Detti e Contraddetti 1997 – 2° semestre

DETTI E CONTRADDETTI 1997 – SECONDO SEMESTRE

3 luglio 1997.

LINEA RECTA BREVISSIMA. L’omaggio che un uomo libero fa della propria libertà. Solo un uomo libero è capace di servire. Il servizio è per sua natura un atto volontario, l’omaggio che un uomo libero fa della propria libertà a chi gli piace, a ciò che egli giudica al di sopra di se stesso, a ciò che egli ama. Il non serviam non è un rifiuto di servire, ma di amare (Georges Bernanos).

La sorgente vera. I grandi pensieri vengono dal cuore. Rifarsi degni della libertà. La libertà è cosa divina, e gli dei la ritolgono talvolta agli uomini eterni fanciulli e, rigidi alle loro suppliche, non la restituiscono se non se ne siano rifatti degni. (Benedetto Croce)

L’alternativa. A noi non resta che questa alternativa: o progredire sempre nel bene, oppure affondare sempre più nel male; impossibile rimanere stazionari (Dal Testamento di Franz Jaegerstaetter, contadino cattolico austriaco, obiettore di coscienza contro la guerra nazista, decapitato). Il silenzio e la politica. Una politica, che è povera di silenzi, è ricca di parole stupide e menzognere (Levi Appulo).

LE DOTI NECESSARIE PER DARSI ALLA POLITICA.

«1. Dovremmo innanzitutto esaminare noi stessi, poi i compiti che vorremmo assumerci, infine le persone con le quali e per le quali lavoreremo. 2. Dobbiamo subito valutare noi stessi, perché di solito crediamo di potere più di quanto possiamo: così uno fallisce perché si fida troppo della sua abilità oratoria, un altro pretende troppo dal proprio patrimonio, un altro ancora sottopone il suo fisico debole a un lavoro troppo duro. 3. Per alcuni è la timidezza a renderli inadatti alla vita pubblica, che invece richiede risolutezza; altri hanno un carattere assai suscettibile, che mal si addice alla vita di corte. Alcuni non sanno dominare l’ira e, se un qualsiasi motivo li fa indignare, si lasciano andare a discorsi temerari; vi sono poi quelli che non sanno tenere a freno la loro mordacità e astenersi da battute compromettenti. Per tutti costoro è preferibile una vita ritirata a una piena d’impegni. Chi ha un’indole aggressiva e impaziente eviti di concederle una libertà che potrà nuocergli. 4.Devi poi considerare se la tua natura sia più incline agli affari, oppure a un genere di vita tranquillo e alla meditazione, in modo da orientarti dove ti portano le tue tendenze. Isocrate allontanò a viva forza Eforo dallo studio dell’eloquenza, considerandolo più adatto a scrivere opere storiche. Infatti le vocazioni forzate riescono male ed è vana fatica andare contro la propria natura. 5.Inoltre occorre valutare i compiti che vorremmo assumerci e confrontare le nostre forze con ciò che stiamo per tentare. Chi si accinge a un’impresa deve disporre di una forza superiore a quella richiesta dall’impresa stessa; è inevitabile che i pesi sproporzionati schiaccino chi li porta. 6.Certe attività di per sé non sono particolarmente onerose, ma poi finiscono col richiedere molto impegno; ebbene, anche queste vanno evitate perché da esse ci vengono nuovi e molteplici fastidi. E neppure si devono intraprendere imprese da cui non ci si possa più ritirare liberamente. Dedichiamoci piuttosto a compiti che possiamo portare a termine, o almeno sperare con fondati motivi di farlo, e tralasciamo gli altri che diventano tanto più grandi quanto più tu ci lavori attorno, né terminano là dove tu avevi stabilito. 7.È necessario anche scegliere bene le persone e capire se vale la pena spendere per loro una parte della nostra vita, e se si rendono conto che sacrifichiamo loro un po’ del nostro tempo; taluni, infatti, prendono addirittura per dovuti i nostri servizi»,

Sono riflessioni, e potremmo anche dire consigli, che ci vengono da Lucio Anneo Seneca (1 a.C. -65 d.C.). Sono tratti dal dialogo La tranquillità dell’animo, 6, 1 – 7. Ne mandiamo una copia agli abitanti di Palazzo Madama e di Montecitorio?

L’ANGOLO DELLA PREGHIERA. Preghiera della sera. Come il giorno ha la sua sera, / così la vita. / Sera della vita è la vecchiaia, / eccola: mi ha sorpreso, / rendila piena della tua luce. / Non allontanarti nel tempo / della mia vecchiaia, Signore! / Non lasciarmi / quando la forza mi tradisce: / resta il mio «tu» / anche se i capelli imbiancano. / Resta con me, Signore, / ora che scende il crepuscolo / e la mia vita volge al declino. / La tua forza si compia / nella mia debolezza (Lancelot Andrewes, 1555 – 1626).

10 luglio 1997.

LINEA RECTA BREVISSIMA. Uno, dieci, cento anni di prosperità. Se vuoi un anno di prosperità, fai crescere il grano, se vuoi dieci anni di prosperità, fai crescere gli alberi, se vuoi cento anni di prosperità, fai crescere le persone.(Antico proverbio cinese). Siamo per gli altri come veniamo trattati. Noi siamo per come veniamo trattati, non per come siamo o per come ci comportiamo (George Bernard Shaw). Ti tratto come tu dovresti essere. Se tu tratti un uomo quale è, egli rimarrà così come è. Ma se tu lo tratti come se fosse quello che potrebbe o dovrebbe essere, certamente diverrà ciò che potrebbe o dovrebbe essere (Johann Wolfang Goethe). Una voce libera è sempre liberatrice. Una voce libera è sempre liberatrice. Le voci liberatrici non sono tranquillizzanti. Esse non si accontentano di invitarci ad aspettare l’avvenire come si aspetta il treno. L’avvenire non si subisce, lo si costruisce (Georges Bernanos).

L’OBIETTIVO VERO: «NON L’UTILITÀ PARTICOLARE, MA IL BENE DI TUTTI». La filosofia politica a nostro avviso ha il suo motivo dominante e la sua effettiva unità nel modo di impostare il rapporto di distinzione, di connessione e, a diversi livelli, di interdipendenza tra morale e politica. Il punto di partenza è semplice e rigoroso: per quanto possano divergere i fini contingenti delle diverse e opposte forze politiche in campo e degli uomini in esse impegnati, per tutti l’attività politica significa attività che si svolge a vantaggio della polis nella sua totalità e in rapporto alle altre comunità politiche. Dunque la politica non può avere rispetto allo Stato e alla società, a cui è logicamente e vitalmente connessa, un’efficacia negativa o distruttiva, e poiché la società e lo Stato rappresentano e sintetizzano scopi e interessi collettivi, una politica che persegua fini particolari in modo prevalente o esclusivo manca all’esigenza elementare e fondamentale che la costituisce come politica.

La spontanea esigenza etica, interna al sorgere e all’esercizio dell’attività politica, consiste nel fatto che la politica è ab intrinseco orientata verso il bene comune dalla sua stessa natura e, dunque, esige la subordinazione di tutti gli altri possibili fini di carattere particolare a questo fine supremo. Il bene comune è il criterio discriminante dell’azione politica la cui regola è, appunto, come aveva ben detto Aristotele, che il governo e l’attività politica abbiano per obiettivo «non l’utilità particolare, ma il bene di tutti» (Politica, 1279 a 25-32; b 35-36), essendo impossibile, incalzava il filosofo, che lo Stato possa essere felice nel suo complesso, «senza la felicità di tutti o della maggior parte dei suoi cittadini» (1264 b 17 – 19).

LA PAURA DELL’ANTICHITÀ PER L’INNOVAZIONE TECNICA. «Al tempo di Augusto il mulino idraulico verticale era già stato inventato (lo descrive Vitruvio; forse già Lucrezio lo conosceva): i resti di un mulino di tal tipo ritrovati a Venafro mostrano che le sue macine riuscivano a macinare 150 kg di grano in un’ora: se si pensa che il lavoro di due schiavi addetti alla mola dava 7 kg di farina all’ora e che del medesimo ordine di grandezza era il rendimento del lavoro di un asino alla mola, si vede quale significato rivoluzionario per l’economia e per i costi di produzione dell’industria dell’alimentazione avrebbe avuto l’adozione in larga scala del mulino ad acqua. Invece il motore primario costituito dalla ruota idraulica non fu comunemente adottato né per la molitura né per altre applicazioni in sostituzione del lavoro umano, ancorché il poeta Antipatro esaltandone al tempo di Augusto l’invenzione si rendesse ben conto della sua portata rivoluzionaria: egli afferma, infatti, che esso affranca l’uomo dalla fatica e riporta sulla terra l’età dell’oro.

Analogo è il senso dell’aneddoto dell’inventore del vetro infrangibile, al quale l’imperatore Tiberio, dopo essersi assicurato che nessuno fosse a conoscenza del segreto dell’invenzione, fa tagliare la testa o, secondo un’altra versione meno sanguinaria, si limita a ordinar di chiudere l’officina» (Italo Lana, Scienza e tecnica da Augusto a Nerone, nel volume Sapere, lavoro e potere in Roma antica, Napoli 1990).

L’ANGOLO DELLA PREGHIERA. Per i miei nemici. Dio onnipotente, volgi la tua misericordia su tutti coloro che mi vogliono male e che mi hanno fatto del male: e concedi che le loro colpe insieme alle mie colpe possano trovare ravvedimento e rimedio per l’aiuto di tutti quei mezzi che sa trovare la tua infinita sapienza; e che le nostre anime siano insieme salve in Paradiso (Thomas More).

17 luglio 1997.

LINEA RECTA BREVISSIMA. Per essere più intimamente uniti. Noi ci separiamo solo per essere più intimamente uniti, per essere più divinamente concordi con il tutto e con noi stessi. Moriamo per vivere (Friedrich Hölderlin). Il distacco può illuminarvi. Quando vi separate dall’amico, il distacco può illuminarvi su ciò che in lui più amate (Khalil Gibran). Che cos’è una vita senza amici? Una vita senza amici non è vita, per quanto raccolta e confortevole possa essere. Quando parlo di amici voglio dire amici. Non è vero che chiunque possa esserti amico. Deve essere qualcuno che ti è vicino come la pelle, che infonde alla tua vita calore, dramma e significato (Henry Miller). Di poco conto, però… Se molta gente di poco conto facesse cose di poco conto la faccia del mondo cambierebbe (Giorgio Torelli).

L’ANTISEMITISMO INCONSCIO E IL LAPSUS RIVELATORE. Il 3 ottobre 1980, ignoti terroristi misero nella sinagoga di rue Copernic a Parigi una bomba che, predisposta per scoppiare al momento dell’uscita dei fedeli dal tempio, esplose invece un po’prima, facendo quindi molto meno danni di quelli voluti. I morti furono quattro, tra cui due passanti non ebrei, e dieci i feriti. Poche ore dopo il primo ministro francese, Raymond Barre, apparve in televisione per esprimere cordoglio per le vittime e sdegno per gli attentatori: pieno d’orrore per l’accaduto, esclamò: «Miravano agli ebrei, e hanno colpito dei francesi innocenti!». Era chiaro quello che Barre voleva dire: il gesto era opera di arabi che, decisi a colpire gli ebrei per il conflitto in atto con Israele, avevano invece ucciso e ferito dei francesi che passavano per caso da quelle parti e che non erano ebrei e non avevano alcun rapporto con il conflitto arabo-israeliano. Tuttavia il ministro non si espresse chiaramente e ai suoi ascoltatori, in particolare ai suoi ascoltatori ebrei, non sfuggì il senso implicito delle sue parole e cioè che quei cittadini di Parigi, in preghiera nella sinagoga, non erano, per qualche motivo, né francesi né innocenti.

Quel che rese più significativo lo sfogo spontaneo di Barre fu che, per quello che si sa, egli non era un antisemita.

I PREGIUDIZI DEL MONDO CLASSICO: ARCHITETTO, MESTIERE DA NON NOMINARE. «Se pensiamo all’importanza che i programmi edilizi hanno nella politica generale di Augusto, il quale mirava non solo alla restaurazione dei costumi, ma anche alla ricostruzione materiale di templi e edifizi pubblici, e ad essi provvedeva con la cassa imperiale, come segno del suo atteggiamento di fondo nei riguardi della tradizione, pare del tutto naturale che proprio in quegli anni si pubblichi a Roma un trattato di architettura: ma proprio perciò ci stupisce l’atteggiamento di sommessa umiltà con cui l’autore presenta l’opera e la dedica al principe.

Vitruvio era un tecnico, figlio di tecnici, già comandante del genio agli ordini di Giulio Cesare nelle campagne galliche, esperto in macchine da guerra, poi pensionato da Ottaviano, per interessamento della sorella del principe, Ottavia. Per la società elevata del tempo è scandaloso il fatto in sé, che un tecnico si permetta di scrivere e pubblicare un trattato della sua professione destinandolo ai portatori della cultura umanistica. Vitruvio sa bene – è lui stesso a scriverlo – che i grandi signori romani a cui si rivolge, mettono l’architetto sullo stesso piano del ciabattino o del lavandaio.

D’altronde Cesare nei suoi Commentari nomina molti suoi collaboratori, ufficiali di grado più o meno elevato, ma si guarda bene dal fare i nomi di Vitruvio e del suoi colleghi addetti alla costruzione e alla manutenzione delle artigliere: non li nomina non già perché la loro collaborazione non fosse stata altrettanto utile, ma perché, appartenendo essi ad una classe sociale inferiore, sarebbe stato disdicevole farne il nome in un’opera storica» (Italo Lana, Scienza e tecnica da Augusto a Nerone, nel volume Sapere, lavoro e potere in Roma antica, Napoli 1990).

SCHEMA LOGICO DEL «GIALLO» CHE SI RISPETTI. «L’abduzione è il primo passo del ragionamento scientifico, essa suggerisce non che qualcosa è realmente, ma che qualcosa può essere.

Lo schema di siffatto ragionamento è il seguente:

  1. Si osserva C, un fatto sorprendente.
  2. Ma se A fosse vero, allora C sarebbe naturale.
  3. C’è, dunque, ragione di sospettare che A sia vero» (Charles S. Pierce, Collected Papers).

Thomas A. Sebeok e il nostro Umberto Eco sostengono, forse non a torto, che la razionalità di Sherlock Holmes è dello stesso tipo.

24 luglio 1997.

LINEA RECTA BREVISSIMA. Il sacro rispetto dei lettori. Tutti quelli che scrivono per mentire dovrebbero essere processati (Simone Weil). Una ragione per scrivere. Una delle ragioni per le quali si scrive è che si deve dichiarare il proprio amore (Katherine Mansfield). Stile e verità. La verità crea il proprio stile (Erza Pound). Odiato dai politici. Nessuna cosa è tanto odiata dai politici quanto il parlar chiaro (Luigi Einaudi).

ABBIAMO SEMPRE FRETTA E NON C’È TEMPO PER VIVERE. L’esistenza appare sottoposta ad un’accelerazione crescente, bersagliata da assilli che esigono risposte sempre più veloci e costretta a protendersi verso mete da raggiungere e abbandonare sempre più rapidamente. Si viene scagliati come proiettili nel futuro, nella vita che ha sempre ancora da venire e non c’è veramente mai, mentre il presente ci viene strappato sotto i piedi come un tappeto. Tutto ciò insidia la felicità e il piacere; nei Cento giorni di Joseph Roth – ripubblicati da poco – la smaniosa fretta di Napoleone nell’amore, che impedisce l’appagamento sessuale, diviene un simbolo della frenetica modernità, simile ad una continua eiaculazione precoce.

La velocità aumenta in ogni settore, trasformazioni storiche epocali avvengono con un ritmo che rende difficile percepirle e seguirle; i piccoli eventi della vita quotidiana – un trasloco, il rinnovo del passaporto, la riparazione dello scaldabagno – richiedono più tempo dei grandi eventi politici che cambiano il mondo. Si ha l’impressione di non riuscire a tener dietro alla realtà e al suo vorticoso caleidoscopio, che sbalestra i criteri dei metri di giudizio che dovrebbero comprenderla e inquadrarla. Ci si sente spesso come doveva sentirsi quell’astronauta sovietico che, ritornando sulla Terra, non trovò più l’Unione Sovietica, dissoltasi nel frattempo.

I tempi lenti delle età passate sono tramontati; gradita o sgradevole, l’accelerazione è una realtà dell’epoca e della vita e solo confrontandosi con essa, sapendo di esserne coinvolti, è possibile resisterle e difendere quei margini di lentezza senza i quali il vivere perde senso. La lentezza va difesa con una strategia flessibile, elastica, senza affrontare di petto la frenesia del mondo, bensì sfuggendo alle sue spire.

Si dovrebbe forse praticare ogni giorno degli esercizi di lentezza; questa ginnastica aiuterebbe a conservare, nell’incalzare quotidiano, oasi di tempo più lungo e disteso, a tener aperti quegli spiragli attraverso i quali può irrompere nella vita il senso di ciò che trascende la corsa e la fuga del tempo profano, l’intuizione dell’eterno.

Questa irruzione, che squarcia la temporalità come un velo, non può essere programmata o provocata. Può essere solo accolta, come una grazia irriducibile alla contingenza, e l’unica cosa che si può fare è conservare nel proprio animo la libertà e la disponibilità ad accoglierla quando si presenta, rimuovere le ansie e gli idoli quotidiani che ottundono la nostra sensibilità e ci chiudono ad ogni trascendenza. San Paolo parla dell’attimo in cui si compie a realizzazione dell’amore, di quell’attimo e di quell’«adesso» sovratemporale in cui – scrive Karl Barth nel commento all’Epistola ai Romani – passato e futuro si fermano in un presente assoluto, che non può dileguare (Claudio Magris sul Corriere della Sera del 12 aprile 1995).

C’È ARIA DI FAMIGLIA TRA CLINICI, DETECTIVES E STORICI. – «Tra clinici, detectives e storici c’è, sia pure con qualche differenza, aria di famiglia. Del resto, come ha sostenuto il filosofo R. G. Collingwood, anche lo storico procede mano nella mano sui sentieri della metodologia con il detective (e, aggiungiamo noi, col clinico). Tra il modo di operare di questi due professionisti – egli afferma – c’è una sola differenza, e cioè che il loro fine ultimo non è lo stesso. Infatti, contrariamente allo storico, il detective è chiamato ad operare con rapidità in quanto ha nelle sue mani la libertà e, talora, la vita di un uomo. Ciò vale anche in modo particolarissimo per quei medici che, per la natura della specializzazione che coltivano (rianimazione, traumatologia, chirurgia d’urgenza), sono costretti a porre diagnosi rapidissime. In medicina e nella detection il tempo impiegato per giungere a una decisione è un fattore di valore della stessa decisione, di contro lo storico – conclude Collingwood – non ha alcun obbligo di decidere entro un tempo stabilito. Nulla gli importa tranne che la sua decisione, quando giunge, sia giusta».

L’osservazione è di Massimo Baldini e la si legge nella gustosa introduzione al bel volumetto Conan Doyle, Gli aforismi di Sherlock Holmes, Roma 1995.

31 luglio 1997.

LINEA RECTA BREVISSIMA. La mano pigra. La mano pigra fa impoverire. Assumersi la responsabilità della correzione. Chi chiude un occhio causa dolore, chi riprende a viso aperto procura pace. La bocca dello stolto. La bocca dello stolto è un pericolo sempre incombente. Il molto parlare. Nel molto parlare non manca la colpa. (Libro dei Proverbi)

La strana illusione. Strana illusione immaginare che si possa sradicare Dio dal mondo senza scatenarvi dei mostri. Per semplificare le cose. Per semplificare le cose, io comincio nel cercare di rimettere ciascuno al proprio vero posto, nel Vangelo. Certamente, questo ci ringiovanisce di duemila anni! Il sale. Il buon Dio non ha scritto che fossimo il male della terra, ma il sale. Il sale sulla pelle brucia. Ma impedisce anche di imputridire. (Georges Bernanos)

«AMPIO E FECONDO È IL CAMPO DELLA STORIA…». C’è un aspetto particolare poco noto della personalità ricca e insieme armonica di Friedrich Schiller: il suo interesse per la storia. Lo attestano gli Scritti storici, tradotti in italiano da Mondadori. Schiller fu spinto ad occuparsi di storia non solo da una viva esigenza spirituale, ma anche perché aveva bisogno di conoscere da vicino quegli avvenimenti che sarebbero entrati, o che avrebbero potuto entrare, a far parte della sua produzione drammaturgica.

Lo scritto più ricco di intuizioni reca un titolo a dir poco ardimentoso: Che cos’è e a qual fine si studia la storia universale. È il testo della prolusione accademica tenuta dal poeta, che saliva in cattedra per la prima volta, nel 1789, nella piccola università di Jena. L’attesa di quel discorso attirò tanta folla che gli studenti e il docente dovettero cercare in un altro edificio un’aula più vasta, per tre-quattrocento persone, attraversando insieme, in un insolito corteo, le vie della cittadina.

«Ampio e fecondo è il campo della storia – esordiva Schiller – e nel suo ambito è contenuto tutto il mondo morale. In tutte le situazioni che l’uomo vive, in tutte le varie forme dell’opinione, nella sua follia e nella sua saggezza, nella sua corruzione e nel suo perfezionamento, la storia l’accompagna. Essa deve render conto di tutto ciò che l’uomo riceve e dà». Alla storia, però, ci si deve accostare con una mentalità non utilitaristica, senza volerla piegare a strumento per scopi che le sono estranei, immediati o differiti che siano.

«Nella ricerca della verità storica non si entra avendo un’anima da schiavo». Chi vuol studiare una scienza solo per servirsene, ne restringe l’ambito per meglio maneggiarlo; ma una specializzazione che frantuma e disgrega non può portare lontano. Chi, invece, abbia testa filosofica rispetta le discipline diverse dalla sua e si avvale con rispetto dei loro contributi, lavora a slargare di continuo i suoi orizzonti e, spinto da un impulso sempre vivo verso ciò che è perfetto, demolisce insoddisfatto l’edificio delle sue stesse idee per ricostruirlo più solidamente. «Chi ha testa filosofica amerà pur sempre la verità al di sopra del suo sistema».

I SOGNI NECESSARI ALLA VITA PRATICA. I sogni sono necessari alla vita pratica, perché gli uomini dell’arida vita hanno bisogno di riposarsi un poco, guardando ogni tanto, a un poco di azzurro, a un lembo di prato, a qualche stella che splende, al vento che canta la sua canzone tra gli alberi, a tutto quello che trascina gli uomini fuori della formidabile trappola delle loro condizioni materiali e sensibili. Il sogno, così, è necessario, non tanto quando si sogna, ma soprattutto quando si è svegli, e si travaglia al grande e rude travaglio della vita, e la giornata passa rapida o lenta senza un fiore. Il sogno concorre così a trasformare il duro lavoro da lavoro di servo a lavoro di uomo libero (Giuseppe Capograssi).

POESIA DEL NOVECENTO. – E, sottratti all’agonia.

E, sottratti all’agonia della luce, / lasciandoci dietro tutta la distruzione passata, / stendiamoci ancora sul vecchio letto / solido sotto il tetto d’alghe e bambù, / aprendo l’un l’altro bianche braccia felici. // Poi lascia che ti racconti tutta quella storia, / l’arte di sopravvivere nella lotta quotidiana: / i colpi dati, le percosse ricevute, / di anni vagabondi di vincite e di perdite / alla ricerca di non diventare un distruttore. // Mentre veglio su di te, lascia cadere i lunghi capelli / che siano d’ombra alle tue spalle prima del sonno, / perché tutto questo luogo si romperà / e andrà in pezzi se ti dovessi assentare (Desmond O’Grady).

7 agosto 1997.

LINEA RECTA BREVISSIMA. A chi è nel bisogno. Non negare un beneficio a chi ne ha bisogno, se è in tuo potere il farlo. Non dire al tuo prossimo: «Va, ripassa, te lo darò domani», se tu hai ciò che ti chiede. Ascolta, figlio mio. Con ogni cura vigila sul cuore perché da esso sgorga la vita. I sette abomini. Sei cose odia il Signore, anzi sette gli sono in abominio: occhi alteri, lingua bugiarda, mani che versano sangue innocente, cuore che trama iniqui progetti, piedi che corrono rapidi verso il male, falso testimone che diffonde menzogne e chi provoca litigi tra fratelli (Libro dei Proverbi).

La malattia che fa morire. Il mondo moderno pecca contro lo spirito d’infanzia e questo crimine lo farà morire. Voi ve ne infischiate. Imbecilli! Voi ve ne infischiate della vita interiore, ma è comunque in essa e per essa che si sono tramandati fino a noi valori indispensabili, senza i quali la libertà sarebbe soltanto una parola (Georges Bernanos).

IL GIALLO E LA FILOSOFIA. La somiglianza di fondo. L’essenza del romanzo poliziesco consiste nell’imbattersi in fenomeni visibili la cui spiegazione è nascosta; è questa, se ci si riflette bene, l’essenza di ogni filosofia (Gilbert Keith Chesterton). Il detective filosofo. Non solo ogni giallista ha una visione del mondo e dell’uomo, ma ha soprattutto una certa concezione della razionalità umana, concezione che può trasparire in modo più o meno esplicito, ma che non può mai essere assente. Da questo punto di vista i racconti e i romanzi di Conan Doyle costituiscono un osservatorio privilegiato. Sherlock Holmes, infatti, si presenta come un detective filosofo (Massimo Baldini).

FESTINA LENTE, IL MOTTO DI CALVINO. Già dalla mia giovinezza ho scelto come mio motto l’antica massima latina Festina lente, affrettati lentamente. Forse più che le parole e il concetto è stata la suggestione degli emblemi ad attrarmi. Ricorderete quello del grande editore umanista veneziano, Aldo Manuzio, che su ogni frontespizio simboleggiava il motto Festina lente in un delfino che guizza sinuoso attorno ad un’ancora. L’intensità e la costanza del lavoro intellettuale sono rappresentate in quell’elegante marchio grafico che Erasmo da Rotterdam commentò in pagine memorabili…

Il mio lavoro di scrittore è stato teso fin dagli inizi a inseguire il fulmineo percorso dei circuiti mentali che catturano e collegano punti lontani dello spazio e del tempo. Nella mia predilezione per l’avventura e la fiaba cercavo sempre l’equivalente d’un’energia interiore, d’un movimento della mente. Ho puntato sull’immagine, e sul movimento che dall’immagine scaturisce naturalmente, pur sempre sapendo che non si può parlare di un risultato letterario finché questa corrente dell’immaginazione non è diventata parola.

Come per il poeta i versi così per lo scrittore in prosa, la riuscita sta nella felicità dell’espressione verbale, che in qualche caso potrà realizzarsi per folgorazione improvvisa, ma che di regola vuol dire una paziente ricerca del mot juste, della frase in cui ogni parola è insostituibile, dell’accostamento di suoni e di concetti più efficace e denso di significato. Sono convinto che scrivere prosa non dovrebbe essere diverso dallo scrivere poesia; in entrambi i casi è ricerca d’un’espressione necessaria, unica, densa, concisa, memorabile (Italo Calvino).

PERCHÉ SI STUDIA STORIA? Lo spirito filosofico non può riflettere a lungo sulla storia senza che sorga in lui l’impulso a sottrarne gli eventi alla cieca casualità, ravvivando in essi un principio finalistico. Ciò consegue subito il risultato di disabituare le menti da una visione volgare e meschina della vita e di sospingerle a incontrare lo Spirito supremo in una delle sue più alte manifestazioni.

La storia può avere una grande efficacia formativa: corregge i giudizi frettolosi, le astrattezze, le univisualità che falsano la vita. Dal cammino umano collettivo che chiamiamo storia si leva, tacito ed eloquente insieme, l’appello a incrementare il retaggio di verità, di eroismo morale e di libertà, che ci è stato affidato da quanti ci hanno preceduto perché noi lo trasmettessimo, arricchito e potenziato, a quelli che verranno dopo di noi. Questo e non altro, è il vero senso della storia. Per quanto diverse siano le condizioni in cui siamo chiamati ad operare, tutti possiamo recarvi un contributo. L’essenziale è per ognuno fare la propria parte.

14 agosto 1997.

LINEA RECTA BREVISSIMA. – Il diritto dei bambini al racconto. I racconti colpiscono l’orecchio dei bambini come incantesimo, rasserenandoli e insieme ispirando pensieri profondi (Platone). Il cuore del medico. Il medico dovrebbe avere un cuore pieno di misericordia e di umanità – plenus misericordiae et humanitatis animus (Scribonio Largo). Una volta era così. I medici sono i difensori naturali dei poveri. Questo pensiero cominciò a farsi strada, alle soglie del cristianesimo, nel mondo antico. Non vorrei che fosse arrivato al capolinea (Levi Appulo). Il rapporto servo-padrone. Nella schiavitù del servo anche il padrone perde la sua umanità (Georg Friedrich Hegel).

Umanità di Eschilo. 1). Anche nel cuore degli schiavi alberga la potenza divina (Agamennone).

2). Ciò che fa vergogna allo schiavo è unicamente il nome. Altrimenti uno schiavo è proprio in tutto non peggiore dei liberi, se egli è nobile (Ione).

3). Attraverso le consuetudini il tempo determina l’orgoglio di un ceto. / Ragione e discernimento sono la vera nobiltà / e solo Dio li dà, non la ricchezza (Alessandro).

IL PREGIUDIZIO SOCIALE NON RISPARMIÒ PLATONE E ARISTOTELE. L’economia dell’età classica era in gran parte fondata nella schiavitù e ciò ebbe l’effetto di far apparire per sempre immodificabile la situazione anche a geni di prima grandezza come Platone e Aristotele, che, senza dubbio, personalmente trattavano con signorilità i loro schiavi e raccomandavano agli altri di fare altrettanto. Il primo, allontanandosi su questo punto da Socrate, ritenne indispensabile all’interesse generale il mantenimento della schiavitù: gli schiavi servono per i lavori umili e perciò quanti vogliono vivere in un giusto ordine (kosmios) non possono non ritenere la schiavitù necessaria all’organizzazione sociale (Leggi VII, 806 b; Politico, 309 a). Aristotele fa sua l’antitesi fra nomos e physis di Antifonte e Alcidamante, ma solo per rovesciare le loro conclusioni. Ne parla a lungo nella Politica, nel secondo capitolo del primo libro. La sua tesi è brutalmente chiara: per legge di natura vi sono quelli nati per comandare e quelli, gli schiavi appunto, nati per obbedire.

Gli argomenti messi in campo sono molto deboli, ma le espressioni usate sono di un’implacabile durezza: «Lo schiavo è una proprietà animata (ibid. 4, 4)… Non è solo schiavo del padrone, ma appartiene interamente a lui (ibid. 4, 6)… Egli è servo per natura perché può essere cosa d’altri e potendo finisce con l’essere tale effettivamente. Lo schiavo partecipa dell’umana intelligenza sino allo stadio delle percezioni immediate, ma non giunge a quello di una riflessione matura (ibid. 5, 13)… L’utilità degli animali domestici e quella degli schiavi poco differiscono (ibid. 5, 4).

Quelle affermazioni contribuirono potentemente a perpetuare nei secoli la mentalità schiavista e, dunque, l’istituzione stessa della schiavitù, che fu abolita ufficialmente solo nel 1867.

NON ESISTONO EROI ANONIMI. Vi chiedo una sola cosa: se sopravvivete a questa epoca non dimenticate. Non dimenticate né i buoni né i cattivi. Raccogliete con pazienza le testimonianze di quanti sono caduti per loro e per voi. Un bel giorno oggi sarà il passato e si parlerà di una grande epoca e degli eroi anonimi che hanno creato la storia. Vorrei che tutti sapessero che non esistono eroi anonimi. Erano persone, con un nome, un volto, desideri e speranze, e il dolore dell’ultimo fra gli ultimi non era meno grande di quello del primo il cui nome resterà. Vorrei che tutti costoro vi fossero sempre vicini come persone che abbiate conosciuto, come membri della vostra famiglia, come voi stessi (Julius Fučík, Scritto sotto la forca, Roma 1965). Julius Fučík, capo della Resistenza cecoslovacca, fu impiccato a Berlino l’8 settembre 1943.

21 agosto 1997.

LINEA RECTA BREVISSIMA. L’interesse più alto. Crediamo che l’interesse più alto sia quello di tutti (È il motto della Banca etica, che si è costituita in Italia per finanziare iniziative di solidarietà sociale).

L’accusa di plagio. L’accusa di plagio è stata fatta sempre agli scrittori che hanno detto il più di cose nuove (Alessandro Manzoni). L’originalità consiste. L’originalità consiste nel ben conoscere e stimare il lavoro altrui, e valersene per procedere oltre e far di meglio e di proprio. Sarebbe curioso che, per mantenersi originali, convenisse serbarsi verginalmente ignoranti (Benedetto Croce). Perché rubare il tempo ai lettori? Ci sono certi scrittori che riescono ad esprimere già in venti pagine cose per cui talvolta mi ci vogliono addirittura due righe (Karl Kraus). Il coraggio di esporsi. Se uno scrittore è tanto cauto da non scrivere nulla che possa essere criticato, non scriverà nulla che possa essere letto. Se vuoi aiutare gli altri, devi deciderti a scrivere cose che taluni condanneranno (Thomas Merton). Un accrescimento di realtà. Il mondo non è più lo stesso dopo che gli si è aggiunta una bella poesia (Dylan Thomas). Toccherà ai poeti. Quando la scienza avrà messo tutto in ordine, toccherà ai poeti di mischiare da capo le carte (Ennio Flaiano).

LE DUE REPUBBLICHE: LA PICCOLA E LA GRANDE. Proviamo ad abbracciare con il pensiero due repubbliche: una grande e veramente universale, che comprende dèi e uomini, e della quale non riusciamo a vedere i confini in un luogo o in un altro, perché in questa nostra città essi si estendono fin là dove soltanto il sole giunge; l’altra, quella che ci ha assegnato la condizione del nascere (potrà essere Atene o Cartagine, o qualsiasi altra città), non riguarda tutti gli uomini, ma solo alcuni determinati individui. Ci sono persone che lavorano contemporaneamente per tutt’e e due le repubbliche, la grande e la piccola; altri solo per la piccola; altri, infine, solo per la grande (Seneca, De otio, 4, 1).

AGOSTINO, KANT E BERGSON PARLANO DELLA CITTÀ DI DIO NELLA STORIA. Il brano di Seneca, che ho riportato, è un fugace ma significativo preludio a quello che poi sarà uno dei temi sinfoniali del più grande pensatore cristiano. La città di Dio per Sant’Agostino è la comunità invisibile, che si estende al di là di ogni confine di tempo e di luogo, di quanti cercano, amano il bene e lottano per attuarlo nella situazione storica in cui sono chiamati a vivere. I cittadini della civitas Dei vivono mescolati agli altri e ciò che li distingue da essi è il loro atteggiamento interiore, qualcosa che è quanto mai reale e tuttavia indiscernibile ai nostri occhi di carne. La città di Dio è la patria universale degli spiriti e insieme designa i valori a cui l’umanità migliore in ogni tempo anela. Questa grandiosa concezione della storia, colta nel suo significato più alto, si riaffaccia nell’età moderna con Kant, la cui ricerca morale sbocca, infatti, nella dottrina del regno dei fini. Secondo il filosofo di Könisberg gli esseri ragionevoli, se si astrae dalle differenze individuali, possono essere pensati come aventi tra loro un nesso sistematico, perché tutti sono chiamati a vivere la legge morale, secondo la quale ciascuno deve trattare ogni altro non come semplice mezzo, ma anche come fine. La concezione del regno dei fini è svolta da Kant nella seconda parte della Fondazione della metafisica dei costumi, pubblicata nel 1785. Questa visione della storia torna, con accentuazioni diverse e sviluppi molto originali, nell’opera Le due fonti della morale e della religione di Henri Bergson, edita nel 1932.

ERA IL PADRE DI SHERLOCK HOLMES. Arthur Conan Doyle, vissuto tra il 1859 e il l930, discendeva da antica e squattrinata nobiltà irlandese. A partire dal 1881, egli creò il personaggio di Sherlock Holmes, con cui divenne famoso nel mondo intero. L’ispirazione a lui venne quando, medico all’ospedale di Edimburgo, ebbe la fortuna di lavorare a fianco del dott. Joseph Bell, di cui ammirava l’eccezionale abilità diagnostica e la profonda religiosità. Nella sua Autobiografia, Conan Doyle riconosce esplicitamente l’illustre clinico in Holmes, che trasferisce appunto dalla pratica medica alle vicende investigative i criteri del cosiddetto «metodo diagnostico». Abbandonata la professione medica, Doyle divenne scrittore e giornalista. Fu corrispondente di guerra in Sudafrica, durante la guerra boera, e poi in Europa, durante il primo conflitto mondiale.

Il successo non lo stordì ed egli rimase uomo capace di porsi i grandi interrogativi dell’esistenza e di cercarne la soluzione. In un’epoca dominata dal positivismo e dal materialismo, egli orientò le sue riflessioni verso una concezione spiritualistica.

28 agosto 1997.

LINEA RECTA BREVISSIMA. Se è un amico. Un amico vuol bene sempre, è nato per essere fratello nella sventura. Più di un fratello. Ci sono compagni che conducono alla rovina, ma anche amici più affezionati di un fratello. I consigli nel cuore dell’uomo. Come acque profonde sono i consigli nel cuore umano e l’uomo accorto le sa attingere. Nel nostro modo di giudicare. Doppio peso e doppia misura, ecco due cose che il Signore ha in abominio (Libro dei Proverbi).

Non il mio libro, ma il nostro libro. Alcuni autori, parlando delle loro opere, dicono: «Il mio libro, il mio commento, la mia storia, ecc.». È una reazione da piccoli borghesi, da bottegai che hanno sempre in bocca: «A casa mia». Farebbero meglio a dire: «Il nostro libro, il nostro commento, la nostra storia, ecc.» dato che, in genere, dentro quei libri c’è più farina del sacco di altri che del loro (Blaise Pascal).

No alle filosofie oracolanti. Ogni intellettuale ha una responsabilità tutta speciale. Ha il privilegio e l’opportunità di studiare. Per questo è debitore al suo prossimo (o «alla società») di esporre i risultati del proprio studio nella forma più semplice, chiara e modesta. La cosa peggiore – il peccato contro lo Spirito Santo – è quando gli intellettuali cercano di atteggiarsi nei confronti del loro prossimo come grandi profeti o di impressionarlo con filosofie oracolanti (Karl Raimund Popper).

SHERLOCK HOLMES E I SUOI AFORISMI.

  1. La mia vita non è che un continuo sforzo per sfuggire alla banalità dell’esistenza.
  2. Da molto tempo il mio assioma è che le piccole cose sono di gran lunga le più importanti.
  3. Meglio imparare la saggezza tardi che non impararla mai.
  4. Chi ama l’arte per l’arte trae piacere dalle sue manifestazioni meno importanti e più banali.
  5. A me sembra che la nostra maggiore certezza nella bontà della provvidenza poggi sui fiori. Tutto il resto, le nostre facoltà, i nostri desideri, il cibo sono indispensabili alla nostra esistenza. Ma le rose sono un di più. Il loro profumo e i loro colori sono un abbellimento, non una condizione essenziale della vita. Ed è la bontà soltanto che ci offre il di più; ripeto, pertanto, che molte delle nostre speranze sono fondate sui fiori.
  6. Sospetto di qualcuno? Sospetto di me stesso. Cosa? Di giungere troppo rapidamente alle conclusioni.
  7. Un tocco supremo dell’artista: sapere quando fermarsi.
  8. Quando un uomo si imbarca in un delitto è moralmente responsabile di ogni altro crimine che possa procedere da quello.
  9. Spesso l’immaginazione è la madre della verità.
  10. Tra il grottesco e l’orrendo non c’è che un passo.
  11. Il modo migliore per recitare con successo una parte è quello di viverla.

(Riporto i passi citati dal volume di Conan Doyle, Gli aforismi di Sherlock Holmes, a cura di Massimo Baldini, Roma 1995).

4 settembre 1997.

LINEA RECTA BREVISSIMA. No, non sono saggio. Il saggio è l’uomo di perfetta virtù. Come posso, allora, annoverarmi tra loro? Si può dire di me, con tutta semplicità, che cerco insaziabilmente di divenire tale e che insegno agli altri senza stancarmi (Confucio). Chi può aiutarci a essere liberi? Chi si è liberato dalla malvagità aiuta anche gli altri a liberarsi [si ammiri l’ineguagliabile concisione del latino: malitia liberatus et liberat] (Seneca). Ogni grande arte lo è. Tutto ciò che è contenuto nell’espressione appassionata della mia giovinezza fu manifestato e concentrato in questa formula enunciata vent’anni or sono, all’inizio della mia conferenza di Oxford: «Ogni grande arte è adorazione». In ragione di che cosa si disegna, o si crea artisticamente. Se una cosa non è stata disegnata in ragione dell’amore che ad essa si porta, non sarà mai giusta; se è stata disegnata per amore, non sarà mai falsa, perché le deformazioni dell’amore sono più vere della più grande esattezza matematica. (John Ruskin)

UN CONFRONTO TRA AMICIZIA E LETTURA. Uno dei più spaventosi pericoli per il futuro dell’umanità io lo vedo in questo: che nelle nostre serate, nelle nostre case, rimanga acceso il televisore e sia ben riposto, in uno scaffale, il libro. Ma noi del libro abbiamo bisogno per molte ragioni, la prima delle quali è questa: perché abbiamo bisogno di amici. Voi mi direte: ma in che modo la lettura ci aiuta a farci degli amici, o a riscoprirli? Nei modi più diversi. Oggi diamo la parola sull’argomento a John Ruskin, il filosofo dell’arte e apostolo del valore formativo dell’arte vissuto nel secolo scorso (1819 – 1900). Il suo brano è tratto dalla conferenza I tesori dei re.

«Anche nell’ipotesi che abbiamo la volontà e l’intelligenza di scegliere bene i nostri amici, quanto pochi di noi ne hanno il potere! E quanto limitata è la sfera della nostra scelta!… Noi non possiamo conoscere chi vorremmo… Possiamo, talora, per una fortuna insperata, avere un incontro momentaneo con un grande poeta o udire il suono della sua voce; o rivolgere qualche domanda a uno scienziato, a un pensatore… Eppure, queste felici occasioni fuggitive noi le desideriamo e cerchiamo di procurarcele. Dimentichiamo, invece, che durante ogni tempo c’è una società che ci è costantemente aperta, e ci sono persone che, quale sia la nostra condizione od occupazione, potrebbero conversare con noi tanto a lungo quanto vorremmo. Per entrare in tale società, così numerosa e amabile, non ci vogliono presentazioni e anticamere: essa ci è offerta con tanta semplicità dagli scaffali delle nostre biblioteche».

BRICIOLE DI SAGGEZZA DEL DETECTIVE FILOSOFO.

  1. Creda a me, viene sempre un giorno in cui per ogni nuova conoscenza se ne dimentica qualcuna acquisita in precedenza. È estremamente importante, quindi, che le conoscenze inutili non estromettano quelle utili.
  2. Le nostre idee devono essere sconfinate come la Natura se la devono interpretare.
  3. Uno sciocco trova sempre uno più sciocco di lui che l’ammira.
  4. Nulla è insignificante per una mente superiore.
  5. Dopo aver eliminato l’impossibile, ciò che resta, per improbabile che sia, deve essere la verità.
  6. Siamo abituati al fatto che gli uomini disprezzino ciò che non comprendono.
  7. La prova principale della vera grandezza di un uomo consiste nella percezione della propria piccolezza.
  8. Non abbiamo il diritto di prendere nulla per scontato.

(Conan Doyle, Gli aforismi di Sherlock Holmes, Roma 1995).

PER GIOVARE AGLI ALTRI, DIVENTARE MIGLIORI. In realtà, ciò che si esige dall’uomo è che giovi agli uomini: se è possibile, a molti; altrimenti, a pochi; o almeno, a se stesso (hoc nempe ab homine exigitur, ut prosit hominibus, si fieri potest, multis, si minus, paucis, si minus, proximis, si minus, sibi). Infatti, quando si rende utile agli altri, egli agisce per il bene di tutti. Chi rende se stesso più malvagio, non solo nuoce a sé, ma anche a tutti quelli cui avrebbe potuto giovare se fosse diventato migliore. In realtà, chiunque fa del bene a se stesso, per questo stesso fatto giova agli altri, perché si prepara ad essere loro utile (Seneca, De otio, 3, 2 – 5).

11 settembre 1997.

LINEA RECTA BREVISSIMA. Meglio un piatto di verdura. Un piatto di verdura con l’amore è meglio di un bue grasso con l’odio. La risposta giusta data a suo tempo. Per l’uomo è una gioia dare la risposta giusta; quanto è gradita una parola detta a suo tempo! Uno sguardo. Uno sguardo luminoso allieta il cuore. Poco con onestà è meglio. Poco con onestà è meglio di molte ricchezze senza giustizia. (Libro dei Proverbi)

Infanzia e santità. Ho perduto l’infanzia e potrò riconquistarla solo con la santità. Ho molto amato. Ho molto amato gli uomini e avverto con chiarezza che questa terra dei viventi mi era dolce. Non morirò senza lacrime. Perché dovrei desiderare la morte degli impossibili? Se avrò paura, dirò «Ho paura», senza vergogna (Georges Bernanos).

LA SCELTA AUTODISTRUTTIVA. Ci sono giovani che, essendosi prima lasciati andare con entusiasmo alle fantasticherie di un ottimismo che sembra esaltare la vita, cadono poi – con l’inevitabile disillusione su persone, idee e programmi – in uno stato di depressione. Sbagliavano prima a non vedere che i beni autentici si conquistano, non dipendono da circostanze che al momento giudichiamo favorevoli, né sono un pacco dono che ci possa essere offerto da altri. Ma sbagliano anche ora, incamminandosi per una via che porta non alla coscienza di sé e a un positivo rapporto con gli altri, ma alla paura e alla sfiducia, all’autodistruzione.

Sorge, allora, in essi la tentazione di lasciarsi andare, di abbandonarsi all’istinto, di fare della propria vita un susseguirsi di scelte immediate, senza una prospettiva e un impegno. Così, ci si crede finalmente liberi perché ci muoviamo nel deserto dei valori; e pensiamo di vivere in pienezza perché decidiamo di non dare un senso alle nostre decisioni. È la paga, è la droga del nichilismo.

«Fare della nostra vita – ammonisce Natalia Ginzburg – una pura scelta non è vivere secondo natura, perché all’uomo non è dato scegliere sempre: l’uomo non ha scelto l’ora della sua nascita, né il proprio viso, né i propri genitori, né la propria infanzia; l’uomo non sceglie, di solito, l’ora della sua morte. L’uomo non può che accettare il proprio viso così come non può che accettare il suo proprio destino: e la sola scelta che gli è consentita è la scelta fra il bene e il male, fra il giusto e l’ingiusto, fra la verità e la menzogna» (Le piccole virtù, Torino 1964, p. 92, La citazione è tratta dal saggio «Silenzio»).

LÀ IN MEZZO ALLA GENTE, C’ERA SOCRATE. Puoi forse trovare una città più miserabile di Atene quando fu dilacerata dal governo dei Trenta tiranni? Avevano mandato a morte milletrecento cittadini, i migliori, né avevano intenzione di smetterla, e la crudeltà traeva incremento da se stessa. In quella città c’era il più scrupoloso dei tribunali, l’Aeropago, e un senato, e un popolo degno di quel senato. Ebbene, in quella città si radunava ogni giorno il tristo consesso dei carnefici e una curia disgraziatamente asservita ai tiranni. E come avrebbe potuto vivere in pace quella città?… Neppure la più tenue speranza di riacquistare la libertà poteva balenare nei cuori, né si vedeva come porre rimedio a così gravi mali…

Tuttavia là, in mezzo alla gente, c’era Socrate, che consolava i senatori in pianto, ed esortava quanti ormai disperavano della repubblica, e rinfacciava ai ricchi, che temevano di perdere i loro patrimoni, il tardivo pentimento per la loro avidità che non può non accompagnarsi a gravi pericoli… Socrate offriva, a quanti avessero voluto imitarlo, un esempio insigne, camminando a testa alta, libero in mezzo a trenta padroni.

Eppure fu proprio Atene a ucciderlo in carcere. Aveva sfidato impunemente un branco di tiranni e una libera democrazia non seppe tollerare la sua libertà. Ricordatelo: anche quando lo Stato è oppresso, all’uomo saggio non manca l’opportunità di farsi avanti; e anche in una città fiorente e felice possono regnare la crudeltà, l’invidia e mille altri vizi se ad essi nessuno oppone resistenza.

Quindi, qualunque sia la situazione politica che ci toccherà in sorte, noi dovremo impegnarci oppure ritirarci; in ogni caso non ce ne staremo affatto fermi, non ci lasceremo paralizzare e incatenare dalla paura… (Seneca, De tranquillitate animi, 5, 14)

18 settembre 1997.

LINEA RECTA BREVISSIMA. La fortuna e la servitù spirituale. È grande servitù una grande fortuna – Magna servitus est magna fortuna (Seneca). Ti è andata molto male, se ti è andata fin troppo bene (Levi Appulo). Un problema antico quanto l’uomo. Ben vivere, cioè soffrire senza avvilirsi (Diego Valeri). L’aggiunta necessaria. Non è più sufficiente dire «cristiano». Bisogna dire «cristiano che non mente», neppure per omissione, che dona la verità tutta intera e non la dà mutilata (Georges. Bernanos).

ABBIAMO BISOGNO DELL’ETICA SOCIALE. Per gli antichi la domanda su come dare un significato etico alla politica – nelle finalità, nelle strutture, nelle leggi – era la più importante. Quella impostazione andava integrata, e lo fu grazie al messaggio cristiano, ma non rovesciata, come è invece accaduto nel nostro tempo. Oggi, in assenza o quasi di un’etica sociale, che si riferisca direttamente al bene comune, la principale preoccupazione è diventata per ognuno il suo particulare, l’interesse privato, e l’individualismo è diventato il nuovo credo, il postulato delle nuove ideologie. Il risultato è che non abbiamo più un ethos civile e politico, e quando l’enfasi cade sull’interesse tace la coscienza dei doveri e delle responsabilità.

La cosa è nociva, però, anche per la morale privata, perché la persona finisce col perdere la sua stessa dignità e s’immiserisce nella corsa ai «valori d’opinione», i più ingannevoli che possano esserci, strutturalmente legati a una visione edonistica della vita o ad una nuova versione del materialismo economico. Ma senza l’etica sociale manca alla coscienza della persona il contesto che le è necessario per realizzarsi completamente e per giovare agli altri.

AL PUNTO IN CUI SIAMO. Il tema è stato ripreso con vigore in questi ultimi anni dal pensatore belga Louis Dupré, che esordì brillantemente come studioso del marxismo e che, a partire dal 1985, insegna fenomenologia e filosofia della religione all’Università di Yale.

«C’è un’idea – ricorda il Dupré – che continua ad emergere, fin dall’epoca dell’illuminismo e particolarmente dei filosofi tedeschi Herder e Kant (specie l’ultimo Kant): è l’idea dell’umanità. Nell’illuminismo tedesco essa era troppo astratta per avere un impatto reale: essa, infatti, tranne che in Herder, ignorava le differenze e le divergenze tra le varie culture e pertanto tendeva a costruire un universale astratto. Tuttavia ritengo che l’idea dell’umanità sia un’idea valida, che ha un potenziale ancora sconosciuto e non è necessariamente astratta.

L’idea di umanità è condannata a restare puramente astratta finché si dirà: l’umanità è tutta la gente che esiste, proprio come diciamo che la natura sono tutte le cose esistenti. Messo così, neanche il concetto di umanità può aver valore normativo. Ma, una volta che accettassimo che l’umanità è un qualcosa la cui unità e coerenza si basano su una realtà più grande di lei, cioè le dessimo un fondamento trascendente, vale a dire religioso (non importa che uno lo chiami Dio come faccio io), le cose cambiano. Al punto in cui siamo davvero non vedo come potremmo affrontare i problemi moderni dell’etica, la tremenda crisi del nostro tempo, senza darci un qualche fondamento religioso. So bene che dire questo significa provocare un’infinità di polemiche, perché so che nel mondo moderno le religioni sono esattamente ciò che divide i popoli. Eppure, io credo che, proprio partendo dalla religione, dovremmo educare sia i credenti, sia i non credenti, all’idea forse vaga, ma ciò nondimeno estremamente importante che l’uomo non è solo nella cura di se stesso e del mondo; che fa parte di uno schema più ampio, che ha ricevuto qualcosa, che non si è fatto da solo». (Il brano qui riportato è la parte conclusiva dell’articolo L’etica sociale può risorgere, apparso su L’Unità del 28 luglio 1997)

L’ANGOLO DELLA PREGHIERA. Signore, quando… Signore nostro Dio, / quando la paura ci prende, / non lasciarci disperare! / Quando siamo delusi, / non lasciarci diventare amari! / Quando siamo caduti, / non lasciarci a terra! / Quando non comprendiamo più niente / e siamo allo stremo delle forze, / non lasciarci perire! (Karl Barth)

26 settembre 1997.

LINEA RECTA BREVISSIMA. Educatori veri, rara fortuna. La maggior parte delle persone che deputiamo a educare i figliuoli sappiamo di certo non essere state educate. Né dubitiamo che non possano dare quello che non hanno ricevuto, e che per altra via non si acquista. La filosofia, sì, ma senza pompa e senza pedanteria. Nessun maggior segno d’essere poco filosofo e poco savio, che volere savia e filosofica tutta la vita. (Giacomo Leopardi)

Perché scrivere. Scrivere è il mio strumento, è il solo di cui disponga… So perfettamente che un santo sorriderebbe di questo povero mezzo per toccare il cuore. Ma è il mio strumento (Georges Bernanos).

IL «CASO GIOBBE» E IL GIUDIZIO DI DIO SULL’UOMO. In Giobbe la protesta contro il destino di atroce sofferenza, che sconvolge i suoi giorni, è così radicale da sembrare, a prima vista, un formidabile atto di accusa contro il Signore e una negazione totale della provvidenza dell’Altissimo. Ma con il Libro dì Giobbe entra nella storia una nuova e più alta visione dell’uomo, di Dio e del loro rapporto.

Punto primo. Ogni grande sistema concettuale tende a cancellare il problema, soprattutto poi se il problema è quello della sofferenza, peggio ancora della sofferenza immeritata. Nelle costruzioni – spiegatutto il principio onnivoro è quello formulato da Hegel: «Tutto ciò che è reale, è razionale». Ebbene Giobbe è lì a gridare che l’irrazionale irrompe nell’esistenza, che il male c’è e il dolore degli uomini è una realtà, spesso terribile, con la quale prima o poi tutti sono chiamati a misurarsi.

Punto secondo. La realtà effettuale del dolore e del male nell’esistenza degli individui e dei popoli ci impone di non continuare a dire, mentendo, che su questa terra l’innocente e il giusto hanno inevitabilmente la meglio. No, grida Giobbe, non c’è equazione in questo mondo tra virtù e felicità, tra vita buona e gioia. Quell’equazione non è affatto la regola dell’avventura umana.

Rifiutando la menzogna consolatoria, secondo la quale ognuno ha qui e ora quello che si è meritato, Giobbe col suo «caso» mette a tacere una volta per sempre le false certezze della morale retributiva, che chiama in causa nientemeno Dio a garante dei suoi sofismi. La disumanità di una siffatta concezione della vita – che è quella dei cattivi e petulanti «difensori» di Dio – è bollata con parole di fuoco. Se poi ci proviamo a paragonarla con le beatitudini del Discorso della Montagna, se ne misura tutta l’abissale distanza! Il Libro dì Giobbe apre, dunque, il varco a una ben diversa visione del mondo e di Dio.

MOTTI E FACEZIE DEL PIOVANO ARLOTTO. Piovano Arlotto fu cappellano sulle navi fiorentine e poi per alcuni decenni parroco della pieve di San Cresci a Maciuoli nella diocesi di Fiesole. Il suo vero nome è Arlotto Mainardi, nato a Firenze nel 1396 e lì morto nel 1484. I Motti e le facezie del Piovano Arlotto fecero il giro del mondo in forma orale e manoscritta ancor prima della loro stampa, la quale risale al 1514 – 1516. Ne ha curato l’edizione critica A. D’Agostino, presso La Nuova Italia di Firenze, nel 1979.

  1. Ciò che è male ad operare è male a dire.
  2. Non vive colui che non desidera altro che di vivere.
  3. Colui che non può alcuna cosa si può dire che sia morto vivendo.
  4. Quale è la parola dell’uomo, tale è lui.
  5. Chi vole gustare il dolce ricordisi [ =si ricordi] dello amaro.
  6. Odi molto e parla poco, perché la natura ha fatto una bocca e due orecchi.
  7. Al ricco amico va quando se’ chiamato; al povero, senza esser chiamato.
  8. Ogni cosa è creata per l’uomo, e 1’uomo per servire l’uomo.
  9. Niuna cosa è tanto nimica della iustizia quanto far male e mostrare d’essere buono.
  10. Niuno ripùti suo quello che è fuori dì sé.

NON ACCONTENTARSI DI UN SOLO GIUDIZIO. Coloro che hanno acquistato una grande potenza tra gli uomini stiano attenti a non scagliare sconsideratamente le loro decisioni come se fossero fulmini. Si circondino di consiglieri, ascoltino anche le opinioni di molti, sappiano introdurre temperamenti in decisioni destinate a far soffrire e, quando sia proprio necessario adottarle, si ricordino che persino Giove non si accontentava di un solo giudizio (Seneca, Naturales quaestiones, 2, 43, 2).

2 ottobre 1997.

LINEA RECTA BREVISSIMA. Se un birbante. Se un birbante ha contrattazioni e negozi con altri birbanti, spessissimo accade che si porta con lealtà e che non gl’inganna; se con genti onorate, è impossibile che non manchi loro di fede, e dovunque gli torna comodo, non cerchi di rovinarle. Caratteri piccoli per accecare i lettori. La sapienza economica di questo secolo si può misurare dal corso che hanno le edizioni che chiamano compatte (oggi si dice economiche), dove è poco il consumo della carta, e infinito quello della vista. (Giacomo Leopardi)

AL DI LÀ DELL’ACCETTAZIONE DELLA SOFFERENZA. Le conseguenze del «caso Giobbe» sono di grande momento. Nobili e commoventi sono le parole con cui Giobbe si mette nelle mani di Dio: «Nudo uscii dal seno di mia madre, e nudo vi tornerò. Il Signore ha dato, il Signore ha tolto. Sia benedetto il nome del Signore!» (Gb 1, 21). Tuttavia il testo biblico si spinge oltre, verso profondità fino ad allora sconosciute. Sì, è vero, il racconto ha una coda posticcia: a Giobbe verranno restituite fortune e salute. Ma chi sanerà la ferita dell’abbandono da parte delle persone che a lui erano più care? E che senso ha un risarcimento «pro tempore»? La tragedia di Giobbe è stata rappresentata in modo sublime, ma l’epilogo che vi è stato aggiunto non è omogeneo. Contro le considerazioni precedenti, la conclusione consolatoria è una grossolana ricaduta in quella «logica mondana» contro cui il Libro di Giobbe è stato scritto.

La vera bestemmia, infatti, consiste nel far coincidere il giudizio di Dio sull’uomo con la sua «riuscita» terrena. In una prospettiva così grossolana l’insuccesso terreno e la morte ignominiosa di tanti testimoni di Dio, da Isaia a Paolo di Tarso, assumerebbe immancabilmente il significato di «prova» della condanna del loro sacrificio da parte di Dio stesso! Grazie a Giobbe, noi sappiamo che le cose non stanno così. Quando l’umanità lo comprende, la sua coscienza realizza uno straordinario balzo in avanti. La morale retributiva e la logica mondana cedono allora il passo a ciò che le nega e le supera da ogni lato.

LA GIUSTIZIA, IL VALORE FONDANTE. La giustizia è cosa sacra e non ha di mira che il bene altrui (res sacra iustitia alienum bonum spectans), non esigendo altro che non sia l’applicazione di se stessa. Essa non deve avere nulla a che fare con l’ambizione e non può farsi suggestionare dall’opinione degli altri: basta che piaccia a se stessa. Che ognuno diventi persuaso anzitutto di questa verità: «Devo esser giusto senza nulla chiedere in cambio».

Ma non basta. C’è ancora un altro principio che ognuno deve far suo: «Mi sia gradito sacrificare spontaneamente anche qualcosa di me stesso, pur di praticare questa bellissima virtù, e ogni mio pensiero sia lontano il più possibile da interessi particolari (tota cogitatio a privatis commodis quam longissime aversa sit)». Non c’è ragione di guardare al premio che spetta a un’azione giusta: ce n’è uno più grande nella giustizia voluta per se stessa…

Più volte ti toccherà essere giusto anche a prezzo del tuo buon nome. «Se però sei saggio, ti deve far piacere il discredito che hai nobilmente acquistato per aver operato bene» (Seneca, Ad Lucilium epistulae morales, 113, 31, 32 passim).

MOTTI E FACEZIE DEL PIOVANO ARLOTTO (1396 – 1484).

  1. Abbi più dolore della vita de’ cattivi figliuoli che della morte dei buoni.
  2. Chi tu non lodi non vituperare.
  3. La morte non perde l’anima, ma la cattiva vita.
  4. Tu non debbi attendere (= devi considerare) quanto uno ha istudiato, ma se bene istudiato.
  5. Non consigliare senza essere domandato.

9 ottobre 1997.

LINEA RECTA BREVISSIMA. I deboli e i forti. I deboli vivono a volontà del mondo, e i forti a volontà loro. Un diritto dei giovani. I giovani parlano delle cose proprie con un candore estremo, credendo per certissimo che chi ode, le curi poco meno che le curano essi… È manifesto il bisogno che hanno d’aiuto, di consiglio e di qualche sfogo di parole alle passioni onde è tempestosa la loro età. (Giacomo Leopardi)

L’avvenire. Il desiderio affretta l’avvenire e crea. Potare, non sradicare. I disinganni potino la pianta del desiderio, non la stronchino. Libertà. Libertà è conoscere i limiti propri e gli altrui, questi e quelli difendere. (Niccolò Tommaseo)

NON POSSIAMO CHIUDERE GLI OCCHI. Si sa che la ridistribuzione della ricchezza avviene oggi in prevalenza attraverso gli scambi commerciali; è assai meno conosciuto in che misura ne beneficia la popolazione. Ebbene, il Quinto Rapporto sullo Sviluppo umano, pubblicato dall’UNDP (United Nations Development Programme) nel l994, fornisce questo dato: dividendo la popolazione in cinque fasce, il primo quinto si avvantaggia dell’84% dell’intera attività economica di scambio, mentre all’ultimo quinto tocca l’1,4%. Sono cifre che non possono essere taciute, sono dati da cui deve muovere chi voglia fare discorsi sensati sullo stato presente dell’umanità e sulle sue prospettive future.

OLTRE LA DISPERSIONE, RITROVARE LA SORGENTE. Si fa, oggi, un gran parlare di valori. Si dice: i valori sono in crisi, c’è un pauroso vuoto di valori, e dunque bisogna tornare ai valori. Ma è convincente questo richiamo? Non è troppo anonimo e astratto? Qualcuno potrebbe anche contestare che nel cuore della gente i valori siano del tutto spariti. In molti casi i valori ci sono, ma si trovano in stato di dispersione, in diaspora. Ci sono, ma isolati e slegati fra di loro, senza più un quadro interpretativo unitario, e quindi in totale frammentarietà.

Non pochi sociologi danno il benvenuto a questa specie di politeismo laico, ma saremmo ciechi se non vedessimo le conseguenze effettive di questa babele. In realtà, i valori in stato di dispersione si rivelano deboli, inconsistenti, privi di vigore. Non hanno più capacità di attrarre, non suscitano l’eroismo morale e la sanità. Non illudiamoci di riuscire meglio a proporre i valori staccandoli dalla loro divina sorgente. Per usare il linguaggio evangelico, i valori staccati da Colui che li fonda sono come tralci staccati dalla vite. Si seccano rapidamente (P. Giulio Cives).

LE DECISIONI NON SIANO FULMINI: Bisogna sempre dare tempo: il tempo svela la verità (dandum semper est tempus: veritatem dies aperit). E non ascoltiamo con orecchie compiacenti le accuse; è questo vizio della natura umana, di cui dobbiamo essere consapevoli e diffidare. Infatti, prima ancora di formulare un giudizio su di esse, siamo immediatamente propensi a credere a quelle cose che pure ascoltiamo malvolentieri e con irritazione. E non è forse vero che ci lasciamo trasportare non solo dalle accuse, ma anche da mere supposizioni e che, male interpretando uno sguardo o un sorriso altrui, ce la prendiamo con chi è innocente? Bisogna, dunque, che la causa dell’assente sia trattata mettendoci noi al suo posto e tenendo l’ira in sospeso. Una pena differita può essere inflitta, ma una volta inflitta, non può essere revocata (Seneca, De ira, 2, 22, 3 – 4).

L’ANGOLO DELLA PREGHIERA. Io tradisco, se tu non aiuti. Io tradisco, se tu non aiuti, / o mio Gesù, misericordioso. / Tu mi conosci, Signore; nel tuo servo / non confidare: se non lo sorvegli, / fugge, adescato da altro: / una bestia dorata sarà il suo dio; / ma se tu lo aiuti, Signore, se non lo privi (del raggio del tuo volto adorabile), / se egli sa di non sfuggire al tuo occhio, / teme e trema, e resta con te. / Gesù, sul mio capo sia impresso il tuo sangue; / e se il mondo si attenta a incontrarmi, / quel sangue risplenda lontano, / e il mondo arretri, senz’aver steso la mano (Guido Gezelle, 1830 – 1899).

16 ottobre 1997.

LINEA RECTA BREVISSIMA. Se li denuderai, li disprezzerai. Guarda quei signori raffinati, che la lettiga tiene sollevati sopra le teste della folla. La loro felicità è solo una maschera. Se li denuderai, li disprezzerai (Seneca). Differenza fra principio e massima. Il principio ha più del teorico; la massima spetta alla pratica. Massime del La Rochefoucault, principi del Vico. (Niccolò Tommaseo). Quello che ci vuole. Ci sono persone antipatiche, malgrado i loro meriti, e altre simpatiche, malgrado i loro difetti. Quello che ci vuole, però, è unire in una stessa persona i meriti e la simpatia. Soprattutto se il termine simpatia sta a indicare ospitalità del cuore, gentilezza, capacità di capire gli altri e affettuosa discrezione (Levi Appulo).

NON VANIFICARE LA GIUSTIZIA CON UN PERDONO SCRITERIATO. Non va bene perdonare indiscriminatamente; quando è tolta la differenza fra buoni e cattivi, ciò che ne segue è solo confusione e i vizi dilagano. Occorre occhio per distinguere quelli che possono ravvedersi da quelli il cui caso è disperato. Non bisogna avere né una clemenza indifferenziata e usuale, né una clemenza a cui nessuno possa avere accesso: infatti, è cosa crudele sia perdonare a tutti, sia non perdonare a nessuno. Dobbiamo tenere la giusta misura: ma poiché è difficile trovarla, tutte le volte che la bilancia starà per pendere da una parte, inclini piuttosto a ciò che è più umano» (Seneca, De clementia, proemio 2, 2).

LA «VERA» CONCLUSIONE DEL «LIBRO DI GIOBBE». La «vera» conclusione del Libro di Giobbe a me pare di ravvisarla nel passo 42, 5: «Di te, Signore, avevo sentito parlare, ma ora che i miei occhi Ti hanno visto, tremo di pena per l’argilla mortale». Ecco, la pretesa dell’uomo giusto di essere qui e ora felice, per quanto comprensibile e naturale essa sia, cede di colpo a qualcosa di totalmente superiore e inaspettato. Ora che gli occhi di Giobbe hanno visto il Signore, nel suo cuore subentra il disinganno anche su se stesso. Quel provare compassione «per l’argilla mortale», cioè per sé e per i suoi simili, coincide infatti con una illuminazione interiore e nasce solo da essa.

Non è, dunque, Giobbe che ha sbugiardato Dio, né Dio che ha piegato Giobbe. Dio, però, ha rifiutato con orrore i ragionamenti ottusi dei suoi «apologisti», che osano confondere la loro meschina, ripugnante disumanità con i pensieri dell’Altissimo. Il Signore è venuto da Giobbe, donandogli un cuore nuovo e una ben diversa intelligenza della vita. Ebbene, ciò vale per Giobbe incomparabilmente più del riconoscimento del suo essere «giusto» ed è al di là di ogni considerazione di ricompensa. La contestazione, il calcolo, per altro sempre azzardato, del meritare e dell’avere appaiono ora, al cospetto di un dono che supera ogni attesa, privi di consistenza, un qualcosa di cui, anzi, si deve aver pietà, proprio perché Dio è infinitamente più grande del nostro cuore e dell’inaffidabile aritmetica di ogni morale retributiva.

A quel punto per Giobbe il futuro e il passato scompaiono. Le stelle mattutine esplodono in canto, come all’alba della Creazione, e lui, l’uomo che ha conosciuto il soffrire nei suoi aspetti più devastanti, può di nuovo contemplare il mondo e far sue, finalmente, le parole di Dio: «Ecco, è cosa molto buona» (Gen. 1, 31).

UNO STIMOLO, MA RICEVUTO NEL SILENZIO. Esistono spiriti cui una sorta di pigrizia o di frivolezza impedisce di scendere spontaneamente nelle regioni profonde del loro io, là dove comincia la vera vita dello spirito. Non che, condotti sino ad esse, non si dimostrino capaci di scoprirvi vere ricchezze e di farle rendere; ma, senza quest’intervento estraneo, essi vivono alla superficie di sé, in un perpetuo oblìo di se stessi, in una sorta di passività che li rende zimbello di tutti i piaceri, li abbassa sino al livello di coloro che li circondano e li agitano; e finirebbero con l’abolire in sé ogni sentimento e ogni ricordo della loro nobiltà spirituale, se un impulso esterno non li introducesse nuovamente, in certo modo di viva forza, nella vita dello spirito. Ora quest’impulso che lo spirito pigro non può trovare in sé e che gli deve venire da altri, è chiaro ch’esso lo deve ricevere in seno alla solitudine. Ci vuole un intervento che, pur provenendo da un altro, si produca nel profondo di noi; lo stimolo di un altro spirito, ma ricevuto in seno alla solitudine. Orbene tale è precisamente la definizione della lettura, ed essa conviene solamente a questa (Marcel Proust, Giornate di lettura, Milano 1965, p. 133).

23 ottobre 1997.

LINEA RECTA BREVISSIMA. Un occhio, non due. L’esperienza ammonisce che bisogna, qualche volta, chiudere un occhio, ma che non bisogna mai chiuderli tutt’e due. Da una generazione all’altra. Ciò che una generazione imparò a caro prezzo, la susseguente disimpara celiando. Stare zitti per ascoltarla. Chi voglia udire la voce sincera della coscienza, bisogna che sappia fare silenzio intorno a sé e dentro di sé. La politica comune. La politica comune è, troppo spesso, l’arte di mandare innanzi, a braccetto, la verità e la menzogna, per modo che chi le vede passare non sappia distinguere quale sia la menzogna e quale la verità. Vuoi sapere quanto vali? Tanto vale l’uomo quanto vale il concetto che egli si forma della felicità. Uno spirito largo non conosce invidia. Quanto più lo spirito si allarga, e tanto meno posto vi possono trovare l’odio e l’invidia. Le nostre manie. Un libro che per sé non valga nulla, ma sia difficile da trovare, diventa pei bibliofili di professione un libro prezioso. Conversare con i libri. Chi fa un libro ci mette dentro, di solito, la parte migliore di sé; e per questo, conversare con i libri, è più piacevole che conversare cogli uomini.

Questi aforismi sono di Arturo Graf. Nato in Grecia nel 1848, ordinario di letteratura italiana a Torino tra il 1882 e il 1907, divenne il massimo esponente della critica letteraria di orientamento positivista. Ebbe tra gli allievi Guido Gozzano e Carlo Calcaterra. Il titolo dei suoi aforismi, Ecce Homo, richiama polemicamente un’opera di Nietzsche.

CHE ALTRO VUOI DALLA VITA? Una famosa marca automobilistica ha affidato il lancio del suo ultimo modello a uno spot di cinica spudoratezza. «Che vuoi dalla vita?», chiede un bellimbusto. E dall’alto della sua proterva sicurezza, risponde: «Primo, le donne; secondo, i soldi; terzo, il successo». Di lì l’insinuante deduzione: sarai facilitato nel raggiungimento di quei tre obiettivi, se accrediterai te stesso usando l’auto xyz! Quello spot, purtroppo, rispecchia ed esalta una forma mentis grossolanamente materialistica, tipica della società dei consumi, in cui la produzione di bisogni né naturali né necessari è l’unico imperativo categorico.

Il risultato è che le folle, in ogni momento della giornata, sono sospinte da una regia criminale a esaltare come fini e valori assoluti la ricchezza, il potere, il lusso, la sessualità fine a se stessa. Si scatena così la corsa dei desideri e delle passioni, inevitabilmente destinata a seminare delusioni e amarezze; ma neppure coloro che toccano i traguardi agognati possono aver pace, perché la prosperità e la voluttà raggiunte domandano, a loro volta, la garanzia di un sempre nuovo accrescimento. I falsi beni, proprio perché tali, generano oscura inquietudine e angoscia in tutti, nausea e arroganza in chi può disporne a dismisura.

ISOLATI, SAREMMO PERDUTI. Isolati, che cosa siamo noi? Una preda per gli animali, vittime senza difesa. Gli altri animali hanno per difendersi forza sufficiente: destinati dalla natura a una vita errante e solitaria, sono stati provveduti di difesa. L’uomo non lo è: è coperto di una delicata pelle, non ha artigli né zanne che lo rendano terribile agli altri; nudo e debole, egli ha la sua forza nella società. Dio gli ha dato due cose che dell’essere più soggetto hanno fatto l’essere più forte: la ragione e la società (duas res Deus dedit, quae illum obnoxium validissimum facerent, rationem et societatem). Così colui che, isolato, sarebbe inferiore a tutti, è padrone del mondo. Distruggi la società, e spezzerai l’unità del genere umano, che è ciò su cui poggia la vita (Seneca, De beneficiis, 4, 18, 2 – 4).

L’ANGOLO DELLA PREGHIERA. All’ultimo momento. Quando sul mio corpo / (e ben più sul mio spirito) / comincerà a mostrarsi l’usura degli anni, / quando si abbatterà su di me, dal di fuori, / o nascerà in me dal di dentro, / il male che sminuisce o porta via, / nell’istante doloroso in cui prenderò coscienza / che sono malato o che sto diventando vecchio, / in quell’ultimo momento, soprattutto, / quando sentirò di sfuggire a me stesso, / assolutamente passivo / in mano a grandi forze sconosciute / che mi hanno formato, / in tutte quelle ore buie, / donami, mio Dio, di comprendere / che sei tu (ammesso che la mia fede sia così grande) / che separi dolorosamente le fibre del mio essere / per penetrare fino al midollo della mia sostanza e trascinarmi in te (Pierre Teilhard de Chardin).

30 ottobre 1997.

LINEA RECTA BREVISSIMA. Aver a che fare con ciò che desta lo stupore. Il motivo per cui il filosofo è vicino al poeta è questo: ambedue hanno a che fare con ciò che desta lo stupore (Tommaso d’Aquino). Quando ridercela del filosofo. Si ride del filosofo il quale crede che il «processo storico» passi per la sua scrivania (Maurice Merleau-Ponty). Ascoltare il silenzio, dire l’indicibile. Come la poesia, così anche la filosofia è un «ascoltare il silenzio». Ma occorre accettare il paradosso di Plotino: occorre parlare per dire l’indicibile (Vittorio Mathieu) L’internarsi nel profondo. È comune al poeta e al filosofo l’internarsi nel profondo degli animi umani e trarre in luce le loro intime qualità e varietà, gli andamenti, i moti e i successi occulti, le cause e gli effetti dell’une e degli altri (Giacomo Leopardi). La stessa fonte. La poesia e la filosofia hanno una stessa fonte: l’identificazione, l’assimilazione, la consustanzializzazione dello spirito e dell’oggetto (Charles Baudelaire).

SÌ, SIAMO SECONDI NELLA GRADUATORIA DELLA DISUGUAGLIANZA. La ridistribuzione interna della ricchezza nei vari Paesi vede delle fortissime sperequazioni. Il Rapporto Wolf per il Twentieth Century Fund (1995) presenta una graduatoria dell’ineguaglianza che vede in testa gli Usa, seguiti dall’Italia al secondo posto. I dati hanno dell’incredibile, solo perché sono poco noti. Negli Usa l’1% della popolazione (un milione ottocentomila persone) si accaparra il 34% della ricchezza annuale prodotta, in Italia l’1% (meno di mezzo milione di persone) ottiene il 31%. Questo dato è stato fornito in via ufficiale dalla Banca d’Italia. A fronte dei dati appena citati, si può ancora parlare di progressiva omologazione della grande maggioranza degli italiani in una gigantesca classe media? Questa classe media esiste forse per alcuni aspetti del costume, non certo per la distribuzione della ricchezza.

LA COMUNITÀ E L’INDIVIDUO. È delitto nuocere alla patria: è dunque delitto anche il nuocere a un concittadino, poiché questi è una parte della patria, e le parti sono sacre se il tutto è degno di venerazione; ed è dunque delitto anche nuocere a un uomo qualsiasi, poiché egli è tuo concittadino nella città più grande (nefas est nocere patriae: ergo civi quoque, nam hic pars patriae est – sanctae partes sunt si universum venerabile est; – ergo et homini, nam hic maiore tibi urbe civis est). Che diresti se le mani volessero nuocere ai piedi, gli occhi alle mani? Come tutte le membra concordano tra loro, perché va a vantaggio di tutto l’insieme che ciascun membro si conservi, così gli uomini dovranno aver cura dei singoli individui perché essi sono nati per vivere in comunità, e una società non può mantenersi se non per la vigilanza e la reciproca solidarietà delle parti che la compongono (Seneca, De ira, 2, 31, 7).

LA LETTURA, UN’AMICIZIA PURA E TRANQUILLA. «La lettura è un’amicizia (…) sincera; e il fatto che si rivolge a dei morti, a degli assenti, le conferisce qualcosa di disinteressato, di quasi commovente. Inoltre, è un’amicizia affrancata da tutto quanto fa la bruttezza delle altre (…). Con i libri, niente convenevoli. E spesso non li lasciamo che con rimpianto. E, quando li abbiamo lasciati, nessuno di quei pensieri che guastano le amicizie: “Che cosa avranno pensato di noi? Non avremo mancato di tatto? Saremo piaciuti?”; e nessuna paura di essere dimenticati per un altro! Tutte queste agitazioni dell’amicizia cessano alle soglie di quell’amicizia pura e tranquilla che è la lettura» (Marcel Proust, Giornate di lettura. Scritti critici e letterari a cura di Paolo Serini, Milano 1965, pp. 146 – 147).

L’ANGOLO DELLA PREGHIERA. E saremo contagiosi della gioia. Poiché le tue parole, mio Dio, non sono fatte / per rimanere inerti nei nostri libri, / ma per possederci / e per correre il mondo in noi, / permetti che, da quel fuoco di gioia / da te acceso, un tempo, su una montagna, / e da quella lezione di felicità, / qualche scintilla ci raggiunga e ci possegga, / ci investa e ci pervada. / Fa’ che, come «fiammelle nelle stoppie», / corriamo per le vie della città, / e fiancheggiamo le onde della folla, / contagiosi di beatitudine, contagiosi della gioia… (Madeleine Delbrel).

Un cuore capace di ascolto. E ora, / Signore mio Dio, / dona al Tuo servo / un cuore / capace di ascolto (Dal Primo Libro dei Re).

6 novembre 1997.

LINEA RECTA BREVISSIMA. La mia umanità. La mia umanità sta nel sentire / che siam voci di una comune indigenza (Jorge Luis Borges). Come ci si deve rapportare alle cose e alle persone. È proprio di uno spirito padrone di se stesso trattare ogni cosa secondo ciò che essa è realmente (Severino Boezio). Libertà d’accusa, ma rigore estremo con la calunnia. In uno Stato democratico bisogna fare grande posto all’accusa, ma bisogna essere severissimi con la calunnia (Niccolò Machiavelli). Ogni uomo abbraccia cinque generazioni. Ogni uomo ha partecipato, bambino, ai ricordi dei suoi nonni e partecipa, vecchio, alle speranze dei suoi nipoti; abbraccia così cinque generazioni, qualcosa che va da cento a centoventi anni (Hugo von Hofmannsthal). Quale Dio dopo Auschwitz? Dopo Auschwitz rimane credibile soltanto il più incredibile degli dèi: il Dio che si fa creatura inerme e debole, il Dio condannato dai potenti, il Dio con noi nelle nostre croci e nella morte, il Dio nel cui corpo trafitto un discepolo in crisi di fede poté mettere le dita… Sì, dopo Auschwitz è il Dio meno credibile che si manifesta, paradossalmente, come l’unico credibile (Giacomo Cives).

DUE CARTOLINE DA NAPOLI. La prima. Prima decade di ottobre. Sono a Napoli per un meeting internazionale sul tempo nella scienza e nella filosofia. I primi due giorni nuvolaglia, foschia e scirocco; il terzo giorno, però, è di straordinario nitore. A sera le luci sembrano potenziare la percezione netta, distinta di ogni singola cosa e io, in attesa di cenare, mi godo in silenzio quello spettacolo. Il cameriere mi osserva e, nell’atto di porgermi il menù, mi confida sottovoce: «In un giorno come questo Napoli è un incanto. Eppure, con tutta la sua bellezza, è niente, meno di niente rispetto a quello che ho visto poco prima delle sei stamattina, quando sono uscito di casa per venire al lavoro: un cielo con tantissime stelle, luminose come non mai. Sembrava un anticipo del paradiso!».

La seconda. A un semaforo rosso si forma in poco tempo una lunga colonna di auto. Io, sul marciapiede, cammino in senso inverso. Una giovane donna si sporge dal finestrino abbassato della sua Cinquecento e, raggiante di gioia, mi dice: «Signore, fate festa anche voi con me. Su, sorridete: oggi m’han detto che aspetto un figlio!». In quel momento mi è tornata in mente un’esclamazione di Goethe: Viva chi vita crea!; ma ci vorrebbe Dostoevskij per mettere in valore il profondo significato delle parole di quella madre.

POESIA DEI NOSTRI GIORNI. Se ti avanzasse amore. Se ti avanzasse amore / donalo a me, se credi. / È tanto grande il cuore / da contenere il cosmo. Dinanzi al mare. A fronte d’un azzurro senza fine, / la nostra misura è manifesta. / Senti lo spazio farsi illimitato / mentre inavvertito scorre il tempo. Un giorno particolare. Era un giorno d’estate, / un giorno particolare dove / ogni creatura era voce / che faceva racconto… Anche una lacrima. Anche una lacrima sente di sale / come l’onda del mare.

Questi versi sono tratti dal volumetto Dove? di Marcella Tassinari, Brescia 1997. La precedente raccolta, presso lo stesso editore, si intitola Arriverà come vento.

13 novembre 1997.

LINEA RECTA BREVISSIMA. Il gusto malsano di rovistare nella spazzatura. Le odierne minuziose biografie di poeti e di artisti hanno un’origine molto malsana. Sarebbe meglio contentarsi delle opere (Jacob Burckhardt). Perché Pirandello meritava il Nobel. La verità di Pirandello è un lato, un aspetto della verità, e tuttavia ha valore universale perché raggiunge sempre le radici del dolore umano (Levi Appulo). L’uomo diventa ciò a cui si rapporta. A forza di pascolare i porci, ci siamo resi simili ai porci / porcos diu pascendo, porcis assimilati sumus (Gerhoh di Reichersberg).

INCONTRO AL TERZO MILLENNIO. «Storia antica, tradizione, fede, nuovi popoli, culture, un linguaggio comune, un’autorità convergono a tenerla insieme. In un mondo dall’economia globalizzata, tra tanti confini nazionali nuovi e vecchi, dove tutto è mercato, resiste, prospera, arretra, vive questo mondo cristiano che riconosce di aver ricevuto una tradizione di fede di cui è guardiana la Chiesa di Roma. La Chiesa romana non è solo una memoria storica, è anche la realtà del presente. Roma, città tranquilla, tre milioni di abitanti, capitale di uno Stato medio e prosperoso come l’Italia, è anche la città santa dove i cattolici si recheranno pellegrini nel 2000 (se ne prevedono 40 milioni). È la città del Papa, attorno a cui si ritrova il mondo religioso di più di un sesto della popolazione mondiale, più di novecento milioni di fedeli (militanti, praticanti, credenti, credenti a modo proprio…), oltre un milione e mezzo di professionali (preti, religiosi, laici) che lavorano a tempo pieno, con uno Stato (il Vaticano) e una diplomazia al suo servizio.

Nel caos contemporaneo questa Chiesa non si sdegna più per l’eccessivo disordine dei tempi come tra l’Ottocento e Novecento. Guarda con simpatia le situazioni tanto diverse del mondo: così le comanda il Vaticano II. La Chiesa affronta l’oggi con un’intransigenza levigata dall’esperienza del Novecento e dalla simpatia per il proprio tempo.

A queste realtà e a questi sentimenti si danno nomi diversi: carità e ortodossia, apertura e identità, mediazione e rigore, libertà ed obbedienza, coscienza e fede, necessita e fedeltà. Ma forse ciascun cattolico partecipa di questi due confini estremi: simpatia e intransigenza.

Questa è la Chiesa di Roma che sente di avere un futuro. Almeno sente che le è promesso. Ma, al fondo di questo atteggiamento, c’è un nocciolo duro, quello che il vecchio Paolo VI esprimeva al termine del suo travagliato pontificato: fidem servavi. Al fondo, la convinzione che per passare da un secolo all’altro basta conservare questa fede». (Andrea Riccardi, Intransigenza e modernità, Bari 1996, pp. 106 – 107).

L’ANGOLO DELLA PREGHIERA. Siamo ormai noi l’evangelo. Cristo non ha più mani, / ha soltanto le nostre mani / per fare oggi le sue opere. / Cristo non ha più piedi, / ha soltanto i nostri piedi / per andare oggi agli uomini. / Cristo non ha più voce, / ha soltanto la nostra voce / per parlare oggi di sé. / Cristo non ha più forze, / ha soltanto le nostre forze / per guidare gli uomini a sé. / Cristo non ha più vangeli / che essi leggano ancora, / ma ciò che facciamo / in parole e in opere / è l’evangelo / che lo Spirito sta scrivendo (Anonimo fiammingo del XV secolo).

20 novembre 1997.

LINEA RECTA BREVISSIMA. Grandezza e unicità dell’uomo. L’uomo dovrebbe annunciare le opere meravigliose di Dio con la voce della ragione. In lui, infatti, è l’intera opera di Dio che riconosce il suo autore e comprende la creazione come suo atto d’amore. Se assolutizzato, il piacere è distruttivo. Se per placare la nostra fame, ci lasciano spingere alla mangiatoia dei porci, il cibo che ci sarà dato, benché intinto di miele, si rivelerà essere molto amaro. L’invidia. L’invidia parla così: «Se non posso possedere il Bello e il Raggiante, voglio almeno insozzarli nelle persone che ne sono partecipi» (Ildegarda di Bingen. Nata nel 1098, cioè novecento anni fa. Tedesca, benedettina, santa. Prima donna medico nel mondo; compositrice, teologa e poetessa)

No, non è un lusso. Essere ex veritate, cioè volere e cercare con tutta l’anima la verità in ogni campo, non è un articolo di lusso, né una fisima ridicola, né un privilegio riservato a pochissimi. È soltanto il nostro più elementare dovere. Viva il principio di Braque. Mi è sempre piaciuto immensamente il principio della pittura di Braque: la regola corregge l’emozione. Credo, però, che sia ancor più necessario essere determinati nell’esprimere con passione la razionalità. (Levi Appulo)

UN PECULIARE DESIDERIO DEL SACRO… Colui che prega trasforma la preghiera in atto di amore quando giunge a riconoscere Dio non come un elargitore di doni, ma come il Dono in se stesso, come l’Altro, irriducibile a chi lo prega e non piegabile alla sua volontà. Nasce così il desiderio di Dio, dove la preghiera diventa puro atto di fede, presenza di Dio e gioia di vivere in quella qualsiasi situazione nella quale il Creatore ama collocare la sua creatura. La richiesta di aiuto può pur sempre riaffacciarsi, ma lascia Dio perfettamente libero di rispondere con un sì o con un no, dato che i pensieri e i desideri di chi prega sono del tutto diversi da quelli di Dio (Is. 55, 8): alla Sua risposta la creatura si rimette pertanto totalmente: «Padre allontana da me questo calice, tuttavia sia fatta la tua volontà, non la mia…». Nel sacro, il desiderio nasce e si annulla nella ricerca di Dio, come aveva visto Agostino e come hanno continuamente confermato i mistici. E così è per tutti i credenti, secondo le mille sfaccettature che il desiderio può assumere in essi, per le leggi dell’inconscio scoperte da Freud. Sia consentito a chi scrive di esprimere una sfaccettatura peculiare del suo desiderio di sacro: quello che venga il tempo, auspicabilmente non troppo dilatato, che venga ritrovata una delle lettere che si sanno smarrite dell’apostolo Paolo. Una lettera in cui, rompendo e spiegando una volta per tutte l’ostinato silenzio mantenuto al riguardo in tutte le altre Lettere, Paolo affronti e risolva il problema davvero ineliminabile della posizione occupata da Maria Madre di Dio, un’altra creatura di desideri, nella economia e nella teologia del Cristianesimo.

La pagina che ho riportato è di Leonardo Ancona, illustre psicanalista e psichiatra, ed è tratta dalla parte conclusiva del suo recente studio su Il desiderio.

I COSIDDETTI RICORDI. Da quanti anni l’infanzia sia solo un ricordo è superfluo dire, eppure le emozioni che raccolsi allora le sento ancora vive, ancora ne ripetono l’incanto e mi consentono di partecipare con gioia alla felicità dei bimbi e dei giovani che via via nella vita incontro. I cosiddetti ricordi non sono abiti smessi da conservare in naftalina, sono parte di noi e vivono e si protraggono nella vita. Neppure un istante del nostro passato è ripetibile, ma esso è reale presenza, costitutiva del nostro esistere (Marcella Tassinari, Dove?, Brescia 1997).

L’ANGOLO DELLA PREGHIERA. Rapisca, ti prego, Signore. Rapisca, ti prego, Signore, / l’ardente e dolce forza del tuo amore / la mente mia da tutte le cose / che sono sotto il cielo, / perché io muoia per amore dell’amor tuo, / come tu ti sei degnato di morire / per amore dell’amor mio (Francesco d’Assisi).

27 novembre 1997.

LINEA RECTA BREVISSIMA. La condizione umana. Se sei saggio, misura ogni cosa in rapporto alla condizione umana. / Si sapis, omnia humana condicione metire (Seneca). Bellezza e pudore. La bellezza, anche nell’arte, non si può immaginare senza pudore (Hugo von Hofmannsthal). Chi rispetta veramente i lettori. Il più grande riguardo che un autore può avere per il suo pubblico è di non dare mai ciò che esso si aspetta, ma ciò che lui stesso, ogni volta secondo il grado di maturità propria e altrui, ritiene giusto e utile. Il bene e la speranza. Chi non si ricorda del bene, non spera. (Johann Wolfgang Goethe)

L’INCUBO DELL’IMMOBILISMO ASSOLUTO. Poco più di un mese fa, conversando con alcuni illustri scienziati, ricordavo l’accanimento posto da alcuni fisici e filosofi del secolo scorso, ma anche del nostro, nel tentare di estrapolare il primo principio della termodinamica – quello, per intenderci, del «nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma» – dall’ambito suo proprio, in cui ha piena validità, per farne la legge suprema del reale.

Dove si andrebbe a parare, una volta imboccata quella strada, è fin troppo chiaro: si affermerebbe la reversibilità di tutti i fenomeni, l’azzeramento del tempo, l’impossibilità di ogni effettiva evoluzione, e ne uscirebbe confermata la tesi dell’eterna immobilità del tutto.

Ma un’operazione del genere – di cui Bergson e Popper hanno contestato con grande forza la legittimità – si potrebbe ipotizzare solo se non esistesse il secondo principio della termodinamica, formulato da Carnot e Clausius, sulla degradazione dell’energia.

Fra i due principi non c’è contraddizione, come si sarebbe tentati di supporre, ma c’è una differenza qualitativa incolmabile. Il primo, infatti, ci informa sul rapporto di una parte all’altra; è in altri termini relativo a un sistema di forze che, pur essendo distinte, sono tra loro intercambiabili (cinetiche, termiche, elettriche ecc.).

Il secondo, invece, attesta in termini matematici la realtà del mutamento e,dunque, del tempo che lo misura, indicando, senza interposti simboli, la direzione in cui va il mondo. E poiché il secondo principio della termodinamica ci informa sulla natura del tutto, esso è il più «metafisico» tra i principi della fisica.

SIR ARTHUR EDDINGTON LA PENSAVA COSÌ. Mi ha fatto perciò molto piacere apprendere che il maggiore tra i fisici astronomi del nostro secolo, sir Arthur Stanley Eddington, aveva condensato sull’argomento i suoi convincimenti più radicati in una sorta di «avvertimento». Ne sono stato informato dal prof. Giancarlo Cavalleri, fisico teorico dell’Università Cattolica di Brescia, che mi ha trasmesso il testo originale del celebre passo tratto da The Nature of the Phisical World, Cambridge University Press, London – New York 1928, p. 74.

Eccolo in traduzione italiana. «Se qualcuno – scrive Eddington – prova che la teoria dell’universo che tu prediligi è in disaccordo con le equazioni di Maxwell, potresti anche prescindere dalle equazioni di Maxwell. Se la tua teoria preferita è contraddetta dalle osservazioni, potresti ancora invocare a sua difesa il fatto che talvolta gli esperimenti modificano le cose (letteralmente: rompono le scatole). Ma se la tua teoria si trova ad essere in contrasto col secondo principio della termodinamica, ebbene allora lascia ogni speranza: non hai scampo, puoi solo sprofondare nell’umiliazione più grande».

L’ANGOLO DELLA PREGHIERA. Restare uniti eternamente. Signore, / dato che nessuno può desiderare per gli altri / nulla di meglio di ciò che desidera per sé, / non mi separare, te ne prego, dopo la mia morte, / da quelli che ho teneramente amato sulla terra. / Signore, / ti chiedo che dove sarò io, / anche loro siano con me: / anche là io possa godere / di restare unito a loro, / eternamente (Ambrogio di Milano).

4 dicembre 1997.

LINEA RECTA BREVISSIMA. È molto evitare una sciocchezza. Non vi è nulla che rinfranchi il sangue quanto l’aver saputo evitare una sciocchezza (Jean de La Bruyère). Se lo stimi… Io non temo ciò che stimo (Stendhal). L’effimero e la violenza. Non c’è nulla di così violento come ciò che dev’essere effimero (Honoré de Balzac). Questa è libertà. Questa è libertà: che uno abbia cuore puro e fermo / Libertas est: qui pectus purum et firmum gestitat (Gellio, poeta latino). Una festa per l’occhio. Il primo merito di un quadro è di essere una festa per l’occhio (Eugène Delacroix). Le cose più delicate e le più forti. Solo chi crea le cose più delicate può creare le più forti. Silenzio d’autunno. Vi è un silenzio d’autunno fin dentro i colori. (Hugo von Hofmannsthal)

L’UOMO È SOCIALE O ANTISOCIALE? L’uomo è sociale o antisociale? L’esperienza attesta che l’uomo è portato naturalmente a vivere in forma associata, perché non basta a se stesso e ha bisogno dei suoi simili sia per esistere fisicamente, sia per progredire spiritualmente; nello stesso tempo, però, non gli riesce facile essere sociale. Egli, infatti, è chiamato a lottare di continuo contro le spinte egoistiche, individuali e di gruppo, che oppongono l’uomo all’uomo. Convivere con i propri simili, insomma, fa parte del mestiere di vivere ed è pertanto qualcosa da apprendere. La realtà della vita sconfessa, pertanto, il pessimismo e l’ottimismo sociale e si lascia comprendere meglio se prendiamo atto della sua costitutiva ambivalenza e, quindi, del suo carattere drammatico. Kant parlerà, in uno scritto del 1784, di ungesellige Geselligkeit, «insocievole socievolezza» dell’uomo, e in quella formula noi riconosciamo un aspetto costitutivo della condizione umana.

BREVE STORIA DI UN’INFAMIA. I gladiatori – da gladius, spada – è termine che non designa i soldati, ma i combattenti del circo, quelli che lottavano fino all’ultimo sangue, fra loro o contro le fiere, con spade o con armi di altro genere. I romani praticarono i ludi gladiatorii col più feroce entusiasmo ed innalzarono per essi apposite costruzioni, prima in legno e poi in pietra. Celebri sono due giganteschi anfiteatri dell’età imperiale: il Colosseo di Roma – in cui, per divertire gli spettatori, oltre i giochi, si dettero in pasto alle belve i cristiani, inermi, che si mantenevano fedeli alla loro religione – e l’Arena di Verona. L’Arena è utilizzata ancora oggi per imponenti rappresentazioni liriche. Ma ce ne sono numerosi altri, meno grandi, che sorgono specialmente in località in cui erano dislocate le guarnigioni. I ludi gladiatorii richiedevano ingenti spese per la costruzione degli anfiteatri, ma anche per la cattura delle belve in Africa e in Germania (leoni, orsi, elefanti, tori selvaggi) e per i compensi richiesti dalle ditte che ingaggiavano i gladiatori e li preparavano al combattimento. I gladiatori erano per lo più schiavi e prigionieri di guerra dotati di grande prestanza fisica, ma anche gente disperata spinta dal bisogno e condannati a morte. I combattimenti dei gladiatori non piacquero affatto ai greci. Tra i romani Cicerone si limitò a riferire nella Tusculanae disputationes (11, 41) che «ad alcuni i ludi gladiatorii apparivano crudeli e inumani»; nella corrispondenza, però, espresse vivacemente tutto il suo disgusto, parlando dei ludi dati da Pompeo nel 58 a.C. (Fam. 7, 1 3). Seneca disapprovò, a più riprese, la crudele barbarie di queste «carneficine senza possibilità di difesa» e l’efferata voluttà di sangue che da esse promanava sulla folla. Alla condanna dei ludi gladiatorii come mera homicidia è dedicata la Lettera 7. Anche qui vi è piena sintonia tra il filosofo romano e il sentire cristiano. La nuova religione riuscì a porre fine ai ludi gladiatorii, in Oriente nel IV secolo e in Occidente più tardi. Nel 326 d.C. l’imperatore Costantino tramutò le esecuzioni capitali per condanne ad bestias nei lavori forzati in miniera. Nel 404 Onorio ne sancì la definitiva scomparsa, in seguito al linciaggio da parte della folla del monaco Telemaco, intervenuto in difesa della vita di due gladiatori.

L’ANGOLO DELLA PREGHIERA. Tu non sei un dio del male. Ma tu non ami la morte / tu sei venuto fra noi / per mettere in fuga la morte / per snidare e uccidere la morte. / Anche a te la morte fa male / per questo sei amico / di ognuno segnato dal male: / e ogni male tu vuoi / condividere… / Solo un abbaglio, o equivoco amaro / – quando non sia stoltezza – / fa dire di te che sei / la «divina Indifferenza» (David Maria Turoldo, Canti ultimi, Milano 1991, p. 125).

11 dicembre 1997.

LINEA RECTA BREVISSIMA. O Dio, quando… O Dio, questa terra meravigliosa che tu creasti, quando sarà pronta per ricevere i tuoi santi? Quando, Signore, quando?. Avere un’intenzione, un progetto. Un uomo solo che ha un’intenzione e ne è consapevole può sempre battere dieci uomini che non l’hanno e non ne sono consapevoli (George Bernard Shaw). Non importa… Se fai il bene, ti attribuiranno, secondi fini egoistici. / Non importa, fa il bene. / L’onestà e la sincerità ti rendono vulnerabile. / Non importa, sii franco e onesto. / Quello che per anni hai costruito può essere distrutto in un attimo. / Non importa, costruisci. (Da una scritta sul muro a Sushu Bhavan, la Casa dei bambini di Calcutta fondata da Madre Teresa).

SE LA VIRTÙ NON COINCIDE CON LA FELICITÀ. Le due conquiste più alte del pensiero di Seneca sono la rivendicazione dell’autonomia morale e il primato dell’intenzione. Kant profuse un grandioso sforzo speculativo per garantire la loro fondazione, ma ravvisò nella tesi dell’identità presupposta di virtù e felicità, ossia nel concetto stoico del Sommo Bene, un’ambiguità di fondo insostenibile. Per il filosofo di Könisberg l’esperienza vissuta nella sua concretezza attesta che l’uomo, per virtuoso che sia, non può padroneggiare tutte le forze e le tragedie della natura, della storia e della società in cui vive: di fronte al male che c’è intorno a lui il saggio non può credersi «felice» e «invulnerabile».

La sofferenza dei suoi simili non può non pesare anche sul suo cuore. Nella Critica della ragion pratica scrive testualmente: «Un uomo giusto nella più grande sventura, che avrebbe potuto evitare purché non si fosse curato del dovere, non è ancora sorretto dalla coscienza che egli ha conservato la sua dignità e ha onorato l’umanità nella propria persona, e che non ha motivo di vergognarsi dinanzi a se stesso e di temere lo sguardo interno dell’esame di coscienza?

Questo conforto però non è felicità, neanche la minima parte di essa, tanto vero che nessuno desidererà l’occasione di provarlo e forse neppure desidererà una vita in tali condizioni».

La sofferenza del giusto è un fatto dolorosamente presente nell’esistenza terrena in cui non vi è equazione tra virtù e felicità, come invece sostenevano gli storici.

La sintesi tra la virtù che ci rende degni di felicità e l’effettiva felicità è, però, un incoercibile bisogno (Bedürfnis) della ragione. È, dunque, dal cuore stesso della vita morale che sorge la certezza di Dio, il Sommo Bene originario che solo può garantire la realizzazione del Sommo Bene derivato, quello a cui ha diritto l’uomo buono e saggio.

In tal modo l’esistenza di Dio e l’immortalità dell’anima richieste dalla giustificazione della legge morale, sono conclusioni o postulati, verità di fede morale che noi assumiamo nell’atto di determinare il nostro volere in vista del suo fine ultimo e perfetto.

INNO ALLA GIOIA. Prima di tutto, impara a gioire (hoc ante omnia fac: disce gaudere)! Credi che io voglia negarti molte cose belle e amabili, solo perché rimuovo dal tuo orizzonte i beni fortuiti e penso che debbano essere messe da parte le illusioni con le loro lusinghe? Al contrario, io voglio che la gioia non ti venga meno. Voglio che essa nasca in casa tua: potrà nascere, infatti, solamente se la sua dimora è dentro di te. Altre forme di allegria non riempiono l’anima; possono spianare la fronte aggottata, ma solo per brevi istanti. È lo spirito che deve essere alacre e fiducioso, al di sopra degli eventi.

Credimi, la vera gioia è austera (mihi crede, verum gaudium res severa est)! Nell’intimo la gioia è grande e non certo blanda.

Io vorrei che tu possedessi questa gioia: essa non verrà mai meno una volta che tu ne abbia trovato la sorgente. I metalli di minor pregio si trovano in superficie; la vena di quelli preziosi si nasconde nelle viscere della terra e si lascia trovare solo da chi più assiduamente scava. I piaceri di cui si diletta la gente sono effimeri ed epidermici: un godimento che ci venga dal di fuori, quale che sia, è senza fondamento. La gioia, di cui ti parlo e a cui cerco di condurti, è solida, tale da manifestarsi di più nell’interiorità della coscienza (Seneca, Ad Luc. 23, 3-5 passim).

L’ANGOLO DELLA PREGHIERA. Dacci pace. Sia santificato il tuo Nome / non il mio, / venga il tuo regno / non il mio, / sia fatta la tua volontà / non la mia, / donaci pace con te / pace con gli uomini / pace con noi stessi / e liberaci dalla paura (Dag Hammarskjöld, Tracce di cammini, Magnano 1992, p. 173).

18 dicembre 1997.

LINEA RECTA BREVISSIMA. La consegna di un uomo libero. Ho combattuto non per la mia libertà, ma per quella della patria. Non ho agito con tanta costanza per vivere libero io, ma per vivere in mezzo a uomini liberi. Sono al sicuro, ma con disonore. La vita è una milizia (vivere militare est). Ai più coraggiosi, a quelli che primeggiano sono affidate le prove più rischiose, le fatiche più ardue. Sono loro stessi a volerlo. Ci sono quelli, invece, che si lasciano mollemente andare in uno stato di squallida inerzia, mentre gli altri si affaticano. Sono al sicuro, ma con disonore. (Seneca)

La vittoria dei miti. Nel Discorso della Montagna Gesù ribalta la tavola dei valori correnti con le sue «beatitudini» perché fanno parte del regno di Dio; dei miti, però, è detto che «possederanno la terra». Essi, cioè, sono tra gli uomini i più amati e i più influenti (Levi Appulo).

LA TRAPPOLA DELL’ANTROPOMORFISMO: GIOVE E PROMETEO. Nel suo radicale antropomorfismo la religione greca proiettò nell’Assoluto la logica mondana della volontà di dominio, che tutto produce, ma per asservirlo e distruggerlo. Per reazione a questa immagine ripugnante di Giove, nacque il mito antagonista di Prométeo, il lottatore audace e infelice che si ribella a un cieco, smisurato potere.

A partire da Senofane l’indagine filosofica criticò a fondo l’antropomorfismo della mitologia, a cui oppose l’indagine razionale sulla causa incausata del reale e sul fondamento primo dell’etica: fu per designare questa parte della filosofia – per Seneca «la più elevata e ardita» (Nat. quaest., praef. 1,1) – che Platone coniò il termine di theologia nel secondo libro della Repubblica, 379 a.

Orbene, alla domanda sul perché dell’esistenza del mondo, Platone risponde nel famoso passo del Timeo, 20 – 30 b. Eccone il testo: «L’artefice era buono e in uno buono nessuna invidia nasce mai per nessuna cosa. Immune da invidia, volle che tutte le cose divenissero simili a lui quanto potevano. Né ora né mai è lecito, infatti, a chi è sommamente buono di far altro se non la cosa più bella secondo la natura e la più buona che si potesse».

Che nel Duemila dell’era cristiana qualche pensatore, che pure va per la maggiore, sia ancora fermo alla rappresentazione mitologica Giove-Prometeo è francamente scoraggiante. Quando penso alla faciloneria con cui si scrive e si parla di Dio, per contrasto (ed anche per trarne conforto) ricordo la ricerca ostinata e il silenzio ostinato di Bergson, per oltre quarant’anni, sull’argomento. Ne parlò solo nel 1932, quando ritenne di poter comunicare agli altri le riflessioni maturate nel corso di un’intera vita. Nacque così l’ultimo suo capolavoro: Le due fonti della morale e della religione. Ma Bergson era una persona seria.

MI METTO SOTTO PROCESSO OGNI GIORNO. L’animo deve essere convocato ogni giorno alla resa dei conti (animus cotidie ad rationem reddenda vocandus est). Era un’abitudine di Sestio: alla fine della giornata, non appena si era ritirato per il riposo notturno, interrogava la sua coscienza: «Da quale male sei guarito oggi? A quale vizio hai opposto resistenza? In che cosa sei diventato migliore?». L’uomo ha bisogno di presentarsi ogni giorno a un giudice. C’è consuetudine più bella di questa, di esaminare un’intera giornata? Il sonno che segue questa inchiesta su se stessi è tranquillo, profondo e libero, dopo che l’animo è stato lodato o ammonito e, da osservatore e censore privato di se stesso, ha concluso l’esame della condotta.

Io faccio uso di questa facoltà, e mi metto sotto processo ogni giorno. Una volta portato via il lume, e mia moglie si è messa a tacere perché sa qual è la mia abitudine, io esamino attentamente l’intera mia giornata e passo in rassegna le mie azioni e le mie parole: non mi nascondo nulla, non passo sopra a nulla.

Non devo temere nessuno dei miei errori, se posso dire: «Questo vedi di non farlo più. In quella discussione sei stato troppo polemico; impara a non contendere più con gl’incompetenti, che non vogliono imparare, perché non hanno mai imparato. Hai rimproverato quello là con eccessiva franchezza, quindi non lo hai corretto, ma offeso; d’ora in poi, non guardare soltanto se è vero quello che dici, ma anche se la persona, alla quale parli, è in grado di accettare la verità» (Seneca, De ira, 3, 36, 1 – 3).

POESIA DEI GIORNI NOSTRI. Non è affatto vero. «Two wrongs make a right», / così è stato detto. / Due sbagli fanno una cosa giusta. / Ma non è vero affatto. / I cavalieri dell’orrore sono gemelli / anche se nemici fra loro. Voto augurale. Di te non più si dica: / «Poteva essere», «potrebbe essere». / Ma «È». (Levi Appulo)

La rubrica “Detti e contraddetti” è stata pubblicata sul Giornale di Brescia con cadenza settimanale dal 5 gennaio 1988 al 25 gennaio 2007.