruire in base a un criterio unico» (Lenin); il marxismo quale «dottrina onnipotente» (Lenin) e «metodo infallibile» (Gramsci). Se le ho intese correttamente, le parole di Bateson significano opzione per una società aperta, da costruire giorno dopo giorno, rifiutando finalmente la presunta «società perfetta» ideocratica e totalitaria. Esse, allora, possono essere fatte nostre e tradotte nelle proposizioni esemplarmente perspicue di Karl Popper: «Agisci per l’eliminazione dei mali concreti, piuttosto che per realizzare dei beni astratti. Fa’ tutto quello che puoi per combattere la miseria e l’ignoranza al pari della criminalità. Ma non cercare di concepire e di realizzare una società perfetta in tutto e per tutto. Il tentativo di costruire il paradiso in terra ha sempre prodotto l’inferno. Non permettere che il sogno totalitario di un mondo perfetto ti distolga dal servire gli uomini che soffrono qui ed ora».

 18 febbraio 1988.

 LA GIUSTIZIA: FARLA ESISTERE E UMANIZZARLA. Anche qui occorre «tenere i contrari», come diceva Pascal. Per il grandissimo pensatore francese, il genio più completo che si conosca, la verità consiste nell’unione di distinte e diverse verità, le quali, se rimanessero isolate ed esclusive, si trasformerebbero in errori.

Quando si esamina un problema, non bisogna limitarsi all’avversario che ci è dinanzi: occorre evocare l’avversario del nostro avversario. Allorché conosceremo bene i due contrari, avremo lo strumento per attingere la verità. «La verità, infatti, è l’unione di due contrari che sembrano contraddirsi» e si contraddicono in effetti, quando essi sono nel loro isolamento, ed invece si sostengono reciprocamente se si stringono vigorosamente in unità le esigenze di verità di ognuna delle due posizioni.

Tra i diversi aspetti della verità, tra i veri c’è solidarietà e non contraddizione. Così sul tema della giustizia: bisogna farla esistere, non nullificarla con un malinteso perdonismo, tanto disumano con le vittime quanto privo di senso dello Stato. Ma nel contempo occorre umanizzare la pena, dare un lavoro e una prospettiva di vita a quanti sono per qualsiasi ragione detenuti, salvaguardarli dalla violenza e dalla droga, dare ad essi istruzione e qualifiche professionali, sottrarli alla disperazione dell’ozio obbligato.

Il diritto penale deve inserirsi in un complesso di misure sociali di sostegno, prevenzione e assistenza. Anche il detenuto, qualsiasi detenuto, è uomo e ogni uomo è mio fratello.

LINEA RECTA BREVISSIMA. Aggettivo. È il peggior nemico del sostantivo (Voltaire). Avaro. Un tal cascato in mezzo ad un pantano / disse a un avaro: – Datemi la mano. – Come, come? – l’avaro replicò. / – Io la man darvi? Ve la presterò (Filippo Pananti). Buon senso. C’era, ma se ne stava nascosto, per paura del senso comune. Denaro pubblico. Anche nelle maggiori strettezze, i denari del pubblico si trovan sempre per impiegarli a sproposito. (Alessandro Manzoni) Moralista. È simile ad un palo di segnalazione stradale che indica la direzione di una strada, ma lui non ci va mai (Charles Dickens). Originalità. Non c’è nulla di più nostro che nutrirci degli altri. Ma bisogna digerirli (Paul Valéry).

IL GRANDE INQUISITORE SI È SBAGLIATO. Uno dei vertici de I fratelli Karamazov è la celeberrima «Leggenda del Grande Inquisitore». Sono pagine in cui Dostoevskij rivela il fondo del suo cuore. Nel presunto processo a Gesù che l’ateo Ivan si va immaginando, l’accusatore è il Grande Inquisitore. Il quale, pieno di compassione com’è per gli uomini, è convinto che «gli uomini diventeranno liberi quando rinunceranno alla libertà, essendo incompatibili tra loro libertà e pane in abbondanza per tutti». Il 23 settembre 1921 il maggior filosofo russo del Novecento, Nikolaj Berdiaev, che pure aveva scontato tre anni di galera e d’esilio nel settentrione della Russia perché affiliato ai circoli socialdemocratici, dava alle stampe un libro splendido, La concezione di Dostoevskij, in cui scriveva, con chiaro riferimento al nuovo regime leninista: «Lo spirito del Grande Inquisitore compare sotto vari aspetti nella storia. La teocrazia papale e le sue pericolose deviazioni dal Vangelo appartengono al passato, ma il regno futuro del Grande Inquisitore si chiama il socialismo ateo e materialistico». Il comunismo è la prima vera ideologia totalitaria che affida la verifica della sua validità, del suo diritto a farsi valere ovunque, proprio alla capacità di produrre la più grande sazietà e felicità per tutti. La verifica c’è stata ed i risultati sono noti. Il baratto previsto dal Grande Inquisitore – benessere contro la perdita della libertà – non si è realizzato. La dittatura ha arrecato contemporaneamente servitù e miseria. Fanno riflettere le parole che si leggevano su di un cartello, innalzato a Danzica, in una delle manifestazioni di protesta operaia: «Il popolo affamato vuol mangiare il potere che lo affama».

25 febbraio 1988.

 GLI STRARICCHI E LA PLUTOGRAFIA. Una delle cose più diseducative e umilianti, da ogni punto di vista, è l’interesse patologico dei giornali, dei settimanali in particolare, e della televisione per i grandi arricchiti. Mai si è scritto tanto sui super-ricchi, mai quei signori si sono sentiti i veri leaders, i veri padroni del Paese come in questi anni Ottanta. Mai si è vista una simile fioritura di pubblicazioni dedicate ai grandi ricchi – plutografia, appunto – che, dopo tutto, costituiscono un’esigua e rissosissima minoranza.

La plutografia è l’alleata elettiva della pubblicità d’alto bordo, che insinua un solo criterio di promozione sociale: avere vetture di lusso, case di lusso, segretarie e amanti di lusso come «quei» signori, perché tutti, prima o poi, dovremmo salire su quella che uno scrittore ha chiamato «la giostra dell’iperbole». Di qui la continua provocazione: pagine e pagine su tutti i lussi possibili e impossibili, su come spendere un miliardo in un’ora, su come trasformare un alloggio in una galleria d’arte, su come sfoggiare una lingerie alla Joan Collins…

La «cultura yuppies» può sedurre e seduce, di fatto, moltissimi oggi; ma è un veleno, uno spegnimento dello spirito, un tossico, un contro-modello di cui dobbiamo liberarci al più presto se non vogliamo somigliare, e solo nel peggio, a quanto di peggio ci viene dagli Stati Uniti.

L’HARD-CORE E LA PORNODIVA IN PARLAMENTO. Dopo anni di appassionate denunce, quasi esclusivamente da parte della Chiesa italiana, a metà febbraio anche i giornali hanno scoperto la dimensione preoccupante di quella droga che si chiama pornografia. I soliti soloni – che presumono di saper tutto e di essere la voce stessa della scienza – almeno per qualche giorno hanno smesso di giustificare ad ogni costo la diffusione della pornografia di fronte ai dati emersi dal rapporto pubblicato dall’Ispes. L’Italia «porno» spende ogni anno almeno seicento miliardi tra riviste e giornali – sono 53 – film a luci rosse, porno-shop, spettacoli delle porno-star. Si calcola che oltre questa spesa ufficiale, il «sommerso» sia di almeno altri quattrocento miliardi. Un affare di dimensioni colossali, da mille miliardi l’anno, che non è sfuggito alle grosse holding del crimine e che fa del nostro Paese la mecca dell’hard-core. Che cosa ha a che fare questo sporco business con la libertà di stampa e con la democrazia? Il rapporto afferma che un numero crescente di bambini, drogati e sodomizzati, sono adoperati per girare le scene di un certo tipo di filmacci. Sono infamie che sarebbero incredibili se non fossero attestate da numerose testimonianze. Chi sa, perché non agisce? L’unica preoccupazione nel nostro disgraziato Paese sembra essere quella, al contrario, di «normalizzare» la pornografia (come si è cercato di «normalizzare» la droga), attraverso un’opera di mistificazione – molto ben retribuita – che tende ad attribuire quei valori di libertà e di emancipazione di cui essa è la più volgare negazione. «In questa chiave può essere spiegato – ha dichiarato il presidente dell’Ispes, Gian Maria Fara – un fenomeno come quello della Ilona Staller che nessuno, qualche anno fa, avrebbe avuto neppure il coraggio di ipotizzare». È stata l’operazione più riuscita: una pornodiva in Parlamento serve a normalizzare la pornografia più e meglio di qualsiasi altra forma di pressione sociale e di ricatto pseudo-culturale. E il cavallo di Troia, questa volta, è stato ancora Marco Pannella.

LINEA RECTA BREVISSIMA. Quand’uno è conosciuto per bugiardo. Se dici prima una bugia e poi la verità, anche quest’ultima sarà presa per bugia (traduzione sapienziale babilonese). Non separarsi dal buon senso e dalla povera gente. Non insuperbire per il tuo sapere, ma consigliati con l’ignorante non meno che con il sapiente. Poiché non si tocca mai il confine di un’arte e non c’è artista che non possa ancora perfezionarsi. La parola saggia è più rara dello smeraldo, tuttavia la si può trovare sulle labbra di una schiava addetta alla macina (testi sapienziali egizi del 2500 a. C.).

3 marzo 1988.

 «IO VI AUGURO IL BUON UMORE». Alain fu lo pseudonimo del professore Emile Charyier, pensatore acuto e troppo interessato alla concretezza del vivere quotidiano per diventare un filosofo sistematico. «Ero destinato a diventare giornalista e a sollevare il trafiletto all’altezza della metafisica», così egli ci racconta nella Storia dei miei pensieri. E in realtà, dopo oltre trent’anni dalla sua morte – avvenuta il 2 giugno 1951 – sono proprio le opere composte di brevi capitoletti, dai suoi propos, le più vive e godibili (in italiano Sergio Solmi ne aveva curato una raccolta, Cento e un ragionamenti, Torino 1960). L’impegno di Alain è quello d’insegnare la libertà di giudizio. «Giudicare e non subire è il momento sovrano». Giudicare è prima di tutto prendere in esame, resistere alle suggestioni, correggere incessantemente. Sui massimi problemi Alain ha poco da dirci; ma nel suo sforzo di darci una specie di «igiene dello spirito», secondo la felice indicazione di Jean Lacroix, è impagabile. Alain insegnava a saper essere contenti e ad affrontare le prove con buon umore.

«Io vi auguro il buon umore – scriveva in una paginetta dell’8 gennaio 1910 – Ecco ciò che bisognerebbe offrire e ricevere, ecco la vera educazione che arricchisce tutti, a cominciare da quello che regala. Ecco il tesoro che si moltiplica mercé lo scambio. Lo si può seminare lungo le strade, nei tram, nei chioschi dei giornali: non se ne perderà un atomo. Esso germoglierà e fiorirà ovunque l’avrete gettato». Io aggiungerei: soprattutto con i figli, in famiglia, e ancora più a scuola, tra i ragazzi.

LINEA RECTA BREVISSIMA. Il lusso. È tutto ciò che è superfluo a rendere l’uomo felice (Vincenzo Gioberti). La cronaca. La cronaca non è lo specchio della realtà, è lo specchio dell’eccezione (Gilbert Keith Chesterton). Ciò che è l’impagabile. Tutto l’oro del mondo non riuscirebbe a pagare la testimonianza di un uomo libero (Georges Bernanos) Le lunghe spiegazioni. Sono nemico delle lunghe spiegazioni: confondono chi le dà o chi le ascolta, di solito tutti e due (Johann Wolfgang Goethe). Il senso delle parole. Se fossi imperatore, il primo decreto che emanerei sarebbe per definire il senso delle parole (Confucio). Il voltagabbana. Nel mondo volubile e leggero, saggezza è spesso cambiare pensiero (Torquato Tasso). L’ipercritica. Si fa più fatica ad interpretare le interpretazioni che ad interpretare le cose (Michel de Montaigne). Lettura e ri-lettura. Il grande inconveniente dei libri nuovi è che ci impedisce di leggere i libri vecchi (Joseph Joubert).

TRE VERSI DI BRECHT. Certe sciocchezze, se affidate alla carta, invece di finire nel cestino, spesso entrano a far parte di un libro. E persino di un libro di poesie. I meschini si buttano allora proprio su quelle pagine meschine, in cui un autore rischia di somigliare molto ai peggiori dei suoi lettori. Bertold Brecht si è lasciato andare anch’egli a scrivere porno-poesie da dimenticare. Ma l’antidoto ce lo dà lui stesso, qua e là, con versi belli e autentici come in questa stupenda terzina: Debolezze / Tu non ne avevi. / Io ne avevo una: amavo.

 BUONA NOTTE! Se dovessi dire qual è il libro più bello letto nel 1987, dopo qualche esitazione direi: Buona notte! di Andrej Sinjavskij, splendidamente tradotto da Sergio Rapetti per la Garzanti. È un’opera degna de La casa dei morti o delle Memorie dal sottosuolo di Dostoevskij. Come invito alla lettura, eccovi un brano dell’ultima pagina, che intitolerei «Il sonno e la notte». «È stupefacente come il sonno renda tutti uguali, senza riguardo alla grandezza storica e all’eccellenza dell’incarico, al rango e al grado. Nulla ci unisce come questa comune inclinazione al sonno. Sei pronto, ti chiedi, a unirti a tutti gli altri? Certo, rispondo, e a tutti gli animali, agli alberi: e già le palpebre si chiudono. Mi congedo, vado chissà dove… Ma la notte non dorme. Essa vigila sul sonno e crea, estrae la luce e il fuoco dalla fitta tenebra, rinnova dalle piante l’aria avvelenata dalle esalazioni del giorno. Senza la notte non conosceremmo il firmamento stellato».

11 marzo 1988.

 L’ALTRA GERMANIA. Ho conosciuto Fey von Hassel alla presentazione del suo libro, Storia incredibile (dai diari di una «prigioniera speciale» delle SS), pubblicato dalla Morcelliana. Mi ha colpito molto quanto ha detto di suo padre, Ulrich, che il nazismo rimosse dall’incarico di ambasciatore in Italia alla fine del 1937 e che, ben conscio del rischio, si adoperò a tessere una rete di collegamenti tra quanti intendevano porre fine al regime hitleriano e alla guerra. Dopo il fallimento dell’attentato del 20 luglio ‘44, Hassell venne arrestato dalla Gestapo. «Avvisato per telefono da mio fratello – ricorda Fey von Hassel – che era ricercato dalla polizia, disse: – Son qui ad aspettarli – e attese l’arresto stando seduto tranquillamente alla sua scrivania in ufficio. Non tentò di nascondersi. Come tanti altri suoi compagni, desiderò far vedere al mondo l’esistenza di un’altra, migliore Germania che aveva tentato di liberare la patria e l’umanità da Hitler. E nella morte per impiccagione, due ore dopo la sentenza, mio padre ebbe l’onore di avere per compagno un sindacalista».

Alla domanda su quale fosse, in ultima analisi, il senso di una sfida così temeraria e radicale a un regime di spaventosa barbarie, Fey von Hassel ha risposto con le parole di un altro eroe della resistenza tedesca, Helmut James von Moltke, le cui lettere alla moglie costituiscono il bellissimo volume Futuro e resistenza, anch’esso edito dalla Morcelliana: «Nell’ultima lettera alla moglie Freya, von Moltke scrive testualmente: “Tuo marito viene a trovarsi davanti al tribunale del popolo non come protestante, non come nobile, non come prussiano, bensì come cristiano e assolutamente nient’altro”. Questo fu anche lo spirito che spinse mio padre a sacrificare la sua vita».

SE IL TOTALITARISMO È…. ROSSO. «C’è una piccola tradizione alla Bompiani, nel pubblicare aforismi. Un fiore all’occhiello sono i Pensieri spettinati del polacco Stanislav Jerzy Lec. Uscirono la prima volta da noi nel ‘65 – racconta l’editore Mario Andreose – con un titolo cambiato, Pensieri proibiti. Fu un’edizione purgata, dove non comparvero gli aforismi critici su totalitarismo e stalinismo. Allora quasi tutti i dirigenti editoriali militavano nella sinistra ortodossa». Il passo è riportato dall’articolo di apertura di Tuttolibri del 20 febbraio 1988. Ogni commento è superfluo.

SAGGEZZA DI THOMAS S. ELIOT. La sola saggezza che possiamo sperar di acquistare / È la saggezza dell’umiltà… (East Coker, II). Ogni parola pronunciata, tende / Al silenzio (Burnt Norton, V). Per arrivare a ciò che non sapete / Dovete andar per la via dell’ignoranza. / Per possedere ciò che non avete / Dovete andare per la via della rinuncia. / Per arrivare a ciò che voi non siete, / Dovete andare per la strada nella quale non siete (East Coker, III). Noi non siamo sconfitti / Se abbiamo seguitato a tentare (I Dry Salvages, versi finali). L’amore si avvicina più alla sua essenza / Quando il luogo e l’ora cessano di importare. / I vecchi dovrebbero essere esploratori. / Dobbiamo sempre muovere / Verso un’altra intensità (East Coker, versi finali). I momenti di felicità – non il senso di benessere, / La fruizione, l’appagamento, la sicurezza o l’affetto, / O anche un pranzo eccellente, – ma l’illuminazione improvvisa. / Ne abbiamo fatto esperienza, ma ci è sfuggito il significato (I Dry Salvages, II).

La traduzione dei Quattro quartetti di cui mi sono servito è quella di Filippo Donini.

MISERIE E BELLEZZA DELL’ANIMA UMANA. Il riso profilattico. Il riso primario, irresistibile dei persecutori – davanti alla estrema costernazione di un uomo colpito dalla sventura – serve da scudo psicologico per chi si trova a praticare una crudeltà assai impegnativa per i nervi di chiunque. È un tentativo di preservare le loro anime dai sentimenti della vergogna e della pietà, così naturali in simili circostanze. Ritratto di certa gente “per bene”. Mi compativano, perché la compassione non era più un delitto. Ma più in là non andavano. Perfetti uomini del loro tempo, erano indifferenti a ciò che non toccava la loro realtà. La croce. Col suo segno perentorio la croce, a ragionarci, è appunto qualcosa che cancella con un fregio e ribattezza, disfa e ricuce la nostra vita troppo viziata, per ripartire da zero. Non ha importanza chi eravate prima di allora. Ma non appena la croce s’infiamma, è finita, si deve voltare pagina. Ad ognuno, almeno una volta nella vita, viene lanciata una croce, per fargli da ponte e da memento del reale. Non temete, non è necessariamente uno strumento di supplizio o una soma che ormai vi tocca trascinare. No. Ma qualcosa da testimoniare, confessare, infiggersi nella memoria. La croce t’è stata presentata. Magari non è la tua, è quella di un altro. Ma prima o poi, dovunque tu ti nasconda, verrà offerta anche a te. Il viso della persona amata. Un viso non è un ritratto, ma un paesaggio, da divorare con gli occhi, da un orizzonte all’altro e ritorno, e tuttavia astratto, immerso e trascendente qualsiasi percezione dentro la quale lo si voglia costringere e scrutare. (da Buona notte! di Andrej Sinjavskij).

19 marzo 1988.

«CERTE COSE NON SI DICONO». «NO, CERTE COSE NON SI FANNO». A proposito di alcune mie annotazioni sulla crisi morale e politica del Paese, un lettore mi invita al silenzio: «Certe cose è meglio non dirle». Non sono d’accordo. Per chi non vuole essere né complice, né rassegnato diventa un dovere chiamare col loro nome i guasti a cui occorre rimediare prima che sia troppo tardi e denunciare comportamenti e decisioni che offendono la decenza, discreditano la democrazia, generano nei giovani rabbia e scetticismo. Certe cose non si dicono? Nossignore, certe cose non si fanno. E chi le fa è un prevaricatore, «uno che considera il mondo come se fosse costruito per la sua impertinenza» – per servirci di un’espressione di Shakespeare cara a don Mazzolari.

FRANCESCO FLORA E MARIO VINCIGUERRA: UNA POLEMICA ESEMPLARE. Francesco Flora fu letterato militante, futurista e dannunziano prima, poi per molti anni redattore della rivista La critica di Benedetto Croce; dal 1953 tenne a Bologna la cattedra che era stata del Carducci, insegnando storia della letteratura italiana. Fu così che nel maggio del ‘56, in occasione delle elezioni amministrative di quella città, l’illustre professore scrisse una lettera aperta al sindaco Dozza sul settimanale comunista Due torri per portare il suo contributo alla battaglia del Pci. Si mise però anche a disquisire di libertà. «Come non accorgersi – scrisse infatti – che il contenuto della libertà è oggi mutato per lo svolgimento stesso della civiltà moderna? Oggi la fondamentale libertà da conquistare è quella che ci libera dal cosiddetto homo economicus… Utopia morale? La storia è fatta del progressivo attuarsi di utopie simili. Perciò io non ho esitato a dire che pur con tutti gli errori e i limiti e le restrizioni e se volete i delitti, i Paesi che hanno abolito i monopoli e posta la premessa per l’abolizione dell’asservimento dell’uomo all’uomo, sono nel fatto più liberi e più liberali che non i Paesi che si arrogano il diritto di chiamarsi essi soltanto mondo libero».

A questo punto Mario Vinciguerra – che aveva conosciuto Flora in casa di Benedetto Croce e che, per la sua avversione al fascismo, aveva fatto alcuni anni di carcere, sempre fermo nel rifiuto di combattere una dittatura invocandone e giustificandone un’altra – gli rispose dalle colonne del Resto del Carlino. «E così, mio caro e vecchio amico e commilitone della campagna per la riconquista dell’Italia libera, così anche tu, quasi vergognoso della fede per cui combattesti, irridi al cadavere putrefatto della libertà… Quando poi affermi che la Russia ha abolito i monopoli e l’asservimento dell’uomo sull’uomo, non ti accorgi – ed è gran dolore – che ripeti frasi da propagandisti da dozzina. La Russia notoriamente è il Paese più monopolistico del mondo: ha il monopolio delle industrie, del commercio, della banca, della scuola, della stampa, delle lettere e delle arti: al di sopra di tutto ha il monopolio del delitto di Stato. Un regime di libertà è tutto il contrario: si può chiamare tale esclusivamente un regime fondato sulla volontà popolare per la scelta di un governo il quale dia garanzie effettive per le libertà individuali del cittadino. Un Paese dove il cittadino è alla mercé del potere esecutivo, un Paese ricco di campi di concentramento, non conosce neanche la prima lettera della parola libertà».

In data 29 maggio 1956 Flora risponde a Vinciguerra, in una lettera non più aperta: rinvia la discussione sulla tesi pubblicamente sostenuta; rassicura l’amico che le divergenze politiche non possono distruggere gli effetti, i ricordi, il passato gli dà atto di «piena buona fede». Cinque giorni dopo Vinciguerra replica a Flora. «Sulla materia il dissenso è grave. Lasciamo stare la concessone della buona fede. Mi dicevano lo stesso gli amici di parte fascista ed io rifiutavo dicendo loro che era una specie di attenuante per infermità mentale… Data la natura umana, ciascun gruppo sociale contien dentro di sé quel tanto di bene e di male, di buona e di cattiva fede che sono retaggio della specie umana. Tu ti illudi di portare la libertà nel formicaio e questo è impossibile. O c’è l’uomo libero o c’è il formicaio. La libertà è un bisogno insopprimibile ed è un nostro, insieme, ideale e concreto diritto naturale. Essa è come l’atto morale, che è insieme idea e realtà. L’affermazione di libertà è attuale oggi come tanti secoli fa; ed è tutt’altro che inerzia mentale partire di là». Parole di cui non so se ammirare di più l’alta ispirazione etica o la verità.

LINEA RECTA BREVISSIMA. La creatività. La creatività non è ordinariamente la caratteristica di quelli che se ne vantano (Henri de Lubac). Libertà e disciplina. Nessuno fa l’esperienza della libertà, se non attraverso la disciplina (Dietrich Bonhoeffer). L’aforisma. L’aforisma non coincide con la verità; o è una mezza verità o una verità e mezzo (Karl Kraus).

La macchina. Ogni civiltà ha bisogno di schiavi e questi schiavi è giusto che siano le macchine. Il volto e la maschera. L’uomo è poco se stesso quando parla in prima persona. Dategli una maschera e vi dirà la verità. La sincerità non basta. Il valore di un’idea non ha niente a che vedere con la sincerità di chi la esprime. (Oscar Wilde)

24 marzo 1988.

 LE DONNE E LA COSA PUBBLICA. Quest’anno la giornata della donna ha messo a fuoco due temi: la violenza sessuale e la scarsa rappresentanza femminile negli istituti in cui la vita politica si articola di fatto, sebbene almeno metà del corpo elettorale sia femminile. Nel 1953, nel volumetto Coscienza e politica di Luigi Sturzo, pubblicato a Brescia, nello scritto «Note e suggerimenti di politica pratica», al punto 26 si fa una opportuna distinzione sul ruolo di far politica al… femminile. «Non è da disdegnare il parere e l’ausilio delle donne sagge che si interessano ai pubblici affari. Esse vedono le cose da punti di vista concreti che possono sfuggire agli uomini. Hanno più intuito e sentimento. Bisogna però guardarsi dalle Ninfe Egerie, specie quelle che sono impegnate a voler guidare la politica dai salotti mondani».

LA CLEPTOCRAZIA. C’è qualcuno tra gli ex segretari nazionali dei partiti e tra gli ex ministri della Repubblica che sembra abbia battuto ogni record in fatto di corruzione. Prima o poi gli sarà dato «l’Oscar della Tangente». Che se poi altri gli fanno concorrenza, quale che sia il partito a cui appartengono tanto peggio. Non vale qui: «mal comune mezzo gaudio». No, il ritrovarsi tutti, da Torino a Palermo, accomunati nella fogna e nell’ignominia, non è un «mezzo gaudio». È uno schifo intero. L’occhio indugia sul punto 27 delle già citate «Note» sturziane: «Chi è troppo attaccato al denaro non faccia l’uomo politico, né aspiri a posti di governo. L’amore del denaro lo condurrà a mancare gravemente ai propri doveri». Se non torna la passione morale dell’onestà privata e pubblica a vivificare la politica, i giovani saranno indotti a scambiare la democrazia con la… cleptocrazia, il regime in cui appunto comandano i ladri, ed anzi comanda di più chi più ruba. Uccidere nei giovani la speranza di costruire una città più giusta e fraterna nella libertà è il più grave crimine che l’ordine dei «Signori della Tangente» commette. Se poi tutto si risolverà, ancora una volta, in una bolla di sapone, è inevitabile che la crisi della democrazia diventi ancora più grave. L’immoralità a livello istituzionale demoralizza il popolo.

STALINISTI D’EPOCA. Anche un uomo a cui dobbiamo molto per coraggio intellettuale e indipendenza di giudizio, Norberto Bobbio, non si è sottratto al tentativo di giustificare gli Stalinisti d’epoca, come intitola un suo articolo su La Stampa del 6 marzo u.s. Fa un’ammissione onesta, che altri si guarda bene dal fare ancor oggi: «Sarebbe da ipocriti dire: -Non sapevamo. Sapevamo benissimo. Forse non sapevamo ancora tutto. Ma l’infamia dei processi staliniani ci era perfettamente nota». Ma poi fa sue queste sconcertanti dichiarazioni di Vittorio Foa: «Il nazismo aveva posto a tutta Europa un problema di sopravvivenza. La barbarie e il genocidio portati dalla Germania nazista inducevano a legittimare, sotto specie di ragion di Stato, tutto quello che veniva dall’Unione Sovietica». Dunque dal momento in cui Hitler attacca proditoriamente il suo alleato, cioè l’Urss, gli obbrobri del comunismo in Urss vanno taciuti e, anzi, fieramente giustificati. Si combatte una dittatura spietata e nello stesso tempo si aspira ardentemente a instaurarne un’altra. Si crede di meglio combattere Hitler, innalzando a modello il regime del terrore staliniano. E questo non solo da parte di una base fideista e non informata, ma da parte dei leaders stessi socialisti e comunisti che sapevano e che, secondo la testimonianza di Bobbio, «erano non solo filosovietici, ma staliniani». Se quella classe politica avesse afferrato il potere il 18 aprile 1948, che ne sarebbe stato del nostro Paese? A quale dei Paesi dell’Europa Orientale ora somiglieremmo di più?

ALTRI, INVECE, NON SI INGANNARONO E NON INGANNARONO. Penso a Ignazio Silone. Silone che sapeva, Silone che era stato testimone, Silone che aveva dedicato la vita al socialismo e alla libertà. Quel Silone che Togliatti, con lo pseudonimo di Roderigo di Castiglia, in un articolo del 1951, additava al disprezzo: «Silone, quel poco di buono… un tipo umano con singolari forme di ipocrisia, di slealtà di fronte ai fatti ed agli uomini». Penso a Gaetano Salvemini, a Carlo Sforza, a Luigi Einaudi, a Filippo Turati, a Luigi Sturzo, ad Alcide De Gasperi, a Luigi Salvatorelli. I maestri del pensiero democratico mai accettarono l’assurda alternativa nazifascismo o comunismo, perché l’antinomia ideale e politica di fondo era ed è fra democrazia, sempre da rinnovare, e totalitarismo, sempre da rifiutare. Nel ‘38 Sturzo aveva parlato chiaro. «L’idea di una scelta necessaria tra il fascismo e il comunismo guadagna terreno in Europa, attira tutti coloro che non riflettono sul contenuto delle parole, dominati come sono da sentimenti e idee sempliciste. Noi rifiutiamo questa semplificazione arbitraria dell’economia e della politica e rigettiamo la tesi: fascismo o comunismo. Regimi totalitari l’uno e l’altro, entrambi conducono alla guerra civile. Giacché che altro è accaduto in Russia, in Germania e Italia dopo il trionfo dello Stato totalitario, se non guerra civile, reale sebbene mascherata?» (Politica e morale fu pubblicato in Italia solo nel 1972, da Zanichelli, Bologna).

IN COMPAGNIA DI ELIOT. Senso storico. Nel senso storico è implicita una percezione non solo della passatezza (pastness) del passato, ma della sua presenza. L’appropriazione esplicita. I poeti immaturi imitano, quelli maturi rubano. La grande poesia. La grande poesia ha una necessaria sgradevolezza. Nulla che possa dirsi morboso o anormale o perverso, nessuna delle cose che illustrano la malattia di un’epoca o di una moda, ha queste qualità; ma solo quelle cose che, grazie ad una straordinaria opera di semplificazione, mettono in luce l’essenziale malattia o l’essenziale fortezza dell’anima umana. Paura di guardare in faccia i valori reali che dominano la nostra vita. L’ultima cosa che vorremmo sarebbe di esaminare nei suoi particolari quel cristianesimo che nelle nostre affermazioni ci vantiamo di conservare.

1 aprile 1988.

 LETTERA A UNA FIGLIA SCONOSCIUTA. «Carissima, tra poco dovrai lasciare il tuo paese, il Brasile, per venire in Italia. Da tempo ti aspettiamo. Abbiamo un vantaggio su di te: sappiamo di attenderti, mentre tu lo ignori. Sei una bambina tra i due e i tre anni e noi i tuoi genitori adottivi. È stata una scelta fatta prima del matrimonio, la nostra, a prescindere dai figli naturali che sarebbero venuti, per il puntiglio di un impegno civile. Forse sei orfana o ti hanno abbandonata. In una situazione di povertà estrema, ecco, ti hanno affidata, come Mosé, a una fragile cesta perché altre mani su una diversa sponda del fiume potessero afferrarti… Per fare tutto regolare davanti alla lgge, sapessi i documenti, le vidimazioni, i colloqui… Noi non sappiamo il tuo nome, ma quello che possiedi stai pur sicura che te lo lasceremo. Alla tua età sei abituata a sentirti individuare mediante quei suoni, quelle particolari sillabe; è la tua identità, la tua sicurezza. Sappi che non siamo noi soli ad attenderti, ma tutte le persone care che ci stanno intorno… Dalla tua terra porterai il sorriso prodigo, l’agilità della mente, l’atavico gusto del ritmo, l’avidità dei colori e delle forme. Cosa ti daremo, noi? Forse la stabilità e l’attenzione, la sollecitudine della vecchia Europa. Sarà un innesto, ma lo tenteremo. Non s’innestano forse le piante da frutto perché diventino rigogliose? E poi vedrai, non passerà molto tempo che ti regaleremo un fratello, che vorremmo come te, della tua stessa terra. Vorremmo più che darti delle cose, essere noi stessi una possibilità per la tua crescita. Di più non dico, la retorica è sempre in agguato. A presto. Un abbraccio dai tuoi “imminenti” genitori».

 DUE FORME DI «ACCANIMENTO», UNA PIÙ DISUMANA DELL’ALTRA. La «Lettera a una figlia sconosciuta», di cui ho riportato i passaggi più significativi, apre il volume Dialoghi e silenzi di Luca Desiato (Cinisello Balsamo 1988). Desiato è autore di romanzi ormai ben noti. Penso soprattutto a Il sogno di papa Asdrubale, l’opera d’esordio, a Il Marchese del Grillo e a Galileo mio padre. Ma in quest’ultimo libro sono i suoi stessi frammenti di vita che trovano espressione letteraria.

A Desiato dobbiamo essere grati perché, senza perdersi in complicati discorsi, ha messo a nudo, senza volerlo, l’abissale differenza fra il suo modo di essere «padre», con la generosità e la delicatezza d’animo che gli sono proprie, e l’ostinazione cieca, morbosa con cui certa gente fa ricorso alle più strane e discutibili pratiche pur di avere l’erede. Generando, oltre tutto, complicatissime situazioni giuridiche, morali e affettive da cui nessuno può uscire con la coscienza tranquilla. Non c’è in questa pervicacia un feroce egoismo d’autore, così radicalmente estraneo ad ogni autentica maternità e paternità?

L’accanimento per il figlio richiama alla mente l’accanimento terapeutico. Lì si tratta di far nascere ad ogni costo un figlio, qui di prolungare artificiosamente, ad ogni costo, la vita di un paziente. Ci si rifiuta in ambedue i casi di rimettersi alle leggi della natura.

Nell’uno e nell’altro caso si strumentalizza di un essere umano la sua vita e la sua morte. Nell’uno e nell’altro caso la medicina si fa spettacolo e sommuove hollywoodianamente le platee. La nascita senza amore e la morte al rallentatore: sarebbero queste «le magnifiche sorti e progressive» di un’umanità alle soglie del Duemila?

LINEA RECTA BREVISSIMA. Il rispetto per le parole. Il rispetto che dobbiamo portare ad ogni cosa, anche la più infima, va esteso alla parola che la designa.

La vera arte. Non si mescola all’arte, a poco a poco, indipendentemente da ciò che narra, una speranza di resurrezione? O il suo pegno? La sua promessa? E non è questo, fondamentalmente, che fa l’arte vittoriosa sulla realtà? È più solida e duratura e, se volete, più vitale della vita che è invece distruggitrice. Per questo l’arte è così salutare e sempre morale, indipendentemente dai moralismi degli sciocchi… Non c’è arte senza amore. L’amore è alla radice dell’arte. Per questo tende verso l’alto.

Noi ci pensiamo. Non c’è un minuto della nostra vita in cui non portino qualcuno al patibolo.

La favola. Senza le favole il mondo è inclemente. Il pane amaro. La terra squallida e deserta. Dalle lontananze, parrebbe, di tempi immemorabili, di avvenimenti chimerici, la favola d’altro non ci parla che della realtà. Del tempo già maturo, solo che non abbiamo occhi per vederlo. Di ciò che è ancora oltre l’orizzonte e che si manifesterà quando noi non ci saremo più… La favola conferisce ordine e fondatezza ad ogni cosa e si fa portatrice della lieta novella. C’era una volta ed ecco, invece, che la realtà è del tutto diversa da quella che poteva apparirci di primo acchito. Che era tutto più significativo e vero. Che gli ultimi saranno i primi. Lo scemo si rivelerà intelligente e bello. Cenerentola sposerà il principe… La favola ci procura la gioia di veder disvelata la vita da uno sguardo più vasto e pieno e quindi più penetrante, che non l’approccio quotidiano alle cose.

Un buon libro, un’uscita di sicurezza. Un buon libro permette di compensare l’assurdità della vita. Il libro vive una vita in qualche modo parallela alla tua e basta solo che di tanto in tanto te ne ricordi, e stai già meglio. Un’uscita di sicurezza.

Il paradiso in terra o almeno il suo ricordo. Non penso che il mondo in cui siamo nati sia malvagio e insensato. Vedo piuttosto il paradiso in terra, nascosto sotto una cappa di male. Ciascuno di noi, sì, nessuno escluso, viene al mondo col desiderio di dispensare felicità. Viene non da vendicatore o da assassino, ma da inviato dal paradiso… Credete che l’ideale sia chissà dove? No, è qui, sotto i nostri piedi. Ci camminiamo sopra. Da dove verrebbero altrimenti tutti i nostri slanci per strapparci dal fondo del tempo, verso il cielo? È per noi una condizione naturale: prefigurare sia pure confusamente, angosciosamente, il bello.

Perché, in caso contrario, ci abbandoneremmo a tanti sogni?… Perché tutto è così interessante, dappertutto, che non si ha voglia di morire? I fiori e gli uccelli sono segni del paradiso sulla terra… Segni del paradiso sono anche i bambini. Guardate i loro visi puri e innocenti. E noi riponiamo sempre la nostre speranze in loro: ci faranno felici! E ristabiliranno il paradiso in terra!… O almeno il suo ricordo? (da Buona notte! di Andrej Sinjavskij, Milano 1987).

7 aprile 1988.

 LA PIÙ GRANDE TENTAZIONE. Problema inevitabile per chiunque si accinga a studiare il genio africano di Agostino. L’Africano giunge a Milano come vincitore della cattedra di retorica; ma il riconoscimento gli veniva da Simmaco, capofila del partito filopagano, al quale non sarà parso vero inviare a Milano un eretico anticlericale, capace di tener testa al suo lontano e così diverso cugino, Ambrogio. Il primo incontro tra i due fu per una visita di cortesia. Nonostante tutto, Ambrogio – da quel fine politico che era – gli dà il benvenuto «da perfetto vescovo» (satis episcopaliter), come in molte occasioni capita ai vescovi di dover fare. Ambrogio predicava spesso e Agostino andava assiduamente ad ascoltarlo, come «uditore esterno», per giudicare «se la sua arte oratoria fosse quale si diceva». Ma mentre l’attenzione è rivolta alle parole, entrano nell’anima sua, a poco a poco, verità, chiarificazioni essenziali, aspirazioni nuove e più alte. L’efficacia di Ambrogio su Agostino fu grande – fu lui a dargli la chiave per comprendere la Scrittura – ma sempre indiretta e a distanza. Né la mediazione tenacissima della madre Monica riuscì a modificare le cose.

Ma cosa pensava Agostino di Ambrogio? Le Confessioni rispondono alla domanda ampiamente e a più riprese. Un punto, però, non è stato ancora messo a fuoco, ed è a mio avviso essenziale. Agostino si chiede «quali lotte Ambrogio sostenesse contro le tentazioni che gli venivano dalla sua stessa grandezza» (Conf. VI, 3, 3). Le ipsius excellentiae temtamenta contro le quali Ambrogio doveva lottare: ecco una di quelle frasi di Agostino che spingono il lettore a esplorare le profondità dell’anima, a interrogarsi in un modo nuovo, anticonvenzionale, sulle vicende della storia e dei loro protagonisti. Per ogni uomo autenticamente grande, la più forte tentazione non viene forse dalla consapevolezza che egli ha della missione da compiere e della sua stessa personalità?

A me pare che sia lo stesso interrogativo a dominare il dramma di Thomas S. Eliot, Assassinio nella cattedrale. I tentatori vogliono che l’arcivescovo di Canterbury «si perda nello stupore della sua stessa grandezza» e Thomas Becket risponde alle loro sottili analisi e insinuazioni con le celebri parole: «Chi siete voi che mi tentate con i miei stessi desideri?» Anche per lui «l’ultima tentazione è il più grande tradimento: / compiere la retta azione per uno scopo sbagliato». Nella chiusa della prima parte del dramma, Eliot pone sulla bocca di Becket queste considerazioni: «Il servo di Dio è in occasioni di maggior peccato, / di maggior dolore, che non chi serve un re. / Perché coloro che servono una causa più grande possono far servire la causa a loro stessi, / pur facendo giustizia».

 TRADIZIONE E TALENTO INDIVIDUALE. Qual è il rapporto tra l’una e l’altro? Pascal lo delineò stupendamente nella Prefazione al trattato del vuoto per quanto riguarda il cammino della scienza. Eliot lo ha fatto con pari profondità nell’ambito dell’arte. «Nessun poeta, nessun artista di nessun’arte, preso per sé solo, ha un significato compiuto. La sua importanza, il giudizio che di dà di lui, è il giudizio di lui in rapporto ai poeti e agli artisti del passato. Questo è per me un principio di critica estetica e non di semplice critica storica. La necessità che si inserisca in modo coerente, che si adatti al passato, non riguarda solo lui, poeta del presente; quel che avviene quando si crea una nuova opera d’arte, avviene contemporaneamente a tutte le opere d’arte precedenti. I monumenti esistenti compongono un ordine ideale che si modifica quando vi sia introdotta una nuova, veramente nuova, opera d’arte. L’ordine esistente è in sé concluso prima che arrivi l’opera nuova; ma dopo che l’opera nuova è comparsa, se l’ordine deve continuare a sussistere, deve tutto essere modificato, magari di pochissimo; contemporaneamente tutti i rapporti, le proporzioni, i valori di ogni opera d’arte trovano un nuovo equilibrio; e questa è la coerenza tra l’antico e il nuovo. Chiunque approvi questa idea di ordine, di una forma che è propria della letteratura europea, della letteratura inglese, non troverà assurda l’idea che il passato sia modificato dal presente, come non lo è che il presente trovi la propria guida nel passato. Il poeta che sia consapevole di questo, sarà anche consapevole delle grandi difficoltà che lo attendono» (Tradizione e talento individuale in: T.S. Eliot, Opere, Classici Bompiani, Milano 1986, p. 721).

LINEA RECTA BREVISSIMA. La prigione delle cose. C’è il pericolo di rinchiudersi in se stessi; tuttavia per la maggior parte degli uomini, e per un ampio settore della vita di ognuno, così sovraccarica di sollecitazioni esteriori, noi siamo rinchiusi fuori di noi stessi. Il raccoglimento ci libera dalla prigione delle cose (Emmanuel Mounier). In che senso l’uomo libero è intrattabile. L’uomo libero è colui che è pronto a pagare con la solitudine e la povertà la sua testimonianza interiore, che ha tanto valore per lui. L’uomo libero si dà o si rifiuta, ma non si presta mai (Georges Bernanos). Quello che oggi si misconosce. Il più grande acquisto della riflessione umana è che il mondo ha un significato interiore e che questo significato a nessuno è dato scoprirlo se non nel suo spirito (Louis Lavelle). Credere nell’avvenire. Se cessassimo di credere nell’avvenire, neppure il passato ci apparterrebbe. Sarebbe, infatti, non il nostro passato, ma il passato di una civiltà morta (Thomas S. Eliot).

14 aprile 1988.

 LE QUESTIONI CHE RIGUARDANO IL NASCERE E IL MORIRE. «Ritengo particolarmente apprezzabile la proposta avanzata dalla Democrazia Cristiana di una discussione pubblica intorno alle questioni di vita e trovo suggestiva l’idea dell’onorevole Martinazzoli di un impegno a una ricognizione dei fini. Si tratta di una gamma di questioni tanto difficili quanto ineludibili. È ormai sotto gli occhi di tutti il fatto che l’aumento delle nostre responsabilità causali – dovute alla crescita della conoscenza scientifica e delle capacità tecnologiche – richiede un’estensione delle nostre responsabilità morali. Credo che, in particolare, i dilemmi morali che si formulano correntemente nell’ambito della bioetica siano tutti quelli più intricati e inquietanti. Le questioni di vita riguardano, infatti, direttamente l’entrata e l’uscita dalla vita e le possibilità di determinare parte del corredo di una vita nel mondo. Mi sembra naturale sottolineare che una discussione seria e intelligente sulle nostre questioni di vita (aborto, eutanasia, ingegneria genetica, trapianti, ecc.) richiede una disponibilità all’ascolto reciproco fra uomini e donne che hanno fedi e idealità diverse. Mai come in questo caso credo che l’elogio della tolleranza e del dialogo sia opportuno. Senza questo approccio, molto difficilmente potremo fare qualche passo avanti».

Queste osservazioni, che condivido in pieno, sono di Salvatore Veca e sono apparse in Avvenire del 25 marzo ‘88 sotto il titolo «Le questioni ultime richiedono tolleranza». Se, per disgrazia, sul dialogo e sul senso di responsabilità dovesse prevalere l’arroccamento oltranzista, ci troveremmo tra le mani, a colpi di referendum, un’altra delle cosiddette «soluzioni più avanzate». E mi par di vedere già il solito spettacolo: gli uni, fieri di aver combattuto con onore una battaglia che sapevano in anticipo di perdere; gli altri, non meno fieri di contrabbandare per «conquista di civiltà» nuove forme di barbarie rese possibili dalle più progredite tecnologie. Gli uni e gli altri, in realtà, colpevoli, anche se in misura diversa, per non essere stati capaci di trovare il denominatore comune in cui tutti, cattolici e laicisti, debbono convenire: l’umana dignità da salvaguardare.

MEGLIO REBORA O MONTALE? La querelle è stata avviata da Giovanni Raboni, critico militante ed egli stesso poeta finissimo. A noi francamente non piace veder posta la questione in quei termini. Chi è veramente sportivo, come fa ad essere per Bartali contro Coppi? E, se fossimo a cavallo tra umanesimo e rinascimento, come faremmo a optare per Michelangelo se alla scelta si desse il significato di drastica riduzione del valore di Leonardo? Un merito però lo hanno anche le polemiche mal poste: Raboni ha richiamato energicamente l’attenzione sulla straordinaria grandezza di Clemente Rebora, troppo a lungo misconosciuta. È proprio di questi giorni una buona notizia: in coedizione Garzanti-Scheiwiller è uscita l’opera omnia poetica di Rebora. È così finita la permanenza di uno dei poeti più autentici di questo secolo nei canali della piccola editoria e tutti, se vogliono, possono accostarsi a lui. Il segreto di Rebora? Gianfranco Contini e Raboni la colgono in primo luogo nella «grande energia stilistica e morale». I versi che le fanno da epigrafe sono intensi e bellissimi. «……./ Urge la scelta tremenda: / Dire sì, dire no / A qualcosa che so. / ….». Né posso tacere l’ultima lirica, Dall’immagine tesa, a mio avviso uno dei vertici della poesia universale. «Dall’immagine tesa / vigilo l’istante / con imminenza di attesa / e non aspetto nessuno: / nell’ombra accesa / spio il campanello / che impercettibile spande / un polline di suono / e non aspetto nessuno: / fra quattro mura / stupefatte di spazio / più che un deserto / non aspetto nessuno: / ma deve venire, / verrà, se resisto / a sbocciare non visto, / verrà d’improvviso, / quando meno l’avverto. / Verrà quasi per dono / di quanto fa morire, / verrà a farmi certo / del suo e mio tesoro, / verrà come ristoro / delle mie e sue pene, / verrà, forse già viene / il suo bisbiglio».

LINEA RECTA BREVISSIMA. L’uomo, il più grande miracolo. I miracoli del mondo sono tanti, ma non vi è miracolo più grande dell’uomo (Sofocle). Filosofia e fede. Solo facendosi più veramente filosofia, una filosofia diviene più cristiana (Etienne Gilson). La misura della saggezza. La cosa più difficile di tutte è cogliere l’invisibile misura della saggezza, che sola reca in sé i limiti di tutte le cose (Solone). Si raccomanda vivamente. Non andare per le vie maestre dell’opinione e del luogo comune (precetto pitagorico).

21 aprile 1988.

 LA RICONCILIAZIONE TRADITA: RAPPORTO TRA CRISTIANESIMO E PENA. Ho letto e riletto, con acuto senso di colpa, le parole con cui si apre un libro di cui si avvertiva il bisogno: Dedicato / ad Hans K. (19 anni) / ritornato dal carcere minorile / dopo tre anni di detenzione. / Il suo villaggio di origine gli negò / – come furfante e galeotto – / ogni riconciliazione. / S’impiccò per disperazione / dopo sei settimane. / Dalla sua lettera di addio: / “Perché gli uomini non perdonano mai”.

Il libro a cui mi riferisco è Pena e retribuzione: la riconciliazione tradita (Milano 1987), ben tradotto e annotato dal giovane studioso Luciano Eusebi. Un’opera che dovrebb’essere «la prima di un’ideale biblioteca del penalista», scrive il direttore della collana «Politica criminale e diritto penale» in cui essa è inserita, prof. Federico Stella; ma anche, aggiungiamo noi, il libro ideale per quei detenuti che s’interrogano seriamente sulla loro situazione prima di tutto per mettersi in chiaro con se stessi. L’autore, Eugen Wiesnet, teologo e filosofo, docente all’Università di Innsbruck, si spense nel 1983, non ancora quarantaduenne. Anche per questo motivo l’opera di Wiesnet acquista ai nostri occhi il valore di un testamento, il messaggio stesso di una vita spesa interamente tra la ricerca teoretica e il servizio pastorale in mezzo ai detenuti.

Da millenni gli uomini si puniscono e da millenni si chiedono perché lo fanno e, di conseguenza, come dovrebbero farlo. La domanda incalza da vicino in particolare la coscienza ebraica e cristiana. La documentatissima, appassionata opera di Wiesnet ruota su di un leit-motiv: l’autentica idea biblica di giustizia non è in alcun modo riconducibile all’annientamento del colpevole, bensì al suo pentimento e alla sua salvezza. Dall’uno e dall’altro Testamento non si può affatto tirar fuori un generico «no» alle sanzioni, ma il loro scopo per la Bibbia consiste solo nel condurre il condannato al suo riscatto, sicché possa avere in sé «shalôm e vita». Che cosa pensare allora dell’adagio «occhio per occhio, dente per dente»? Elaborazione delle culture limitrofe, per esse segnò un progresso, perché limitava le disumane pretese del «diritto alla vendetta», proibendo la rappresaglia indiscriminata. Quando, però, fu Israele a recepire quel principio, di derivazione cananea, si insinuò nel cammino della rivelazione qualcosa di regressivo, che era ed è in evidente contrasto con i grandi testi jahvisti che uniscono sempre giustizia e benevolenza, verità e misericordia, sovranità di Dio e suo «amore materno» per il peccatore. Le finalità della pena nell’Antico e Nuovo Testamento, infatti, non sono la retribuzione e l’intimidazione in quanto mezzi prevalenti o esclusivi per far valere comunque l’ordine sociale. Il cedimento della coscienza cristiana su questi temi a consuetudini e mentalità che sono radicalmente estranee al suo spirito – peggio, l’assunzione dei principi della retribuzione e della intimidazione da parte dell’etica religiosa e della stessa teologia – ha portato a un vero e proprio avvelenamento dell’idea di Dio, a un’odissea fuori strada, a una metafisica del carnefice, che è l’antitesi più radicale del Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe del Dio di Gesù Cristo.

È stata una tragedia per tanta parte del pensiero contemporaneo l’aver fatto proprio quell’atroce equivoco. Chi per esso ha pagato di più, anche per le conseguenze che ne trasse sul piano esistenziale, è stato Nietzsche. Tuttavia anche in lui rivive, persino nell’invettiva, la nostalgia dell’autentica agàpe cristiana. Come in questo passo di Così parlò Zaratustra: «Non mi piace la vostra giustizia fredda; / e nell’occhio dei vostri giudici riluce sempre per me / il boia, con la sua spada gelida. / Dite, dove si trova la giustizia che è amore e ha occhi per vedere? / Inventatemi dunque l’amore, / che porta su di sé non solo tutte le pene, / ma anche tutte le colpe!».

LINEA RECTA BREVISSIMA. Il vero insegnamento è una forma superiore di amicizia (Jules Michelet). Il Cristianesimo è un catalizzatore critico dei valori di tutte le religioni e queste sono una sorta di opzione anonima per Cristo (Marie-Dominique Chenu). Un libro dev’essere un’ascia per il mare di ghiaccio che è dentro di noi (Franz Kafka).

28 aprile 1988.

 UNA LETTERA-CONFESSIONE UMANISSIMA. «La ringrazio tanto per le sue parole della notte di Natale: sono state il segno di una vera e profonda amicizia, non c’è nulla di più generoso che il reale interesse per un’anima altrui. Io non ho nulla da darle per ricompensarla; non ci si può sdebitare di un dono che per sua natura non richiede d’essere ricambiato. Ma io ricorderò sempre il suo cuore di quella notte. Quanto ai miei peccati… il più grande è quello di pensare in fondo soltanto alle mie opere, il che mi rende un po’ mostruoso: e non posso farci nulla, è un egoismo che ha trovato un suo alibi di ferro in una promessa con me stesso e gli altri da cui non mi posso sciogliere. Lei non avrebbe mai potuto assolvermi da questo peccato, perché io non avrei mai potuto prometterle realmente di avere intenzione di non commetterlo più. Gli altri due peccati che lei ha intuito, sono i miei peccati pubblici: ma quanto alla bestemmia, glielo assicuro, non è vero. Ho detto delle parole aspre contro una data Chiesa e un dato Papa: ma quanti credenti, ora, non sono d’accordo con me? L’altro peccato l’ho ormai tante volte confessato nelle mie poesie, e con tanta chiarezza e con tanto terrore, che ha finito con l’abitare in me come un fantasma familiare, a cui mi sono abituato, e di cui non riesco più a vedere la reale, oggettiva entità. Sono bloccato caro don Giovanni, in un modo che solo la Grazia potrebbe sciogliere. La mia volontà e l’altrui sono impotenti. E questo posso dirlo solo oggettivandomi, e guardandomi dal suo punto di vista. Forse perché io sono da sempre caduto da cavallo: non sono mai stato spavaldamente in sella (come molti potenti della vita, o molti miseri peccatori): sono caduto da sempre, e un mio piede è rimasto impigliato nella staffa, così che la mia corsa non è una cavalcata, ma un essere trascinato via, con il capo che sbatte sulla polvere e sulle pietre».

La lettera è di Pier Paolo Pasolini. Fu scritta il 27 dicembre 1964, l’anno in cui fu realizzato il film Il Vangelo secondo Matteo. È indirizzata a don Giovanni Rossi, il fondatore della «Pro Civitate Christiana» di Assisi. Don Giovanni Rossi risponde a stretto giro di posta: «Quello che interessa per la tua grande anima non è il passato, ma l’avvenire». Questo scambio di lettere tra lo scrittore e il sacerdote si può leggere nel secondo volume delle Lettere (1955-1975) di Pier Paolo Pasolini (Torino 1986-1988).

LINEA RECTA BREVISSIMA. Oltre le opposte unilateralità. L’elevazione è il mezzo migliore che io conosca per uscire subito da collisioni sgradevoli. Il valore più alto. Che cosa è più che la vita? – Essere al servizio della vita. Per cambiare la politica. Il comportamento dello Stato dipende dall’opinione pubblica. Nobilitare l’opinione pubblica: ecco l’unica base della vera riforma statale. (Novalis)

Il segno. La presenza della bellezza nel mondo è la prova sperimentale della possibilità dell’Incarnazione. Positività e forza inclusiva del bene. Il male è il contrario del bene, ma il bene è il contrario di niente. Il superamento del finito. La contraddizione è leva della trascendenza. (Simone Weil)

«LIBERTÀ» DI PAUL ELUARD: GENESI DI UNA POESIA. Prima che diventi introvabile, occorre procurarsi nel Tascabili Bompiani i due splendidi volumi sulla Poesia francese del Novecento, a cura di Vincenzo Accame. È un libro affascinante che ci consente di ripercorrere le tappe di una poesia che ha largamente dominato e ispirato la lirica europea. Si apre con Mallarmé e giunge a René Char, Pierre Emmanuel, Alain Bosquet. Leggendo quei testi si ha l’impressione che anche quando gli autori procedono su vie e poetiche ben precise, si affidano soprattutto alle vie del cuore e danno voce – almeno i maggiori – al sentimento dell’Infinito. Sentimento e intuizione del valore ci sembrano felicemente fusi anche nella poesia che divenne quasi il canto e il simbolo della Resistenza, Liberté di Paul Eluard. Come non ricordare almeno la prima e l’ultima quartina? «Sui miei quaderni di scolaro / Sul mio banco e sugli alberi / Sulla sabbia, sulla neve / Scrivo il tuo nome… / E per il potere di una parola / Ricomincio la mia vita / Sono nato per conoscerti / Per pronunciare il tuo nome». Eluard ha però ammesso di aver pensato quella poesia inizialmente «per una donna», anche se durante la stesura si accorse che il nome della donna che aveva in mente di porre alla fine, in chiusura, poteva essere sostituito appunto dalla parola Liberté. Non è questa la ragione vera, profonda, per cui abbiamo in Liberté una delle pochissime poesie politiche nel senso più alto? Questa lirica, infatti, non soggiace al triste destino che accomuna quasi tutte le altre: l’esaltazione ideologica, il cedimento alla retorica e alla propaganda che mettono inesorabilmente a tacere l’universalmente umano.

6 maggio 1988.

 MARIO LUZI RICORDA L’ASSASSINIO DI MORO. Con la straordinaria forza di sintesi che caratterizza la sua poesia, il maggiore dei poeti italiani viventi, Mario Luzi, si è inchinato anch’egli a colui che è divenuto il simbolo di tutti coloro che sono stati colpiti dalla furia omicida delle brigate rosse. Lo ha fatto in una composizione senza titolo nella raccolta di inediti: Per il battesimo dei nostri frammenti (Milano 1985). Eccola. «Acciambellato in quella sconcia stiva, / crivellato da quei colpi, / è lui, il capo di cinque governi, / punto fisso o stratega di almeno dieci altri, / la mente fina, il maestro / sottile / di metodica pazienza, esempio / vero di essa / anche spiritualmente: lui – / fuori da ogni possibile rispondenza / col suo passato / e con i suoi disegni, fuori atrocemente – / o ben dentro l’occhio / di una qualche silenziosa lungimiranza – quale? / Non lascia tempo di avvistarla / la superinseguita gibigianna».

 MARIO FABIANI, COMUNISTA, SU STALIN. Mario Fabiani fu il sindaco di Firenze negli anni della ricostruzione. Nei giorni della lotta partigiana il giovane Romano Bilenchi incontra in lui il primo comunista italiano che confessava apertamente il suo dissenso per l’organizzazione politica del comunismo russo. «I giovani che avevano pensato di realizzare una rivoluzione attraverso il fascismo erano filosovietici, ammiratori di Stalin» – scrive Bilenchi, il quale ascoltando Fabiani, che era reduce dall’Unione Sovietica e non mentiva come gli altri, recalcitrava irritato. «Ricevetti un colpo pesante e sentii dentro di me stracciarsi le mie passioni, le mie convinzioni». La lotta contro i nazisti si faceva più assillante e feroce. Fabiani non fu minimamente sfiorato dal sofisma atroce teorizzato da Vittorio Foa e condiviso da Norberto Bobbio, secondo il quale la barbarie nazista «induceva a legittimare, sotto specie di ragion di Stato, tutto quello che veniva dall’Unione Sovietica» (cfr. Detti e contraddetti del 24.3.1988). La preoccupazione di Fabiani era un’altra: «Potrei essere preso e morire ed è bene che qualcuno sappia come la penso. Sono rimasto poco tempo nell’Unione Sovietica perché non ne potevo più. Sapevo che tornando in Italia sarei finito in galera, ma preferivo queste carceri: da quelle russe non sarei uscito vivo». «Il giorno in cui morì Stalin – racconta Bilenchi – lo incontrai in piazza San Giovanni. Andava in federazione e facemmo la strada insieme. “Domani o dopo domani cercherò di far trapelare qualche barlume di chiarezza, qualche dubbio, ma sarà quasi impossibile, forse inutile” dissi. Mario sorrise ironicamente. Arrivammo in federazione. C’erano compagni che piangevano. Si fecero intorno a Mario.”Intanto piangete poco. È morto un dittatore” disse. Al primo piano, in uno stanzone affollato, Mazzoni gli venne incontro. Mazzoni disse: “Sono turbato”. Fabiani: “Perché”». Mazzoni: “Come, non lo sai? È morto il compagno Stalin”. Fabiani: “Lo so. Era ora. È morto troppo tardi”». Le citazioni riferite sono tratte dalla nuova edizione del volume di Romano Bilenchi Amici, pubblicato a cura di Sergio Pautasso (Milano 2002).

IN COMPAGNIA DI NOVALIS. Dalla tesi al problema. La trasformazione di una o più tesi in un problema è un’elevazione. Un problema è assai più che una tesi. Problema supremo, principio supremo. E il principio supremo non contiene il supremo paradosso di ridiventare incomprensibile ogni qualvolta lo si è già compreso? Primato della morale. Il sistema della morale ha molte prospettive di essere anche l’unico possibile sistema della filosofia. La vera cultura. Trasformazione di un pensiero – di un evento in un compito. Parola e pensiero. Il linguaggio è un pensierometro. Ignoranza per eccesso di conoscenza. C’è un’ignoranza per difetto e un’ignoranza per eccesso di conoscenze. Questo tipo di esuberanza presenta i sintomi dello scetticismo, ma di uno scetticismo improprio, derivante dalla nostra incapacità di penetrare la massa delle conoscenze e di animarla completamente in una forma determinata. Sapere e fede. In ogni sapere c’è fede. La fede si basa sull’ipotesi dell’armonia. Ogni fede prende dunque le mosse dalla fede morale. Coraggio attivo e fiducia paziente. Una troppo violenta insofferenza di ciò che è imperfetto è debolezza. L’esito dell’iper-idealismo. Parecchi scetticismi non sono altro che idealismi immaturi. Il testo e la nota. Una nota aggiunta al testo è molto più piccante del testo. L’amen dell’universo. L’amore è il fine ultimo della storia universale, l’amen dell’universo. Il nostro compito. Noi ci troviamo in missione: siamo chiamati a formare la terra. Portare nell’essere il dover essere. La nostra vita non è un sogno, ma deve diventarlo e forse lo diventerà.

Sono pensieri di Novalis, il poeta filosofo più genuino del primo romanticismo e sono tratti dai Frammenti, tradotti da Ervino Pocar per l’Universale Rizzoli (Milano 1976).

12 maggio 1988.

 NON SI È ANDATI OLTRE MISURA NELLA RIVALUTAZIONE DI D’ANNUNZIO? Fatte le debite eccezioni, pare che la ricorrenza del cinquantenario della morte di Gabriele d’Annunzio abbia scatenato due antiche tentazioni che affliggono un po’ tutti e non solo i cittadini della repubblica letteraria: l’estetismo, cioè la riduzione della vita a gioco e dell’arte a spettacolo, da una parte; e, dall’altra, il giustificazionismo storicistico, per cui tutto, in fondo, è bene quel ch’è accaduto e… più non dimandare. Atteggiamento quest’ultimo che non ha nulla a che fare con lo sforzo di obiettiva comprensione, a cui siamo rigorosamente tenuti quando ci avviciniamo a un autore o a un avvenimento storico per coglierne i tratti essenziali. A queste cose pensavo quando, a Pavia, alla mostra di carte autografe di alcuni dei maggiori scrittori italiani tra la fine dell’Ottocento e del Novecento, l’occhio si è soffermato su una limpida pagina di Umberto Saba. Titolo: «Quello che resta da fare ai poeti». Scrive Saba: «Ai poeti resta da fare la poesia onesta. C’è un contrapposto, che se può sembrare artificioso, pure rende abbastanza bene il mio pensiero. Il contrapposto è fra i due uomini nostri più compiutamente noti che meglio si prestano a dare un esempio pratico di quello che intendo per onestà e disonestà letteraria: è fra Alessandro Manzoni e Gabriele d’Annunzio; fra gli Inni sacri e i cori dell’Adelchi e il secondo libro delle Laudi e la Nave; fra versi mediocri ed immortali e magnifici versi per lo più caduchi. L’onestà dell’uno e la nessuna onestà dell’altro, così verso loro stessi come verso il lettore». Si tratta della stesura autografa del saggio giovanile – vero manifesto della poetica sabiana – che, rifiutato dalla rivista fiorentina La Voce nel 1911, fu ritrovato tra le carte del poeta dopo la sua morte e pubblicato a Trieste nel ‘59 da Anita Pittoni.

NEL PERICOLO PIÙ GRANDE L’INVOCAZIONE PIÙ UMILE. «Quando ti portano all’interrogatorio – è Andrej Sinjavskij che ce lo confida – preghi la Vergine. Ave Maria. Piena di grazia. Il Signore è con te… Mi sono chiesto spesso, percorrendo quei corridoi, perché quelle preghiere che sgorgano – silenziose e imprevedibili – dalle nostre anime siano invariabilmente rivolte alla Santa Vergine. E non è che chiedi qualcosa. Beh, sì, naturalmente chiedi ma ormai non più per te. Si profila un’altra sventura mille volte meno sopportabile. Fuori dalla prigione ti sono rimaste due – tre – quattro persone che ti son sempre state vicine. Negli interrogatori quei diavoli puntano proprio a loro. Da due sei forse riuscito a stornare l’attenzione… Tu sei benedetta tra le donne e benedetto il frutto del ventre Tuo… Proteggi, Signore, chi resta! Tu che hai partorito il Salvatore delle nostre anime, tu Madre di Dio resta testimone per tutti noi e avvocato in cielo. Va già meglio. Perché, pensi, se le cose stanno così vuol dire che anche noi peccatori non s’è patito tanto su questa terra per niente…» (da Buona notte!).

IN UNA RIGA UN TIPO. «B. C.: non capisce, ma non capisce con grande autorità e competenza». Così, con geniale brevità, Leo Longanesi ha ritratto il tipo di persone che più mettono a dura prova l’altrui capacità di sopportazione.

ILLUMINAZIONI DA NOVALIS E SIMONE WEIL. Appropriazione mediante la lotta. Per conoscere bene una verità bisogna averla combattuta. La pseudo-filosofia. Quanto più un sistema è limitato, tanto più piacerà agli uomini di mondo. Coniugare l’aspirazione all’Infinito e la coscienza del reale. A rigore la filosofia è nostalgia, desiderio di trovarsi dappertutto come a casa propria. Contro il detto comune secondo cui ciò che può essere giusto in teoria non vale per la pratica. La mezza teoria allontana dalla prassi, l’intera vi riconduce. Che cosa significa filosofare. Filosofare significa deflemmatizzare, vivificare… La risoluzione di filosofare è l’atto della manumissio, la spinta verso noi stessi ed è, insieme, lo scavalcare se stessi per giungere a produrre pensieri secondo norme, per pensare veramente il comune. (Novalis)

L’amore e la distanza. Dio deve fare il cammino più lungo se vuole venire a noi. Quando egli ha preso i nostri cuori, siamo noi che dobbiamo fare il cammino più lungo per andare a nostra volta fino a lui. L’amore è proporzionale alla distanza. Essere distaccati e appassionati. Essere distaccati dai frutti dell’azione. Occorre per questo un’architettura in profondità dell’anima. Perché quella parte dell’anima che agisce deve essere appassionatamente tesa verso il frutto dell’azione. Un’altra parte dev’essere distaccata. L’umiltà. L’umiltà è soprattutto una qualità dell’attenzione. (Simone Weil)

19 maggio 1988.

 CONVERSANDO A TAVOLA CON SINJAVSKIJ. Ho incontrato Andrej Sinjavskij al colloquio internazionale su «Il millennio cristiano delle terre dell’antica Rus’ (988-1988)», svoltosi a Milano del 21 al 23 aprile. A pranzo ho avuto il privilegio di conversare con lui e con la signora Marija. Interprete d’eccezione, Jurij Mal’cev, già docente di lingua italiana all’Università di Mosca, da cui fu allontanato per aver partecipato negli anni Sessanta alla fondazione del «Gruppo d’iniziativa per la difesa dei diritti dell’uomo». Internato in manicomio, Jurij Mal’cev nel ‘74 poté lasciare l’Unione Sovietica. Chiedo che cosa pensano dell’Italia, della nostra cultura, degli atteggiamenti diffusi tra la gente comune. Mal’cev risponde riportando fatti di segno opposto. «Appena giunto in Italia, si impediva agli studenti a Perugia di frequentare i miei corsi di lingua e letteratura russa. Poi l’Università Cattolica di Milano mi ha chiamato tra i suoi docenti». E prosegue: «Qualche settimana fa, dovendo traslocare, mi rivolsi a una ditta specializzata. La somma che mi fu richiesta non era assolutamente alla mia portata. Mi sono rivolto allora al proprietario di un camioncino, un pover’uomo che tira avanti a fatica. Questi, finito il trasloco, non ha voluto una sola lira. M’ha detto: “Almeno noi poveri possiamo capire le persone come voi e darvi una mano”». «Ecco, ha aggiunto Mal’cev, l’Italia ha ancora questi autentici tesori». E i suoi occhi tradivano la commozione.

Secondo Sinjavskij molte cose sono cambiate in meglio in Italia. Quando fu a Brescia la prima volta – era il 12 aprile del ‘77 e parlava nel Teatro Franciscanum – fu organizzata l’ignobile sfilata di operai e studenti che leggevano i biglietti con insulti e infamie di ogni genere al suo indirizzo. Far conoscere la verità sull’Urss, allora, anche solo testimoniando fatti personalmente sperimentati, era per molti insopportabile. Dieci anni dopo, nel 1987, il Salone Vanvitelliano era gremito di gente che attestava chiaramente di aver appreso la lezione dei fatti, stringendo affettuosamente in un caldo abbraccio l’uomo e lo scrittore Sinjavskij. Nel ‘77, accanto a suo marito, la signora Marija, ascoltando la traduzione degl’insulti, piangeva. Ma silenziosamente, senza asciugarsi gli occhi, per non farsi vedere. Io ero seduto alla sua destra e avrei voluto sprofondare sotto terra. Le ricordo quella sera, quel particolare. «Acqua passata» mi dice. E il consorte: «Marija è audace e battagliera. Tutto l’opposto di me. E poi, sposandomi, lo sapeva che prima o poi mi avrebbero messo dentro».

Gli chiedo: «Crede che Gorbaciov ce la farà?». «Io non sono tra quelli – mi risponde Sinjavskij – che pensano che Gorbaciov prepari un grande imbroglio. Gorbaciov è un riformista onesto, che vuole salvare il Paese, ma non so se ce la farà». Un’ultima domanda: «Pensa di tornare in Russia?». I suoi occhi sembrano fissare paesaggi lontani e mai dimenticati. Le sue parole fanno affiorare la coscienza del dramma di tanti esuli: «Lo sradicamento dalla Russia è per molti una sofferenza immane. Per me non è così grave. Il ritorno in patria di uno scrittore può avvenire anche attraverso i suoi libri. E anche questo è speranza».

LINEA RECTA BREVISSIMA. Maturità. Quando la vanità si placa, l’uomo è pronto a morire, e comincio a pensarci. Meglio prima. Una volta il rimorso veniva dopo, adesso mi precede. Se la memoria fosse più selettiva. Leggere è niente, il difficile è dimenticare ciò che si è letto. (Ennio Flaiano)

L’io superiore. Vai nella direzione che ti suggerisce il tuo ‘io’ superiore. Non ci rimetterai in nessun caso! Questo famoso ‘io’ si trova in ciascuno di noi. Magari non si è ancora attivato. Ma tutto ciò che desidererai lui te lo farà. Il vero artista. L’artista non può, non deve essere uno snob. Ma un eterno sgobbone. Chi ci dà il diritto di perdonare a nome degli altri? Perdonare a nome degli altri? Il Signore non me ne dà il diritto. E anche gli uomini non me lo perdonerebbero. Per quanto, invece, riguarda i miei debiti con te, per tutto quello che mi hai causato, a me solo, prendili. Te li rimetto… (Andrej Sinjavskij)

Il lievito. I cristiani non devono vendere il pane, ma mettere il lievito (Miguel de Unamuno). Dove e come abbiamo sbagliato. Non abbiamo il diritto di dire ai nostri figli come costruire il loro futuro, ma possiamo dir loro dove e come abbiamo sbagliato (Wilhelm Reich). A te che sei giovane. Ciò che hai ereditato dai tuoi padri, / acquistalo per possederlo! (Wolfgang Johann Goethe).

29 maggio 1988.

 L’AUTOCRITICA DI PABLO PICASSO. In una lettera ad un amico, pubblicata nella Neue illustrierte Wochenschau del 24 ottobre 1971, l’artista più famoso dei nostri tempi, Pablo Picasso, fece un’autocritica molto significativa. Dice dunque Picasso: «Ho soddisfatto questi amatori del nuovo e dell’eccentrico con i ghiribizzi che mi passavano per la testa e quanto meno li comprendevano tanto più li ammiravano. Divertendomi con questi giochetti divenni ricco e celebre, e questo assai presto. Ma quando sono solo con me stesso, non ho il coraggio di ritenermi un artista nel significato grande e nobile della parola. Sono piuttosto un pubblico burlone che ha capito il suo tempo e che ha sfruttato la stupidità, la vanità e l’avidità dei suoi contemporanei».

Picasso è indubbiamente un genio, che ha rivelato in tante opere le sue grandi qualità, l’intensa originalità espressiva, la sua umanità. E tuttavia è lui stesso che ci invita a non mettere tutte le sue opere su uno stesso piano e a non esaltare tutto quanto ha detto o fatto. Per quanto grande possa essere un artista, se anch’egli sacrifica al gusto corrente (che è spesso il cattivo gusto), se piega le esigenze dell’ispirazione personale e della creazione artistica alla moda che procura fama e quattrini, quella parte della sua opera sarà malata di insincerità. Con un’aggravante. A causa della sua stessa grandezza, finirà col generare egli stesso un nuovo conformismo e della peggior specie.

COME LASCIARE MORIRE UN UOMO. È semplice. 1. Non leggere mai cosa succede nel mondo. 2. Non sapere quante persone sono in prigione per reati d’opinione. 3. Pensare che comunque la cosa non ci riguarda. 4. Non aiutare chi si sforza di salvare la vita a degli innocenti. È profondamente vero il monito di Amnesty International: «La libertà degli altri sei tu».

IN COMPAGNIA DI GEORGES BERNANOS. Non solo la mia libertà. Quando un uomo grida: – Viva la libertà, pensa evidentemente alla sua libertà. Ma è molto importante sapere se pensa anche a quella degli altri. Poiché un uomo può servire la libertà per calcolo, come una semplice garanzia della sua. In tal caso, quando questa garanzia non gli sembra necessaria, nulla gli impedisce di servirsi della libertà del vicino come di una merce di scambio. Gli adoratori del vitello d’oro. Quando la volontà di arraffare guadagna tutte le classi, la cupidigia non fa arrossire più nessuno. Quando la ricchezza è onorata, il tipo più alto di umanità diventa lo speculatore. E lo speculatore deve temere l’invidia, non il disprezzo. Ciò che fa più paura. Una civiltà può ben succedere ad un’altra, ma come chiamare ancora civiltà l’universale sterilizzazione degli alti valori della vita? Qui non si tratta più di corruzione ma di pietrificazione. Sacrifici e servizi. Quando una società impone all’uomo sacrifici superiori ai servizi che gli rende, abbiamo il diritto di dire che cessa di essere umana, che non è più fatta per l’uomo ma contro l’uomo. La sorte dell’imbecille. Essere informato di tutto e condannato a non comprendere niente. Lo schiudersi di un’eresia. Quando nella chiesa un vizio giunge a una certa maturazione, l’eresia germoglia da sé. L’uomo svuotato. L’uomo è in contatto con la sua anima nella vita interiore: ma per gli uomini che ne sono stati espropriati, essa è una anormalità. È anzi sinonimo volgare della vita subcosciente, e il subcosciente deve restare sotto il controllo dello psichiatra… Imbecilli! Voi vi infischiate della vita interiore ma è in essa e per mezzo di essa che i valori indispensabili si sono trasmessi sino a noi. Valori senza i quali la libertà non sarebbe che una parola vana. E voi volete infischiarvene anche di questi valori? No ai riflessi condizionati degli slogans. Uno spirito resta libero solo al prezzo di uno sforzo continuo. Chi di noi è sicuro non soltanto di resistere a tutti gli slogans, ma anche alla tentazione di opporre uno slogan ad un altro?

PATOLOGIA DEGLI STILI DI VITA. Le attività proprie dei diversi stili di vita, come pure le professioni, tendono a generare disturbi e talora malattie che, prima ancora di essere riconosciute con termini scientifici, vengono designate con nomi «popolari». Traggo alcuni esempi dalla rivista «Socialtrends», n. 39, 1988, diretta da Gabriele Calvi. «Collo televisivo: Ridotta mobilità del collo accompagnata da dolenzie nelle persone che guardano la televisione per molte ore. Disritmia circadica: Fatica, tensione e irritabilità risultanti dal continuo passaggio di molti fusi orari con i viaggi in aereo. Dito del bevitore da lattina: Gonfiore, colorazione bluastra e macerazione di un dito a causa degli anelli di strappo delle lattine. Sindrome dell’anch’io: Denuncia di disturbi vari da parte di lavoratori dopo che a un collega è stata riconosciuta una malattia indennizzabile».

A proposito, quanti spettatori tendono ad avere i disturbi così a lungo descritti nei telefilm medici e le malattie che affliggono le eroine dei serials?

2 giugno 1988.

 DAVANTI A CHI DOBBIAMO INCHINARCI. «Fontenelle dice: “Davanti a un potente io m’inchino, ma il mio spirito non si inchina”. Io dico: davanti a una persona di umile condizione, in cui colgo una dirittura di carattere, e in una misura tale che io ho coscienza di non avere, il mio spirito si inchina, che io lo voglia o no, per quanto porti alta la mia testa per non permettergli di dimenticare il mio rango. Perché questo? Il suo esempio mi presenta una legge che abbatte la mia superbia, non appena io paragono quella legge col mio comportamento. Il sentimento di rispetto che io provo dimostra a me stesso, ai miei propri occhi, che a quella legge si può obbedire, che essa è eseguibile. Io posso anche personalmente giudicarmi onesto quanto lui, il rispetto tuttavia rimane. Infatti la legge, resa manifesta da un esempio, sovrasta da ogni lato le mie pretese e l’uomo che mi è di fronte, quali che siano le sue debolezze (che non mi sono note come a me sono note le mie), me ne offre una misura. Il rispetto, lo si voglia o no, è un tributo che non possiamo rifiutare al merito morale. Possiamo reprimerne le manifestazioni esteriori, ma non possiamo fare a meno di sentirlo interiormente». Sono parole di Immanuel Kant e si leggono nel suo vero capolavoro, la Critica della Ragion pratica, pubblicato esattamente due secoli fa, nel 1788. Chi volesse meditare in profondità sul problema della condotta morale deve leggere, con la seconda Critica kantiana e con la più agile Fondazione della metafisica dei costumi, di tre anni anteriore, i Principii della scienza morale (1831) e la Storia critica e comparativa (1837) del nostro Rosmini. Le due sorgenti della morale e della religione, pubblicata nel 1932 da Henri Bergson, è l’ultima grande opera di riflessione rigorosa sul problema: «come debbo agire?».

METTERE IL NERO SUL BIANCO. Nei testi di storia e di filosofia, che affiancavano senza sostituirle le interrogazioni orali, ero penosamente colpito dalla frequenza e dalla gravità di errori di grammatica e di sintassi. E il fenomeno è diventato sempre più preoccupante. Sembra che tutti sappiano parlare, anche se in modi per lo più stereotipati; ma quando si mette il nero sul bianco, sono guai! A chi non è toccato di leggere domande di assunzione piene di errori, anche se scritte da laureati? Sento dire che Stati Uniti e Gran Bretagna stanno ancora peggio, ma non è affatto una consolazione. Quali le cause e le responsabilità? Tante. Qui ne indico una sola: la scuola dell’obbligo s’è fatta carico di tante altre esigenze, ma ha rinunciato proprio al compito suo specifico di garantire a tutti – e in primo luogo ai figli della povera gente – l’uso della lingua come patrimonio culturale e strumento di documentazione, dialogo, capacità espressiva. Come, invece, avrebbe voluto un uomo discusso ma geniale qual era Don Milani. Per non parlare dei guasti operati dal permissivismo spontaneistico post ‘68 e dalla diffusa rinuncia alla disciplina della scrittura. Gian Luigi Beccaria – divenuto noto al gran pubblico grazie alla trasmissione televisiva «Parola mia» – affronta il problema con fine arguzia e competenza nel volume appena pubblicato Italiano. Antico e nuovo (Milano 1988). L’italiano è diventato lingua di massa, ed è risultato conseguito mediante l’alfabetizzazione, la diffusione dei giornale e la televisione. «Lo praticano tutti, ma aumenta il numero di coloro che lo usano male e lo impoveriscono. E questo vale soprattutto per la scrittura». Nel delineare il ritratto dell’italiano d’oggi, Beccaria ha notazioni felicissime sull’uso mistificatorio della lingua nella politica e nella burocrazia, ambiti molto diversi e tuttavia così simili nel celare la realtà delle cose e nel confondere le idee ai destinatari dei loro messaggi.

LINEA RECTA BREVISSIMA. La ricerca non ha fine. L’ignoranza non deve impoverirsi con il sapere. Per ogni risposta deve saltare fuori una domanda che prima dormiva appiattata. Chi ha molte risposte deve avere ancora più domande. La misura. Gli uomini non hanno più misura, per nulla, da quando la vita umana non è più la misura. Non la si tiene al guinzaglio, la verità. La verità non può divenire mai il cane dell’uomo. Guai a chi la chiama con un fischio. Essa deve crescere nella sua terribile pace. (Elias Canetti)

Ciò che si deve fare. Si deve fare soltanto, in primo luogo, ciò cui si è tenuti per uno stretto obbligo; poi ciò che onestamente riteniamo comandato da Dio; infine, se ci resta ancora tempo, ciò cui siamo portati da un’inclinazione naturale, a condizione che si tratti di cose legittime. Attesa di Dio. Credere in Dio non dipende da noi. Dipende da noi dare o non dare il nostro amore a falsi déi… Il nostro amore per Dio dev’essere come l’amore della donna per l’uomo, che non osa esprimere nessuna avance ed è solo attesa. (Simone Weil)

9 giugno 1988.

 PER ILLUMINARE QUESTA FINE DEL SECOLO XX. «Incontrare un uomo significa essere tenuti svegli da un enigma» ebbe a scrivere Emmanuel Lévinas a proposito del suo incontro con Husserl. Quelle parole si possono ripetere per lui. È per noi una gioia vedere tradotte in italiano un’opera dopo l’altra del filosofo lituano-francese. Conoscere Lévinas è una sorta di avventura spirituale oltre che intellettuale. Gli approcci introduttivi a Lévinas non mancano. Penso alla introduzione che Giancarlo Penati ha scritto per Difficile libertà (Brescia 1986), al saggio di Emilio Baccarini Lévinas: soggettività e Infinito (Roma 1985), alla densa monografia di Silvano Petrosino La verità nomade (Milano 1980); o, su di un altro piano, alla libera interpretazione che Salomon Malka ci dà in Leggere Lévinas (Brescia 1984) delle idee-forza di un pensatore essenziale come pochi altri a illuminare questa fine del secolo XX, forse anche perché ha vissuto la tragedia di Auschwitz, ove fu dal 1940 al 1945. Un accostamento cordiale e penetrante a Lévinas pensatore e uomo ci è dato nel bel volume Dialogo con Emmanuel Lévinas, di recente edito (Brescia 1987). Una giovane, intelligente studiosa, Laura Ghidini, ha saputo, con domande puntuali, indurre l’illustre filosofo a tracciare il suo itinerario e a evidenziare le tematiche che egli stesso ritiene essenziali.

Alla domanda se la filosofia è la suprema dignità dell’uomo, Lévinas risponde: «Non tutti possono essere filosofi, ma è necessario che vi siano filosofi, esattamente come è necessario che ci siano dei santi. I filosofi non sono santi ma capiscono la santità. Per Husserl la filosofia è il modo supremo di essere uomo. Al contrario, penso che il modo supremo di essere uomo sia essere santo, o almeno avere il Santo come modello, nel senso religioso. Forse, in questo senso, la filosofia non è l’ultima dignità». Per il filosofo ebreo la legge morale e la giustizia sono quanto mai importanti nella vita associata, ma la ricerca del «volto» dell’altro e l’amore permettono di immettere in esse l’eccezione che le trasfigura e ci fa risalire all’origine stessa sia della giustizia che del valore di ogni singolo. «Le voglio raccontare – dice affettuosamente Lévinas – la storia biblica di quando tre angeli, nella Genesi, vengono a visitare Abramo e gli annunciano che avrà un figlio. Sara si trova dietro le tende ad origliare e ride non appena sente parlare della sua prossima maternità: pensa che suo marito è troppo anziano per avere figli ed anche lei è avanti negli anni. Ma ad Abramo che chiede che cosa abbia detto Sara, l’angelo risponde: – Ha detto che è troppo anziana – e non ripete che ella ha detto pure che suo marito è troppo anziano per aver figli. Il commentatore dice che l’angelo ha mentito affinché tra marito e moglie ci sia pace. “Tu non mentirai” è una regola di giustizia e di morale, ma l’amore è il surplus».

LINEA RECTA BREVISSIMA. Felicità? Il fine della nostra vita non è essere felici, ma meritare la felicità. L’occhio più penetrante. Solo l’occhio religioso penetra nel segno della vera bellezza. La regola del diritto. Io limito me stesso nella mia appropriazione della libertà per il fatto che riconosco la libertà anche negli altri. L’obiezione scontata. Un’epoca imbelle ed effeminata non sopporta un pensare virile, la coscienza profonda dell’umana dignità, la dedizione al proprio compito. Chiama con disprezzo fanatismo tutto ciò che si trova troppo in alto perché essa possa raggiungerlo. (Johann Gottlieb Fichte)

Impossibile una scienza a priori della storia. Ciò che è oggetto di storia non deve poter essere calcolato a priori. Una filosofia della storia in quanto scienza a priori è impossibile. Il genio. Il genio in quanto tale si sottrae ad ogni esteriore e meccanica regola, ma non già alla propria intima legge, perché è genio solo in quanto è altissima legalità. (Friedrich Wilhelm Schelling)

16 giugno 1988.

IL SILLOGISMO FALLACE. «Per tutta la vita Dio lo tormentò», disse di lui Sergej Bulgàkov. Fu il destino di Ludwig Feuerbach. Con lui chi è pervenuto alla fede o l’ha conservata, attraverso il crogiuolo della filosofia moderna, ha dovuto fare i conti. Le obiezioni a Feuerbach sono tante. Il semplicismo riduttivo del suo sensismo, per cui il carattere non sensibile di qualcosa attesta la sua irrealtà; la raffigurazione mitologica del Principio supremo del reale per cui a Dio vengono conferiti i caratteri propri del vampiro in concorrenza con lo sviluppo proprio dell’uomo; l’uso indifferenziato del concetto di religione, come se l’arbitrio di Giove fosse tutt’uno con la volontà del Padre additataci dal Discorso della Montagna; l’oblio della radicale opposizione biblica fra il Dio vivente e gli dèi. Queste ed altre osservazioni – la risposta più compiuta a Feuerbach l’ha data Henri Bergson, contrapponendo religione statica e religione dinamica ne Le due sorgenti della morale e della religione – impongono di guardare con altri occhi alla tesi secondo la quale ogni religione è proiezione e ciò che corrisponde alle nostre attese più profonde è per ciò stesso illusorio e non esistente.

Fu Eduard von Hartmann a denunciare quanto sia logicamente assurdo passare dalla corrispondenza alla non esistenza. «È senza dubbio esatto – ebbe a scrivere Hartmann – dire che una cosa non esiste per il solo fatto che la desideriamo; ma non è esatto dire che non possa esistere perché la desideriamo. Tutta la critica della religione di Feuerbach e la dimostrazione del suo ateismo si basano su quest’unica conclusione, cioè su un sillogismo fallace».

CI SONO PAROLE CHE PAIONO UNA PREMONIZIONE. «No, anche la forza del tiranno ha un limite. Quando l’oppresso non trova giustizia quaggiù, quando il peso diventa insopportabile, allora stende la mano al cielo e si riprende i suoi eterni diritti che stan sospesi lassù, inalienabili e incorruttibili come le stelle. Le cose tornano allora al loro stato naturale, in cui l’uomo sta di fronte all’uomo; da ultimo, se null’altro rimane, gli resta la spada… Noi dobbiamo difendere il supremo dei beni contro la prepotenza. Siamo qui per il nostro Paese! Per le nostre donne e per i nostri figli». Sono le parole che Federico Schiller pone sulla bocca di Stauffacher nella seconda scena del Guglielmo Tell. Quelle parole le declamava con sacro fervore un giovane studente che dedicava il tempo libero dalla scuola a mettere in scena, insieme ai due fratelli e a qualche amico, i drammi di Schiller. Quel giovane era Claus von Stauffenberg, poi soldato coraggioso, comandante e organizzatore geniale, appassionato fautore della «grande Germania» divenuto capo della congiura anti-hitleriana ed esecutore materiale, malgrado le gravissime menomazioni fisiche, del fallito attentato del 20 luglio 1944. «Quelle parole di Schiller – nota il più rigoroso biografo dello sfortunato eroe della resistenza tedesca, Wolfgang Venohr, nel volume L’identità tedesca e il caso Stauffenberg (Milano 1988) – paiono una premonizione di quella che sarebbe stata la sua vita: parole che venti anni più tardi avrebbero trovato la loro sanguinosa conferma nel suo gesto».

LINEA RECTA BREVISSIMA. Gli stolti e i saccenti. Gli stolti diventano accorti a proprie spese; i saccenti, per quanti guai subiscano, restano malaccorti. L’eroe e il cameriere. Non c’è eroe per il cameriere. Non perché l’eroe non sia eroe, bensì perché l’altro, il cameriere, ha a che fare con lui non come eroe, ma come individuo che mangia, beve, si veste, insomma nella singolarità del bisogno. Dopo il genio, i critici. Un grand’uomo condanna gli altri uomini a interpretarlo. Perché ci vogliono i giornali. Una volta stampata, una cosa acquista spesso un aspetto del tutto diverso da quello ch’essa ha quando la si dice o la si fa; le sue storture vengono alla luce, non meno di come risplendono i suoi pregi. (Georg Wilhelm Friedrich Hegel)

30 giugno 1988.

 ITALIA SUICIDA: LO SPRECO ASSURDO DEL DANARO PUBBLICO. In un incontro con la redazione di un quotidiano, il 9 giugno, il presidente De Mita, a chi gli chiedeva quale fosse il problema più grave, ha risposto in modo deciso che era il deficit. «Il governo deve reintrodurre il principio della responsabilità finanziaria anche a livello di Regioni, Province e Comuni. Chi spende deve trovare le risorse per far fronte agli impegni». Un esempio? Lo ha fornito lo stesso presidente del Consiglio: «Nel paese in cui sono nato, a Nusco, il Comune si è indebitato in due anni per un miliardo solo per le attività culturali estive, attività che si riducono alla proiezione di film. Se chi spende una cifra così cospicua fosse obbligato a imporre un tributo, i cittadini non glielo permetterebbero».

CHI HA ANCORA PAURA DI ALFRED DREYFUS? In Francia il passaggio della destra al più acceso nazionalismo militarista e all’antisemitismo avvenne nel secolo scorso negli anni ‘80. Di quel clima la vittima più celebre fu il capitano ebreo Alfred Dreyfus. L’accusa di spionaggio mossa contro di lui fu prontamente accolta dal tribunale militare e Dreyfus venne spedito all’Isola del Diavolo. Cominciò allora la campagna per espellere tutti gli ebrei dalle forze armate francesi. Il documento, però, in base al quale l’ufficiale era stato condannato, era falso. A quel punto il problema della colpa o dell’innocenza di Dreyfus divenne secondario per i capi militari e i nazionalisti. La loro tesi era: anche se l’ufficiale ebreo fosse stato innocente, era meglio che un ebreo apparisse agente del nemico piuttosto che un ufficiale non ebreo. L’esercito comunque non poteva perdere il suo prestigio ammettendo di aver perseguitato un innocente. Era una sfida aperta alla santità della giustizia e al credo etico-politico della democrazia. E dell’una e dell’altro si fecero ardenti difensori, tra gli altri, il poeta, socialista e cristiano, Charles Péguy, nei suoi appassionati interventi, e il romanziere Émile Zola, con il suo celebre J’accuse. Il capitano Dreyfus fu riabilitato. Eppure nei giornali, in questi giorni, ho letto la stupefacente notizia che «l’inaugurazione del monumento a Parigi a Alfred Dreyfus ha provocato molte polemiche per l’opposizione dell’esercito». Ho cercato di saperne di più e ho appreso che, secondo i custodi delle glorie dell’esercito francese, «il monumento non doveva essere esposto al pubblico». Già, bisognava erigerlo in uno scantinato!

LINEA RECTA BREVISSIMA. Opposti modi di porsi dinanzi all’opera d’arte. Rozzo e incolto è chi chiude il suo animo all’efficacia dell’arte. Ma è altresì rozzo, sebbene in misura diversa, chi cerca nell’arte solo emozioni e godimenti sensibili. Si deve tendere alla libera contemplazione dell’opera d’arte, che è insieme attiva e passiva, entusiasta e meditata (Friedrich Wilhelm Schelling).

Passione e grandezza. Nulla di grande è stato mai compiuto nel mondo senza passione. La mucca e la letteratura. Per alcuni la letteratura è un prato rigoglioso, davanti al quale c’è chi vorrebbe essere una mucca per farsene una scorpacciata. Sarebbe, invece, un ottimo lavoro restituire alla letteratura l’aspetto di un campo che produca nutrimento per l’uomo. La condizione preliminare e permanente. Nello studio l’elemento soggettivo primario è l’onestà verso se stessi. Si fa presto a pensare e a esprimere un dubbio su tutto, ma la questione è vedere se esso sia fondato. L’istintivo ‘non mi piace’. La verità è duttilità, non già l’istintivo «non mi piace». Soltanto quando si capisce una cosa, il che avviene dopo averla conosciuta, si è superiori ad essa. (Georg Wilhelm Friedrich Hegel)

Il silenzio da cui nasce ogni autentico dialogo. C’è nell’uomo un silenzio che veramente è silenzio nella parola (Ferdinand Ebner). Cura dell’altro. Approssimandomi agli altri, mi accorgo di essere sempre in ritardo sull’ora dell’appuntamento. L’ordine stabilito e la vera condotta rivoluzionaria. Non si tratta soltanto di pigliare il malfattore, ma anche di non far soffrire l’innocente. Non basta essere «contro», bisogna essere al servizio di una causa. Chi ha una teoria ammirevole, occorre che la metta in pratica. Si diffidi di chi è latore di messaggi inapplicabili. (Emmanuel Lévinas)

La rubrica “Detti e contraddetti” è stata pubblicata sul Giornale di Brescia con cadenza settimanale dal 5 gennaio 1988 al 25 gennaio 2007.