Detti e Contraddetti 1993 – 1° semestre

DETTI E CONTRADDETTI 1993 – PRIMO SEMESTRE

7 gennaio 1993.

LINEA RECTA BREVISSIMA. La falsa immortalità. Ciò che arriva nel tempo, uscirà anche dalla scena del mondo (Caio Crispo Sallustio). A nessuna istituzione politica è promessa l’eternità (Sant’Agostino). La vera religione esige la razionalità. Una religione nata dallo scetticismo e dalla disillusione circa le possibilità della conoscenza non può che costituirsi come dominio dell’irrazionale. Essa finisce allora col fluttuare nella dimensione di ciò che non è vincolante e facilmente diventa una specie di analgesico. Ma quando si disprezza la ragione, prendono forma le mitologie, paradossalmente proprio quelle mitologie che pretendono di avere in mano le chiavi della conoscenza totale. Il punto di partenza è scettico, quello di arrivo è gnostico (Joseph Ratzinger). Considera sommo crimine… Considera sommo crimine preferire la propria sopravvivenza all’onore e perdere per la vita le ragioni del vivere / Summum crede nefas animam praeferre pudori et propter vitam vivendi perdere causas (Decimo Giunio Giovenale). L’autentica prassi. L’autentica prassi, cioè il retto agire, scaturisce solo dall’approfondimento della verità… Bisogna far sì che la verità risplenda. La verità è una potenza; ma soltanto quando non si esige da essa alcun effetto immediato (Romano Guardini). Primo fra tutti, l’onestà. In Italia per un decennio ha avuto importanza solo il denaro. Adesso la recessione e lo scandalo impongono il recupero dei valori perduti. Primo fra tutti, l’onestà (Carlo Fontana). È la loro vera arma. La corruzione è l’arma dei mediocri (Charles Beaudelaire).

SALVARE LE NOSTRE RADICI, UNICA VIA PER NON SCIVOLARE NEL RAZZISMO. Con la presenza di persone di altre razze e di altri continenti veniamo a contatto con atteggiamenti, modi di pensare, concezioni della vita che, per quanto lontani dalla nostra mentalità, possono rappresentare per noi un arricchimento, un utile termine di confronto e comunque meritano attenzione e rispetto. Tutto ciò è fuori discussione. Occorre però liberarci da una mentalità assai diffusa, originata dal cattivo uso di certi concetti tratti dalle scienze umane. Questo, per esempio: chiamare cultura tutto, tanto il modo di impagliare una sedia quanto la musica di Beethoven, la scoperta del vaccino antipolio o la più ardita speculazione filosofica. Con il sottinteso «pre-giudizio» secondo cui una cultura vale l’altra. Orbene, una volta richiamata la distinzione elementare tra cultura materiale e cultura spirituale, abbiamo o no il diritto-dovere di operare delle scelte di valore, o dobbiamo farci suggestionare dall’indifferenza asettica di certi studiosi? Tra il rifiuto a valutare, da una parte, e l’entusiasmo improvvido dei terzomondisti di professione, dall’altra, per cui il bene sta solo dove è assente la nostra civiltà, ci sarà pure una via che riconosca alla ragione e alla coscienza morale la capacità di far emergere dai fatti, letti criticamente, i valori che li giudicano, e che sappia altresì conciliare l’apertura alla diversità e l’approfondimento di quei principi che rendono nobile e alta la nostra Weltanschauung.

Il problema è stato posto con lucidità da Lorenzo Mondo su La Stampa dell’8 novembre 1992, pervenendo alle seguenti conclusioni.

  1. «In nome di un malinteso pluralismo noi non possiamo accettare tranquillamente la rinuncia a certi principi che sono il risultato di una storia faticosa, di una crescita ideale con la quale siamo chiamati a confrontarci, misurando le nostre approssimazioni ed i nostri tradimenti».
  2. «Per quanto riguarda i diritti della persona non esistono franchigie, e come siamo chiamati a difenderli incessantemente nella nostra società (si pensi ai recenti episodi di antisemitismo), così dobbiamo esigerne la più rigorosa osservanza anche da parte di coloro che scelgono di vivere sotto le nostre leggi».
  3. «In una società ogni giorno più complessa come quella in cui viviamo, il compito più urgente è la riscoperta e la riappropriazione delle radici culturali e morali della nostra civiltà».

Mondo sintetizza così il suo pensiero: «I Paesi occidentali hanno trovato la loro unità intorno ai nomi di Cristo e di Kant. Possiamo allineare in futuro altri nomi, ma senza rinnegare quei primi due modelli. È il solo modo di essere noi stessi senza essere, nel nostro intimo, razzisti».

Concordo pienamente e mi permetto di fare un’aggiunta: tra i maestri di sempre c’è Socrate, il grande iniziatore, l’insostituibile maieuta della «cultura dell’anima», il protomartire della libertà di coscienza.

14 gennaio 1993.

LINEA RECTA BREVISSIMA. Correzione vettoriale. Amare, dice Saint-Exupéry, è guardare insieme nella stessa direzione. Bisogna aggiungere: in avanti. Burocrazia. Esercizio del potere senza responsabilità: ovvero l’arte di dar sempre la colpa agli altri. Silenzio. L’estrema sintesi. Mediocrità e media. Mediocrità ha la stessa radice di media. Il commercio e il regime. La pubblicità è l’anima del commercio, la propaganda l’anima del regime. Vecchia grappa. Il distillato del tanto che avrei potuto essere è il poco che sono. Non di solo voto. Un popolo che vota è un popolo libero solo se si è votato alla libertà. Pesci d’acquario. Vivere solo per conservarsi è da pesci d’acquario. Sconfitte. Le sconfitte più cocenti sono le vittorie mancate. Distinzioni. I professori dilagano. I maestri si estinguono. L’impossibile liberazione. L’uomo può liberarsi da molte schiavitù, ma non da quella della sua stupidità. Perché di questa sola non può mai avere coscienza. Consiglio. Un consiglio di amministrazione è il luogo dove tutti danno consigli senza sentire il bisogno di riceverne. Tangente e secante. La felicità è una tangente alla vita; la morte una secante. Poesia. Il ritmo della metafora.

Questi aforismi sono tratti da Il ventaglio di Pietro Bonazza (Botticino 1992).

IL GALATEO DELLE DIMISSIONI. «Se un ministro inglese pronuncia dichiarazioni inopportune su un Paese alleato, il primo ministro lo congeda nel giro di qualche giorno. Se il ministro tedesco dell’Economia è sospettato di interessi privati in atto d’ufficio, la pubblica opinione lo costringe a dimettersi dopo due settimane. Se il capo di gabinetto della Casa Bianca si serve di aerei ufficiali per andare dal dentista, il presidente lo prega di rinunciare all’incarico. Se un leader giapponese è corrotto, le tradizioni vogliono che egli si umili chiedendo pubblicamente scusa delle sue malefatte di fronte alla nazione. Se il presidente brasiliano è accusato di corruzione, la democrazia carioca è perfettamente capace di mettere a punto in pochi mesi le procedure dell’impeachment.

In Italia, no. Nella oligarchia italiana i re che ci governano ignorano l’istituto dell’abdicazione e accettano tutt’al più, nel peggiore dei casi, quello della luogotenenza. Se l’Italia è il Paese europeo in cui la classe politica è più longeva, la ragione è anche nella sfacciata testardaggine con cui essa rifiuta di mettersi da parte quando è chiamata a rispondere delle proprie azioni. Sappiamo che gli indagati saranno colpevoli soltanto il giorno in cui un tribunale li avrà dichiarati tali. Ma le regole del buon senso e della correttezza democratica vogliono che nessun inquisito continui ad occupare posizioni di potere da cui può, in teoria, condizionare il corso delle indagini od inquinare le prove o manipolare la pubblica opinione… Un gentiluomo, in tali circostanze, si dimetterebbe proprio per evitare che sulla sua azione pubblica pesi il sospetto d’intollerabili contaminazioni con la sua vicenda personale. E invece non v’è uomo politico italiano, in tali situazioni, che non si tenga stretto il potere con tutte le sue forze e non dica a se stesso quello che Sbardella ha il coraggio e l’impudenza di dire ad alta voce: Dimenticheranno anche questa» (Sergio Romano, La Stampa, 10 gennaio 1993).

L’UOMO, NODO INESTRICABILE DI CADUCITÀ E SPERANZA. Dinanzi alla spoglia d’un caro amico, quante immagini di vita si affollano e si sovrappongono! La memoria di confidenze fatte e ricevute in momenti difficili, i non numerabili atti di quotidiana gentilezza, le belle passeggiate, la vivacità dei rari dissensi, la sintonia dei commenti alla lettura dei quotidiani o all’ascolto dei telegiornali; e, cosa ancora più importante, l’incontro silenzioso sulle grandi questioni attraverso libri ed articoli significativi, in cui ci riconoscevamo. E negli ultimi mesi, il rifiuto da ambo le parti di bugie consolatorie di fronte all’avanzare del male, il dirci tutto con lo sguardo e una stretta di mano. Fissando i tratti immobili di quel volto, due testi mi tornano in mente, con insistenza. Sono dell’Antico Testamento e a me sembrano rivelativi, in modo sublime, di quel nodo inestricabile di caducità e speranza, di finitezza ed apertura all’Infinito che caratterizza la condizione umana. Il primo è costituito dai versi 5-8 del Salmo 39. «Rivelami, Jahweh, la mia fine, / quale sia la misura dei miei giorni / e saprò quanto io sia effimero. / Ecco, di pochi palmi hai fatto i miei giorni, / la mia durata è un nulla davanti a te. / Sì, come soffio è ogni uomo, / come ombra è l’uomo che passa… / Ma allora che posso sperare? In te, Signore, è la mia speranza». Il secondo testo è il Salmo 130, che la liturgia cattolica designa con le sue prime parole De profundis («Dal profondo») e che Lutero preferiva ad ogni altro. Una poesia orante di cinquanta parole musicate tra gli altri anche da Liszt, Mendelssohn e Schonberg, tra le più alte che l’umanità conosca. Una poesia orante che da oltre duemilacinquecento anni non cessa di illuminare il cammino della conversione dell’anima a Dio, la ricerca teologica ed il mistero della morte.

«Dal profondo a te grido, Jahweh! Signore, ascolta la mia voce, / siano le tue orecchie attente / alla voce della mia supplica. / Se osservi le colpe, Jahweh / Signore, chi potrà sussistere? Ma presso di te è il perdono / perché tu sia temuto. Io spero, Jahweh; / spera l’anima mia; / attendo la tua parola. L’anima mia è verso il Signore / più che le sentinelle verso l’aurora. / Attenda, Israele, Jahweh / perché presso Jahweh è la grazia / e grande presso di lui la redenzione. / Egli redimerà Israele / da tutte le sue colpe» (I Salmi, commento di Gianfranco Ravasi, Milano 1986).

21 gennaio 1993.

LINEA RECTA BREVISSIMA. L’imperativo categorico per tutti i membri di qualsiasi società. Non mentite gli uni agli altri. La religione di ricambio, far soldi. La voglia insaziabile di possedere è idolatria. (San Paolo) A nome dei tre quarti dell’umanità. Vorrei che ci fosse rispetto tra i popoli, perché tutti perseguiamo gli stessi scopi, tutti abbiamo le stesse preoccupazioni per il futuro. Penso che sia necessario che i popoli indigeni diano il loro apporto di saggezza e conoscenza allo sviluppo dell’umanità (Rigoberta Menchù). Il «vegliare» del fannullone. Fresco ognor come una rosa / mai fu visto affaticato; / e vegliava senza posa / se non era addormentato (Dante Zanetti). Ma quel trasferimento è tuttora in corso. Anni fa, alcuni intellettuali si videro trasferiti dal rango già ironico di teste d’uovo a quello di teste d’ovvio per la banalità suprema delle idee che sostenevano (Giulio Nascimbeni). Capovolgere senza indugio una celebre bugia. Il potere logora chi ce l’ha. Eccome! (Levi Appulo). L’ultimo assegno. I giorni della nostra vita sono come un pacchetto di assegni in bianco. Li puoi spendere come vuoi. Ma l’ultimo lo devi riservare a Lui (Simone Weil).

BISOGNA IN PRIMO LUOGO AUTENTICARE L’OGGI. La domanda di giustizia, di bontà, di ragionevolezza comincia finalmente a liberarsi dal perverso incantesimo delle utopie e il sogno totalitario della società perfetta volge al tramonto, non senza lasciare dietro di sé spaventose rovine materiali e morali, che peseranno ancora per decenni. La giustizia, la bontà, la ragionevolezza sono valori che vanno perseguiti per se stessi, con realismo, senza cedere alla droga delle ideologie palingenetiche, ma anche senza neppure arrendersi ad un sistema di menzogna, di malaffare e di impunità organizzata che svuota e disumanizza anche le società democratiche.

Dobbiamo metterci in testa che è il presente che va riscattato e che ogni situazione ha sempre in sé l’indicazione di ciò che va accolto, sia di ciò che va rifiutato con tutte le nostre forze perché ingiusto, cattivo, irrazionale. L’autenticità non è solo da sperare; anzi l’impegno è di rendere autentico in primo luogo il nostro tempo, il nostro lavoro, il nostro essere uomini e cittadini qui ed ora, nelle attuali circostanze in cui ci troviamo. In quell’angolo del mondo in cui viviamo siamo chiamati a rendere testimonianza a qualcosa che, nella sua concretezza, ha un significato universale e ci rende partecipi di un bene che non passa. Pur nella nostra debolezza, noi possiamo attuare qualcosa in cui, in un certo senso, sentiamo e sperimentiamo l’Assoluto attraverso l’infinità del valore morale.

Non è vero che tutto è «transizione» alla luce del dopo: e neppure che tutto è «adempimento» (o «fallimento»?) alla luce del prima, in realtà ogni momento ha in sé il suo compito da realizzare. «Ogni epoca storica è in rapporto diretto con Dio», ha scritto Leopold von Ranke. E con una formula ancora più pregnante: «Ogni epoca è equidistante da Dio». Questa consapevolezza ci viene direttamente dalla rivelazione cristiana e ci spinge a vivere al suo livello.

UN ANGELO VESTITO DA CLOWN? Martin Mac Conally è inglese, ha cinquant’anni e fa per mestiere il clown. Si è portato in queste settimane a Sarajevo, con uno scopo ben preciso: ridare il sorriso per qualche ora ai fanciulli che sono scampati alla morte, ma sono rimasti feriti e mutilati. Nella capitale bosniaca, tra un bombardamento pesante ed una fucilata proditoria di cecchini su passanti disarmati, Mac Conally si sposta da un ospedale all’altro per far dimenticare la guerra alle vittime più innocenti di essa, ai piccoli martiri di una follia sanguinaria. Nel «corridoio della morte», la strada che collega la capitale all’aeroporto, i franchi tiratori lo vedono passare più volte al giorno: pesantemente truccato, il viso bianco, le enormi labbra rosso sangue, una giacca a quadri vistosi e vistose bretelle rosse. Che cosa penseranno nei loro cuori? Riescono a immaginare che tra quei ragazzi sofferenti che hanno diritto a vivere e a sorridere potrebbero esserci anche i loro figli? A me sembra che la missione umanitaria di quel pagliaccio sia bellissima. Sono felicemente sorpreso da un dubbio: che Mac Conally sia un angelo vestito da clown?

TOTÒ RIINA, NON BEVA IL CAFFÈ. Venerdì 15 gennaio i carabinieri hanno preso finalmente il boss dei boss, Totò Riina, latitante da 24 anni. Che sia veramente l’inizio della fine per Cosa Nostra? Particolare significativo: nella stanza della caserma in cui è stato portato, dalla parete pendevano tre ritratti, i ritratti di Dalla Chiesa, Falcone e Borsellino. Gli occhi di Riina hanno, sia pure per un istante, incrociato gli sguardi delle sue vittime più illustri?

Ci è stato detto che il supercriminale dopo la cattura abbia assunto un comportamento almeno in apparenza deferente. Tuttavia noi vorremmo da Riina qualcosa di più, un regalo che avrebbe un’immensa forza di purificazione per il nostro Paese da tanti veleni e sospetti: che ci dica, fornendo tutti i possibili riscontri oggettivi, nomi e cognomi di quei politici che erano collusi con la mafia, oppure in rapporto di interessata contiguità con essa. Nel caso si decidesse al grande passo, gli daremmo però un consiglio: «Per favore, Riina, rinunci al… caffè!». Potrebbe essere avvelenato. È già accaduto!

28 gennaio 1993.

LINEA RECTA BREVISSIMA. Le mani che porgono rose. Un po’ di profumo rimane sempre nelle mani che porgono rose (Proverbio cinese). Amore di sé e amore di Dio. In qual modo avvenga per me è inesplicabile, ma chi ama se stesso e non Dio, non ama se stesso. E chi ama Dio e non se stesso, questi ama se stesso (Sant’Agostino). L’equivalenza tra capitalismo e democrazia non è né presupposta, né statica. Oggi si tende a costruire un’equivalenza tra capitalismo e democrazia. Ma le cose non stanno così. Il capitalismo imprenditoriale è auspicabile, a patto che sia controllato dalla democrazia (Beniamino Placido). Il valore della memoria. Se la catena del ricordo si spezza, se la continuità di una specifica società o della società umana in genere viene interrotta, sparirà contemporaneamente anche il senso di tutto ciò che i suoi membri hanno fatto nel corso dei millenni, di tutto ciò che hanno giudicato prezioso (Norbert Elias, sociologo, autore di scritti che sono estranei al riduzionismo settoriale perché nutriti di meditazione intorno alla humana conditio, a cui intendono restituire pienezza di significato e autocoscienza. In Italia le sue opere sono state pubblicate dal Mulino). Oggetto e dono della poesia. La poesia ha il bello per oggetto e ha il dono di generare gli affetti per mezzo dell’immaginazione. Purezza dello sguardo e poesia. La poesia è l’originalità che si attiva nel mondo della bellezza, l’originalità della grazia, della purezza… La condizione formale e scientifica di uno spirito poetico è la dirittura del cuore. Per i cristiani una visione poetica delle cose s’impone. (John Henry Newman)

ANDREOTTI E CICERONE. Dopo le elezioni del 5 aprile 1992 e la rivelazione del disastro finanziario in cui il Paese è stato gettato da una politica dissennata, il protagonista riconosciuto e il massimo responsabile di quella politica si era chiuso in un dignitoso silenzio. All’inizio del 1993 Giulio Andreotti è tornato, invece, alla ribalta con numerose interviste e con un pamphlet contro ignoti in forma di lettera, in cui assume addirittura le vesti di novello Cicerone di fronte ai Catilina che attentano all’«ordine costituito». Il novello Cicerone, però, dimentica che la partitocrazia, di cui egli è stato l’espressione più tipica e collaudata, è riuscita a produrre solo un «disordine costituito», cioè un sistema di illegalità, da cui bisogna al più presto uscire, e non certo l’«ordine» che è frutto di buongoverno.

C’è qualcosa da dire subito, però, ed in via preliminare: ed è che Andreotti non ha nulla da spartire con Cicerone, «di cui in generale si ammira la lingua e non allo stesso modo l’animo», diceva S. Agostino (Confessioni III, 4, 7). Le differenze fra i due laziali sono molte e tali da renderli fra loro non comparabili. Le principali mi sembra le abbia colte Saverio Vertone in una nota del Corriere. «La prima è che Cicerone usava splendidamente il latino, mentre non si può dire che Andreotti usi l’italiano con la stessa maestria. La seconda è che Cicerone era abbastanza astuto e abbastanza onesto per evitare la fatua ostentazione della furberia. La terza, fondamentale, è che rispettava i propri concittadini, e non si sarebbe permesso di inveire contro un Catilina, l’eversore dello Stato, se avesse difeso (o coperto) per tanti anni un Verre, il predatore della Sicilia. La quarta riguarda lo stile, vale a dire quell’inconfondibile sigillo che la moralità imprime sul linguaggio e sul comportamento». Quando smascherò il complotto di Lucio Sergio Catilina, Cicerone non fece allusioni e non lasciò in bianco l’indirizzo delle sue accuse, ma fece praenomen, nomen et cognomen. Invece, in questa nuova Catilinaria mancano la definizione del reato e l’indicazione dell’autore. È una lettera a un anonimo, un messaggio in codice, una chiamata di correo, una subdola minaccia, insomma un colpo di coda mascherato sotto la denuncia di un complotto contro la Repubblica. Fra le tante miserie che la fine della prima Repubblica ci riserva c’è anche questa: che uno dei suoi massimi rappresentanti non si renda conto di essere ormai fuori gioco, né della scomparsa del credito che si faceva alla sua intelligenza. Peggio: egli cerca di denunciare cospirazioni contro lo Stato con il tono di chi abbia il diritto di condannare gli altri, avendo già assolto se stesso. E viene il sospetto che non si sia neppure interrogato sul ruolo personalmente avuto, in decenni di potere, nel cancellare, o nel lasciar cancellare, lo Stato di diritto del nostro Paese.

RELATA REFERO: UN GIUDIZIO DI COLLETTI. Nel 1986, Lucio Colletti, mio ospite a Brescia, mi faceva osservare che l’ironia della storia gioca, più spesso di quanto non si creda, brutti scherzi. E insisteva nell’illustrarmi un esempio. «L’idea e la prassi della politica di Alcide De Gasperi erano consapevoli, limpide, lungimiranti e perciò furono di enorme importanza anche per la formazione della coscienza democratica del popolo italiano. Ebbene, la negazione, l’antitesi più compiuta del metodo e dell’ispirazione di fondo della politica degasperiana non è stata rappresentata tanto dal suo avversario storico, Togliatti, quanto dal suo ex-collaboratore Andreotti. Il quale, resta tuttavia, il miglior biografo dello Statista trentino». Insomma, ci può essere ammirazione anche sincera, senza che ci sia imitazione. È uno dei lati sconcertanti e oscuri dell’animo umano.

L’ANELITO. L’anelito è questo: a cielo aperto, / nel tumulto del mondo aver dimora. / I desideri? Taciti colloqui / dell’ore, in terra, con l’Eternità. / Questa, la vita. Fino al giorno in cui / la più sola tra l’ore solitarie / non emerga dal tempo: e, sorridendo / diversamente dalle sue sorelle, / muta al cospetto dell’Eterno stia (Rainer Maria Rilke).

4 febbraio 1993.

LINEA RECTA BREVISSIMA. Hanno classe. E se fossero classici i libri che hanno una certa classe? Che cos’è un classico? Un classico è un libro che non ha mai finito di dire quel che ha da dire (Italo Calvino). Quando si dice ‘la gente’. Forte è il sospetto che dietro l’etichetta la gente ci siano soltanto coloro che la pensano come noi. (Dino Basili) Stoltezza e destino. L’uomo chiama destino la sua stoltezza (Omero). Cattivo piano. Cattivo piano è quello che non puoi mutare (Publio Siro). O l’Uno o l’altro. Non potete servire Dio e mammona (Vangelo di Matteo). È impossibile imprigionarlo. Lo Spirito soffia dove vuole (Vangelo di Giovanni). La Chiesa, credersi dentro ed esserne fuori. Alcuni sembrano trovarsi dentro la Chiesa e in effetti ne sono fuori. Altri, invece, sembrano esserne fuori e in effetti sono dentro (Sant’Agostino, De baptismo V, 27-28. Agostino riprende questo importantissimo concetto anche in De civitate Dei I, 35 e In Johann. Ev. 27, 11 e 45, 12).

LIBRI E MANOSCRITTI, PRESTITO A RISCHIO. Quaestio: «Perché alcuni prestano con tanta difficoltà i loro scritti e i loro libri?».

Respondeo: «Dal momento che ignoriamo i segreti del cuore umano, è indice di avventatezza interpretare nel modo peggiore quello che talvolta può anche essere fatto con buona intenzione e senza colpa; e ciò che in sé non è né bene né male, può spesso essere fatto a fin di bene, in modo lecito ed inappuntabile. Così il non prestare i propri scritti e i libri ad altri può essere un’azione tanto condannabile quanto irreprensibile, lecita e cautelativa. È cautelativa quando uno scritto non è ancora corretto e sistemato al punto da poter essere compreso da un estraneo, in quanto risulterebbe dannoso e costituirebbe materia e fonte di errore per chi lo ricopia o lo legge. Uno scritto in questo stato, poi, sarebbe più nocivo che utile per chi l’ha voluto se non corrisponde alle sue aspettative. Non dare libri a prestito non è condannabile quando uno ha frequente anche se non costante bisogno di un suo volume e non ne può rimanere a lungo senza. Perché succede che molti sono zelantissimi nel chiedere ma lenti nel restituire al punto che, più volte sollecitati, a mala pena alla lunga restituiscono borbottando quello che hanno avuto in prestito, aggiungendo parole ingrate in cambio del beneficio ricevuto. Spesso i lettori sciupano o lacerano i libri avuti in prestito, o li maneggiano con poca cura. Talora chi ha avuto in prestito un libro lo passa ad un altro senza chiedere il permesso al proprietario, e quegli a un terzo, in modo che, alla fine, il proprietario non sa più a chi richiederlo e la catena del prestito si allontana a tal punto da lui che nessuno risponde più direttamente del libro ricevuto. Tante volte il libro dato a prestito va anche smarrito, perché magari qualcuno, ritenendolo dimenticato, se ne appropria come se non appartenesse a nessuno». (Determinationes quaestionum circa regulam fratrum II, 21).

L’autore di queste riflessioni penetranti e realistiche è un santo autentico, Bonaventura di Bagnoreggio, ministro generale dei francescani dal 1257 al 1274 e insigne maestro dell’Università di Parigi.

PER VIE DIVERSE ALL’UNO. Gli uomini sono ineguali per natura e pertanto non bisogna cercare di renderli uguali per forza. Tutti gli uomini hanno accesso a Dio, ma ciascuno ha un accesso diverso. E infatti la diversità degli uomini, la differenziazione delle loro qualità e delle loro tendenze che costituisce la grande risorsa del genere umano. E, d’altra parte, l’universalità di Dio spiega la molteplicità indefinita dei cammini che conducono a lui. Nella sua celebre conferenza Il cammino dell’uomo (Magnano 1990) Martin Buber racconta un aneddoto che getta luce sul problema che qui poniamo. Alcuni discepoli di un defunto Zaddik si recano dal Veggente di Lublino e si meravigliano che abbia usi diversi dal loro maestro. «Che Dio è mai, esclamò il Rabbi, quello che può essere incontrato su un unico cammino e servito in un unico modo? Ma dato che ogni uomo può, a partire da dove si trova e dalla propria essenza, giungere a Dio, anche il genere umano in quanto tale può, progredendo su tutti i cammini, giungere fino a lui».

11 febbraio 1993.

LINEA RECTA BREVISSIMA. Il silenzio è musica. Il silenzio stupito che segue un’esecuzione di Mozart è stato scritto anch’esso da Mozart (Sacha Guitry). L’effetto più suggestivo è dato più che dal suono dall’annullamento del suono. Vi sono dei silenzi densi di mistero, di ansia, quasi paurosi, dai quali i suoni sopravvenienti acquistano un rilievo più potente (Camillo Artom). I lavativi. I lavativi hanno la pelle dura (Cesare Pavese). Le nostre domande e le sue risposte. Spesso diciamo che Dio non risponde alle nostre domande. In realtà è che noi non ascoltiamole sue risposte (Clive Staples Lewis). La via regale dei ladri in Italia. I ladri sono ovunque, ma in Italia la politica li valorizza (Nando Dalla Chiesa). Ogni giorno in diretta la crisi del regime. Il regime cede ogni giorno un pezzo di potere. È una specie di frana in ripresa diretta attraverso il bollettino quotidiano degli arrestati e degli inquisiti. Non c’è nobiltà nel rovinare sotto i colpi delle manette. È, pertanto, impossibile chiedere pietà per chi coniugava la più sprezzante arroganza e il grande latrocinio (Levi Appulo). A quelli che si sono arricchiti attraverso la politica. A che giova accumulare beni materiali senza rispetto della coscienza, né senso di responsabilità verso gli altri, quando l’esperienza quotidiana dimostra che ciò comporta affanno e inquietudine gravi e, spesso, anche una resa di conti di fronte all’autorità civile? (Giovanni Paolo II)

TITO LIVIO, SBARDELLA E LE TANGENTI. La lingua di Cicerone e Virgilio, di Seneca e Sant’Agostino, di Tommaso d’Aquino, di Marsilio Ficino, di Erasmo da Rotterdam può svolgere ancora oggi una sua funzione, un ruolo non marginale tra gli uomini di cultura e come vivo strumento di comunicazione sociale? È difficile rispondere a un interrogativo del genere, anche se il latino ha tutti i titoli per diventare di nuovo, come lo fu per quasi duemila anni, la lingua internazionale per eccellenza.

Fa piacere, pertanto, ricordare come la Chiesa cattolica nel 1976, mentre introduceva nella liturgia la Messa nelle diverse lingue nazionali, istituiva la fondazione «Latinitas» per promuovere non solo lo studio del latino, ma anche il suo uso e, per così dire, il suo continuo aggiornamento. Uno dei frutti del lavoro svolto è l’uscita del primo tomo del Lexicon recentis latinitatis (A-L) ed è annunciata per il 1994 la pubblicazione del secondo (M-Z).

Tra i neologismi più scottanti cerco quello che corrisponde a «tangente», cioè il dare per corrompere o l’essere costretti a pagare ingiustamente chi è in grado di impedirci persino l’esercizio di un nostro diritto. Si sa, un’alluvione di fango sta travolgendo il muro di ipocrisia e di menzogna su cui si è retto negli ultimi quindici anni il regime partitocratico in Italia; e tuttavia c’è ancora chi, avendone fatto parte, persiste nel difendere quel sistema e invoca apertamente la non punibilità dei tangentocrati. Lo ha fatto sul Corriere della sera del 4 gennaio del 1993 un noto rappresentante del Movimento Popolare e della Dc, Vittorio Sbardella. Per l’uomo che ha ereditato i consensi elettorali di Giulio Andreotti, gli italiani sono quasi tutti corrotti e non si capisce perché non dovrebbero esserlo i loro rappresentanti, quelli che esercitano il potere. «Questa classe politica è espressione della società italiana e nella società italiana la corruttela è molto diffusa». Non c’è che dire, sono espressioni che suonano come una specie di originale esegesi del rapporto tra Paese legale e Paese reale, in barba al principio cristiano secondo cui chi è investito di un’autorità deve dare l’esempio e legittimare il potere che esercita solo come servizio. Rileggo quel passo, sperando di aver frainteso; ma ogni dubbio è spazzato via dalla risposta di Sbardella al giornalista che gli chiedeva: «Crede davvero che la gente, come dimentica le bugie elettorali, possa dimenticare la vergogna delle tangenti?». Ecco le parole testuali del leader romano della Dc: «Dimenticheranno anche questa… Anche perché le tangenti, sì, hanno colpito l’immaginazione pubblica, ma in fondo non è che abbiano colpito direttamente la gente».

Tito Livio, lui che era un «pagano» e non aveva fatto in tempo a vedere la luce del Vangelo, sulle tangenti non la pensava affatto come il «cristiano» Sbardella. Le definiva corruzione della peggior specie, largitio pessimi exempli (IV, 48, 12). Anche il Lexicon dà ragione a Tito Livio e designa la tangente con i termini largitio quaestuosa, cioè un tipo di corruzione che fa lucrare molto. In Italia, poi, quel sistema non solo ha fatto arricchire molto, ma ha radicalmente trasformato il patrimonio e il modo di vivere di un numeroso esercito di amministratori pubblici, politici di ogni grado e imprenditori disonesti. Naturalmente il conto, e salato, lo hanno pagato e continueranno a pagarlo tutti i contribuenti onesti e quanti soffrono, i giovani in primo luogo, per il disonore e il disavanzo in cui è sprofondato il loro Paese. Cose queste che, a quanto pare, gli Sbardella & C. non prendono nemmeno in considerazione.

POETI D’OGGI. Nel silenzio intero. Inquietano i suoi silenzi interi… / Tutto è sospeso e vero, oppure / si ignora il suo manifestarsi… / È ancora incerto il senso, ma come illuminato / da una grande luce che sgomenta. I versi dell’attesa. Anche quando esistere è poco, / il fuoco altro fuoco domanda. Si compie la nostra storia nell’attesa / di un segno che venga. La terra si rifà, rinasce il cuore. La compiutezza. La compiutezza è questa, / il non aver mai fine del miracolo (Alessandra Giappi, Il fuoco e la misura, Brescia 1992).

18 febbraio 1993.

LINEA RECTA BREVISSIMA. Fuori dal chiuso del nostro egoismo. Esci, sbatti la porta e scarta il vizio / dalla speranza (Marino Moretti). Pericolosa per gli smidollati. La fede è una faccenda pericolosa per gli smidollati (Søren Kierkegaard). Le domande e le risposte. A dare risposte sono capaci tutti, per fare vere domande ci vuole un genio (Oscar Wilde). Si deformano le parole per vendere meglio fumo. La manipolazione delle parole a proprio arbitrio, il privarle dei loro significati è una via obbligata per chi deve imporsi comunque all’attenzione degli altri e vender loro fumo. È necessario, invece, ancorare la parola al suo concetto. Come voleva e insegnava Socrate (Levi Appulo). Quando è amore. L’uomo si realizza solo se si trascende, se si dona totalmente. Forma di dono totale è l’amore, quando è veramente tale. L’amore, infatti, comprende il partner non solo nella sua totale umanità, ma anche nella sua unicità, come persona singola, originale e irripetibile, nel suo esser diverso rispetto a tutti gli altri e non intercambiabile (Viktor Frankl). La dignità del pensiero. In sorte ci è stato dato il pensiero. Lì ogni nostro limite, ma anche ogni nostra speranza. Tra l’alfa e l’omega. Il cammino dell’uomo è, al contempo, una marcia verso le origini e verso la fine. Se gli estremi non si congiungono, l’opera non è compiuta. (Renzo Ricchi)

LA MALATTIA MORTALE DELLA PRIMA REPUBBLICA. «Quello che mi preoccupa è l’orientamento organizzativo che hanno preso molti partiti e che sta prendendo la Democrazia cristiana. L’organizzazione dei partiti, e in particolare quella delle correnti, come grandi macchine burocratiche prospetterà drammatici problemi economici e per ciò stesso grossissimi rischi sul piano morale, spingendo fra l’altro sempre più i partiti ad occupare degli spazi che non competono loro. Io avevo organizzato un partito come un movimento d’opinione. Questo dovrebbero essere i partiti e non terribili macchine burocratiche».

Queste parole le pronunciò Alcide De Gasperi di ritorno dal Congresso di Napoli della Dc, nel giugno del 1954, appena due mesi prima di morire. Si possono leggere nel volume A colloquio con don Giuseppe De Luca di Adriano Ossicini (Roma 1992). Come non ravvisare in esse un esempio di geniale lungimiranza, di concretezza, di rigore morale? Il testo degasperiano ci offre considerazioni semplici e di per sé evidenti, in cui c’è già la diagnosi, lucidissima, della malattia che ha portato a morte la nostra prima Repubblica. I padri fondatori si chiamavano De Gasperi, Einaudi, Sforza. Volete dare voi un nome, cari lettori, agli affossatori e becchini della nostra prima Repubblica?

L’ESTETICA DI HEGEL E IL ROMANZO DI MANZONI. Nell’Estetica di Hegel, tradotta in italiano dalla Feltrinelli in due volumi, rileggo le pagine riguardanti il romanzo. Il romanzo è la forma moderna dell’epopea. All’epoca moderna manca «la condizione originariamente poetica dell’epos», ma nel romanzo si può «ridare alla poesia, nei limiti in cui ciò è possibile, il diritto perduto». Nel romanzo «ricompare la ricchezza e la multilateralità degli interessi, delle condizioni, dei caratteri, dei rapporti di vita, il vasto sfondo di un mondo totale e insieme la manifestazione epica degli avvenimenti». Il romanzo «richiede la totalità di una concezione del mondo e della vita»; e deve «ammettere, senza arrestarsi al prosaico e al banale, la prosa della vita reale». È quello che ha compreso e fatto il Manzoni. È qui la sua grandezza. Il romanzo, continua Hegel, è «l’espressione del conflitto della poesia del cuore con la prosa contrastante dei rapporti e l’accidentalità delle circostanze esterne». Si tratta di «un dissidio, che o si scioglie tragicamente o comicamente, o trova il suo adempimento nel fatto che i caratteri, che dapprima sono in contrasto con l’ordine comune del mondo, imparano a riconoscere in esso l’autentico ed il sostanziale, si riconciliano con i suoi rapporti e vi entrano operosamente». Insomma la magia del romanzo sta nel sostituire alla prosa esistente una realtà resa affine ed amica alla bellezza e all’arte. Anche da questo punto di vista, Manzoni ha realizzato pienamente nei Promessi Sposi la possibilità del romanzo così come Hegel l’ha intesa.

25 febbraio 1993

LINEA RECTA BREVISSIMA. Memoria e realtà. La memoria è figlia della realtà, ma anche la realtà è figlia della memoria (Geno Pampaloni). Al momento giusto, non quando è tardi. Luigi XVI rinchiuse nel carcere della Bastiglia il suo ministro delle finanze Fouquet, arricchitosi alle spalle dei sudditi. Decisione giusta, ma tardiva (Federico Orlando). La più umana delle aspirazioni. Non vorrei vivere in questo mondo, se non ha da essere un mondo uno (Mohandas Karamchand Gandhi). Lo sviluppo per essere autentico dev’essere integrale, il che vuol dire volto alla promozione di ogni uomo e di tutti gli uomini. Noi non accettiamo di separare l’economico dall’umano, lo sviluppo dalla civiltà dove si inserisce. Ciò che conta per noi è l’uomo, ogni gruppo di uomini, fino a comprendere l’umanità intera… Ogni uomo può crescere in umanità, valere di più, essere di più (Paolo VI). Stato gestore o Stato regolatore? In cinquant’anni lo Stato gestore di imprese più di una volta ha fatto premio sullo Stato regolatore dei loro comportamenti (Guido Carli). Nessun adattamento del passato alle nostre opinioni correnti. Il giusto senso critico vuole che al passato si guardi senza magniloquenza retorica o pregiudizi ideologici. Uno dei maggiori pericoli da evitare è quello di riscrivere periodicamente la storia per adattarla alle nostre opinioni correnti (Sergio Romano).

DUE MAESTRI, MA QUANTO DIVERSI! Il 30 gennaio, alla soglia dei 90 anni, se n’è andato uno dei grandi vecchi della filosofia contemporanea, l’ebreo tedesco Hans Jonas. I suoi contributi possono essere sintetizzati dai titoli di tre sue opere: La religione gnostica (1958), Il fenomeno della vita. Verso una filosofia biologica (1966), Il principio responsabilità (1979). A me, però, sono rimaste impresse in modo indelebile le brevi, dense pagine della sua Autobiografia intellettuale, tradotta in italiano dalla Morcelliana. In essa Jonas traccia l’itinerario della sua ricerca e ricorda quello che ha appreso dai maestri. Costoro furono essenzialmente due: Martin Heidegger e Rudolf Bultmann. Nel seminario per principianti tenuto da Heidegger, Jonas avverte sia la forza di un incantesimo («prima ancora di comprendere Heidegger si era in suo potere»), sia la straordinaria capacità del professore di guidare gli allievi a fare una «esperienza originaria» in rapporto al testo che era oggetto di studio. Fu la sola vera lezione di Heidegger. «Del lato oscuro, presente nella dottrina e nella persona di Heidegger, non voglio parlare» confessa Jonas. Noi lo comprendiamo perfettamente, ricordando che nel 1933 la Germania era divenuta nazista, l’illustre Heidegger pure e il giovane pensatore di razza ebraica era costretto all’esilio, prima in Inghilterra e poi in Palestina. L’altro maestro di Jonas, il più caro al suo cuore, fu Rudolf Bultmann (1884-1976), uno dei maggiori studiosi del Nuovo Testamento. Jonas rende omaggio al suo «impegno per dimostrare la possibilità della fede» e ai doni del suo magistero; ma egli tende a passare dalle considerazioni sul «maestro» all’«uomo» Bultmann, da lui conosciuto personalmente nella serenità del suo essere e nell’accoglienza del suo cuore. Per questo mi pare opportuno offrire ai lettori un episodio narrato da Jonas.

ERA L’ESTATE 1933…. Bultmann, scrive Hans Jonas, fu l’unico dei miei maestri accademici che visitai ancora una volta per un ultimo saluto prima di partire per l’emigrazione. Era l’estate 1933 e qui a Marburgo sedevamo a mensa con sua moglie, tanto sensibile e gentile, e le sue tre figlie in età scolare. Io raccontai quello che avevo appena letto sul giornale ed era loro ancora ignoto, ossia che l’associazione tedesca dei ciechi aveva deciso di espellere quei suoi membri che fossero ebrei. Spinto dal mio raccapriccio, mi lasciai andare a un’ampia invettiva: «Rispetto alla notte eterna, così proruppi, alla realtà più unificante che può esserci fra uomini colpiti, questo tradimento della solidarietà nel comune destino…». A quel punto mi arrestai; infatti i miei occhi caddero su Bultmann e notai che un pallore mortale aveva coperto il suo volto, mentre dalla sua espressione traspariva una tale pena che subito mi morirono le parole sulla bocca. In quel momento mi resi conto della sua assoluta affidabilità nei valori fondamentali dell’uomo e dell’inopportunità con lui di ogni parola, spiegazione, argomentazione, ma soprattutto di ogni retorica. Nessuna assurdità del tempo poteva alterare la costanza della sua luce interiore. Personalmente egli non proferì alcuna parola e questa scena d’ora innanzi rappresentò per me l’immagine dell’uomo interiormente turbato, ma all’esterno del tutto superiore alle proprie emozioni. Il legame tanto intimo e per giunta reciproco che si stabilì fra me e quell’uomo tipicamente originario di Oldenburg, così controllato e riservato nelle parole, apparentemente quasi freddo, non fu certamente dovuto ad affinità di temperamenti. Egli come fu l’unico che partendo salutai, così fu anche il primo che, proprio dodici anni più tardi, nella Germania desolata dell’estate del 1945, volli rivedere dopo che per molti anni non ci eravamo più sentiti (Autobiografia intellettuale. Scienza come esperienza personale, Brescia 1992, pp. 54-55).

4 marzo 1993.

LINEA RECTA BREVISSIMA. La prima volta, un bambino. Quando per la prima volta un bambino esulta di gioia e sorride, è l’essenza stessa della gioia che si manifesta. La gioia, infatti, ha sempre in sé qualcosa della purezza e della semplicità dell’infanzia. Perché l’opera d’arte è un simbolo. Ogni opera d’arte è un simbolo. V’è in essa, infatti, espressa o invocata, una pienezza di senso che mette in gioco ogni conoscenza umana e che nessuna conoscenza umana saprebbe esaurire. (Levi Appulo)

Il seme dell’immortalità. Che cosa ha trasformato il desiderio dell’uomo di non scomparire dalla scena del mondo in promessa d’immortalità? È stata la speranza o la paura del nulla? Ma c’è qualcosa di più. L’uomo, pur consapevole dei propri limiti, cerca sempre di superarli. E questo non prova che egli è potenzialmente attrezzato per vivere a livelli molto più alti, quelli del resto che già sulla terra sperimentano gli uomini migliori? Se sono esistiti Beethoven, Dante, Michelangelo, Sant’Agostino, Platone, significa che potenzialmente ogni uomo può essere un grande uomo e accedere a una vita più alta (Renzo Ricchi). Costui è un’anima nera. Chi rode l’amico alle spalle, / chi non lo difende quando un altro lo attacca, / chi va in caccia di risa sfrenate e della fama di uomo mordace, / chi è capace di inventare ciò che non ha visto, / chi non sa tenere il silenzio su quello che gli è confidato: / costui è un’anima nera (Orazio).

UNA POESIA RELIGIOSA DI EMERSON (1803-1882). Ralph Waldo Emerson è una delle figure più rappresentative dell’American renaissance del secolo scorso. Pensatore assai inquieto, «ricercatore all’infinito della verità», avvertì sempre il bisogno di Dio. In questa poesia, che si intitola Una chiesa, Emerson ha reso una testimonianza di rilevante significato a quanti cercano nella chiesa la patria dell’anima, il simbolo imperfetto eppur prezioso del regno.

Noi amiamo la casa venerabile / eretta a Dio dai nostri padri. / Qui pensieri santi hanno sparso una luce / da più di un viso raggiante. // Cuori ansiosi hanno qui ponderato / il mistero della vita, / e implorato dalla luce senza tramonto / di chiarire i loro dubbi e aiutare la loro lotta. // Fede operosa e pace e amore potente / che dalla divina Sorgente spirano / mostrarono ad essi che la vita di cielo / comincia dalla vita di quaggiù. // Vivono con Dio i nostri padri / e noi, loro figli, preghiamo / e confidiamo in questa vita fuggente / di trovare lo stretto sentiero. // Su colui che è presso l’altare, / su colui cada la tua benedizione. / Dicci attraverso il Vangelo i tuoi puri comandi, / Tu Cuore che ami tutti.

11 marzo 1993.

LINEA RECTA BREVISSIMA. La domanda da non eludere. Il Ventesimo secolo, i suoi chierici ed i suoi ideologi, hanno fatto finta di reputare la domanda «cos’è il male?» ingenua e superata. Ebbene, il male comincia e ricomincia appena non ci si pone più quella domanda. Al diavolo piace farsi avanti mascherato (André Glucksmann). L’ottimismo. L’ottimismo è talora ingenuo, mai innocuo (Levi Appulo). Lo snobismo come culto del disprezzo. Un puramente negativo mettersi al di sopra di tutto mediante l’assoluta sottovalutazione ed impartecipazione a tutto (Elena Croce). Due giudizi sul futurismo letterario, quello dominato direttamente da Marinetti. F.T. Marinetti è forse l’esempio più famoso del tipo di scrittore che vive delle sue invenzioni e non inventa niente (Jorge L. Borges). Il futurismo esprime tipicamente il movimento dello spirito che, tradendo sé stesso, si immedesima con la forza bruta del divenire e della materia (Julius Evola). Ciò che uno «spirito ammonitore» dovrebbe comunicare a chi scrive. Ricordati che hai il diritto di non scrivere e che tutto quello che stamperai potrà essere usato contro di te (Salvatore Scarpino). Dante e Sant’Agostino. La Commedia di Dante è organizzata come le Confessioni di Sant’Agostino, secondo la poetica della conversione (John Freccero). Il presupposto di ogni autentico dialogo. Il dialogo è un concetto della tradizione europea, ed è nello stesso tempo una manifestazione di qualcosa di universale, e cioè del riconoscimento dell’altro come titolare di diritti (Hans Georg Gadamer).

VEEMENTI CONDANNE DI MANZONI DA PARTE CATTOLICA. Il padre Antonio Bresciani (1798-1862), il gesuita purista e reazionario, descrisse I Promessi Sposi come un «romanzo pervertitore della gioventù». In un’edizione molto economica dell’opera, edita dall’Osservatore cattolico, nella prefazione, firmata «un sacerdote milanese», si accusa il Manzoni di essere caduto nelle mani di un vescovo, il vescovo Tosi di Pavia, e di preti infetti di liberalismo, e dunque di avversione al papato; gli si fa infine l’imputazione più grave di non aver rifiutato «la rivoluzione piemontese», di aver votato per l’unità d’Italia e di avere accettato la nomina a senatore del Regno. Neppure le Osservazioni sulla morale cattolica trovano grazia: la Civiltà cattolica scriveva che quell’opera non superava «la ordinaria mediocrità», e che il suo autore è di quelli, che non possono fare altra scuola che «falsa».

«Ce déplorable Manzoni», come lo aveva chiamato il Veuillot sul suo Univers, venne messo al bando dei seminari insieme con il Rosmini. E quando il Manzoni morì, la Civiltà cattolica (1873) così concluse un suo articolo commemorativo: «Il Manzoni ebbe un non so che di quel don Ferrante, ch’egli descrisse sì bene: “Uomo di studio, non gli piaceva né di comandare né di ubbidire”. Eppure ubbidì a Donna Prassede (cioè alla rivoluzione italiana), più che don Ferrante; il quale in certe circostanze, “sapeva dir di no”. Il Manzoni invece disse troppi sì alla signora rivoluzione. Ond’è che ora Donna Prassede, che sopravvive, piange, non il defunto letterato, ma l’uomo compiacente, che la secondava persuaso di secondare i voleri del cielo, facendo lo sbaglio grosso di prendere per cielo non “il proprio cervello”, ma l’altrui, in certe cose di politica pratica».

Ancora più esplicito il rammarico e la polemica di don Davide Albertario, direttore dell’Osservatore cattolico: «Chi non sente il dolore – scriveva – di un ingegno, che non abbracciò che a mezzo la verità? Siamo dolenti, lo ripetiamo, che in Manzoni non tutto sia buono, perché il male che in lui trovammo ci impedisce di farlo nostro».

NEL NOSTRO FUTURO IL GRANDE LOMBARDO. Manzoni fu un grande cristiano, come nell’Ottocento lo furono Rosmini e Newman; e, come loro, egli non fu clericale temporalista o integralista. Questo aspetto assai profondo e attuale del suo messaggio e del suo genio religioso in vita gli procurò sprezzanti diffidenze e dure condanne proprio da parte di quel mondo cattolico, che poi avrebbe menato vanto del nome e dell’appartenenza del grande lombardo alla Chiesa di Roma. Temo, però, che Manzoni, con il suo cattolicesimo serio, saldamente ortodosso ed insieme così libero e capace di dialogo con la cultura moderna, non abbia fatto veramente scuola in Italia, soprattutto tra i cattolici. Si loda in lui l’artista ed il credente, ma ci si tiene sostanzialmente lontani dalla sua visione della vita, dal suo anticonformismo in politica, dal suo alto senso dello Stato, dal suo esempio di onestà rigorosa nel rifiutare giustificazioni pseudo-storicistiche ed insostenibili apologie di ciò che invece va condannato. Il Manzoni più vero è, dunque, ancora da riscoprire? Compiere fino in fondo un’operazione del genere potrebbe significare rimettere in circolazione una forza costitutiva per quel nuovo Risorgimento nazionale a cui aneliamo con tutte le forze della nostra anima in quest’ora di amare sofferenze. Sì, Manzoni può ben essere un punto d’incontro ed un comune maestro per quanti, laici e cattolici, non rinunciano a cercare in spirito e verità.

18 marzo 1993.

LINEA RECTA BREVISSIMA. Forza e fragilità. L’ammissione di fragilità, se è sincera, è sempre un tipo di forza. Un regime giunto ormai alla frutta? Si dice: questo regime è ormai alla frutta. Vi illudete, cari signori. Dopo la frutta pretende ancora il dolce, il caffè e la grappa. Oltre che il diritto ad una buona digestione naturalmente. (Levi Appulo) Tangentopoli, impossibile film. È impossibile fare un film su Tangentopoli. Il motivo? È uno solo: la realtà è cento volte superiore ad ogni spettacolo di fantasia (Alberto Sordi). Protesta discutibile, eppure esemplare. A partire da domani, mercoledì 24 febbraio Il Sole 24 Ore si asterrà dal pubblicare il nome del ministro dell’Industria, prof. Giuseppe Guarino, dopo averne conosciuto, in occasione dell’ultimo rimpasto, l’arrogante disprezzo per ogni regola del buongoverno e l’ostinata sordità a ogni richiamo al senso dello Stato. Per favore, non dire mai: Roba da Medioevo! Nel Medioevo si assiste nell’arco di un millennio ad una straordinaria serie di rinnovamenti civili, culturali, artistici come poche altre volte nella storia è avvenuto. Se qualcuno oggi parla delle triviali miserie del nostro tempo come di una ricaduta nella barbarie medievale, non gli credete. Questo qualcuno ignora e calunnia il Medioevo (Paolo Brezzi). Lo splendore della luce. Luce, mia luce che riempi il mondo, / luce che baci gli occhi, / luce che addolcisci il cuore… / Il fiume del cielo ha straripato / e inondato il mondo di gioia (Rabindranath Tagore). Orgoglio dei cieli è il limpido firmamento, / spettacolo celeste in una visione di gloria! / Il sole mentre appare al suo sorgere proclama: / Che meraviglia è l’opera dell’Altissimo! / Grande è il Signore che l’ha creato (Libro di Siracide).

MORIRE CON DIGNITÀ. Gli interventi medici fino a quando debbono essere esercitati sul paziente? La risposta ovvia è: fino a quando lo esige il bene del paziente, cioè fino a quando si spera possano dare risultati apprezzabili nella lotta contro la malattia. E quando non c’è più nulla da fare perché il processo patologico non solo è irreversibile, ma è giunto ormai al suo termine, in una situazione così drammatica è possibile aiutare il malato a morire con dignità, senza un atroce surplus di sofferenze, per lui, e di costi, per i familiari e per la società? La questione è seria e va affrontata nella certezza che vi deve pur essere uno spazio per l’accettazione della morte ormai inevitabile, senza tuttavia mai dare la morte direttamente; insomma occorre impegnarsi a evitare sia l’accanimento terapeutico nel prolungare cure del tutto inutili, che causano solo ulteriori sofferenze, sia l’eutanasia con o senza il consenso del malato. La sospensione di terapie nello stadio terminale è già prevista anche dal Codice deontologico dei medici e degli odontoiatri italiani, il quale al n. 40 recita: «Nel caso di malattie a prognosi sicuramente infausta a breve scadenza e a onta delle cure, il medico può limitare la propria opera all’assistenza morale e alla prescrizione ed esecuzione della terapia atta a risparmiare al malato inutili sofferenze». Tale limitazione può e deve tener conto dei desideri espressi legittimamente dal paziente e, nell’incapacità di questi, dai suoi familiari, sempre nel miglior interesse del paziente stesso; ma ciò non ha nulla a che fare con l’eutanasia, cioè con qualcosa che prevede direttamente la morte del malato. Non è questione di poca importanza dal punto di vista morale.

LE BELLE FRASI SENZA EFFETTO. Il 3 marzo Mino Martinazzoli ha parlato ad un’affollata assemblea di democristiani di Roma. A fare, però, gli onori di casa c’erano Vittorio Sbardella, leader maximo della Dc romana, il contestatissimo ministro dell’Industria Giuseppe Guarino e tutte le altre autorità del partito, inquisiti compresi. Chiosando e reinterpretando sue precedenti affermazioni, che – assicura – erano state male intese dalla stampa e dai politologi, il segretario politico della Dc ha solennemente dichiarato: «Non ho mai chiesto sconti per i corrotti e per i corruttori». E ha aggiunto: «Chi deve entrare nel partito entri, chi deve uscire esca». Frase che la presidente Jervolino ha voluto rendere più esplicita: «Gli inquisiti vanno sospesi. È la gente a chiederlo».

Domando: a chi e a che cosa servono espressioni come quelle riportate quando poi si sa benissimo che i malavitosi da soli non se ne andranno mai? Ci si dice: «vanno sospesi». Ma, di grazia, da chi se non dal segretario politico del partito che contribuiscono a disonorare? Forlani, con più coerenza, naturalmente dal suo punto di vista, due personaggi di spicco li aveva sospesi, i lombardi Prada e Mongini. E non a caso: sono essi, infatti i primi democristiani inquisiti che non abbiano giurato il falso, contribuendo a far emergere lo sporco intreccio di politica e affari come sistema vigente ormai da lustri nel nostro disgraziato Paese.

25 marzo 1993.

LINEA RECTA BREVISSIMA. La dimenticanza. La materialità mette in noi l’oblio (Henri Bergson). La teologia, scienza della buona notizia. Solo un alto grado di barbarie può rendere la teologia insopportabile. Nell’ambito di questa scienza non è proprio possibile che vengano tollerati volti burberi, idee che infastidiscono e noiosi modi di dire (Karl Barth). Non da soli. Verremo alla meta ad uno ad uno / ma a due a due. Se ci conosceremo / tutti e tutti ci ameremo (Paul Eluard). Le vie dell’ecumenismo. Solo una ricerca dell’essenziale può farci trovare le vie dell’ecumenismo: l’ascolto attento e paziente di culture diverse, la capacità di intuirne la potenzialità, la qualità rara di affiancarsi nel cammino senza imporsi. L’incontro più autentico e vero avviene nel profondo, nelle radici della persona, in ciò che essa è e non solo in quanto fa e produce (Carlo Maria Martini). Che cosa significa educare. Educare significa elevare, cioè far risalire ogni coscienza umana fino alla sua sorgente perché possa attingervi la sua pienezza. Ogni pratica, ogni regola devono essere vivificate da questa ispirazione (Jean Guitton). L’incontro tra nostro padre e nostra madre. Vi è una sola cosa in me che non abbia origine in quell’incontro? Solo Dio. E tuttavia anche il mio pensiero di Dio ha la sua origine in quell’incontro (Simone Weil).

SU FEDE E POLITICA E SULLA PARTITOCRAZIA. Mi sono rituffato per qualche tempo negli scritti di Manzoni e due osservazioni del Grande Lombardo fra le tante mi hanno colpito in modo particolare. La prima riguarda la questione fede-politica, o se si vuole Chiesa e scelte politiche del credente. Eccola.

«Il dolore che un cattolico prova a vedere che il rispetto alla religione diminuisce di giorno in giorno in una parte così gloriosa e importante della Chiesa, è tanto più amaro, in quanto molte circostanze potevano far sperare che la religione dovesse qui godere non solo di una profonda pace, ma anche aumentare le sue conquiste. Malgrado gli sforzi di alcuni buoni ed illuminati cattolici per separare la religione dagli interessi e dalle passioni del secolo, malgrado la disposizione di molti increduli stessi a riconoscere questa separazione, e a lasciare la religione almeno in pace, sembra che prevalgano gli sforzi di altri che vogliono assolutamente tenerla unita ad articoli di fede politica che essi hanno aggiunto al Simbolo. Quando la Fede si presenta al popolo così accompagnata, si può mai sapere che egli si darà la pena di distinguere ciò che viene da Dio da ciò che è l’immaginazione degli uomini?» (Lettera a Mons. Luigi Tosi inviata da Parigi il 1° settembre 1819).

La seconda affermazione ci aiuta a capire una delle cause della degenerazione partitocratica del nostro sistema politico: i partiti non amano gli uomini di coscienza. «I partiti in generale, scrive Manzoni, non hanno la memoria lunga soprattutto per cose che sono determinate da un motivo di coscienza. E per quale ragione? Perché la coscienza, indipendente di sua natura dall’arbitrio altrui, gli può sfuggir di mano ogni momento e favorevole in un caso, diventa contraria in un altro: e i partiti vogliono una deferenza illimitata e uomini sicuri, che sono poi quelli che li mandano in rovina, com’è giusto» (Sulla Rivoluzione francese).

DUE AFFERMAZIONI SUCCESSIVE. Il 3 dicembre 1992 in questa rubrica citai con gioiosa adesione la frase pronunciata da Martinazzoli durante la campagna elettorale a Varese, in cui i giovani democristiani chiedevano coraggiosamente perdono agli elettori per i loro padri che avevano insozzato il volto e la storia della città elevando il pizzo a dignità di categoria politica. Martinazzoli aveva detto nobilmente: «Mi dispiace per chi ha sbagliato, ma non bisogna rubare per la Dc». Due mesi dopo, nelle settimane che hanno preceduto la presentazione del Decreto Conso, che non è figlio solo di Amato e del ministro Guardasigilli, la stampa riferì quotidianamente che il punto di vista del segretario politico della Dc era diventato il seguente: «La violazione della legge sul finanziamento pubblico non è un furto. È una irregolarità, che tra l’altro proprio noi e non altri abbiamo elevato al rango di sanzione penale». Voglio pensare che spesso gli uomini siano, come in questo caso, migliori di ciò che le loro parole lasciano intendere, tuttavia mentirei se non dicessi che l’ultimo testo riportato ingenera in me disagio e perplessità perché può essere legittimamente tradotto nei seguenti termini: «Noi partiti abbiamo fatto la legge sul finanziamento dei partiti e noi partiti, nella nostra eccessiva magnanimità, ne abbiamo elevato le violazioni a sanzioni penali. Perché allora scandalizzarsi, se siamo ancora noi a decidere di depenalizzare quelle violazioni? Chi fa, non ha forse anche il potere di disfare?».

Certamente che lo può, ma non senza dover render conto dei modi concreti in cui lo fa, perché, ferita e umiliata, la nostra è ancora una democrazia, in cui le questioni si dibattono sempre più alla luce del sole e le scadenze elettorali arrivano.

1 aprile 1993.

LINEA RECTA BREVISSIMA. Andare oltre. Meglio non guardare dove si va che andare solo fin dove si vede (Carlo Michelstaedter). Non si può non scegliere, una volta giunti al crocevia. Non è indifferente scegliere l’una o l’altra strada: solo una è quella buona (Henry David Thoreau). Per chi sa oltrepassare le maschere dell’apparenza. Il modo di essere degli uomini è più visibile di qualsiasi montagna (Proverbio tuareg). La prepercezione. Non si guardano con passione estetica che quei paesaggi che si sono già veduti in sogno (Gaston Bachelard). Invito ad una sapiente moderazione. A soffiarsi troppo il naso lo si fa sanguinare (Tommaso d’Aquino cita quel detto, consentendovi).

L’umile cammino rifiutato. Non si capisce perché mai molti, troppi, preferiscano volare verso la meta sulle ali della fantasticheria, anziché avvicinarsi realmente ad essa, un giorno dopo l’altro, passo dopo passo. Lo sguardo e la cosa guardata. Il tuo sguardo è importante, anzi decisivo. Ma la sua qualità è attestata anche dalla cosa che hai scelto di guardare. (Levi Appulo)

Ciò che non si può spiegare. Non si può spiegare ciò che è irrazionale. Fede e ragione. La nostra fede ha ragioni nascoste, che vanno scrutate, messe in luce con un’indagine impegnata e non meramente curiosa. (Bonaventura da Bagnoregio)

L’UTOPIA DEI POLITICANTI CORRUTTORI: AVER LA FORZA DI FARLA SEMPRE FRANCA. Godo spiritualmente nel leggere in un articolo scritto il 13 settembre 1848 da Alessandro Manzoni, per il giornale torinese La Concordia, un pensiero che sembra essere la radiografia di quella mentalità miope, arrogante, furbastra che, essendo divenuta prevalente tra i nostri politici, ha generato negli ultimi tre lustri partitocrazia e sistema tangenti.

«So che, scrive Manzoni, ci sono degli astuti, uomini di mondo, i quali si mettono a rider di compassione quando in politica si fa menzione di giustizia; par loro che si esca dal pratico, dal positivo, dal riuscibile. Ma gli astuti non le indovinano tutte; e in verità la sapienza, e anche l’astuzia sarebbero cose di troppo facile acquisto se consistessero nel supporre che il torto ha sempre la forza di prevalere. Purtroppo, in certi tempi, e forse in ogni tempo, certe ingiustizie paiono così naturali, che né a chi ne gode, né a chi ne patisce non viene neppure in mente che debbano cessare. Ma viene un momento in cui questa o quella giustizia comparisce così chiaramente ingiustizia, che non può più sostenersi contro la negazione di tutte le menti, contro la riprovazione di tutti gli animi, diventa odiosa e ridicola insieme, e (mi perdonino gli astuti se rimando loro la parola che adoperano come la più tremenda delle ingiurie) diventa un’utopia».

Manzoni nel Discorso sulla storia longobardica in Italia, richiama un altro aspetto della questione. Potrebbero i corruttori diventare così potenti e godere a lungo di un’immunità che ai loro occhi si configura come un diritto, se nella violazione delle leggi, nel mettersi sotto i piedi la legge morale prima ancora che lo Stato di diritto, non potessero disporre di collaboratori? I corruttori hanno successo sia in rapporto ai mezzi di cui dispongono, sia perché possono contare sulla degradazione morale di chi per danaro e carriera ha già rinunciato ai Dieci comandamenti. «Ogni potere ingiusto, osserva Manzoni, per far male agli uomini, ha bisogno di cooperatori che rinuncino ad obbedire alla legge divina e quindi l’inesecuzione di essa è la condizione più essenziale perché esso possa agire».

DUE POESIE DI MARGHERITA GUIDACCI. O mia gioia rischiosa. O mia gioia rischiosa, sempre insidiata! / Se tu non fossi insidiata, / non saresti la gioia. / È necessario l’abisso / perché tu possa spiegar le tue ali. / È necessaria la notte / perché si accenda il tuo raggio. / Ogni attimo in cui mi possiedi / è vita che m’inonda, traboccante. / Ma in quello stesso attimo, so che in me si ripete / una scommessa mortale. Poiché tu sei eterno… Poiché tu sei eterno ed io sono / eterna, come ci volle Dio, / anche se un giorno agli altri diverremo invisibili, / sarà eterna la nostra gioia. / La incontreranno ad ogni nuova generazione / quelli che vanno teneramente vagando / a due a due nei giardini di primavera, / o sostano abbracciati sulla riva del mare, / e amandosi ci ameranno senza saperlo, / dentro la bianca pioggia dei petali d’aprile / o nei barbagli d’una scia lontana, / orma dei nostri passi silenziosi. (Da Inno alla gioia, Firenze 1983)

Margherita Guidacci ci ha lasciato nel 1992. È una delle voci più intense e autentiche del secondo Novecento. L’ho invitata a Brescia nel 1988 perché fosse lei a ricordare un poeta grandissimo, assai caro ad entrambi, nel centenario della sua nascita: Thomas Eliot. Dignità, gentilezza, nozione del dolore mi parvero i tratti propri della sua anima cristiana prima ancora che della sua poesia.

8 aprile 1993.

LINEA RECTA BREVISSIMA. Modelli e contromodelli a confronto. La società moderna ha nei mass media la sua lente di ingrandimento. L’obiettivo dell’informazione può ingrandire, però, sia il modello negativo, sia ciò che lo stronca. Stroncano un modello negativo le leggi giuste, l’ethos di un popolo, la cultura autentica, la profondità del sentire cristiano, l’abbandono della menzogna demagogica, le immagini efficaci di ciò che è bene (Levi Appulo). Scelta di uno stile. Amo la libertà. Non voglio e non posso essere al servizio di nessuna fazione (Erasmo a Ulrich von Hutten). Poiché Dio è Amore. Dio vuole che tutti gli uomini siano salvi (San Paolo). Non basta telefonarsi. Lo scambio di lettere è la sola cosa che riunisca gli amici lontani. Impossibile trovare un rapporto più gradevole e rapido tra amici separati delle lettere che portano all’uno l’immagine dell’altro (Erasmo a Cornelio Gérard). I due nutrimenti. Diceva rabbì Eliezer ben Azarià: Se c’è farina, non c’è Torah, ma d’altra parte, senza Torah non ci può essere farina. Come dire: il grande problema umano non si risolve solo puntando l’occhio verso il cielo, disprezzando la parte materiale, la farina; però, quando le teorie materialistiche negano il cielo e si concentrano sulle cose, finiscono per appiattire l’uomo su una sola dimensione. Torah e farina, Parola e pane sono indispensabili perché l’uomo viva da uomo (Francesco Lambiasi). Non di solo pane vive l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio (Vangelo di Matteo). Manderò la fame nel paese, ma non fame di pane e sete di acqua, bensì d’ascoltare la parola del Signore (Libro di Amos).

GESÙ NEL GETSEMANI. Tra i grandi amici che hanno illuminato il mio cammino a qualcuno è toccato di morire prima del tempo. A Socrate dettero da bere il veleno di cicuta; Seneca fu costretto al suicidio dagli sgherri del suo ex-allievo, Nerone; Tommaso Moro fu decapitato nella Torre di Londra per ordine di quel re, Enrico VIII, da lui servito con onore e successo. Le loro sofferenze e il loro tragico destino, da me amorosamente indagati, mi hanno insegnato a vivere e per tante ragioni. Tuttavia le une e l’altro rimangono, pur nella loro altissima nobiltà, al di qua sia del combattimento (in greco: agonìa) di Gesù nel Getsemani, la notte tra il Giovedì e il Venerdì Santo, sia della sua morte sulla Croce.

Sono pochi i pensatori, ma anche teologi, che hanno varcato mentalmente il torrente Cèdron e che sono penetrati, sulle orme di Gesù, nel «giardino dei supplizi». Erasmo è di questi e lo ha fatto senza lasciare affatto sulla porta l’umanesimo e la retorica. Erasmo, infatti, ha scritto una bella e profonda meditazione, Della noia e dello spavento di Cristo. In essa l’amico John Colet si mostra scandalizzato dal momento di debolezza e d’abbandono di Cristo e lo vorrebbe eliminare dal Vangelo. Gli oppone l’esempio dei martiri, la loro alacritas, il loro gioioso bandire la paura. Forse che i discepoli sono più grandi del Maestro? Si impone, perciò, una delle due ipotesi: o il passo è interpolato, oppure bisogna reinterpretarlo, addolcirne i termini in funzione del nascosto eroismo di Cristo.

Erasmo, al contrario, difende l’autenticità dell’angoscia del Salvatore. La sua idea è che c’è più coraggio a vincere la paura che a non sentirla. Colet dichiara che l’orrore della morte non è adatto agli uomini forti; al che Erasmo replica: «La forza non consiste nel non sentire le cose dolorose, ma nel vincerle». Cristo ha avuto paura della morte vicina, ma l’ha accettata pienamente in obbedienza al Padre, per noi uomini e per la nostra salvezza. Lo scopo degli stoici è l’insensibilità, quell’essere impavidi di cui hanno offerto mirabili esempi. Ma non è questo l’atteggiamento di Cristo. Egli non è impassibile e non ricerca l’impassibilità; egli è sottomesso all’affettività umana e conosce le passioni naturali del corpo e dell’anima, escluso il peccato. Erasmo evoca la sublime serenità del primo martire, Stefano, e l’allegria, sulla soglia del supplizio, di Pietro, di Paolo, di Andrea, di Agata. Che contrasto con il Maestro, immerso nell’amarezza! Gli evangelisti, infatti, parlano solo di tristezza, disgusto, sudore di sangue. Cristo sopporta, non esulta affatto. «Il mio sentimento (affectus), fa dire Erasmo a Gesù, non è di andare alla morte con allegria (alacriter), ma di fremere d’orrore (exhorrescere)». Egli ha subito una morte che è sua e nello stesso tempo non è sua: «Egli portava la nostra paura, i nostri mali e non i suoi, così come ci ha portato i suoi beni e non i nostri». Cristo nell’ora suprema è del tutto esente dal trionfalismo che raggiunge talvolta l’entusiasmo dei martiri. Nella pazienza Gesù ha rinchiuso la forma suprema di amore che lo votava alla morte. Ma «se Gesù fosse stato felice nel Getsemani e sulla Croce, la follia dei Manichei si sarebbe diffusa ancora di più, e si sarebbe detto che Egli muoveva un corpo apparente. Invece egli ha incarnato nel dono supremo di sé il tipo della nostra condizione». Prendendo ancora una volta di contropiede l’avversario, Erasmo conclude magnificamente: «Egli conservava per i suoi martiri la gloria dell’allegria. È per essi che il capo ha voluto indebolirsi perché divenissero forti le membra: il Maestro è stato in grande prostrazione perché i discepoli avessero meno angoscia».

15 aprile 1993

LINEA RECTA BREVISSIMA. Coscienza e moda. Non posso e non voglio tagliare la mia coscienza perché si adegui alla moda di quest’anno. (Lilliam Hellman). Per fortuna di tutti è così. Lo spirito di dedizione è duro a morire nelle donne (Katherine Mansfield). Non è difficile. Qualsiasi cosa facciano le donne, devono essere almeno due volte più brave di un uomo per essere considerate brave quasi quanto lui. Per fortuna, questo non è difficile (Charlotte Whitton). Auto-ironia. Se non ridiamo di noi stessi, ridiamo molto poco (Sara Duncan). Qualità umane e bellezza. Nella donna la bellezza fa perdonare molti difetti; nell’uomo raddoppia le cattive qualità (Madeleine de Scudery). Il carattere di una donna. Il carattere di una donna non si palesa dove comincia l’amore, ma dove finisce (Rosa Luxemburg). Gli uomini uomini e le donne donne. Gli uomini possono essere uomini soltanto se le donne restano donne senza ambiguità (Deborah Cameron). I luoghi abitati dagli Dèi. I luoghi ove le donne sono onorate sono abitati dagli Dèi. La donna degna di rispetto è la luce della casa (Tradizione hindi). Se fossi donna… Se fossi donna mi ribellerei contro ogni pretesa che l’uomo si arrogasse di fare della donna il suo giocattolo. Sono riuscito a penetrare nel cuore di mia moglie quando mi sono deciso a trattarla diversamente da quanto avevo fatto fino ad allora: l’ho ristabilita in tutti i suoi diritti, rinunciando ai pretesi diritti che avevo su di lei in quanto marito (Mohandas Karamchand Gandhi).

UNITI IN ABRAMO TUTTI I CREDENTI NELL’UNICO DIO. Su un piccolo, conteso lembo di terra siro-palestinese tra la Mesopotamia e l’Egitto doveva sorgere una religione totalmente diversa: la religione di Israele. Dall’Ebraismo deriva il Cristianesimo, che doveva diventare la religione di Roma, dell’Europa e poi anche delle due Americhe. All’Ebraismo e al Cristianesimo doveva infine seguire, a partire dal 622 d.C. (inizio della Egira, cioè dell’era musulmana), l’Islam, l’ultima delle religioni mondiali.

Le tre religioni monoteistiche si richiamano ad Abramo, padre nella fede, che abbandona la sua terra idolatrica e si fa servo obbediente dell’unico Dio e suo annunciatore. Per Israele, Dio accreditò la risposta di Abramo alla sua chiamata «come giustizia» e in lui furono benedette «tutte le generazioni della terra». Abramo, tuttavia, è in senso proprio padre di Israele: con Sara, Abramo generò Isacco, padre di Esaù e Giacobbe, il quale, chiamato in seguito Israele, è considerato colui da cui ebbero origine le dodici tribù. Anche nel Corano, Abramo (in arabo Ibrahim) è figura dominante. Egli con la concubina egizia Agar generò Ismaele, il quale divenne il padre degli arabi. Abramo non è ebreo, ma padre di tutti i credenti, il «monoteista per eccellenza», il primo dei convertiti all’unico vero Dio, il primo altresì a praticare l’islàm, la sottomissione incondizionata alla volontà di Dio soprattutto allorché si dichiarò, in obbedienza al comando ricevuto, disposto a sacrificare il proprio figlio. Nel Nuovo Testamento, Abramo è citato ben settanta volte ed è celebrato il suo significato storico-salvifico, così come si riconosce la discendenza di Israele da Abramo. I due interpreti del ruolo di Abramo nella nuova visione religiosa sono Giovanni il Battista e l’apostolo Paolo. Il primo, secondo l’evangelista Matteo, rifiuta ogni sorta di superiorità ebraica («Dio può far sorgere figli di Abramo dalle stesse pietre»). Il secondo punta tutto sulla discendenza spirituale, interiore, da Abramo e nega che la discendenza fisica da lui sia condizione di salvezza: Abramo è il padre di tutti i credenti, non importa se circoncisi o incirconcisi.

Si può concludere che per le tre religioni monoteistiche Abramo rappresenta un punto di partenza ed un punto di riferimento comune. Per il Cristianesimo è ormai parte essenziale della sua autocomprensione «la coscienza del vincolo con cui il popolo del Nuovo Testamento è spiritualmente legato con la stirpe di Abramo» (Nostra aetate, 4); ma una specie di ecumene abramitica lega a Israele anche l’Islamismo. Insomma le tre religioni monoteistiche hanno in comune l’origine semitica, la fede nell’unico e medesimo Dio, l’etica del Decalogo, l’accettazione del Libro, o Sacra scrittura. È un’eredità di grandissima portata che oggi la nostra cultura riscopre anche se essa è ancora fuori dall’orizzonte di tanta parte dei credenti. All’origine del monoteismo sta dunque la grande affermazione dell’Esodo 20, 2-4: «Io sono il Signore Dio tuo… Non avere altri Dèi di fronte a me. Non ti farai idolo né immagine di Dio». Il monoteismo biblico, premessa e fondamento di quello cristiano e di quello musulmano, è rigoroso e profondo, ma è un dono custodito e approfondito solo affrontando lunghi conflitti e grazie all’opera dei profeti Elia ed Eliseo nel IX secolo a.C., Isaia e Osea nel secolo VIII, Geremia nel VII, fino al Deutero Isaia e ad Ezechiele nel secolo VI.

22 aprile 1993.

LINEA RECTA BREVISSIMA. Mettersi da parte. Ad opera fornita, a ciclo conchiuso, / ritrarsi è la norma del Cielo. Il dilemma dell’avido. Che più t’affligge: il perdere o l’acquistare? Questo è certo. Chi mette insieme troppo, troppo perde. (Lao Tzu) Che cosa producono i cristiani quando tradiscono Cristo. Lussurie, ingiurie, tradimenti e risse / tante piaghe non ha l’Apocalisse (Tommaso Campanella). Non tanto buona morte, quanto buona vita. Non chiedere tanto buona morte, quanto così buona vita che non abbia atto in cui mal ci colga la morte (Niccolò Tommaseo). Il dolore come sale. Dio, non negare il sale alla mia mensa, non negare il dolore alla mia vita (Giovanni Pascoli).

Saper vedere l’originalità dov’è. Quanto più si è intelligenti, tanto più accade di trovare degli uomini originali. La gente comune non trova alcuna differenza tra gli uomini. Il metodo migliore. Ci si persuade meglio, di solito, con le ragioni che abbiamo trovato da noi, che non quelle che si son presentate all’intelletto di altri. Accade troppo di frequente. Parla un quarto d’ora che ha già detto tutto, tanto è pieno del desiderio di parlare. (Blaise Pascal)

L’inatteso e il bello. Quel che non è leggermente difforme ha un’aria insensibile; ne consegue che l’irregolarità, cioè l’inatteso, a sorpresa, lo stupore sono l’elemento essenziale e la caratteristica della bellezza. Altri caratteri del bello. Il mistero, il rimpianto sono anch’essi caratteri del bello. (Charles Baudelaire)

18 APRILE ’48 – 18 APRILE ‘93. Ho fatto in tempo a vivere, e con intensa partecipazione, questi due appuntamenti del popolo italiano a distanza di quarantacinque anni. Allora, nel 1948, bisognava assolutamente garantire all’Italia la sua libertà politica e religiosa, il suo diritto di far parte dell’Europa liberal democratica e dell’Occidente. Ora, con la valanga di «sì» ai referendum contro la partitocrazia, l’Italia grida forte la sua volontà di cambiare la politica e le sue regole ab imis fundamentis. La premessa all’uscita di scena dei vecchi partiti non più redimibili e dei loro giochi ripetitivi, insulsi, rituali è stata posta con la scelta inequivocabile a favore del sistema elettorale maggioritario a un solo turno per il Senato. Ma non è che l’inizio.

Bisogna, innanzitutto rendere onore alla testardaggine eroica di quanti hanno percepito l’estrema gravità della crisi morale e politica del nostro Paese e hanno scelto di dar battaglia sulla proporzionale, prima fonte del sistema di corruzione e di impotenza della partitocrazia. Il risultato a cui si è pervenuti è la prova che si può cambiare senza far ricorso a Piazzale Loreto. La rivoluzione sarà pacifica se ai cittadini, dopo quindici anni di tradimenti della democrazia, sarà restituito il diritto dovere di pronunciarsi su tutte le grandi questioni. Un Paese non può vivere, infatti, se la sua classe politica, indecisa su tutto, è affetta da paralisi e da frazionismo endemico, se è incapace di progettare il futuro. La straripante affermazione dei «sì» è lì a dirci che c’è nel Paese la premessa perché sorga un nuovo patto sociale, un nuovo consenso sulle grandi questioni da affrontare e da risolvere. Se quel poco di buono che è sopravvissuto nei vecchi partiti ad una nomenklatura corrotta, e spesso criminale, avesse il coraggio di voltar pagina e di osare sul serio, di rompere gli ormeggi col passato e di accogliere nel profondo la spinta del rinnovamento che sale dal popolo italiano, ebbene allora la transizione al nuovo avverrebbe così come si conviene ad una nazione civile.

Sì, si può cambiare strada, ma a patto che gli attuali detentori del potere rinuncino per sempre a tentare scorciatoie ormai impraticabili e prendano subito le semplici inderogabili decisioni che la coscienza morale del Paese esige: abolizione dell’immunità parlamentare e del famigerato Tribunale dei ministri, riforma degli appalti, una nuova finanziaria insieme più severa e più equa per i ceti deboli, un Governo che abbia gente alla Ronchey, irraggiungibile da avvisi di garanzia. Che il 18 aprile ‘93 abbia sul nostro futuro prossimo lo stesso effetto trascinante del 18 aprile ‘48! Allora fu fondata la democrazia in Italia, ora si tratta di farla rinascere dalle macerie.

POETI D’OGGI. L’istante. L’istante ricompare / con lusinghe accese. / Su cavalli alati /cerca impazzito il nido / di altre primavere. La clessidra rovesciata. Cancello il tempo che trascorre / segreto e mi consuma. / La risposta sibila / tra i rami brinati dell’autunno. / Dovrò attraversare la morte. La quiete. Le barche dondolano / su culle d’acqua. / Gonfie / le vele giocano col vento / come gonne ampie di donna. Schiuma d’arcobaleni. S’inarca di schiuma / l’onda minacciosa / e sbava arcobaleni. (Italo Rossi, Il molo, Venezia 1991)

29 aprile 1993.

LINEA RECTA BREVISSIMA. La certezza del giusto. E ‘n sua volontade è nostra pace (Dante Alighieri, Paradiso 3, 85). Chi ci disvela la verità che portiamo dentro di noi. Quando un discorso in tono naturale dipinge una passione o un effetto, si ritrova in se stessi la verità di ciò che si ascolta, verità che non si sapeva che ci fosse in noi, per cui si è portati ad amare chi ce ne ha dato la rivelazione. Egli, infatti, non ci ha rivelato il suo bene, ma il nostro; e quindi questo beneficio lo rende a noi amabile. Di più: la comunanza di comprensione che abbiamo con lui inclina necessariamente il nostro cuore ad amarlo (Blaise Pascal).

Decidersi a cominciare. Opera lunga è solo quella che non si osa cominciare. Diventa un rimandare quel che si deve fare, si corre il pericolo di non poterlo fare mai. A non convertirsi subito, si corre il rischio d’essere dannati. Propositi. Fare il proprio dovere ogni giorno, e affidarsi per l’indomani a Dio. Preghiera: carità, saggezza e forza. Le mie umiliazioni sono state grazie di Dio. La facoltà di rispondere alle necessità di ogni minuto, l’esattezza, in una parola, deve trovare infallibilmente la sua ricompensa. (Charles Baudelaire)

NON PORRE INCIAMPI. La certezza radicale a cui sono pervenuto in anni di riflessione è che il Cristianesimo non ha nulla a che fare con ciò che è basso e meschino; sì che, quando gli si addebita non ingiustamente qualcosa di basso e meschino, la causa è da cercare in aggiunte indebite al nucleo centrale del suo messaggio, in conseguenze che erroneamente sono state tratte da esso, in cedimenti a una mentalità prevalente nell’una o nell’altra epoca (ad esempio, l’ideologia dell’alleanza organica fra trono e altare durante il periodo post napoleonico, tra 1815 e 1830 circa). Di qui un imperativo per coloro che nelle forme più diverse sono annunciatori della Parola: occorre non associare all’annuncio del Vangelo giudizi discutibili, interventi partigiani, scelte politiche che si vogliono imporre come verità e obbligo morale e che invece non discendono né dal Credo apostolico né dal Decalogo. L’uomo contemporaneo si sente ingannato e turlupinato quando avverte che si strumentalizza l’insegnamento di Gesù.

Mescolare alla Parola ciò che le è estraneo, non essenziale, o quanto entra addirittura in collisione con essa, significa, pertanto, creare gli ostacoli più gravi all’incontro tra Cristo e l’uomo contemporaneo. S’impone, dunque, una fedeltà rigorosa a Cristo ed una duplice corrispondente ripulsa: la ripulsa, in primo luogo, di tutto ciò che appare dettato da un calcolo di opportunità politica, o da quella penosa slealtà metodologica per cui si ritiene di dover difendere persino ciò ripugna all’onore cristiano; in secondo luogo, il rifiuto angusto di apprezzare quello che di buono c’è e ci viene proposto anche da chi appartiene ad altre famiglie spirituali. Praticare una siffatta linea di condotta significa porre pietre d’inciampo alla retta intelligenza del messaggio di salvezza, umiliare i cristiani migliori, rendere altresì impossibile il dialogo con gli uomini di buona volontà ovunque essi si trovino. Manzoni, il maggiore apologista del Cattolicesimo nel XIX secolo, ravvisava in quella stortura una delle cause più frequenti del disprezzo della religione in tanta parte della cultura e della società. Ascoltiamo la sua parola su di un punto così importante.

MANZONI LA PENSA COSÌ E HA RAGIONE. Quando si ode proporre una massima veramente piccola e falsa come derivata dalla religione prima di credere che essa ne venga, bisogna ricordarsi che serie di uomini grandi ha impiegato la contemplazione di tutta la vita a considerare e ad ammirare la religione di Cristo; e come dallo studio di essa ricavarono motivi per trovarla sempre più grande e ragionevole. Non già che l’autorità di essi ci debba portare a crederla tale senza conoscerla, ma deve farci diffidare di tutto ciò che la rappresenta come meschina e bassa, deve portarci ad esaminarla da noi come facevano essi. Se però la pietra d’inciampo posta in sulla via non iscusa colui che cadde perché poteva o schifarla o gettarla dal suo cammino, non si deve lasciare di osservare quanto gran male sia il porre pietre d’inciampo. Ora questo fanno, forse senza avvedersene, forse credendo invece far bene, molti che nello spirito di un secolo pretendono condannare, con argomenti religiosi, opinioni non solo innocenti, ma ragionevoli, ma generose, opinioni le opposte delle quali sono talvolta assurde. Dal che, mi sembra, che ai nostri giorni sia necessario guardarsi più che non sia stato mai, giacché non giova dissimularlo, il più comune rimprovero che si fa oggidì alla religione, si è che essa conduca a sentimenti bassi, volgari. Gli oppugnatori di essa parlano come se la filosofia mondana fosse salita ad una sfera di pensieri più elevata, più pura, più celeste che non quella a cui il Vangelo ha portata la mente umana. Quando questo inganno è più grande e più pericoloso, tanto più deve essere lo studio per non dare alcun pretesto ad alcuno di cadervi. (Osservazioni sulla morale cattolica, Seconda parte, 1855).

6 maggio 1993.

LINEA RECTA BREVISSIMA. Le cattive guide politiche e non. In vesta di pastor lupi rapaci (Dante Alighieri, Paradiso 27, 55). La madre di Cristo. Vergine Madre, figlia del tuo figlio, / umile e alta più che creatura, / termine fisso d’etterno consiglio, / tu se’ colei che l’umana natura / nobilitasti, sì che il suo Fattore / non disdegnò di farsi sua fattura (Paradiso 33, l-6). La Parola di cui nutrirci. Da’ predicanti ‘l Vangelio si tace (Paradiso 29, 96). Per mera brama di ben figurare. Per apparir ciascun s’ingegna e face (Paradiso 29, 94). Ci vuole carattere. Ma così salda voglia è troppo rada (Paradiso 4, 87). L’augurio per ognuno di noi, cari lettori, e per questo nostro Paese. Li occhi oramai verso la dritta strada (Paradiso 29, 128).

Non ridurre verità distinte a un processo deduttivo delle une dalle altre. La natura ha messo tutte le sue verità ciascuna in se stessa; la nostra arte le racchiude le une nelle altre. Ma ciò non è naturale: ognuna occupa il suo posto. Le false finestre dipinte su certe case e le false simmetrie del discorso. Quelli che fanno delle antitesi forzando le parole sono come quelli che fanno false finestre per la simmetria: la loro regola non è di parlare giusto, ma di comporre figure retoriche giuste. (Blaise Pascal)

La speranza. Potenza della speranza! Bisogna voler sognare e saper sognare. Vincere l’esitazione. Una serie di piccole volontà dà un grosso risultato: ogni regresso della volontà è una particella di sostanza perduta. Com’è prodiga, dunque, l’esitazione! E si giudichi dell’immensità dello sforzo finale necessario a riparare a tante perdite! Le sentinelle dell’anima. L’uomo che dica la sua preghiera, la sera, è un capitano che mette delle sentinelle. Può dormire. Godere dei ricordi non da solo. Finora dei miei ricordi non ho goduto che da solo; bisogna goderne in due. Fare delle gioie del cuore una passione. (Charles Baudelaire)

APRIRCI AI DONI DELLA RUSSIA CRISTIANA. Uno dei modi più schietti e autentici di essere europei ed ecumenici è per i cattolici accogliere i doni che vengono loro da altre confessioni cristiane. In ognuna delle Chiese separate nel mondo ortodosso, tra i protestanti e gli anglicani il fermento evangelico ha prodotto cose mirabili e originali sul piano del pensiero, della santità, del sentire e della concreta forma di esistenza. È venuta finalmente l’ora in cui i tesori di ogni confessione devono diventare patrimonio comune di tutte le altre: ne deriverà un immenso arricchimento per ognuno. Penso in questo momento in particolare al bene che a noi occidentali verrà se ci lasceremo afferrare dall’esperienza cristiana elaborata in un millennio di storia dai cristiani della Russia ortodossa.

Il mondo slavo, e in esso quello russo, cominciò ad aprirsi alla fede intorno al Mille, quando i problemi concernenti il depositum fidei erano stati già discussi e in gran parte definiti in sette concili ecumenici. Il tramite storico dell’evangelizzazione dei russi fu la Chiesa greca, la quale costituisce per i cristiani russi il punto di partenza e la tradizione antica. La spiritualità russa è dunque legata all’eredità di Costantinopoli, ed in particolare all’insegnamento della Patristica, ma sviluppa altresì caratteristiche originali e profonde, la cui conoscenza segnerà per la Chiesa universale uno straordinario approfondimento della visione cristiana della vita.

Nella liturgia e nel pensiero teologico dell’ortodossia si riflette la spiritualità di un popolo per il quale la fede è già qui, nella sofferenza e nella dolorosa esperienza del male, tenero presentimento del Regno, annuncio del Risorto, introduzione dei credenti alla Cena eterna, commossa adorazione dello Spirito Santo. Aspetto costitutivo della spiritualità russa è l’ininterrotto magistero del monachesimo e dei suoi luminosi starets, di cui il dostoevskiano Zòsima, de I fratelli Karamazov, è l’espressione più completa. La specificità del cristianesimo russo, passato attraverso prove terribili, dal giogo mongolo a quello del comunismo ateo, sta nell’aver posto in primo piano la libertà dello spirito portata nel mondo da Cristo, l’assolutezza della parola evangelica per cui è impossibile distinguere tra i precetti e i consigli, la poesia e la chiaroveggenza del cuore contro ogni astrattezza intellettualistica, il senso della bellezza e della grandiosità del culto divino.

REGIME NO, REGIME SÌ. «Caro Amato, la democrazia italiana non è stata un regime» (Franco Monaco, Avvenire, 25 aprile 1993). Sì, ma fino a quando non lo è diventata, con un’accelerazione progressiva negli ultimi tre lustri, nell’era De Mita-Craxi-Andreotti-Forlani. Altrimenti che bisogno ci sarebbe oggi di rifondare la democrazia nel nostro Paese e di ricorrere all’arma del referendum per costringere la classe politica a darsi nuove regole?

Il regime, caro Monaco, può anche provvisoriamente e in qualche caso mimetizzarsi, ma c’è e opera ogni giorno allo scoperto nel Parlamento, nelle commissioni, nei partiti, malgrado le secche sconfitte subite il 5 aprile 1992 e il 18 aprile 1993. Infatti, solo una classe politica come quella che abbiamo oggi nella sua maggioranza poteva irridere l’ansia di pulizia morale e il grido di civile protesta che attraversano il Paese, «assolvendo» Craxi e «incriminando» Di Pietro. Il 29 aprile 1993, giorno della «rivincita» dell’ancien régime, ha sancito il distacco fra questo Parlamento e il Paese reale. Le colpe sono certamente di molti, ma al centro del regime che non vuole cambiare sta il partito di maggioranza relativa, che ha concorso a un risultato che non è solo un errore imperdonabile, ma un tradimento, una provocazione, una vergogna.

13 maggio 1993.

LINEA RECTA BREVISSIMA. Ritrovare la strada. Com’uom che torna a la perduta strada (Dante Alighieri, Purgatorio 1, 119). Quando si lotta per ciò che è giusto e nobile. Con l’animo che vince ogni battaglia (Inferno 24, 53). È ora di voltar pagina, di mutare regole e atteggiamenti. A te conviene tenere altro viaggio (Inferno 1, 91). C’è anche un giudizio storico accanto al giudizio universale. Ormai puoi giudicar di quei cotali (Paradiso 6, 97).

Ci s’attendeva di vedere un autore e s’incontra un uomo. Quando si vede uno stile naturale, si è tutti stupiti affascinati, perché ci s’attendeva di vedere un autore e s’incontra un uomo. Al contrario, coloro che avendo un gusto sano credono di trovare in un libro un uomo, sono sorpresi di trovarvi un autore. È il rimprovero di Petronio: plus poetice quam humane locutus es. Gli spiriti universali e le etichette. Gli spiriti universali non vogliono saperne di insegne. (Blaise Pascal)

Calcolo a favore di Dio. Nulla esiste senza scopo. Dunque la mia esistenza ha uno scopo. Quale scopo? Lo ignoro. Dunque, non l’ho stabilito io; ma qualcuno più sapiente di me. Bisogna dunque pregare questo qualcuno d’illuminarmi. È il partito più saggio (Charles Baudelaire).

IL TESTO CHIAVE DI MANZONI SU MONDO MODERNO E COSCIENZA CRISTIANA. Come il cristiano può e deve rapportarsi alla cultura, alle proposte e alle stesse negazioni della sua epoca? Il tipo di risposta che si dà al gran problema è estremamente rivelatore perché delinea l’identikit stesso del cristiano e della forma della sua esistenza. Così fu per l’A Diogneto, nella prima metà del II secolo, quando un credente rispose a un pagano colto che gli chiedeva «in quale Dio i cristiani ripongono la loro fede» e da che cosa derivasse «il paradosso del cristiano nel mondo», un paradosso che associa mirabilmente partecipazione e distacco. All’inizio dell’età moderna, dopo l’Illuminismo, la Rivoluzione francese e Napoleone, e in pieno romanticismo, Manzoni si interrogò anch’egli sul rapporto tra Vangelo e storia, tra Chiesa e mondo laico, tra pensiero cristiano ed istanze del secolo. Il testo chiave in cui il Gran Lombardo espone il suo pensiero attesta nello stesso tempo sia l’universale apertura della sua mente, comandando la grata accoglienza ad ogni verità che i cristiani avessero dimenticata o tradita, sia la salvezza della sua fede in Cristo, il Logos eterno grazie al quale i cristiani sono chiamati a praticare l’arte di liberare le verità prigioniere di sistemi erronei per ricondurle alla loro divina sorgente. È una pagina memorabile in cui ci riconosciamo con tutta l’anima.

«I filosofi hanno dette verità utili ed importanti, scrive Manzoni; e sono stati male avvisati quelli che hanno voluto tutto confutare. Conveniva separare il vero dal falso; e se il vero era stato taciuto, conveniva confessarlo e subire l’umiliazione di averlo taciuto: non rigettare le verità per confutare. Quando il mondo ha riconosciuta una idea vera e magnanima, lungi dal contrastargliela, bisogna rivendicarla al Vangelo, mostrare che essa vi si trova, ricordargli che se avesse ascoltato il Vangelo, l’avrebbe riconosciuta dal giorno in cui esso fu promulgato. Poiché “tutto quel che è vero, buono, giusto, puro, degno di essere amato e onorato; quel che viene dalla virtù ed è degno di lode” (Paolo ai Filippesi IV, 8), tutto è in quel libro divino. Bisogna mostrare al mondo che anzi quello che la Religione può condannare in quelle idee è tutto ciò che non è abbastanza ragionevole, né abbastanza universale, né abbastanza disinteressato. Se il mondo vuol pur sempre rigettare la dottrina di Gesù Cristo, la rigetti come follia, ma non mai come bassezza. La follia che consiste nel disprezzare le cose temporali di cui gli uomini sono più bramosi, nel sacrificare l’utile al vero, nell’affrontare i dolori e gli spregi per esso, è la follia dei martiri e dei padri, è il patrimonio eterno della Chiesa, e nessun cristiano deve sofferir mai che nemmen per un momento il mondo possa vantarsi di avergliela rapita» (Osservazioni sulla morale cattolica, Seconda parte).

QUANDO I POETI PENSANO ALL’ALDILÀ. Chi scrive un verso / sa che un poeta morto / prega per lui (Margherita Guidacci, da Una breve misura). Amico mio che mi precedi, i cui passi / studio con ansia, come Keats pregando, / non sia sterile il segno in cui vaghiamo. / Oltre l’inquieto sabato d’attesa / guidami a una domenica d’immensa / gioia e immenso riposo. Ti vengo dietro (M. Guidacci, da Poesie per i poeti).

20 maggio 1993.

LINEA RECTA BREVISSIMA. Le preoccupazioni che ci immiseriscono. O insensata cura de’ mortali (Dante Alighieri, Paradiso 11, 1). La cieca cupidigia che v’ammalia (Paradiso 30, 139). La meta agognata. In loco aperto, luminoso e alto (Inferno 4, 116). La falsificazione del bene. Immagini di ben seguendo false (Purgatorio 30, 131).

Quando la specializzazione diventa univisualità. È un bravo matematico si dirà; ma io non so che farmene della matematica. Mi prenderebbe per una proposizione. La sola qualità assolutamente necessaria. Bisogna che non si possa dire di uno né «è matematico», né «è predicatore», né «è eloquente», ma «è uomo dabbene». Questa qualità universale è la sola che mi piaccia. Delle altre qualità di una persona io vorrei che non ci si accorgesse se non per combinazione e quando di essa occorre farne uso. Ad esempio, vorrei che non si pensasse «parla bene», se non quando si tratta di parlar bene, ma che allora ci si dovesse pensare. (Blaise Pascal)

Il progresso vero è conquista personale. La fede nel progresso è una dottrina da pigri… È l’individuo che, per adempiere il suo compito, punta tutto sul prossimo. Non ci può essere progresso vero, cioè morale, che nell’individuo e per opera dell’individuo stesso. Ma il mondo è fatto di gente che non può pensare se non in comune, in frotta (Charles Baudelaire).

CI SONO DUE MODI DI FARE POLITICA. Ci sono due modi di agire in politica, poiché due ne sono i motivi. L’azione degli uni mira al successo, e con questo intendo il successo storico che, nello stesso tempo in cui consacra la vittoria segna la fine del pericolo, l’inizio del benessere, della sicurezza e della tranquillità, e in più la gloria per coloro che l’apprezzano. L’azione degli altri mira alla testimonianza. Non dico che anche questi non desiderino in certo senso il successo; ma essi sanno che la loro sarà una vittoria continuamente contesa e continuamente rimessa in causa; e, anche se perderanno sempre più terreno, bisognerà che tengano duro con le loro forze, per quanto indebolite, per garantire nell’umano una certa presenza di ciò che è eterno. Essi non sono assillati dalla paura di riuscire o di soccombere: anche se sconfitti, saranno sempre padroni della loro opera. Inoltre sanno che, verificandosi il successo quale lo immaginano gli altri, il carro di trionfo non sarebbe più guidato dalla loro causa, bensì da un qualche usurpatore.

I primi si affannano dietro le loro impazienze e le loro miopi tattiche. I secondi confidano nel tempo e nella loro fede.

I primi hanno paura della solitudine e dell’oscurità, giudicando il successo dal numero. I secondi temono le diffusioni troppo rapide, che non possono essere organiche, né solide, né feconde e che li farebbero dubitare delle qualità dei loro mezzi.

I primi ricercano quelli che, con parola così giusta, sono stati definiti «mezzi ricchi», quelli che uniscono al rendimento quantitativo la felicità. I secondi amano i «mezzi poveri», vedendo in essi quasi una garanzia spirituale e nello stesso tempo un tonico dello sforzo, perché richiedono ad ognuno il sacrificio, senza il quale non esiste vera dedizione.

I primi sono perentori e chiassosi. I secondi modesti.

I primi sono padroni della loro causa. I secondi sono i «testimoni» di qualcosa che li supera.

Per dire tutto, i primi si preoccupano più di fare che di essere; i secondi si sforzano di essere per fare, poiché la loro preoccupazione è che si faccia, con o senza di loro.

CRAXI E L’«INNO DEI LAVORATORI». L’imprecazione contro i parassiti, gli sfruttatori e quanti se la godono alle spalle di chi suda il suo pane suonava forte nell’Inno dei lavoratori: «Maledetto chi gavazza / nell’ebbrezza e nei festini…». L’inno era stato scritto da Filippo Turati, il grande apostolo del socialismo italiano e fondatore del partito socialista. Ebbene, nessuno avrebbe pensato che quelle parole potessero un giorno essere indirizzate agli stessi successori di Turati, ai Craxi, ai De Michelis e a quanti con loro se la sono spassata per quasi tre lustri «nell’ebbrezza e nei festini», avendo una disponibilità pressoché illimitata di quel danaro che drenavano sistematicamente a tutti, enti di Stato e imprese private. Lo drenavano anche a quei popoli del Terzo Mondo per cui sollecitavano con grande zelo l’invio di aiuti. E dire che sui problemi del sottosviluppo Craxi aveva steso, per incarico dell’Onu, un rapporto pregevole da ogni punto di vista! Craxi era indubbiamente, diciamolo subito, uno dei pochi leader la cui politica andava nella direzione giusta; ma ha rovinato la sua stessa opera per aver praticato la tattica sbagliata, oltre che illegale, dell’immoralismo.

27 maggio 1993.

LINEA RECTA BREVISSIMA. L’inesauribile sete. Più v’è da bene amare, e più vi s’ama (Dante Alighieri, Purgatorio 15, 74). L’uomo è colui. Che vede e vuol dirittamente e ama (Paradiso 17, 105). La virtù dei padri non si eredita. Rade volte risurge per li rami / l’umana probitate (Purgatorio 7, 121-122). Dio, sorgente perenne di felicità. Poi si tornò all’etterna fontana (Paradiso 31, 93). La speranza vera nasce da uno spirito retto. E la speranza di costor non falla, / se ben si guarda con la mente sana (Purgatorio 6, 35-36).

Meglio usare il plurale. Certi autori, parlando delle loro opere dicono: ‘Il mio libro, il mio commento, la mia storia, ecc.’ Farebbero meglio a dire: ‘Il nostro libro, il nostro commento, la nostra storia, ecc.’, visto che di solito vi è più della farina d’altri che della loro. Consiglio prezioso. Volete che si pensi bene di voi? Non parlate di voi. Quando la battuta è rivelatrice di un defìcit di umanità. Dicitore di motti di spirito, cattivo carattere. (Blaise Pascal)

Non c’è la terza via. Ogni uomo, in ogni momento, ha in se due postulazioni simultanee: una verso Dio, l’altra verso Satana. Abolizione interessata. Gli abolitori d’anime (materialisti) sono necessariamente abolitori d’inferno; sono, di certo, interessati. Il diavolo e gli imbecilli. Non bisogna credere che il Diavolo tenti solo gli uomini di genio. Esso disprezza senza dubbio gli imbecilli, ma non ne disdegna l’aiuto. Al contrario, fonda grandi speranze su loro. (Charles Baudelaire)

UN INEDITO ILLUMINANTE: MARITAIN SU RELIGIONE E POLITICA. Vent’anni fa moriva Jacques Maritain, una delle intelligenze più geniali del nostro secolo e un grande cristiano. Metafisico di razza, filosofo dell’arte e della politica, è stato per la parte migliore della cultura cattolica un esempio di coraggio teoretico, di saggezza pratica e di fede. Lo ricordo ai cari lettori con una primizia, riportando cioè i passi più significativi di un suo inedito su Religione e politica. L’inedito, scritto nel 1940, apparirà in questi giorni in Una certa idea di Europa, una volume curato da Antonio Pavan per le edizioni Marietti.

«Uno dei principali conflitti, per lo più trascurati, che si trova in fondo alle sofferenze del nostro tempo, è il conflitto che presso molti credenti oppone due concezioni differenti della religione: una concezione politica ed una concezione evangelica”. Riguardo alla religione stessa, cioè in vista dei fini spirituali che consistono nel bene delle anime ed appartengono al regno di Dio, la prima concezione accorda l’importanza principale, dal punto di vista pratico (non dico certamente nella considerazione dei principi), sia alla struttura temporale della religione sia ai mezzi d’ordine politico. La seconda concezione non nega l’importanza di questa struttura né la necessità di tenere conto di questi mezzi; ma sia sul piano pratico che sul piano teorico dà importanza principale, nell’ordine proprio della religione, ai mezzi di ordine evangelico, e alle energie vitali e nascoste della religione, alla “Grazia dello Spirito Santo”, nella quale consiste, come dice S. Tommaso d’Aquino, “tutta la virtù delle legge nuova”.

Il carattere insidioso e paradossale di questo conflitto deriva dal fatto che interessa la ragion pratica ed il senso concreto della vita. Da ciò deriva che tra uomini che professano con eguale sincerità la stessa fede, si può riscontrare talvolta una profonda scissione pratica. La nostra speranza è che la concezione evangelica della religione, purificata essa stessa al fuoco della prova, prevarrà. Lo spirituale sarà liberato da diversi tipi di connessione con le strutture temporali corrotte, ciò di cui soffre oggi, allorché queste stesse strutture si saranno dissolte. Più che mai i cristiani dovranno impegnarsi nelle fatiche e nei dolori del mondo, ma per portare in essi la fiamma e la vita di una fede veramente libera dal mondo.

Infine si può pensare che le relazioni di fatto tra le questioni religiose e quelle politiche, saranno condotte a prendere forme nuove. Una politica che divenisse cosciente dei suoi legami intrinseci con l’etica riprenderebbe contatto attraverso di essa con una ispirazione vitale di ordine religioso, come l’ispirazione di cui portano l’impronta i testi dei primi presidenti degli Stati Uniti. Per un fenomeno parallelo, la religione in uno Stato del mondo in cui la distinzione tra le cose che sono di Cesare e le cose che sono di Dio fosse più chiara, potrebbe affrancarsi da certe modalità d’azione propriamente politiche che ha dovuto spesso assumere, in maniera secondaria e a margine del suo ministero proprio, per assicurare la sua libertà nel mondo o per venire in suo aiuto».

3 giugno 1993.

LINEA RECTA BREVISSIMA. Alla base di tanti nostri guai. Il problema dell’Italia non è di non avere avuto la Riforma protestante, ma piuttosto quello della separazione / opposizione tra coscienza civile e coscienza religiosa (Rocco Buttiglione). Epoca di fede o di malafede? La nostra non è un’epoca di fede, ma neppure di incredulità. E un’epoca di malafede, cioè di credenze mantenute a forza, in opposizione ad altre e, soprattutto, in mancanza di altre genuine (Nicola Chiaromonte). Discorso di Arezzo, 24 maggio 1993. Noi non vogliamo appropriarci di un’autorità politica, di un potere politico, ma vogliamo solamente servire i popoli nel nome della sapienza divina che si è rivelata e ha parlato a noi con parole semplici. Al di fuori di questo la Chiesa non ha altro compito, non ha altra missione che quella della evangelizzazione. Ma questa missione dà forza anche agli altri, come ha detto il presidente Pertini (Giovanni Paolo II). E se fosse l’ultimo? Fa’ conto che ogni giorno sia l’ultimo che splende per te (Orazio). Il Grande libro ancora inesplorato. Il rispetto dei cattolici per la Sacra Scrittura è senza limiti; esso si manifesta soprattutto con lo starne lontano (Pau1 Claudel).

Le domande dei cristiani del Terzo Millennio. Il futuro ci obbligherà a proseguire il cammino con i bagagli ridotti al minimo. È indispensabile perciò rispondere a domande come queste: che cos’è essenziale e che cos’è accessorio? Che cosa merita una priorità assoluta? In una parola: come ricominciare? Non basta vincere. Eschilo diceva: La giustizia abbandona le tende dei vincitori. Ma lo fa anche la concordia. (Levi Appulo)

NELLA POLITICA C’È PURE UNA MANIERA D’INTERVENTO TIPICAMENTE RELIGIOSA. «Tutte le encicliche che da mezzo secolo i Papi hanno pubblicato sulle questioni temporali, in particolare le condanne di Pio XI contro le grandi eresie sociali e politiche contemporanee, mostrano che vi è una maniera per la religione di intervenire negli affari del mondo e di illuminare e guidare le realtà temporali: un modo questa volta tipicamente religioso, con dei mezzi tipicamente spirituali e religiosi. Quando un capo religioso dice la verità sui grandi problemi temporali che dividono gli uomini, sui grandi movimenti sociali e politici, sul tale uomo o sul tale avvenimento, su tal atto compiuto da tale governante, che forse altri non oserebbero dire, e quando egli illumina, conferma, guida con autorità le coscienze a questo proposito, i mezzi che egli impiega non sono ad alcun titolo politici, sono tutti contenuti nella sfera primaria e del tutto spirituale del compito religioso, e tuttavia egli interviene nella maniera più effettiva ed efficace nelle cose temporali. Dopo tutto, ciò che gli uomini domandano alla religione è di dire la verità. C’è stato un tempo in cui i Papi, sovrani dello Stato pontificio, facevano la guerra contro altri Stati. Lo sviluppo del mondo oggi li ha liberati da questo tipo di preoccupazione. Forse un giorno li libererà dal fardello atroce che un uomo di Dio deve portare quando deve, col Vangelo nel cuore, condurre il gioco complesso di una strategia politica contro capi di Stato che troppo spesso non hanno nel loro cuore che orgoglio e interesse. In tali condizioni storiche, i capi religiosi non cesseranno di occuparsi delle cose politiche, ma i modi con cui essi se ne occuperanno non saranno che i mezzi religiosi stessi, i mezzi della parola di Dio, di cui mai alcun periodo della civilizzazione potrà sottrarre l’uso ai ministri di Dio».

Il brano qui riportato è la parte conclusiva dell’inedito di Jacques Maritain su Religione e politica. L’inedito è del 1940, ma le indicazioni del filosofo francese, maestro venerato anche da Paolo VI, sono quanto mai valide e attuali oggi, a trent’anni dal Concilio Vaticano II.

UNA LEZIONE DI STILE. A volte episodi in apparenza «piccoli» sono segnali preziosi, rappresentano vere e proprie lezioni di stile. Voglio citarne uno, mi è suggerito da un’intervista rilasciata ad un giornalista del Tg3 dal professore Paolo Barile, nuovo ministro per i rapporti con il Parlamento. Alla domanda: Un Governo a termine sarebbe incostituzionale?, il professore, uno dei maggiori costituzionalisti del nostro Paese, risponde: Non lo so, dovrei studiare.

Era solo un modo per evitare la domanda? Può darsi. Eppure è importante che in questi tempi, in cui tutti si improvvisano costituzionalisti, in cui l’art. 92 della Costituzione è stato cucinato in tutte le salse, un costituzionalista vero risponda: Devo studiare. Bisogna studiare prima di parlare, soprattutto quando chi apre bocca ha la battuta facile, giornalisticamente efficace. C’è solo da sperare che questo esercizio di pudore, da parte di un illustre studioso chiamato a far parte del Governo, faccia scuola.

10 giugno 1993.

LINEA RECTA BREVISSIMA. Auguri per l’autoformazione. Vinca tua guardia i movimenti umani (Dante Alighieri, Paradiso 33, 37). Dedica a quanti hanno portato il nostro Paese alla rovina. Quivi si piangon li spietati danni (Inferno 12, 106). Con tristo annuncio di futuro danno (Inferno 13, 12). E non le scusa non veder lo danno (Paradiso 29, 108). Togliere il troppo e il vano dalle leggi. D’entro le leggi trassi il troppo e l’ vano (Paradiso 6, 12). Gli esseri dotati di ragione ravvisano l’impronta del Creatore nell’universo. Le cose tutte quante / hanno ordine tra loro, e questo è forma / che l’universo a Dio fa somigliante. / Qui veggion l’alte creature l’orma / de l’etterno valore, il quale è fine / al quale è fatta la toccata norma. / Ne l’ordine ch’io dico sono accline (= inclinate) / tutte nature, per diverse sorti, / più al Principio loro e men vicine; / onde si muovono a diversi porti / per lo gran mar de l’essere, e ciascuna / con istinto a lei dato che la porti (Paradiso 1, 103-114).

Il dire sciocchezze. Il dire sciocchezze per caso e per debolezza è un male comune; ma quel che non è sopportabile è il dirle con intenzione. Conoscere se stessi. Bisogna conoscere se stessi: quand’anche ciò non servisse a trovare la verità, serve almeno a regolare la propria vita, e non v’è niente di più giusto. Primato della morale. La scienza delle cose esteriori non mi consolerà dell’ignoranza della morale, nei momenti di afflizione; ma la scienza dei costumi sempre mi consolerà dell’ignoranza delle scienze delle cose esteriori. (Blaise Pascal)

QUELL’INDIMENTICABILE 3 GIUGNO 1963, ORE 19,49. Trent’anni fa, dunque. Insegnavo a Belluno. Viene a farmi visita al mio alloggio un cugino, capitano dei carabinieri. Nel bar a pianterreno un televisore trasmette in diretta da San Pietro, in Roma, la Messa a cui assistono centomila fedeli che accompagnano con la loro preghiera il transito del Papa Buono al Padre. E quanti milioni si aggiungono ai centomila attraverso la televisione? Ed ecco lo speaker della radio vaticana comunica la notizia: «Con animo profondamente commosso diamo il seguente annuncio: Giovanni XXIII è morto. Il Papa della bontà è spirato religiosamente e serenamente, dopo aver ricevuto i sacramenti di Santa Romana Chiesa, alle ore 19,49». Il capitano, laicista, si irrigidì sull’attenti; io spontaneamente mi inginocchiai. Tutti e due, però, piangevamo in silenzio. Ci sentivamo partecipi di un evento che aveva dimensioni mondiali. Ahimè, com’è stonato disputare sul carattere conservatore o progressista del papato, breve ed intenso, di quel mirabile vecchio, a cui si addicono solo categorie religiose! Due soprattutto: la santità e la profezia. Ma anche l’umiltà e il coraggio, due doti umanissime assai rare.

IL SEGRETO DEL PAPA RONCALLI. Quale fu il segreto di quel prete contadino che, giunto alla Cattedra di Pietro in età avanzata, portò la Chiesa ad «aggiornarsi», com’egli amava ripetere, lanciandola nella più ardita avventura, quella del confronto con l’uomo contemporaneo, attraverso il Concilio Vaticano II? Loris Capovilla, il fedele segretario di Giovanni XXIII, risponde in modo molto semplice: Angelo Giuseppe Roncalli era prete dalla mai smentita coerenza di pensiero e azione. Un prete all’antica. Un prete, continua Loris Capovilla, che recitava il suo breviario, lasciando trasparire sul volto l’intima gioia suscitata in lui dalla lettura degli inni, dei salmi, dei brani biblici e patristici che formano il poema della Liturgia delle Ore; che celebrava la Messa con indicibile trasporto, da lasciar capire che ci viveva dentro, che la sua Messa era la sua vita. Un prete che si esaminava quotidianamente con rigore e si confessava ogni settimana, perché aveva netta la coscienza delle colpe personali e comunitarie. Un prete amante degli archivi e delle biblioteche, conoscitore dei classici greci e latini, dell’archeologia e delle arti belle, intenditore di musica sinfonica e lirica, capace di sostenere il confronto con i dotti e gli eruditi del suo tempo. Parlare ai piccoli, accostare gli ammalati e gli anziani, accogliere a festa gli ospiti, spezzare il pane in fraternità costituivano i momenti più belli della sua innata ed educata inclinazione a comunicare con chiunque e a effondere la ricchezza della sua squisita sensibilità sacerdotale.

Perché Giovanni XXIII venne accolto dai poveri e dai semplici? Perché i giovani ne piansero la morte? La risposta è nella presentazione che fece di se stesso il 4 novembre 1958, allorquando, riferendosi alla sua elezione, compendiò il suo curriculum umano e sacerdotale con biblica concisione: Bisogna lasciarsi portare dal Padre e portare il Padre ai propri simili.

17 giugno 1993.

LINEA RECTA BREVISSIMA. Il tocco della poesia. Nessuna descrizione della realtà potrà essere mai completa. Ma una descrizione non poetica della realtà è sempre incompleta (Levi Appulo). I passeri stamane. I passeri stamane / hanno avvolto il mio risveglio / nel loro gomitolo di canto. / Poi sono volati a tessere la lode / con i colori della campagna, / consegnandomi l’intonazione / per filare cordicelle di preghiere (Pio Vigo). Il valore dì ogni giorno. Ogni mattina è un dono che riceviamo dalle mani di Dio. Una giornata è un capolavoro che ci è chiesto di vivere. Noi la guardiano come una pagina d’agenda, segnata da una cifra e da un mese. La trattiamo alla leggera come un foglio di carta. Eppure, se potessimo vedere questo giorno nascere dal fondo dei secoli, comprenderemmo il valore di un solo giorno, umano (Madeleine Delbrêl).

Né per me, né per gli altri. Gettar la vita, / solo così per nulla, / è questo che non voglio. Niente di nuovo, ma tutto nuovo. Tutto è già stato, qui sulla terra, / non vi è nulla di nuovo, / ma guai agli amanti / che non sanno scoprire in ogni bacio / un fiore nuovo. (Jaroslav Seifert)

VIDEOGAME ELETTORALE. 1. L’incosciente. Leader politico per investitura paterna fin dall’adolescenza e in una città come Milano, Bobo Craxi, dinanzi all’azzeramento del Psi nella metropoli lombarda in cui quel partito il 7 giugno è passato dal 20 a 2%, ha dichiarato che senza papà Bettino e senza lo zio Paolo Pillitteri era inevitabile un risultato del genere. L’attaccamento alla «famiglia» è fuori discussione, ma appare a dir poco stupefacente che un figlio d’arte come lui non sia neppure sfiorato dal dubbio che siano stati proprio quei due signori a generare nei militanti e negli elettori socialisti di Milano disgusto, vergogna, crisi di rigetto. 2. La scomparsa del 40% dei voti a Milano. 7 giugno 1993, Raidue, poco dopo le 22. Il linguaggio delle cifre estrapolate col metodo exit-poll è fin troppo chiaro. Uno dei commentatori televisivi, Arturo Gismondi, è smarrito e dice: È lì, a Milano, il 40% dei voti per i partiti di Governo, ma non si riesce più a individuarlo. No, signor Gismondi, occorre dire: Era lì perché se n’è andato. È stato costretto a scelte alternative, fors’anche non del tutto convincenti, pur di rompere con i partiti che erano e sono al centro di un sistema di corruzione gigantesco e capillare, quello fattoci conoscere da Di Pietro e dai suoi colleghi.

24 giugno 1993.

LINEA RECTA BREVISSIMA. I signori delle ricchezze male acquistate. La gente nova e’ i sùbiti guadagni (Dante Alighieri, Inferno 16, 73). Perché non sei un vero uomo. Perché ardire e franchezza non hai (Inferno 2, 123). L’atroce mescolanza. Tra tirannia si vive e stato franco (Inferno 27, 54). Non basta un felice inizio a far durare nel tempo un’opera bene iniziata. La carne d’i mortali è tanto blanda, / che giù non basta buon cominciamento / dal nascer della quercia al far la ghianda (Paradiso 22, 85-87). Cogliere lo spirito dietro la lettera. O voi ch’avete li ‘ntelletti sani, / mirate la dottrina che s’asconde / sotto il velame li versi strani (Inferno 9, 61-63).

Il piacere e il pensiero della salvezza. Il gusto del piacere ci lega al presente. Il pensiero della nostra salvezza ci sospende all’avvenire. L’amore. Che cos’è l’amore? Il bisogno di uscir da sé. Lo spettacolo del mare. Perché lo spettacolo del mare è così infinitamente ed eternamente gradito? Perché il mare offre a un tempo l’idea dell’immensità e del movimento. Sei o sette leghe rappresentano per l’uomo il raggio dell’infinito. Ecco un infinito diminutivo. Ma che importa, se basta a suggerire l’idea dell’infinito totale? La vera civiltà. Teoria della vera civiltà. Non sta nel gas, né nel vapore, né nei tavolini spiritici. Sta nella diminuzione dei vestigi del peccato originale. (Charles Baudelaire)

LA SCHIAVITÙ NEI CONFRONTI DI SE STESSI. L’ultima verità sulla schiavitù dell’uomo è quella della sua schiavitù nei confronti di se stesso. L’uomo si immagina sempre di essere schiavo di ciò che si trova fuori di lui, di ciò che gli è esterno, ma la fonte della sua schiavitù è interiore. La lotta tra la libertà e la schiavitù si svolge nel mondo esterno, oggettivato, esteriorizzato; ma dal punto di vista esistenziale, si tratta di una lotta che è prima di tutto interiore, spirituale. È dunque nell’universo interiore alla persona che si svolge la lotta tra la libertà e la schiavitù, ed è proprio questa lotta ad essere proiettata nel mondo esteriore. La schiavitù dell’uomo, pertanto, non consiste solamente nel suo asservimento ad una forza esteriore; c’è anche una causa più profonda: il suo consenso alla schiavitù, il suo consenso all’accettazione della forza che lo asservisce. È la «coscienza», dunque, che determina la realtà, ed e solamente in seguito a un processo successivo che la coscienza diventa abitualmente schiava. Una società di schiavi ha la sua origine nella schiavitù interna dell’uomo. L’uomo vive sotto l’influsso di un’illusione che è talmente forte che si presenta come se fosse una coscienza normale. Nella coscienza ordinaria questa illusione fa nascere la convinzione che si sia schiavi di una forza esteriore, mentre, in realtà, si è schiavi di se stessi. Si tratta di un’illusione della coscienza del tutto differente rispetto a quella evidenziata da Marx e da Freud. L’uomo si crede asservito al «non-io» mentre, in realtà, è schiavo del suo proprio «io». A torto, però, si partirebbe da questo fatto per metterlo alla base di una filosofia sociale secondo la quale l’uomo dovrebbe rassegnarsi alla schiavitù esteriore, accettarla e cercare unicamente la sua liberazione interiore. Sarebbe una scappatoia, una forma raffinata di auto-inganno, non la virile accettazione di se stessi e della situazione data per realizzare in essa e nel modo più autentico la propria umanità!

QUELLO CHE CI CONSUMA. Siamo consumati dalla grande fatica del vivere; dalla resistenza che facciamo alla pressione a consumare; dal tentativo di mantenere, di riparare, di far vivere noi e le nostre cose con il dispendio minimo di energia e di risorse. Siamo consumati dalle aspettative, dalle speranze e dalle attese del nuovo; dalla ricerca di trovare il modo di guardare in faccia le persone, di scoprire il buono e il bello che sappiamo che c’è, ma si nasconde. Siamo consumati dal poco vero comunicare, che resiste ai media più raffinati; dal non voler accettare l’inganno; dal tener viva la memoria, i ricordi, la fedeltà, che sono continuamente contraddetti. Siamo consumati dall’amore per le cose, per il più modesto lavoro ben fatto; dal tentativo di cogliere, attraverso le necessità quotidiane, l’unicum necessarium. Siamo consumati dall’attesa di «nuovi cieli e nuova terra» che cerchiamo dietro l’angolo, e sono molto più in là… Consumati dal voler tradurre il caos in cosmo, in una crescente fatica e con deludente risultato; consumati dal tendere lo sguardo verso il compimento, che sembra allontanarsi e sentiamo incombere. In questo consumo di noi stessi sprigioniamo energia, siamo irreducibili. Siamo forse come «il roveto che ardeva ma non si consumava». Mosé, che aveva allora ottant’anni, incuriosito si alzò per andare a vedere che cosa succedeva. «Succede l’impossibile». (Da un testo di Lina Nicoletti, riportato in Socialtrend, aprile 1993).

La rubrica “Detti e contraddetti” è stata pubblicata sul Giornale di Brescia con cadenza settimanale dal 5 gennaio 1988 al 25 gennaio 2007.