Detti e Contraddetti 1998 – 1° semestre

DETTI E CONTRADDETTI – PRIMO SEMESTRE 1998

2 gennaio 1998.

LINEA RECTA BREVISSIMA. Vi auguro un’amicizia elevata. Un’amicizia elevata colma il cuore dell’uomo molto più di un’amicizia comune e usuale. Nel suo seno le piccole cose trascorrono; soltanto le grandi cose vi si fermano e vi dimorano (Blaise Pascal). Un risultato si concorre a produrlo, preannunciandolo. Pur supponendo che un sondaggio sia condotto con le più perfette garanzie di obiettività, ci si può domandare se il mezzo d’informazione non divenga esso stesso un mezzo di azione; se le opinioni che sono espresse, le preferenze che sono rimarcate non abbiano un effetto sui nostri giudizi e, in caso di elezioni, sui voti che noi esprimeremo il giorno dopo. Questo è tanto vero che i sondaggi e le statistiche, anche quando vengono prese le più scrupolose precauzioni, sono dei mezzi per influenzare quello che avverrà (Levi Appulo). Com’è possibile che io non sia grande, se… Com’è possibile che io non sia grande, se ho messo fuori posto tante cose e se un Dio, amico mio, si è scomodato per me e per me si è sacrificato? Ecco, questo è il cristianesimo (Charles Péguy).

RICONCILIARSI CON IL PROPRIO PASSATO NELLA VERITÀ. I cattolici hanno colpe da farsi perdonare, ma, oggi come oggi, hanno un merito da farsi accreditare, e cioè il coraggio con cui hanno riconosciuto che nella loro storia passata non sono mancate sbandate, intolleranze, valutazioni maggiormente influenzate dalle mode del tempo che non dall’autentico spirito del Vangelo. Giovanni Paolo II ha chiesto scusa agli ebrei per essere stati fatti oggetto di odio e di persecuzioni dalle generazioni cristiane dei secoli passati; ha riabilitato Galileo Galilei, riconoscendogli onestà, buona coscienza e meriti di grande scienziato; sta per riabilitare il Savonarola (se è vero che procede la causa della sua beatificazione); ha definito come offesa a Cristo ogni ricorso alla violenza, alla crudeltà e all’odio utilizzati come mezzi per promuovere la causa di Dio. La Chiesa cattolica è risalita alla ricerca delle cause che hanno reso accettabili, nel passato, sia prossimo che remoto, scelte chiaramente inaccettabili se confrontate con la lettera e lo spirito del Vangelo ed ha individuato nella dissociazione della causa dell’uomo da quella di Dio la fonte dalla quale sono scaturite tante devianze della cristianità. Chi offende l’uomo offende Dio e chi offende Dio offende l’uomo. Non sarebbe male che chi scrive e chi legge la storia del Novecento facesse sua questa enunciazione e l’usasse con criterio di valutazione e di discernimento.

QUANDO L’INCREDULO SA CHI È QUEL DIO CHE GIUDICA ASSENTE. Vi è nei taccuini di Valéry, un pensiero di cui riproduco la sostanza: «Se Dio esistesse, se potessi solo credere che egli esiste, io sarei perpetuamente felice. Non penserei che a quell’oggetto, non potrei interessarmi più ad altra cosa se non a lui. La vita sarebbe dolce e sapida, perché mi sentirei avvolto di tenerezza e di protezione. La morte non sarebbe nulla. Se Dio esistesse, se la vita non fosse che il ritardo del mio incontro con lui, la vita sarebbe già, anche se dolorosa, una beatitudine come la lunga attesa d’una donna diletta e della quale si è certamente sicuri che verrà. Se Dio esistesse, mi sembra ch’io sarei buono verso tutti, come un uomo divenuto all’improvviso miliardario che gettasse sacchi di scudi da ogni parte, per il semplice piacere di donare. A me sembra, se Dio esistesse, che le mie colpe trascorse sarebbero assorbite in lui e perdonate».

Il pensiero di Valéry è sottile. Sembra dire: «Tu che ti dici credente, sai di quale ricchezza interiore, di quale riserva di gioia puoi disporre?».

POESIA DEI NOSTRI GIORNI. La tendenza è quella. Mi conosco, la tendenza è quella. / Quella disegnata da John Donne: / salmone contro corrente. Colloquio amoroso. I tuoi occhi sono belli – mi disse. /Sono colmi di te – risposi. A voi, giovani amici. Non sprofondate anche voi, / ve ne scongiuro, giovani amici, / nella lurida feccia della Circostanza, / non perdetevi / nella nebbia dell’indifferenza. Inconsciamente amorose. Cessato il litigio, / chiusi gli occhi, / nel sonno le teste, / inconsciamente amorose, / si sono accostate. (Levi Appulo)

8 gennaio 1998.

LINEA RECTA BREVISSIMA. Quel calore umano su cui si regge il mondo. Che piacere ti fa l’uomo per la strada quando ti dice «per favore» oppure «grazie». E lo dice con tanta grazia come se ti augurasse veramente la salvezza. Solo su questo calore umano si regge il mondo (Andrej Sinjavskij). L’erudizione e il talento. Un uomo erudito non è erudito in tutto, ma l’uomo di talento è di talento ovunque, anche nell’ignorare (Michel de Montaigne). Dare, ma con gioia. Ciascuno dia secondo quanto ha deciso nel suo cuore, non con tristezza né per forza perché Dio ama chi dona con gioia (San Paolo). Quando si tratta di poesia. Si ha poesia ogni volta che uno scrittore ci introduce in un mondo diverso dal nostro, dandoci la presenza di un altro… La poesia è creazione di un soggetto che assume un nuovo ordine in relazione simbolica con il mondo. La poesia ci induce in una nuova dimensione dell’esperienza (Jacques Lacan).

Perché leggo? Leggo per legittima difesa (Woody Allen). Leggo perché non ho mai avuto una tristezza che un’ora di lettura non abbia dissipato (Montesquieu).

Amore e disprezzo. Amare quelli che si disprezzano, è un gran bene. Ma disprezzare quelli che si amano, è la più grande delle sofferenze che ci sia. L’affare Gesù. Quando ci si riconcilia su un affare è che non se ne capisce più niente. In questo senso vi è solo un affare sul quale non ci si riconcilierà mai e sul quale noi siamo sicuri che ci sarà sempre un’eterna divisione: è l’affare Gesù. (Charles Péguy)

LA VIA NUOVA DELL’ECUMENISMO. No, non è discendendo verso la base comune che si può fare l’unione dei cristiani, ma al contrario elevandosi fino al vertice di ogni fede. Detto in altri termini, non è essendo meno protestante che un protestante si riavvicinerà a un cattolico, ma al contrario approfondendo la fede che ha ricevuto dalla sua Chiesa, ritrovando mano a mano la sua profondità e la sua altezza. E allo stesso modo, un cattolico non si renderà più accogliente alle altre Chiese essendo meno cattolico, ma al contrario approfondendo l’ideale di pienezza, di ricapitolazione che è l’ideale cattolico. È elevandosi verso il più alto, il più puro, il più profondo di se stesso, nella riflessione, nella preghiera, nel dono di sé che i cristiani disgiunti potranno meritare, un giorno ignoto, di oltrepassare l’intervallo – immenso e infimo – che separa l’Unione dall’Unità!

SE IL DENARO È TUTTO. Questo mondo moderno tutto teso al denaro, tutto in tensione verso il denaro, contagiando perfino il mondo cristiano, gli fa sacrificare la sua fede e la sua morale per il mantenimento della propria pace economica e sociale. Nel mondo moderno non esiste, non regge, non conta alcun potere accanto al potere del denaro; non esiste, non regge, non conta alcuna distinzione in confronto all’abisso che separa i ricchi e i poveri, e queste due classi, malgrado le apparenze e malgrado il gergo politico e i paroloni di solidarietà, si ignorano come mai nel passato si sono ignorate. In modo infinitamente diverso, infinitamente più grave s’ignorano e misconoscono. Sotto le apparenze del gergo politico parlamentare c’è un abisso fra di esse, un abisso di ignoranza e di incomprensione, un abisso di non comunicazione. Una volta l’ultimo dei servi apparteneva alla stessa cristianità… Oggi non c’è più città. Il mondo ricco e il mondo povero vivono, mostrano di vivere, come due masse, come due strati orizzontali separati da un vuoto, da un abisso di incomunicazione. Il denaro è tutto, domina tutto nel mondo moderno, a tal punto, così completamente, così totalmente, che la separazione sociale orizzontale fra ricchi e poveri è divenuta infinitamente più grave, più radicale, più assoluta della separazione verticale di razza… (Charles Péguy, Lui è qui, Milano 1997, pp. 238-239).

L’ANGOLO DELLA PREGHIERA. Assai più che perdono. Lasciami piangere, / Signore, / lo spettacolo della mia follia, / o ridere / della mia irragionevolezza. // Aiutami, mio Dio! / Tu, la cui mano / accarezza i monti e l’oceano, / demolirai in me / il muro del peccato. // Passato, presente, futuro / tutti gli istanti della mia vita / tu raccoglierai in uno solo / e mi restituirai la limpidezza / del tuo stesso sentire. // Tu, Dio, nella mia felicità, / assai più che perdono, / dono (Max Jacob, 1876-1944, in Preghiere dell’umanità, Brescia 1993).

15 gennaio 1998.

LINEA RECTA BREVISSIMA. Il pasticcio e il vino dolce. È impossibile piacere alla moltitudine, se non diventando un pasticcio, o un vinello dolce (Bione di Boristene, filosofo antico). La noia e quelli in cui lo spirito è qualcosa. Poco propriamente si dice che la noia è mal comune. Comune è l’essere disoccupato, o sfaccendato per dire meglio; non annoiato. La noia non è se non di quelli in cui lo spirito è qualche cosa (Giacomo Leopardi). Il fiore di ogni pregio. I pregi possono essere tanti. Il fiore, però, di ogni pregio è uno solo: la delicatezza (Levi Appulo).

Fa male. Il bene, precipitosamente afferrato, fa male. Al di là delle apparenze. C’è più imbecilli tra i dotti che tra gli ignoranti; più villanie si commettono in città che in campagna; più barbarismi diconsi nelle accademie che al mercato. La lingua batte… Spesso i più rei sono quelli che più parlano di diritto. (Niccolò Tommaseo)

RISCOPRIRE DIEGO FABBRI. Uno dei pochi italiani che ha saputo sprovincializzare, nel campo che era suo, il teatro, il nostro Paese e, nello stesso tempo, far apprezzare all’estero la nostra produzione migliore è stato Diego Fabbri (1911-1980). Drammaturgo di razza, sapeva proporre dal palcoscenico problemi reali, sentimenti profondi, passioni autentiche. Ecco un autore a cui un Nobel poteva benissimo essere assegnato con pieno merito. I giovani faranno bene a leggere non solo il famosissimo Processo a Gesù, ma anche Inquisizione, Figli d’arte, Ritratto d’ignoto, Un ladro in Vaticano, Incontro al Parco delle Terme e Al Dio ignoto, vero e proprio testamento di Fabbri, rappresentato pochi giorni prima della sua scomparsa. Né sono meno ariose e spregiudicate nei temi affrontati le sue commedie, tra le quali eccellono Il seduttore e La bugiarda.

Ho avuto la gioia di conoscerlo di persona un anno prima della sua morte, avendolo invitato a Brescia a parlare su un tema che gli era particolarmente congeniale: «Rifiuto e invocazione di Dio nel teatro contemporaneo». E tra noi si stabilì un’amicizia schietta, al punto che rimandò di qualche giorno la partenza per Roma. Aveva esprit de finesse ed una cultura vasta, profonda, divenuta sostanza del suo sentimento della vita. I suoi maestri erano non solo Pirandello e Ugo Betti, ma Platone, Agostino, Pascal, Dostoevskij, Blondel; nutriva un profondo affetto per Silone; conosceva fin nelle sfumature più sottili gli orientamenti e i dibattiti del nostro secolo. Anticonformista serio, non cedette al compromesso e al grigiore dominante, né alla tentazione del carrierismo e della ideologizzazione; libero e fedele testimone della sua fede, fu instancabile indagatore delle ragioni di chi era fuori dell’orizzonte cristiano.

La sua adesione al Cristo dei Vangeli era schietta e radicata, e per questo non fu mai sfiorato dal pensiero di starsene per conto suo, fuori dalla Chiesa e dall’ortodossia; al contrario, egli era convinto che «il cristianesimo è un vivere insieme ed un salvarsi insieme», secondo un’affermazione di Péguy che Fabbri amava citare. Come incontrare un uomo e un autore come Fabbri? Di lui, per cominciare, occorre procurarsi – o fotocopiare, se non è più in vendita – Tutto il teatro edito nel 1983 da Rusconi, e il prezioso volumetto Ambiguità cristiana, ristampato di recente dalle Edizioni Studium di Roma. Per un inquadramento storico-critico, l’opera più completa è Fabbri e Pirandello – Il teatro, la persona, l’oltre, Forlì 1991, Ateneo Editrice.

QUANDO L’ANGOSCIA AFFERRA IL NOSTRO CUORE. Gli infelici si stancano dell’infelicità e anche della consolazione; son stanchi d’esser consolati prima che noi di consolarli; come se ci fosse al cuore della consolazione una cavità; come se fosse bacata; e quando noi siamo ancora pronti a dare, loro non sono più pronti a ricevere, non vogliono più ricevere; non accettano più; non han più fame di ricevere; non vogliono più ricevere niente (Charles Péguy, Lui è qui, Milano 1997, p. 173).

L’ANGOLO DELLA PREGHIERA. Con la semplicità e l’amore. Liberami Signore, / dalla pigrizia che si agita, / sotto la maschera del fare, / e della mollezza che compie / ciò che non è stato richiesto, / per riuscire a eludere un sacrificio! / Ma donami l’umiltà / nella quale soltanto è il riposo, / e liberami dall’orgoglio / che è il fardello più pesante. Penetra tutto il mio cuore, / tutta la mia anima, / con la semplicità dell’amore (Thomas Merton, Semi di contemplazione, Milano 1962, pp. 33- 34).

22 gennaio 1998.

LINEA RECTA BREVISSIMA. I nostri giudizi. I nostri giudizi sono sempre delusioni d’amore (Giacomo Noventa). Ognuno ha i suoi occhiali, ma nessuno sa mai troppo bene di che colore siano le lenti dei propri (Alfred de Musset). La maieutica del dolore. L’uomo ha delle zone del suo cuore che non conosce ancora e dove il dolore entra per farle esistere (Léon Bloy). Eliminare le parole enfatiche. Eliminare le parole enfatiche. Che il pensiero stesso sia forte e non lo slancio con il quale lo esprimi (Elias Canetti). Il sigillo di autenticità. In un racconto di Chesterton, padre Brown dice che ciò che distingue le grandi religioni dalle nebbiose superstizioni è il loro genuino materialismo, cioè la capacità di confrontarsi con l’argilla di cui è impastato l’uomo e di cui sono impastate anche le sue creazioni più alte, da un gesto d’amore o di sacrificio alla musica del Flauto magico (Claudio Magris). La semplicità di vita, il distacco dell’ossessione dell’avere. L’amore per la povertà non è per nulla ascetico: coglie e assapora nella loro pienezza, tutti i piaceri, tutte le gioie che si offrono (Simone Weil).

DATI SU CUI INTERROGARCI. Primo. Vent’anni fa, i matrimoni in Italia erano 7,5 ogni mille abitanti, oggi sono 5,1. Cinquant’anni fa, le coppie con tre o più figli erano 22 su cento, oggi sono l’1,7 per cento. I separati e i divorziati sfiorano la cifra di due milioni… Questi ed altri dati si leggono nel libro di Giulia Paola Di Nicola e Attilio Danese Amici a vita, pubblicato da Città Nuova Editrice, Roma 1994.

Secondo. Mentre la Francia riduce del 9 per cento le spese militari, le nostre crescono nel 1997 del 9 per cento: 448 miliardi in più. Come cittadino vorrei che qualcuno me ne facesse conoscere le ragioni.

Terzo. Il tasso di disoccupazione che negli anni Sessanta era in Europa sotto il 2,6 per cento con punte minime dello 0,7, oggi è tra il 10 e il 12. Le previsioni sono che nel giro di pochi anni negli Stati Uniti, che pure è il Paese che meglio si è difeso, gli operai si ridurranno al 10 per cento della forza lavoro totale. Secondo uno studio di Jeremy Rifkin, già ora i disoccupati mondiali sarebbero 800 milioni. Il progresso tecnologico, da cui ci si attendeva il paradiso in terra, sta dunque uccidendo il lavoro? Allo stato attuale dei fatti, un investimento tecnologico, che negli anni Sessanta avrebbe prodotto due nuovi milioni di posti di lavoro, oggi ne cancella altrettanti. Chi voglia essere informato sugli scenari della crisi strutturale che il mondo intero sta attraversando, può leggere utilmente La sinistra sociale di Marco Revelli, edito da Bollati Boringhieri (Torino 1997).

ILARIA E IL SUO NONNO. «Sono andato con Giacinta a Loppiano, per rivedere l’Ilaria e Alvise, esiliati lassù da venti giorni. L’Ilaria, appena mi ha visto, è saltata sull’automobile e mi ha coperto il viso di baci schioccanti. I suoi begli occhi cilestrini erano illuminati di candida malizia; poi, quando si partì, oscurati da rassegnata mestizia. È molto difficile, anche nei bambini, capire fino a che punto sia disinteressato l’affetto. Ma è certo che l’Ilaria, fra tutti i miei cinque nipotini, è quella che ha maggior calore e più slancio. Le ho procurato, credo, molti piaceri, da quando è nata, ma certo ne ha dati a me assai di più: coi suoi sorrisi, coi suoi discorsi, colle sue carezze. Fra tutte le creature che vivranno quando io non vivrò più l’Ilaria sarà, forse, l’ultima a ricordarsi di me» (Giovanni Papini, Diario, 7 gennaio 1943).

L’Ilaria di cui si parla è Ilaria Occhini, una delle attrici di prosa tra le più brave, e il nonno è Giovanni Papini. Negli ultimi anni, quando allo scrittore fiorentino, ridotto a un rudere, divenne del tutto impossibile una qualsiasi comunicazione con gli altri, solo Ilaria riuscì ancora ad afferrare nei mugolii disarticolati del nonno i suoi pensieri sferzanti e a tradurli in bellissimi articoli. Articoli che testimoniano la vittoria dello spirito sulla materia in disfacimento e dell’amore su ogni ostacolo.

L’ANGOLO DELLA PREGHIERA. La Luce che dissipa le tenebre. Apri a noi la tua porta, Signore, / e da te sarò illuminato / come dallo splendore del giorno. / Alla luce canterò la tua gloria. / Mi risveglio al mattino / per lodare la tua divinità / e mi affretto a impregnarmi della tua Parola. / Col fluire del giorno la tua luce / brilli sui nostri pensieri / e le tenebre dell’errore siano cacciate dall’anima. / Tu che illumini ogni creatura, / rischiara anche i nostri cuori / perché ti lodino per tutto il trascorrere dei giorni.

L’Autore di questa preghiera è Giacomo di Sarug, uno dei grandi Padri della Chiesa di Siria vissuto tra il 451 e il 521.

29 gennaio 1998.

LINEA RECTA BREVISSIMA. Nel divenire storico si verifica. Mi convinco sempre più che ogni casta muore soltanto per suicidio. Chiesa cattolica e società politica. La Chiesa per le sue origini si trova sempre a disagio nella società politica, qualunque sia il regime… Pio IX è per l’autorità e la gerarchia in tempo di liberismo, Pio XII liberale e democratico in tempo di autorità totalitaria. (Giovanni Papini)

Se tutto l’anno è quaresima. La morte del carnevale, come nella Firenze di Savonarola e nella Ginevra di Calvino, toglie ogni senso alla quaresima. Quando si muore la prima volta. Moriamo sulla terra una prima volta quando ci lasciano quelli che ci amarono. (Levi Appulo)

Italia, Italia! Chi dell’Italia dispera, forza è che disperi di tutta l’umanità, perché i nostri destini sono i destini d’Europa (Niccolò Tommaseo, Dell’Italia. Il dalmata scriveva queste cose quando era ancora lontano il 1848 e più ancora il ‘59 e il Risorgimento era di là da venire). No, non è ipocrisia. Non è ipocrisia se le tue opere sono inferiori alle tue parole. Ci mancherebbe! Dove saremmo se le cose stessero così? Io dovrei stare zitto per evitare di essere ipocrita, dato che, se parlassi, ciò significherebbe che mi ritengo perfetto. Ovviamente no. Non penso di essere perfetto perché parlo di perfezione, non più di quanto crederei di essere italiano se parlassi italiano (San Francesco di Sales).

IL PARADOSSO CRISTIANO SPIAZZA LE ANTITESI GROSSOLANE. Il paradosso della rivelazione cristiana consiste proprio in questo: la libertà dell’uomo non può essere giustificata che dall’onnipotenza della libertà creatrice e redentrice. L’onnipotenza di un Dio che è agàpe, ed essa sola, può garantire l’indipendenza di colui che è posto nell’essere. Si tocca ancora una volta qui per mano l’originalità della «metafisica cristiana», che non concepisce il rapporto tra Dio e l’uomo in termini di concorrenza antagonistica – per cui l’affermazione dell’uno esigerebbe la negazione dell’altro – ma come «sinergia» e «vincolo nuziale». Nel Nuovo Testamento l’unico, autentico superuomo è chi si unisce a Dio nell’amore di tutto ciò che Dio ha creato e redento, facendosi testimone libero e fedele, collaboratore insostituibile di un disegno d’ineffabile grandezza. Da Ireneo ad Agostino, da Tommaso d’Aquino a Niccolò Cusano, da Vico a Bergson l’approfondimento di questo motivo centrale della visione cristiana della vita è costante e significativo. Sull’argomento offriamo ai lettori una pagina di straordinaria penetrazione e forza dialettica. È di Søren Kierkegaard.

KIERKEGAARD: SOLO L’ONNIPOTENZA PUÓ RENDERCI INDIPENDENTI. La cosa più alta che si può fare per un essere, molto più alta di tutto ciò che un uomo possa fare di essa, è renderlo libero. Ma per poterlo fare, è necessaria precisamente l’onnipotenza. Questo sembra strano, perché l’onnipotenza dovrebbe rendere dipendenti… L’essere creato solo per via dell’onnipotenza può essere indipendente. Per questo un uomo non può rendere mai completamente libero un altro uomo. Soltanto l’onnipotenza può riprendere se stessa mentre si dona e questo rapporto costituisce appunto l’indipendenza di colui che riceve. L’onnipotenza di Dio è identica alla sua bontà. Il suo stesso essere è un donarsi completamente ed è ciò che costituisce l’indipendenza di colui che riceve. Ogni potenza finita, invece, rende dipendenti… È soltanto un’idea miserabile e mondana della dialettica della potenza pensare che essa cresca in proporzione della capacità di costringere gli altri e di assoggettarli. Socrate aveva ben compreso che l’arte della potenza più alta è rendere gli uomini interiormente liberi e che questa è la cosa più degna… La creazione dal nulla esprime proprio questa idea: che solo l’onnipotenza può rendere liberi… Se Iddio, per creare gli uomini, avesse perduto qualcosa della sua potenza, non potrebbe più rendere gli uomini indipendenti (Diario, Brescia 1980, vol. III, pp. 240-241 passim).

POESIA DEL ‘900 ITALIANO. La ventura primavera. Ritrova, / il senso ritrova, / tra sorpresa e attesa, / quell’aria rilustrante / in cui balena / la ventura primavera / ancora chiusa nel cuore dell’inverno. Confuso è il profilo delle opere. Scorge / a brani e a lacerti, / il bene / e il malefatto umano, / ma confuso / è il profilo delle opere… / Non può fuori distinguere / né dentro se medesimo, / si perde nell’enigma / della sua specie l’uomo. Nihil sine voce. Ha / una luce l’ombra, / una voce il nembo / nell’incommensurabile concento. (Mario Luzi, Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini, Milano 1994)

5 febbraio 1998.

LINEA RECTA BREVISSIMA. Perché esiste il teatro. Il teatro esiste perché il mondo è falso: la finzione smaschera la falsità di tutti i giorni (Gabriele Lavia). Questo mondo ha bisogno di bellezza. Questo mondo nel quale noi viviamo ha bisogno di bellezza per non affondare nella disperazione. La bellezza, come la verità, è ciò che mette la gioia nei cuori, è quel frutto prezioso che resiste all’usura del tempo, che unisce le generazioni e le fa comunicare nell’ammirazione (Paolo VI).

L’UNITÀ DEI CRISTIANI NELLA DIVERSITÀ. Vi sono nel Nuovo Testamento passi che si rivelano straordinariamente fecondi se considerati nel loro dinamismo e concretamente applicati a problemi e situazioni del nostro tempo. Si pensi, ad esempio, all’affermazione di Gesù che si legge nel Vangelo di Giovanni: Nella casa del Padre mio ci sono molte dimore (14, 2). Ebbene, se quel passo diventasse un criterio, un orientamento per affrontare il problema del rapporto tra le Chiese cristiane, si aprirebbe dinanzi a noi una nuova, ardita prospettiva. Una prospettiva che a qualcuno potrà anche non piacere, ma di cui nessuno potrà contestare l’intrinseca legittimità. Per parte sua, il cardinale Joseph Ratzinger ebbe a scrivere che «l’unità nella diversità», nella formulazione che ne dette Oscar Cullmann, nel 1986, per lui suonava come «una parola d’ordine illuminante (hilfreich)». Nelle sue lettere Paolo illustra la pluralità multiforme dei carismi dello Spirito Santo, ma anche dei carismi che caratterizzano positivamente le prime comunità cristiane, ognuna delle quali ha un «dono» suo proprio da mettere a disposizione di tutti. Similmente, non sarebbe questa l’ora per le Chiese cristiane – cattolica, ortodossa ed evangelica – di adottare con crescente consapevolezza come via all’unità la visione teologica e il metodo che suggerisce San Paolo? Oggi s’impone un nuovo «sentire ecumenico» sia nella riflessione teologica, sia nell’annuncio di Cristo al mondo, sia nel porsi unitariamente dei cristiani a servizio di tutti gli uomini per promuovere la giustizia, la pace e la salvaguardia del creato. In ognuno di quei tre ambiti c’è per i cristiani delle tre confessioni religiose un immenso lavoro da fare insieme; ma non dimentichiamo che la strada percorsa negli ultimi trent’anni, a partire dal Concilio Vaticano II, è stata molto lunga. Siamo, dunque, autorizzati a sperare.

LETTERA DI TOMMASO D’AQUINO A UNO STUDENTE (1270). Mio caro Giovanni, mi hai chiesto come fare per acquisire un ricco bagaglio culturale. Ecco i miei consigli.

  1. Non tuffarti a capofitto nel mare del sapere ma cerca di arrivarci lungo corsi d’acqua secondari. È cosa saggia lavorare in crescendo, dalle cose più facili alle più difficili. Questo è il mio consiglio, e tu faresti bene a seguirlo.
  2. Sii lento a parlare…
  3. Da’ grande importanza a una buona coscienza.
  4. Non trascurare mai i momenti di preghiera.
  5. Mostrati amabile con tutti.
  6. Non mettere mai il naso negli affari altrui.
  7. Non entrare in troppa familiarità con nessuno, perché la familiarità genera disprezzo e offre un pretesto per trascurare il lavoro serio.
  8. Non sciupare tempo in chiacchiere inutili.
  9. Cerca di seguire le orme degli uomini onesti e santi.
  10. Non badare tanto a chi parla, ma accumula nella mente quanto di utile egli dica.
  11. Assicurati di aver ben compreso quanto leggi o ascolti.
  12. Chiarisci i punti dubbi.
  13. Fa’ del tuo meglio per riporre tutto quello che puoi nella piccola libreria della tua mente…
  14. Non preoccuparti di cose al di fuori della tua competenza.

Se seguirai alla lettera i miei consigli raggiungerai la meta desiderata. Addio. Tommaso d’Aquino.

12 febbraio 1998.

LINEA RECTA BREVISSIMA. A proposito di diritti d’acquisto. Dovrebbe essere motivo di riflessione constatar che i cosiddetti «diritti acquisiti» sono in genere «privilegi acquisiti» (Giacomo Canobbio). Incontro al Terzo Millennio. Noi stiamo entrando in un tempo simile ad un oceano e per affrontarlo non abbiamo né barca, né vela, né timone. Occorre, dunque, pensare tutto nuovamente (Jean Giutton). Non cedere. Non prostrarti mai a ciò che appare grande (Rabindranath Tagore). Il soffio del disprezzo. Per l’oppressione dei miseri e il gemito degli indigenti, / ecco, io sorgerò – dice Jahweh – / e metterò in salvo chi ha su di sé il soffio del disprezzo (Libro dei Salmi). Testa e tasca. Il cittadino ha il diritto di sapere non soltanto ciò che l’onorevole ha in testa, ma anche quello che ha in tasca (Corrado Alvaro). Il Papa, i poveri, i potenti. Il Papa è il naturale avvocato dei poveri e il naturale giudice dei potenti (Giovanni Papini).

I VERI SANTI SPEZZANO OGNI CLICHÉ. Domenico, sdraiato su un ruvido sacco steso per terra, è moribondo e lo sa. Vuol andare incontro a Dio «nudo» e non lascia nulla dietro di sé: né le lettere, né i libri con le sue annotazioni, né il bastone da viaggio. Nulla di suo deve diventare «reliquia», oggetto di culto indebito, o peggio di commercio. Lì, nell’ora solenne dell’addio, il Fondatore invoca la maledizione di Dio per chiunque introdurrà l’uso della proprietà del suo Ordine; nello stesso tempo, in sublime delirio d’amore, si spinge a far violenza alla giustizia stessa del Padre, implorando la liberazione dei dannati. Ad in infernos damnatos extendebat caritatem suam – annota il biografo. In commosso silenzio i frati gli fanno corona; colui che ha privilegiato l’intelligenza e la ricerca della verità nel testimoniare la fede è agli ultimi istanti. Ma ecco, Domenico fa loro segno con la mano e li invita ad avvicinarsi. «Mi accuso», dice il maestro dell’Ordine dei predicatori, «di aver sempre preferito, a quella delle vecchie, la conversazione delle donne giovani». I veri santi, i grandi santi non finiranno mai di sorprenderci per la loro straordinaria umanità, così schietta e irriducibile ai cliché che circolano sul loro conto.

LA TIMIDEZZA, OSTACOLO O FORZA PROVVIDENZIALE: L’ESPERIENZA DI GANDHI. Mentre gli altri, durante le riunioni, esprimevano la loro opinione, io me ne stavo seduto in assoluto silenzio. Non che non fossi mai stato invitato a parlare, ma ero imbarazzato, non sapendo come avrei dovuto esprimermi. Tutti gli altri partecipanti mi sembravano più informati di me. Inoltre, spesso accadeva che, proprio quando avevo raccolto il mio coraggio per parlare, la discussione era spostata su altri argomenti. Solo in Sudafrica vinsi questa timidezza, benché non l’abbia mai completamente superata. Mi era impossibile parlare senza un testo già scritto. Ogni volta che dovevo comparire dinanzi ad un pubblico sconosciuto, mi bloccavo, ed evitavo di parlare non appena potevo. Al mio debutto come avvocato, mi presentai come difensore degli imputati e perciò dovetti interrogare i testimoni dell’accusa. Mi feci coraggio, ma il cuore mi venne meno. Tutto ruotava nella mia testa, compresa la corte; non mi veniva in mente neppure una domanda da porre. Il giudice deve essersi messo a ridere e i suoi consulenti si godevano lo spettacolo…. Devo dire che la mia costitutiva timidezza non è stata soltanto un impaccio per me, a prescindere dal fatto che essa mi ha talvolta esposto all’irrisione; ora in essa vedo soltanto dei vantaggi. Il mio scrupolo a parlare, che prima aveva costituito un peso, ora mi fa piacere. Il beneficio più grande che mi ha dato è l’avermi insegnato a misurare le parole, ha formato in me l’abitudine a tenere sotto controllo i miei pensieri. E adesso potrei giurare che non una sola parola non meditata mi sfugge dalla lingua o dalla penna (I due brani di Gandhi sono riportati nel volume Parole di pace, Brescia 1995, pp. 114-115).

L’ANGOLO DELLA PREGHIERA. Non disprezzare l’opera delle tue mani. O Dio, io credo: / che tu mi hai creato: non disprezzare l’opera delle tue stesse mani; / che tu mi hai fatto immagine e somiglianza tua: non permettere che la tua somiglianza venga sfigurata; / che tu mi hai riacquistato col tuo sangue: non permettere che sia sciupato il prezzo del riscatto; / che tu mi hai chiamato cristiano col tuo stesso nome: non disdegnare il tuo titolo stesso; / che tu mi hai santificato nella rigenerazione: non distruggere la tua santa opera; / che tu mi hai innestato nel buon olivo, come membro del corpo mistico: che esso non sia mai reciso da te (Lancelot Andrewes).

19 febbraio 1998.

LINEA RECTA BREVISSIMA. Se è involontario. Il comico involontario è sempre il più comico di tutti (Hans-Otto Meissner). Se vuoi essere gentile. Se vuoi essere gentile, modera la tua fretta (Levi Appulo). Novità infinita. In Dio si scoprono nuovi mari, quanto più si naviga (Luis de Leon). Ma non tutto è letteratura. La letteratura è la più assoluta forma che la verità può assumere (Leonardo Sciascia). Se sono sincere e pensate. Le nostre lettere siamo noi stessi (John Donne).

La storia narra questo di Gesù. Veramente non violento è colui che, mentre viene ucciso, non si adira con il suo assassino, ma anzi prega Dio di perdonarlo. La storia narra questo di Gesù. Si diventa ciò che si crede. Si vede spesso che l’uomo diventa ciò che crede. Se mi ripeto continuamente che non posso fare una cosa, ne diventerò realmente incapace. Se, invece, credo fermamente di poterla fare, allora sicuramente ne acquisterò la capacità, anche se all’inizio essa non mi era congeniale. (Gandhi)

IMPARIAMO A CONTARE I NOSTRI GIORNI. In uno dei libri di più intensa umanità e saggezza spirituale che esistano, I racconti di Chassidim di Martin Buber, un libro che occorre procurarsi assolutamente, si legge una parabola giudaica. Questa: «L’angelo Gabriele fu mandato da Dio per far dono della vita eterna a chi avesse un momento di tempo per riceverlo. Ma l’angelo tornò indietro e disse: Avevano tutti un piede nel passato e uno nel futuro. Non ho trovato nessuno che avesse tempo». In effetti, in un mondo svuotato di interiorità e di silenzio pensante e amante, la futilità e l’asservimento ai disvalori correnti ci impediscono di capire e far nostro il tempo della gratuità, del dono di sé, della preghiera, della poesia, della contemplazione. Del santo iniziatore del movimento dei Chassidim, Baal Shem Tov, si racconta anche questa storia: «Un giorno lo spirito di Baal Shem Tov era abbattuto perché gli sembrava di non riuscire a raggiungere il mondo futuro. Allora si fermò, si mise a riflettere ed esclamò: Se amo Dio, che bisogno ho di un mondo futuro?». È vero, solo l’avvertire con l’intelligenza e il cuore la contemporaneità di Dio ad ogni giorno dell’uomo conferisce al tempo una durata e un valore infiniti, sì che gli istanti non svaniscano nell’insignificanza. Per coloro che si rapportano a Dio il futuro germoglia già nel presente. San Paolo dirà che quelle persone «redimono il tempo», sono cioè nel tempo ma per riscattarlo e lo vivificano alla luce e in compagnia dell’Eterno. Cercare, trovare il tempo necessario per vivere la vita più alta, che scorre nel nostro intimo e che nondimeno ci trascende, significa sentire e sperimentare che siamo resi partecipi dell’Eterno: sentimus experimurque nos aeternos esse. Si comprende, allora, quanto sia sublime l’invocazione che si legge nel libro dei Salmi: «Insegnaci a contare i nostri giorni e giungeremo alla sapienza del cuore» (Salmo 90, 12).

UN PARADOSSO SU STORIA E LETTERATURA. Ieri sera, leggendo, m’è venuto il pensiero che «tutti» i fatti storici non hanno altro fine e altro effetto che quello di dare ispirazione e materia a un’opera letteraria. La guerra troiana non ha altro scopo che far comporre l’Iliade, la guerra del Peloponneso di far nascere il capolavoro di Tucidide, le conquiste e le guerre civili di produrre l’Eneide, la Rivoluzione Francese di fare scrivere le grandi e belle pagine di Michelet, di Carlyle, di Victor Hugo ecc. Sarà una fantasia dell’orgoglio letterario, ma è pur vero che di quei lunghi drammi di sangue, di stenti, di fatiche, di ambizioni e di affanni non restano, alla fine, che storie e poemi – insomma libri, null’altro che libri (Giovanni Papini, Diario, 15 gennaio 1943).

L’ORIGINALE DEDICA DI UN BEL LIBRO. A Leone Werth. Domando perdono ai bambini di aver dedicato questo libro a una persona grande. Ho una scusa seria: questa persona grande è il miglior amico che abbia al mondo. Ho una seconda scusa: questa persona grande può capire tutto, anche i bambini; e ne ho una terza: questa persona grande abita in Francia, ha fame, ha freddo e ha bisogno di essere consolata. E se tutte queste scuse non bastano, dedicherò questo libro al bambino che questa grande persona è stato. Tutti i grandi sono stati bambini una volta. (Ma pochi di essi se ne ricordano): perciò correggo la mia dedica: A Leone Werth, quando era un bambino (Antoine de Sint-Exupéry, Il piccolo principe, 1943).

26 febbraio 1998.

LINEA RECTA BREVISSIMA. Gli antichi e noi. Gli antichi sono vicini a noi perché la loro filosofia, la loro scienza, la loro arte, hanno partecipato non poco alla costituzione del mondo moderno. Ma per comprenderli bene bisogna rendersi conto di essere completamente altro da loro, guardandoli da lontano, recuperare tutto il peso della discendenza dinastica e della differenza (Jean-Pierre Vernant). Dedicato alla madre morta. Poiché parlavi poco / e rispondevi a stento, / venivano a trovarti / sempre più raramente. / Come se l’amore / si nutrisse solo di parole (Tommaso Lisi). Uno storico inglese la vede così. Per l’Italia era comunque una fortuna avere giudici capaci di portare alla luce fatti che presto o tardi avrebbero costretto il potere legislativo ad agire: anzi, senza il lavoro di Borrelli, Falcone e Di Pietro, non è facile immaginare come il paese avrebbe potuto trovare una via d’uscita (Denis Mack Smith).

I GRANDI PENSATORI RUSSI E SOLOV’EV, IL LORO CAPOFILA. Saremo veramente europei quando conosceremo e ameremo i grandi pensatori, teologi e maestri di vita spirituale del mondo slavo, così come da tempo abbiamo imparato a godere la musica di Borodin e Ciaikovskij, di Chopin e di Stravinskij, e gli scritti di Dostoevskij, Tolstoj, Pasternak, Sinjavskij. Tra i pensatori russi non possiamo ancora oggi ignorare tre figure di prima grandezza: Vladimir Sergeevic Solov’ev (1853-1900), Nikolaj Berdjaev (1874-1948) e Pavel Florenskij (1882-1943). E se il secondo e il terzo sono all’origine della rinascita culturale e cristiana russa del Novecento per settantaquattro anni schiacciata dalla dittatura del comunismo ateo, il primo della triade, Solov’ev, è anche il loro capofila ideale. Solov’ev, è bene che si sappia, è l’autore della più universale creazione speculativa dell’età moderna, e lo è al punto di essere posto da Urs von Balthasar accanto a Tommaso d’Aquino, essendo «il più grande artefice di ordine e di organizzazione nella storia del pensiero». Il teologo svizzero ha dedicato al pensatore russo un saggio magistrale nel terzo volume della sua «summa», Gloria, quello dedicato agli «Stili laicali» (Milano 1976, pp. 258-324). Solov’ev è inoltre il pensatore «ecumenico» più eminente. La sua chiaroveggenza spirituale è quasi allucinante e nei suoi scritti il dialogo tra le confessioni religiose si eleva ad un’altezza prima mai raggiunta.

TUTTO QUESTO MIRA AL CERVELLO. L’uomo moderno è schiavo della modernità, la pubblicità, uno dei mali più grandi del nostro tempo, ferisce i nostri sguardi, falsifica gli aggettivi, rovina i paesaggi, corrompe ogni qualità. Tutto questo mira al cervello. Ben presto bisognerà costruire chiostri rigorosamente isolati, dove non entreranno né la radio né i giornali, nei quali sarà salvaguardata e coltivata l’ignoranza di ogni politica. Si disprezzeranno la velocità, il numero, gli effetti di massa, di sorpresa, di contrasto, di ripetizione, di novità e di credulità. È lì che in determinati giorni si andrà ad osservare, attraverso le grate, alcuni esemplari di uomini liberi (Paul Valéry).

SCRIVERE LETTERE. Riconosco che scrivere lettere, quando lo si fa con una certa serietà, è una specie di estasi dell’anima, la quale in quell’attimo si comunica a due corpi. E come ogni giorno vorrei provvedere all’ultima scorta della mia anima, sebbene non sappia quando morirò, così per queste estasi divenute lettere, sovente mi abbandono allo scrivere in un momento in cui non so quando quelle lettere ti verranno inviate – e molte non vengono mai inviate (John Donne).

NELL’ORA DELL’ANGOSCIA PIÙ GRANDE. Perché Signore, e fino a quando? Fino a quando, Signore…? Per sempre mi dimenticherai? / Fino a quando mi nasconderai il tuo volto? / Fino a quando nell’anima mia proverò affanno, / tristezza nel cuore di ogni giorno? / Fino a quando trionferà su di me il nemico?… / Dio, tu ci hai respinti, ci hai messi in rotta, / ti sei sdegnato: ritorna da noi (Salmi 13, 2-3; 60, 3).

Spezza, Signore, queste spade di collera. Spezza, spezza, Signore, queste spade di collera, / abbrevia, in favore dei giusti della terra, / questi giorni di disperazione e di convulsione, / in cui il tuo nome s’eclissa agli occhi dei popoli. / Possa l’angelo della pace ridiscendere presto tra noi! (Alphonse de Lamartine, Jocelyn, 1836).

5 marzo 1998.

LINEA RECTA BREVISSIMA. Oltre il timore, la speranza. Non ci basta di non avere nulla da temere, vorremmo che anche qualcosa da sperare. A forza di mentire si crede di dire la verità. La finzione, quando è dotata di grande efficacia, è come un’allucinazione nascente e può controbilanciare il giudizio e il ragionamento, che sono le facoltà propriamente intellettuali. Che cos’è la fiducia? La fiducia, questa eterna invasione del presente sull’avvenire. (Henri Bergson)

Non lasciarlo nella solitudine della sua grandezza. L’umano e il divino, la coerente carità e i valori eterni, il bello e il vero sono nelle pagine del Manzoni. Non lasciamo il Manzoni nella solitudine della sua grandezza. La grandezza sua è un dono per noi (Umberto Colombo). La cosa più bella. La cosa più bella del mondo! Una bimba che ti chiede qual è la strada, e che riparte cantando, quando tu gliel’hai indicata (Proverbio giapponese).

«DOVE NOI ABBIAMO DEVIATO DAL VANGELO?». Giovanni Paolo II vuole portare all’appuntamento del terzo millennio la Chiesa che si purifica chiedendo perdono per le sue colpe, dirette o indirette, in alcuni tristi fatti dell’era cristiana. «Alla fine di questo secondo millennio – scrive il Papa – si deve fare un esame di coscienza: dove stiamo, dove Cristo ci ha portati e dove noi abbiamo deviato dal Vangelo». Si è già svolto, dal 28 ottobre al 2 novembre 1997 in Vaticano un simposio internazionale allo scopo di capire le radici dell’antisemitismo nel mondo cristiano. In quest’anno se ne svolgerà un altro sull’inquisizione, che sancì il ricorso alla coercizione e alla violenza in materia di fede. Non è stato facile per Giovanni Paolo II far accettare questa mirabile svolta, ma tutti coloro che hanno unito inscindibilmente la fede in Cristo e la passione per la verità esultano di gioia. Aveva aperto la strada Giovanni XXIII che aveva voluto l’abolizione della formula «perfidi giudei» nella liturgia della settimana santa; lo aveva seguito Paolo VI che durante il Concilio Vaticano II si rivolse con parole accorate alle altre Chiese Cristiane, riconoscendo che anche la Chiesa Cattolica aveva responsabilità nell’aver favorito lo scisma. Su queste basi il dialogo tra la parte migliore del mondo moderno e Cristo può ripartire, senza equivoci, in spirito di verità. Noi vediamo in questo esame di fine millennio l’eredità più alta di papa Wojtyla, quella di maggior interesse culturale e che meglio può essere intesa fuori della Chiesa. È anche la via regale per rilanciare in modo effettivo l’ecumenismo.

GLI UOMINI DEL COMUNISMO ITALIANO NON OSAVANO PORSI QUELLA DOMANDA. Una sera fui invitato da Celeste Negarville nella sua elegante casa ai Parioli. Poco dopo, arrivarono Amendola e Pajetta. Cominciarono a discutere con una vivacità che non gli conoscevo. Affioravano dubbi, domande, perplessità su un unico tema: Stalin. Si accapigliarono, rimanendo uniti soltanto su un comune scetticismo. Avrebbero continuato a lungo, incaponendosi su tesi senza sbocco. Ma successe un episodio imprevisto. All’improvviso intervenne la giovane signora che Negarville aveva sposato in Unione Sovietica, limitandosi ad una sola domanda rivolta a tutti i presenti: «Ma davvero avete creduto che il Generalissimo fosse contemporaneamente il primo studioso di linguistica dei popoli, primo stratega, primo economista, primo storico, primo in tutto?». Negarville, Amendola e Pajetta furono presi alla sprovvista. Pensavano le stesse cose, solo con minore chiarezza, ma forse non avevano mai osato porsi quella domanda. Una giovane signora, invece, intervenendo casualmente nella conversazione, aveva osato dire in modo sobrio e sensato: il re è nudo. La discussione morì di colpo, come se l’imprevista sortita avesse messo tutti quanti d’accordo, con una ingenuità pari a una sconcertante sincerità liberatoria. Rimasi stupito anch’io, forse per una ragione diversa. La domanda retorica che la signora Nora, questo era il suo nome, aveva posto era la stessa che circolava dentro e fuori dal Partito… Mi stupiva soprattutto un particolare: in quella stanza erano presenti gli uomini che non avrebbero mai consentito che di Stalin si parlasse in pubblico e sui giornali con tale irriverenza (Massimo Caprara, Quando le Botteghe erano oscure 1944-1969. Uomini e storie del comunismo italiano, Milano 1997, pp. 132-133).

12 marzo 1998.

LINEA RECTA BREVISSIMA. Quando comincerà veramente ad essere così? Qui nessun vantaggio è dato al denaro, ma il ricco e il povero godono gli stessi diritti (Euripide). Il solo modo serio di cercare la verità. La verità sta nei fatti. Essa confuta le opinioni errate relative ai fatti stessi (Alessandro di Afrodisia). Letizia e affabilità con tutti. Rallegratevi nel Signore sempre; ve lo ripeto ancora, rallegratevi. La vostra affabilità sia nota a tutti gli uomini (San Paolo).

Paura e amore. Paura e amore si contraddicono a vicenda: l’amore si offre audacemente e non si cura di che cosa riceve in cambio. L’amore lotta con il mondo come contro l’io e subordina a sé ogni altro sentimento. Lì non vale. Nei problemi di coscienza la legge della maggioranza non vale. L’arte più alta, la gioia più autentica. La vita intesa come servizio è l’arte più alta ed è colma di autentica gioia. La tendenza ad esagerare. La tendenza a esagerare, a reprimere intenzionalmente o no la verità o a distorcerla è una debolezza naturale dell’uomo, e il silenzio è necessario per vincerla… Sono molte le persone che si agitano parlando nelle assemblee… Ma tutto questo gran parlare difficilmente è utile al mondo. (Gandhi)

SOLOV’EV E LA PENA DI MORTE. Lo zar Alessandro II fu ucciso il 1° marzo 1881 e il suo assassino fu condannato a morte. Ma prima che la sentenza fosse eseguita, Solov’ev prese posizione pubblicamente sull’uso della violenza nella lotta politica e sulla pena di morte. Lo fece a Pietroburgo, capitale dell’impero russo, in due discorsi tenuti ai Corsi femminili superiori. Ai rivoluzionari, che ricorrevano alla violenza per attuare un futuro di giustizia, Vladimir Solov’ev diceva. «Se l’uomo non è destinato a retrocedere allo stato di belva, una rivoluzione che si fondi sulla violenza è priva di futuro». Nello stesso tempo, egli chiedeva che all’attentatore fosse risparmiata la pena capitale, con una motivazione semplice e radicale, mirabilmente riassunta nel passaggio conclusivo dell’intervento: «Lo zar deve rinunciare al principio pagano della vendetta e della dissuasione dal delitto facendo ricorso a un altro delitto… Lo zar, dunque, deve dare l’esempio per perdonare». Frenetici applausi, soprattutto da parte dei giovani, e urla di «Traditore! Canaglia! Terrorista!» accolsero le parole di Solov’ev.

Egli tornò sull’argomento in una lettera al nuovo zar, Alessandro III, a cui scrisse con tutta franchezza: «Il popolo russo nel suo complesso trae vita e movimento dallo spirito di Cristo e lo zar deve rappresentare ed esprimere quello spirito. L’attuale grave momento dà alla zar di Russia una possibilità senza precedenti di manifestare la forza del principio cristiano del perdono». La risposta giunse attraverso il ministro della Pubblica istruzione: gli interventi del filosofo sull’attentato del 1° marzo erano stati «inopportuni» e gli si ingiungeva di astenersi dal fare pubbliche conferenze per un tempo a discrezione del ministero. Solov’ev non si piegò e dette allora le dimissioni dall’università. Tanto gli stava a cuore «il dovere religioso» di rifiutare l’idea stessa della pena di morte, cioè di «un assassinio inescusabile perché consumato lentamente, a sangue freddo, con chiarezza di mente».

POESIA DEI NOSTRI GIORNI. Non cado nella rete. Nella rete delle parole / false e bugiarde / nessuno / mi pescherà. Il fiume. Impastati / di futuro e d’infanzia, / scorre tra memoria e speranza / il fiume della vita. Plenilunio. Come sull’altare / l’ostia, / sta sopra il monte / la luna. (Levi Appulo)

19 marzo 1998.

LINEA RECTA BREVISSIMA. Quando la donna è ridotta a cosa. Per lo sguardo del playboy la foglia di fico è stata semplicemente spostata in parte diversa del corpo: essa nasconde ora il volto umano (Giulia Di Nicola). Quando si è analfabeti in amore. Quando si è analfabeti in amore, l’esito è sempre scontato: si passa rapidamente dall’idoleggiamento al rifiuto e dall’altare al tribunale (Levi Appulo). Homo videns. Nell’epoca della riproducibilità televisiva se il mondo sparisce dal video, il mondo stesso non esiste più… La Tv genera un nuovo ànthropos, condannato a vedere tutto, da dovunque e ad essere subito dimentico di tutto… L’homo videns, reso incapace di costruzione logica, è dominato dall’opinione e con la televisione le autorità cognitive diventano divi del cinema, belle donne, cantanti, calciatori, e via lungo questa china… In Tv più che altrove è il produttore che produce il consumatore (Giovanni Sartori).

GLI AFFARI DELL’ITALIA ILLEGALE. Nel volume Italia illegale, edito a cura di Sergio Scamuzzi (Torino 1996), vi è una tabella sulle stime economiche del crimine in Italia, calcolate in milioni di lire. Ecco alcune voci: frodi in danno Cee 156.000; frodi alimentari 247.000; usura 1.300.000; truffe 800.000; traffico e commercio d’eroina 6.500.000; traffico e spaccio di altri stupefacenti 11.000; sequestri di persone 15.000; contrabbando tabacchi 700.000; estorsioni 1.400.000; sfruttamento prostituzione 845.000. Occorrerebbe, però, avere i dati relativi alle stesse voci di almeno tre altri Paesi europei – penso alla Francia, alla Germania e all’Inghilterra – per esprimere un giudizio comparativo. Il giudizio morale, comunque, è ben netto e non trarrebbe motivo di conforto dalla conoscenza dell’entità dei mali altrui.

26 marzo 1998.

LINEA RECTA BREVISSIMA. Non l’istante, ma la durata reale. Non ha senso l’istante. Ne ha il tempo, / ne ha la misteriosa / continuità di esso. Rimani dove sei. Rimani dove sei, ti prego, / così come ti vedo. / Non ritirarti da quella tua immagine, / non involarti ai fermi / lineamenti che ti ho dato. (Mario Luzi)

I ferri del mestiere. Se hai sempre una matita in tasca, ci sono molte probabilità che un giorno o l’altro tu sia tentato di usarla. E come amo dire ai miei figli: ecco perché sono diventato scrittore (Paul Auster). Il lungo dialogo tra parola e suono. Oggi sappiamo che il suono è portatore sempre di un senso, e questo senso avvolge quello della parola, vi si aggiunge e contrasta; ed è questo il rapporto alla fine che conta, un rapporto che diventa sempre più definibile quanto più noi andiamo verso il problema della voce. È probabile che quanto più noi pensiamo alla poesia, alla parola come parola che non va solo capita, ma va interpretata, cioè eseguita, tanto più nella distinzione delle parti il problema della musica, il problema del ritmo ritorna anche per colui che parla e dice un verso (Ezio Raimondi).

NON «PADANIA», MA «PEDEMONTANA». Ogni soggetto politico si fa portatore, in modo corretto o distorto, di esigenze e interessi e la Lega lo fa anch’essa, né le manca certo la fantasia per crearsi spazio e visibilità. Non voglio giudicare in questa sede le sue iniziative, i suoi metodi e i suoi slogan, ma fare solo una constatazione. La Lega trova consenso non nel cuore della Valle Padana – a Torino, a Milano, a Bologna o a Venezia – ma quasi esclusivamente nelle zone pedemontane. Essa non ha conquistato né la cosiddetta Padania, né il più vasto Nord. Ma se le cose stanno così, perché si ostina a parlare in nome di popolazione e zone che elettoralmente finora le hanno negato il loro consenso? La famosa espressione «Repubblica del Nord», che è un po’ l’insegna programmatica della Lega, non andrebbe allora più correttamente sostituita con «Repubblica della Pedemontania»? Occorre, infatti, cercare sempre corrispondenza tra la res, la realtà effettuale di un fenomeno, e ciò che la designa, il nomen.

MA SIAMO PROPRIO BRAVA GENTE? La domanda è inevitabile: siamo davvero «brava gente», come ci vantiamo di essere, se siamo in tanti ad essere disonesti? E siamo onesti noi stessi se chiudiamo gli occhi dinanzi a un’illegalità di massa, che attesta quanto grande sia il nostro incivismo e scarso il senso di responsabilità verso la comunità nazionale di cui facciamo parte? Le tipologie dell’illegalità di massa sono ben note ai lettori della cronaca di qualsiasi quotidiano. Non si tratta solo di pensioni percepite senza averne diritto (i beneficiari sarebbero 1 milione) e di assunzioni di falsi invalidi (3-400 mila). Vi è qualcosa di più e di peggio: abituale pagamento illecito a pubblici dipendenti di straordinari e di trasferte inesistenti; assenze prolungate dal lavoro con rientro massiccio alla vigilia dei periodi di vacanza, soprattutto nella scuola; frodi ingenti allo Stato per analisi non eseguite e cure fittizie. E qui non parliamo di altri fenomeni assai corposi come il sistema delle tangenti, la corruzione di parecchi «controllori» e dei giudici, l’abusivismo edilizio. Vi sono, infine, illegalità particolarmente diffuse per l’enorme numero di persone che vi sono coinvolte. Secondo lo studio di Enzo D’Antona (Fuori legge e fuori bilancio, «Il Mondo», 10 ottobre 1995) si va dai 4 milioni degli evasori del bollo auto, ai 3 milioni che non pagano il canone tv, ai 10 milioni di evasori parziali del fisco. E quanti sono gli evasori totali?

POESIA DEI NOSTRI GIORNI. Scherzo con dedica… Lui e lei / facevan sì, / lavorando in coppia, / che la somma dei guai / fosse doppia. Il cielo che s’accende. Il cielo che s’accende / di porpora, / prima che il sole ceda il suo oro / è offerta senza parola / d’infinito / e suo presentimento (Levi Appulo).

2 aprile 1998.

LINEA RECTA BREVISSIMA. Il silenzio e la parola. Sii intelligente e taci (Iomà). Incolla le labbra una all’altra e non affrettarti a rispondere (Avodà Zarà). Il silenzio conviene ai saggi. A maggior ragione conviene ai citrulli (Avot di Rabbi Nathan). Di una persona presente si tesse soltanto una parte degli elogi che merita. Ma si dicono tutti in sua assenza (Eruvin). Il tuo silenzio è più bello delle tue parole (Jevamot). Ti lodi un altro e non la tua bocca (Libro dei Proverbi).

L’UOMO, PARADOSSO VIVENTE. La finitezza dell’uomo, la sua contingenza radicale, l’improrogabilità della morte sono le prime acquisizioni dell’itinerario filosofico di Seneca. Ma l’uomo è un paradosso vivente in quanto è situato ontologicamente al punto di congiunzione della parola con l’inesprimibile, della speranza con la disperazione, dello scacco con l’affermazione vittoriosa, del finito con l’infinito, dell’eroismo magnanimo e della meschinità sordida, del sapere col non sapere, del volere con il disvolere, della razionalità con l’irrazionale che preme in noi e fuori di noi, della vita con la morte. La duplicità dell’uomo si manifesta ovunque, così che diventa inevitabile che ogni domanda sulla sua natura e sulla sua condotta si presenti in forma di dilemma: buono-malvagio, razionale-irrazionale, sociale-antisociale, e così via.

Seneca ha avvertito fortemente la presenza del male nella vita dei singoli e nella società; tuttavia, è pur sempre all’uomo, e solo a lui, che è data la possibilità di «trasfigurare» la sua esistenza. Alfonso Traina ha fatto notare che non a caso il verbo transfigurari, destinato ad avere tanta fortuna, è un neologismo di Seneca (Lo stile drammatico del filosofo Seneca, Bologna 1987, p. 61). L’uomo può diventare peggiore di qualsiasi belva (Ad Lucilium epistulae morales 103, 2); ma è ben lui che ascende le vette più alte dell’eroismo morale e, ancor più, dell’amore disinteressato, rendendosi simile a Dio. Non siamo che particelle infinitesimali dell’universo; la natura, tuttavia, ci ha generato per essere spectatores tantis rerum spectaculis, «spettatori di spettacoli incommensurabili» (De otio 5, 3). La sua fatica sarebbe sprecata se opere tanto grandi e splendenti di perfezione facessero mostra di sé in un deserto (ibid. 5, 3). Dio ha voluto, insomma, che noi riconoscessimo la sua gloria nella sua opera e ha immesso in noi un ardente bisogno di conoscenza, vera molla del progresso in ogni campo.

CHE COS’È CHE FORMA L’ABITO DI UNA GENERAZIONE? Cos’è che forma l’abito di una generazione? Sono i rapporti interpersonali che l’hanno alimentata, le molteplici vite che si sono intrecciate influenzandosi a vicenda, le concomitanze e le casualità che l’hanno condizionata, le convulsioni che l’hanno attraversata accomunando i piccoli e i grandi destini, come il turbine dell’immagine manzoniana che «abbattendo muraglie e sbattendone qua e là i rottami, solleva anche i fuscelli nascosti tra l’erba, va a cercare negli angoli le foglie passe e leggiere che un minor vento vi aveva confinate, e le porta in giro involte nella sua rapina». Ogni generazione passa alle successive qualcosa di sé: è la legge della vita, la ragion d’essere della storia che non è una semplice addizione di atti estemporanei, ma una trama unita dalla quale solo a grande distanza riusciamo a cogliere il senso effettivo. Di questa catena ininterrotta che lega le generazioni la visione cristiana dà una motivazione ancora più alta: nulla viene perduto dell’agire umano, dai più umili gesti di amore e di bontà alle nascoste e spesso inenarrabili sofferenze. Ogni nostro atto confluisce in un’unica sorgente e di là si diparte influenzando i destini di persone ignote, oltre i confini dello spazio e del tempo. È il mistero più abbagliante della fede cristiana che prende il nome di comunione dei Santi. Siamo tutti come vasi comunicanti: ciascuno di noi dà e contemporaneamente riceve (Fabiano De Zan, La testimonianza dei giovani di cinquant’anni fa, in «Brixia fidelis», 1998, n. 1).

POESIE AL FEMMINILE. Le parole non dette. Le parole non dette / fra noi / come semi morti / fumo di un rogo spento / fiori secchi / fra le pagine / d’un libro polveroso. Papaveri rossi. Nell’angolo fa le case grigie / un prato di papaveri improvviso / rosse corolle aperte / bevono l’aria tiepida di giugno / petali sottili / ali di farfalla / si toccano / si baciano / frementi di passione. (Mariolina Nuccio Nasta, Erba di vetro, Milano 1998)

9 aprile 1998.

LINEA RECTA BREVISSIMA. Il lavoro e lo studio. Non si studia senza rinnovare. Ho molto imparato dai miei maestri, ma più ancora dai miei amici; ma è dai miei discepoli che ho imparato di più. Hai già letto? Ancora rileggi. Hai letto due volte? Allora leggi tre volte. Prima studia, soltanto in seguito potrai discutere. Agli allievi e ai maestri. Hai cominciato? Finisci. Se studi fallo con gioia. Chi è, dunque, saggio? Chi impara da ogni uomo. Un maestro collerico insegna male. L’onore dell’allievo sia caro al maestro quanto il suo. Il maestro che abbia coscienza della dignità del suo lavoro, ecco chi può rendere felice l’allievo.

Le citazioni riportate sono tratte dal volumetto Ogni settimana ha il suo venerdì (Proverbi di saggezza ebraica) di Victor Malka, Milano 1996.

LA STAFFETTA DELLA FEDE. Lo scrittore russo Andrej Sinjavskij si spense a Parigi il 25 febbraio del 1997. Io ho avuto la fortuna di conoscerlo e di volergli bene. Lo avevo invitato a parlare a Brescia vent’anni prima, il 12 aprile del 1977, poco dopo l’uscita dal lager. Parlando in pubblico, al teatro Franciscanum, raccontò tra l’altro un episodio vissuto in prima persona. Lo trascrivo per i cari lettori come dono di Pasqua.

«Non molto tempo dopo il mio arrivo nel lager, verso sera, un’ora prima della ritirata, mi si avvicinò un tale e mi chiese con cautela se non volessi ascoltare l’Apocalisse. Mi condusse nel locale della caldaia, dove era più facile nascondersi a delatori e carcerieri. Lì, nella penombra di quel covile simile a una caverna, si erano già raccolte, e si rimpiattavano negli angoli sedendo sui talloni, alcune persone e io pensai che ora qualcuno avrebbe estratto da sotto il giubbotto il libro o il fascio di fogli, ma mi sbagliavo. Illuminato dai bagliori rossastri della caldaia un uomo si alzò e cominciò a recitare a memoria, parola per parola, l’Apocalisse. Quindi il fuochista disse: “E adesso continua tu, Fjodor!”. Fjodor si alzò e recitò a memoria il capitolo successivo. Poi ci fu un salto nel testo, perché colui che sapeva la continuazione era a lavorare con il turno di notte. “Beh, lo sentiremo un’altra volta”, disse il fuochista e dette la parola a Pjotr. A questo punto mi resi conto che quei detenuti, tutti semplici contadini che avevano da scontare pene di dieci, quindici, vent’anni di lager si erano suddivisi tutti i principali testi della Sacra Scrittura, li avevano imparati a memoria e, incontrandosi segretamente di tanto in tanto, li ripetevano per non dimenticarli. Tutta questa strana scena mi ricordò allora un romanzo dell’americano Ray Bradbury, Fahrenheit 451. Il grado 451 è nella scala Fahrenheit la temperatura alla quale prende fuoco la carta e nel romanzo di Bradbury viene rappresentato appunto un futuro Stato “perfetto” in cui ogni cosa è regolata dall’alto e i libri e la carta sono proibiti. Quando nel corso di una perquisizione vengono scoperti dei libri, essi e le persone che li detengono vengono consegnati al fuoco. Alla fine del romanzo si narra che in certi luoghi fuori città, nottetempo, convengono in grotte e boschi degli uomini e uno dice: “Io sono Shakespeare”, e l’altro: “Io sono Dante”, o qualcosa del genere. E questo significa che il primo ricorda a memoria e declama qualcosa di Shakespeare, l’altro di Goethe, il terzo di Dante… I contadini del locale della caldaia avrebbero potuto dire di se stessi la medesima cosa. L’uno: “Io sono l’Apocalisse, capitolo 22”. L’altro: “E io il Vangelo secondo Matteo”. E così via, in una staffetta scandita da ciò che ognuno serbava nella memoria».

NON SOSTITUIRE IL NOBILE SOGNO E L’IMPEGNO CON IL RIMPIANTO. Abbiamo la tentazione qualche volta, assistendo alla caduta di tante illusioni, di considerare la nostra vita e, ancor più, il nostro impegno pubblico, una somma di speranze perdute. Sbaglieremmo tuttavia se, come accade ai più, cercassimo di sostituire i sogni con i rimpianti di ciò che poteva essere e non fu. Ciò che conta per tutti è conservare intatta la capacità di sognare, continuare a credere nel valore di ciò che si compie umilmente ogni giorno per edificare insieme la Città futura (Fabiano De Zan, La testimonianza dei giovani di cinquant’anni fa, in «Brixia fidelis», 1998, n. 1).

16 aprile 1998.

LINEA RECTA BREVISSIMA. Il contrario esatto del motto: me ne frego. Su una parete della nostra scuola a Barbiana c’è scritto grande I Care. È il motto intraducibile dei giovani migliori: me ne importa, mi sta a cuore. È il contrario del motto: me ne frego! (Don Lorenzo Milani). L’esilio. L’esilio è simile a una lebbra leggera, gassosa, che, con un logorio diluito nel tempo, sfigura e corrompe a poco a poco l’organo della memoria (Enzo Béttiza, esule dalmata). Come mai i figli dei sapienti… Come mai i figli dei sapienti raramente diventano sapienti? Perché non si possa dire che la legge (=la Torà) si trasmette ereditariamente (Nedarim).

Lui e lei. Chi sposa una donna per i suoi soldi avrà figli indegni (Kidduscin). Chi si marita al buio divorzierà alla luce del giorno (Proverbio del giudaismo marocchino). La casa di un uomo è sua moglie (Jomà).

ACCOSTARSI AI GIOVANI CON TREMORE. Parlare ai giovani, scrivere pensando in primo luogo ad essi, aiutarli a vincere lo scetticismo, ma anche l’univisualità settaria in cui possono incappare, è uno dei bisogni essenziale della vita associata, perché con i giovani l’avvenire è già in mezzo ad ogni società. Non ci si può, dunque, rapportare ad essi senza avvertire quanto sia sacro il loro diritto alla verità e all’impiego più alto del loro potenziale di bene. Ai giovani non ci si può accostare che con tremore, consapevoli della nostra personale inadeguatezza rispetto al compito che ci siamo assunti o che ci è stato assegnato. Per questo mi sono commosso nel rileggere la pagina del cronista medievale Guglielmo di Tocco (Vita sancti Thomae Aquinatis, 31) in cui si riferisce del turbamento profondo che afferrò Tommaso d’Aquino la notte che precedette l’inaugurazione del suo incarico magistrale, nel marzo del 1256, all’Università di Parigi. Quella notte il frate «dal volto color frumento» la passò in preghiera, meditando su questo versetto del Salmo 11: «Salvami, Signore, perché devo andare tra i figli degli uomini dove le verità sono ridotte a pezzi». (Salva me, Domine, quoniam diminutae sunt veritates inter filios hominum).

«SONO UN UOMO (POLITICO) CHE HA L’AMBIZIONE DI ESSERE ONESTO». Il parlamentare bresciano Enrico Roselli nel 1964, nell’accomiatarsi dalla vita a 55 anni, scriveva queste parole: «L’Italia è stata sempre piena di gente che, non volendo o non potendo o non sapendo guadagnarsi il pane con un onesto e duro lavoro, si getta alla politica. Questo ingombro frontale di faziosi e di avventurieri trattiene lontane dalla politica le persone tranquille e per bene, che poi ne pagano il fio». Sono ancora oggi parole tremende che indicano un pericolo costante della politica, dal quale sono esenti, forse, solo i passaggi più dolorosi della storia. Ma è certamente possibile fare politica in modo diverso, come scriveva un altro grande esempio di coerenza cristiana, Alcide De Gasperi, l’esponente più dotato di quella generazione radiata dal fascismo che lasciò tracce incancellabili nei giovani di cinquant’anni fa: «Bisogna presentarsi dinanzi agli avvenimenti con l’umiltà di riconoscere che essi superano la nostra misura… Per risolvere i problemi vi sono vari metodi: quello della forza, quello dell’intrigo, quello dell’onestà. Sono un uomo che ha l’ambizione di essere onesto. Quel poco di intelligenza che ho la metto al servizio della verità… Mi sento un ricercatore, un uomo che va a rincorrere i filoni della verità, della quale abbiamo bisogno come dell’acqua sorgente e viva delle fonti. Non voglio essere altro».

Siamo vivamente grati a Fabiano De Zan di averci ricordato il lucido giudizio di Roselli e l’idea-forza di De Gasperi nel suo bellissimo saggio Testimonianza dei giovani di cinquant’anni fa, pubblicato in «Brixia Fidelis» 1998, n. 1. Un saggio scritto con schiettezza ed ésprit de finesse, che farebbero bene a leggere, per capirsi meglio, i giovani di ieri e quelli di oggi.

POESIA AL FEMMINILE. Forse lontano. Dove sul prato verde / l’anemone selvaggio / offre all’aprile / la rossa corolla dell’amore, / dove s’aprono gli occhi di un bambino / potrei trovare / la gioia della vita (Mariolina Nuccio Nasta, Erba di vetro, Milano 1998).

23 aprile 1998.

LINEA RECTA BREVISSIMA. Morte prematura. L’indifferenza è morte prematura (Anton Cecov). Le cosiddette maggioranze silenziose. Troppo spesso siamo indifferenti e rassegnati e lasciamo mancare la nostra voce di protesta contro la corruzione, l’ingiustizia, la menzogna, ma anche il nostro annunzio e la nostra testimonianza di onestà, di giustizia e di verità. Le cosiddette «maggioranze silenziose» sono spesso inutili e ipocrite, persino inclini a giustificarsi e a ritenersi esemplari anche quando nel loro comportamento sociale non lo sono. Sono la voce e l’azione sincera e onesta che contano e che ci rendono autenticamente vivi, persone umane e credenti (Gianfranco Ravasi). Ci vogliono le regole perché possa essere salvaguardata la libertà. Un libero mercato non c’è e non può esserci senza intervento dello Stato. La libertà del mercato è fondamentale, ma non può essere una libertà assoluta. Questo è vero per il mercato come per qualunque altra cosa. La libertà assoluta è un non senso (Karl R. Popper).

SI PUÒ ESSERE FELICI AL DI FUORI DELLA VERITÀ? L’uomo ama la verità o l’odia? Ebbene egli fa l’una e l’altra cosa. L’uomo è avidus veri e rifugge dalla verità; la sua passione per la verità su certe questioni non esclude il rifiuto ostinato di essa in altre. Egli non vuol essere ingannato, ma è spesso mentitore ed è addirittura «contumace» – termine caro a Seneca – nel non voler far luce soprattutto su se stesso. Noi, infatti, copriamo i nostri vizi e i nostri peccati a noi stessi prima che agli altri, impegnandoci a trovare, di volta in volta, la maschera più idonea ad occultare quello che siamo dentro e di apparire così come la cattiva coscienza, le convenienze e gli interessi esigono. Certamente è impossibile non vedere che l’ansia di verità caratterizza le conquiste più alte del cammino umano nella storia: ma vi è in noi anche la capacità terribile, prima ancora che di tradire la verità, di non prenderla neppure in considerazione. «Nessuno può dirsi felice se è al di fuori della verità» (De vita beata 5, 2), ammonisce Seneca, né può essere altrimenti: prescindere dalla verità – almeno nella misura in cui è accessibile a noi e si traduce in luce per i nostri passi – equivale, infatti, per l’uomo al massimo di eteronomia, cioè di estraneità al suo io profondo. Si finisce allora per condurre un’esistenza che Heidegger, in Essere e tempo (1927), chiamerà «inautentica» e Mounier nella sua Introduzione agli esistenzialismi (1947), «esistenza perduta».

LE PASSIONI, MATERIA PROPRIA DELLE VIRTÙ. Le passioni, che per gli stoici sono agitazioni disordinate da estirpare, per Tommaso d’Aquino sono i moti delle nostre inclinazioni e della nostra sensibilità: non vanno azzerate, ma consapevolmente assunte nell’opera incessante di unificazione e potenziamento del nostro carattere e della nostra personalità. Le persone, dunque, sono per il Doctor communis la materia propria delle virtù morali, le quali non possono esistere senza passioni. La virtù non ha, infatti, il compito di far sì che le facoltà subordinate alla ragione cessino, ma piuttosto di far sì che concorrano vitalmente a eseguire il comando della ragione. Ma Tommaso si eleva a una concezione ancor più profonda quando afferma che dall’esercizio puro e intenso della virtù si irradia una gioia che è generatrice essa stessa di passioni in un più nobile senso, in quanto si effonde in risonanze che fanno vibrare intimamente e nella sua interezza la psiche umana. «Come è meglio – scrive l’Aquinate – che l’uomo non solo voglia il bene, ma lo realizzi anche con azioni esteriori, così alla perfezione del bene morale si richiede che l’uomo si muova al bene non solo mediante la volontà, ma anche mediante la passione. Il mio cuore e la mia carne hanno esultato nel Dio vivo (Salmo 83)». Cuore e carne, dunque, insieme; intenzione pura e inclinazione a ciò che è buono e giusto.

POESIA AL FEMMINILE. Aiutami Signore. Aiutami Signore / nei momenti più bui dell’esistenza / quando tutto è deserto / e gli occhi che ti guardano / non vedono. / È difficile ascoltare la tua voce. / Vorrei fermarmi / sul ciglio di una strada erbosa / abbandonarmi al respiro dell’immenso / mentre mi perdo / nell’intrico d’asfalto. / Non so leggermi dentro / aiutami, Signore (Mariolina Nuccio Nasta, Erba di vetro, Milano 1998).

30 aprile 1998.

LINEA RECTA BREVISSIMA. Una profanazione assai frequente. In campo religioso non c’è cosa più orribile della profanazione ed io ho proprio la sensazione che, sia pure involontariamente, essa è implicita nella riduzione della fede per lo schermo televisivo. Non possono che colpire sgradevolmente, ad esempio, domande dirette e disinvolte in una sfera intima, misteriosa e sacra per ogni persona. Di Dio non si deve chiacchierare a vuoto (Andrej Sinjavskij). Ciò che è decisivo. Decisivo è non ciò che ci è gradito o sgradito, bensì ciò che è vero (Levi Appulo). Di fronte alla violenza che monta. Preferisco morire come Abele che vivere come Caino (Arturo Carlo Jemolo). Se incliniamo alla malinconia. Non credo che siano possibili una capacità creativa e un rapporto piuttosto profondo con la vita senza un temperamento malinconico. Non lo si può eliminare, bensì inserire nella vita: ciò comporta nel senso intimo che lo si accetti da Dio e lo si volga in bene per gli altri (Romano Guardini).

LE SORPRESE DI UN GENIO: TOMMASO D’AQUINO… D’ACCORDO CON POPPER! Alberto Magno (1206-1280) ebbe un vivo interesse per la scienza, mentre il suo discepolo prediletto, Tommaso d’Aquino (1225-1274), fu un metafisico di razza. Tuttavia anche nel suo approccio al sapere scientifico Tommaso lascia il segno della sua genialità e del suo senso critico con un’intuizione che va ben oltre i limiti della cultura del tempo. Nel Commentario alla Metafisica aristotelica e in quello al De coelo et mundo, le teorie geocentriche di Eudosso, di Callippo e di Tolomeo sono non solo esposte, ma valutate esattamente per quelle che sono, come opiniones o suppositiones, cioè ipotesi non certamente assurde (anche studiosi moderni ne hanno apprezzato l’ingegnosità), ma nemmeno dotate di piena evidenza scientifica. Infatti, con acume critico eccezionale, Tommaso scrive: «Anche se con tali ipotesi si rispettano i dati empirici, ciò non basta per dire che esse sono ipotesi verificate: infatti, forse esiste un’altra teoria non ancora escogitata con cui si possa giustificare altrettanto bene quei dati empirici sul moto degli astri. Invece Aristotele prende per verificate tali ipotesi circa la natura dei movimenti stellari» (In librum Aristotelis De coelo et mundo 2, 12, 17). Tommaso si riferisce al principio fondamentale della scienza della natura, ossia alla necessità di formulare ipotesi di spiegazione, suppositiones, che siano compatibili con l’esperienza immediata e certa, cioè con quelli che modernamente chiamiamo fenomeni e che gli scolastici chiamano apparentia (termine che traduce letteralmente il greco phainòmena). Ma, osserva giustamente Tommaso, perché un’ipotesi sia convincente non basta che «salvi i fenomeni»; bisogna che escluda anche le altre ipotesi altrettanto plausibili; se invece tale esclusione non è possibile, allora l’ipotesi di cui si tratta resta tale e «convive» con le altre, ma non può dirsi «legge». Non a torto Antonio Livi, dopo aver documentato questo aspetto del pensiero tomista, sconosciuto ai più, rileva che «ai nostri giorni Karl Popper nel suo saggio su Congetture e confutazioni non aggiunge molto di più a questo principio di filosofia della scienza presente in modo esplicito in Tommaso d’Aquino» (Tommaso d’Aquino – Il futuro del pensiero cristiano, Milano 1997, p. 181).

AD OGNI UOMO CHE NASCE VIENE CONSEGNATA UNA PAROLA. Stanotte, verso mattina, all’ora dei sogni, ne ho fatto uno anch’io. Che cosa vi si svolgeva non lo so più, ma era un certo discorso fatto a me, o da me. Vi si diceva che, quando un uomo nasce, gli viene consegnata una parola, ed era chiaro che cosa significasse: non era soltanto un temperamento, ma una parola. Essa viene pronunciata all’interno dell’essenza di ogni uomo ed è come un’insegna, la parola d’ordine per tutto quanto poi accade; è insieme forza e debolezza, è compito e promessa, è protezione e pericolo. Tutto ciò che avviene nel corso degli anni è conseguenza di questa parola, suo commento e adempimento. Avviene perciò che colui al quale essa è stata detta, ogni uomo, la comprenda e la faccia sua. Forse sarà questa parola ad essere il fondamento di ciò che un giorno il Giudice gli dirà (Romano Guardini, Appunti per un’autobiografia, Brescia 1986).

7 maggio 1998.

LINEA RECTA BREVISSIMA. La paga dei mediocri. La mediocrità ha un solo vantaggio, quello di credere a se stessa (Leo Longanesi). Il paradosso di troppi cristiani. Essere conservatori in un Paese in cui c’è ben poco da conservare (Levi Appulo). In ogni luogo. Ogni imbecille tollerato è un’arma regalata al nemico (Mino Maccari). Il 18 aprile 1948 e il 18 aprile 1998. Il 18 aprile sta smettendo di essere l’anniversario della vittoria della Dc contro i «rossi». Quella data sta entrando nella riflessione storica come una tappa della democrazia italiana, qualcosa che ormai può appartenere a chiunque questa democrazia condivida. Non è più una bandiera da sventolare, non è neanche solo un ricordo, è il «come» siamo fatti. Riesce difficile condividere le lacrime che qualcuno eventualmente a sinistra ancora volesse spargere su quella sconfitta elettorale (Mino Fuccillo, l’Unità del 12 aprile 1998).

QUANDO LE «CERCHIE DI FEDELTÀ» DIVENTANO TOTALITARIE. La vita sociale, per poco che ci riflettiamo, è fatta di tante «appartenenze» che ci chiedono obbedienza ma ci offrono anche protezione. Chi più chi meno, secondo la propria indole, la propria propensione spirituale e i propri interessi, «appartiene», di fatto o tramite un’adesione, a strutture sociali le più varie e le più variamente e strettamente organizzate. Ciascuna di queste strutture, che arricchisce la vita degli uomini e delle donne e che quindi la cultura costituzionale contemporanea è portata a valorizzare (si veda l’articolo 2 della Costituzione italiana), porta dentro di sé, tuttavia, come pericolo un latente germe totalitario. Noi ben conosciamo queste degenerazioni: la famiglia che diventa clan o mafia; le associazioni segrete se esigono sottomissione totale ai propri appartenenti; le chiese «fondamentaliste» che alimentano e si alimentano sul fanatismo dei credenti; i partiti politici, di destra e di sinistra, che richiedono dai propri aderenti un’adesione assoluta e fideistica; le etnie che si manifestano come razze, e così via fino allo Stato che pretende di essere la sola e sovrana misura del bene e del male, del giusto e dell’ingiusto. La stessa esistenza del pluralismo delle organizzazioni statali in cui ciascuno di noi è inserito rappresenta una garanzia contro le loro tendenze all’involuzione totalitaria. Spetta allo Stato dettare le regole della loro convivenza, e questo rappresenta il problema essenziale delle costituzioni pluralistiche del nostro tempo. Nessuna garanzia giuridica, peraltro, sarebbe di per sé sufficiente se non si avvertisse l’appello a qualche cosa che «sta più in alto» di tutto ciò. Infatti, come è accaduto tragicamente, lo Stato potrebbe immedesimarsi con qualcuna di esse, e diventare lo «Stato-chiesa», lo «Stato-partito», lo «Stato nazionalistico», lo «Stato-razza», ecc., con esiti sempre totalitari (Gustavo Zagrebelsky, giudice della Corte Costituzionale. Dal volume Noi non taceremo – Le parole della Rosa Bianca, Brescia 1997, pp. 36-38 passim).

LA PREGHIERA PER MIO FIGLIO DROGATO. O Signore, dandomi un figlio, / mi avevi affidato uno spirito da conservare, / grande e incorrotto. / Io, forse, non l’ho saputo fortificare / per affrontare la durezza della vita / e per resistere al miraggio di una droga / che gli ha dato l’illusione / di una fittizia, eterna Beatitudine. / Essa, invece, l’ha costretto / alla disperata quotidiana ricerca / del suo fallace paradiso. / Ma la tua bontà, Signore, / può ridare al suo spirito la perfezione originaria, / perché solo tu, Signore, / puoi spezzare l’atroce catena / a cui volontariamente si è condannato, / per ricondurlo presto o tardi a te / che solo temporaneamente me lo hai affidato.

L’autrice di questa preghiera è una signora bresciana. Ringrazio Gianfranco Ravasi per la segnalazione.

14 maggio 1998.

LINEA RECTA BREVISSIMA. Ricchezza e povertà. Chi è ricco? Chi si accontenta di ciò che possiede. Non c’è nulla al mondo di più difficile della povertà. Tutte le idolatrie hanno la loro origine nel danaro. Non darmi, Signore, né povertà né ricchezza (Proverbi di saggezza ebraica). Per gentile concessione. Devi sentirti libera mi disse. Ti autorizzo io (Maria Luisa Spaziani). Il peggio per un genio. Il peggio che può capitare per un genio è di essere compreso (Ennio Flaiano).

QUATTRO BORDATE. Il Faust goethiano manca di vera serietà. L’intero Faust è l’abbandono dell’esistenza etica personale alle forze mitico-magiche. Anche l’ultimo atto della «redenzione» avviene non attraverso il lavoro e il sacrificio, ma tramite la magia. Così, malgré le poète, in tutto manca vera serietà (Romano Guardini, Diario, Brescia 1983, pp. 243-244). «Ho detto ad Heidegger…». Un certo modo di pensare mi scoraggia. Mi riesce troppo complicato… È ciò che mi accade con Heidegger. Spesso non capisco non soltanto che cosa s’intenda volta per volta, ma neanche che cosa voglia e debba dire l’insieme. Del resto l’ho già detto a lui stesso che non lo comprendo perché io penso molto più semplicemente. Ne è rimasto assai meravigliato (ibid., pp. 143-144). «I dieci comandamenti» di mister Cecile de Mille. L’ufficio propaganda di mister Cecile de Mille aveva inviato senza soste informazioni sul prodigioso film I dieci comandamenti. Ieri l’ufficio di qui ha telefonato per sapere se la sera del 28 sarei andato alla «première». Ho rifiutato, trovo la cosa spaventosa e non volevo averci nulla a che fare (ibid., p. 206). I libri dei freudiani. Passione per le smascherature e materialismo. Del mondo della realtà spirituale non sanno niente; di quella religiosa poi assolutamente nulla; e credono d’aver detto qualcosa sul valore e sull’essenza per aver indicato i meccanismi secondo cui emergono (ibid., p. 153).

PREMESSA DI OGNI DEMOCRAZIA, L’INFORMAZIONE. Premessa di ogni democrazia è l’informazione libera: i cittadini devono sapere su che cosa votano. Nell’antichità la vaghezza dell’informazione era sfruttata dai populisti per diffondere notizie false. Oggi in democrazia la circolazione di un’informazione corretta è sì possibile, ma solo se sono assicurati la libertà e il pluralismo dei media, se questi ultimi non possono condizionare l’opinione grazie a situazioni di monopolio. Oggi la concentrazione dei media, controllati da una persona o da un singolo gruppo, specialmente in ambito televisivo, può portare a un pericoloso tipo di disinformazione, soprattutto se contemporaneamente mira alla scalata del potere politico (Franz Josef Müller).

21 maggio 1998.

LINEA RECTA BREVISSIMA. Ascoltare i piccoli. Fortunata la generazione in cui gli adulti ascoltano i piccoli. Assurda e ignobile invidia. Un padre non invidia il figlio, né il maestro il proprio allievo. Come s’insegna a rubare. Chi non insegna un mestiere al proprio figlio è come se gli insegnasse a rubare. (Proverbi di saggezza ebraica)

Panteismo, religiosità illusoria. Il panteismo è una tecnica per avere la vita intera piena di religiosità e neanche un’ora di vera responsabilità nei confronti di Dio (Romano Guardini).

IL PRIMO SEGNO DI RICONOSCIMENTO. L’universalità della legge morale, comune a tutti gli esseri ragionevoli, presenta immediatamente una forza discriminante: le massime, cioè i criteri che adottiamo nelle nostre azioni, se nel momento in cui cerchiamo di elevarle a leggi universali, si dimostrano contraddittorie, vuol dire che sono sicuramente immorali. Se una massima egoistica diventasse legge universale, dileguerebbe, infatti, la possibilità stessa di una vita morale e sociale dell’uomo: la moralità sarebbe distrutta nelle sue radici. Io posso mentire e rubare, ma non per questo sono autorizzato a trasformare la menzogna e il latrocinio in leggi dell’agire umano.

Il segno di riconoscimento del valore morale di un’azione consiste, dunque, nel fatto che il criterio che determina e struttura interiormente l’azione stessa può essere elevato a principio universale. Di qui la prima formulazione dell’imperativo categorico: «Agisci in modo che la massima della tua azione possa diventare legge universale». Kant ha colto qui una verità che si impone per la sua evidenza e rimane sempre vera questa sua considerazione fondamentale: «Quando noi riflettiamo con attenzione su noi stessi in ogni trasgressione di un dovere, rileviamo che non vogliamo realmente che le nostre massime individuali diventino leggi universali, poiché ciò è impossibile, ma che il contrario di esse resti universalmente valido come legge; senonché ci prendiamo la libertà per noi (e magari soltanto per questa volta) di fare un’eccezione a vantaggio della nostra inclinazione».

Bergson se la ride giustamente di quei filosofi i quali asseriscono che la sola ragione basti a «far tacere l’egoismo e la passione»; ha torto, però, quando attribuisce a Kant tale pretesa, che è tipica, invece, di ogni intellettualismo etico. Né si può assimilare alla tesi di fondo dell’intellettualismo etico, secondo cui la conoscenza è causa necessaria e insieme sufficiente dell’azione buona, l’affermazione di Kant «noi non dobbiamo mai volere ciò che si contraddice logicamente», a meno che si voglia agire contro coscienza, o ricorrere all’auto-inganno. L’imperativo categorico, infatti, non sarebbe un comando incondizionato della ragione se non fosse possibile mostrarne l’incontraddittorietà, cioè l’intimo carattere razionale.

LA «LIBIDO LOQUENDI». La terra esala parole, opinioni, informazioni, commenti, allocuzioni, comunicazioni, bolle e bollicine che l’avvolgono come un gas, in una febbre di parlare che ricorda la loquela coatta e irrefrenabile di certi immortali personaggi dostoevskijani. Antichi precetti – ama il prossimo tuo, carpe diem, proletari di tutto il mondo unitevi – cedono il passo allo slogan universale: parliamone. Conferenze, dibattiti, interviste, tavole rotonde. Se succede qualcosa, i giornali non indagano su ciò che è successo, ma riportano dichiarazioni, opinioni e commenti su ciò che è successo e che finisce per passare in seconda linea o per scomparire. Ciascuno dice la sua, come è giusto, su Dio o sulla camera da letto, ma non gli basta dirlo – e ascoltarlo – con gli amici in birreria. Ha spesso bisogno di salire sul podio e di sedersi davanti a un podio – il che è lo stesso, perché dà un tocco di ufficialità e d’importanza e dà l’illusione di non essere davanti a un boccale di birra, alla vita che sgomenta e alla morte che avanza fra una sorsata e l’altra, bensì sulla passerella della cultura e della storia (Claudio Magris, Corriere della Sera dell’8 marzo 1998).

AFFINCHÈ LA POLITICA NON DIVENTI SPORCA. Bisogna che l’educazione alla politica vinca la persuasione che «a fare politica, ci si sporca». Non è vero che la politica sia sporca: è vero, invece, che possono essere sporchi quelli che la fanno. Ma allora, se noi vogliamo che non ci siano persone sporche a rendere sporca la politica, bisogna che chi si sente pulito e vuole servire il Paese si impegni a fare politica, proprio perché questa resti pulita e serva il bene comune (Antonino Caponnetto, magistrato in pensione. Creò il primo pool antimafia con Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Da Noi non taceremo – Le parole della Rosa Bianca, ed. cit., p. 32).

28 maggio 1998.

LINEA RECTA BREVISSIMA. Come un alito. Il tempo scivola come un alito (Libro dei Salmi). Che il mio sforzo non s’infranga. Principio di gran virtù, / verità, o Signore, / fa che il mio sforzo non s’infranga / contro lo scoglio / della menzogna (Pindaro).

L’azzurro. L’azzurro è sempre gioia. L’azzurro ristora. Che cos’è la saggezza? Saggezza: avere di più di quanto si mostra, essere di più di quanto si sembra. «Signum obcaecationis»: un segno di accecamento. Lo spirito della rivoluzione spinge verso la dittatura, ma nel suo caparbio accecamento la mentalità moderna crede che rivoluzione significhi libertà. (Romano Guardini)

IL RISCHIO: PERDERE L’ESSENZIALE E IL PROPRIO DEL CRISTIANESIMO. 1. Quello che è positivo nell’induismo e nel buddhismo dovrà essere assunto dalla Chiesa cattolica. Il cammino dell’umanità è verso l’unico Dio e la Chiesa cattolica deve far emergere, se vuol essere fedele alla sua missione, i valori positivi di ogni altra cultura. Questa è un’esigenza primaria, un compito difficile che esige un lungo tempo e molti rischi. Basta pensare che per incorporare i valori della grecità c’è voluto il primo millennio dell’era cristiana; per l’induismo e il buddismo non ci vorrà meno. Cosa ben diversa invece è la moda delle religioni orientali e la mescolanza con esse di elementi cristiani. Il dialogo con le religioni orientali è necessario, perché in esse vi sono tanti semi di saggezza e illuminazioni profetiche; ma l’appiattimento delle fedi è un cedimento, una moda, un segno di superficialità. 2. Ciò che fa la differenza. L’Asia è percorsa da un’aspirazione certamente religiosa, ma non c’è la conoscenza di un Dio personale e trascendente. La mistica orientale è un reptus in uterum, un ritorno alle origini avvertito come liberazione dal cosmo, da tempo e dall’io. È il perdersi nell’Uno-Tutto. Per noi cristiani, invece, la salvezza non è la fuga dall’io: io sono amato da Dio perché esisto ed è proprio perché Lui è Persona ed Amore che io esisto. Nel cristianesimo non c’è nessuno svanire panteistico del mondo, del tempo, dell’io.

LETTERA ALLA PERSONA CHE L’AVEVA DENUNCIATA AI NAZISTI. Corrie ten Boom era una donna generosa di Haarlem, in Olanda, la cui fede in Cristo non fu piegata dall’estrema malvagità umana. Durante l’occupazione nazista Corrie, ormai cinquantenne, i suoi familiari e gli amici più stretti misero in salvo, nascondendoli, quanti più ebrei poterono, «per servire i figli dell’antico popolo di Dio». Traditi, furono arrestati in 35 e internati nei lager. Appena finita la guerra, in data 19 giugno 1945, ecco che cosa Corrie scrisse a chi l’aveva denunciata.

«Caro signore, oggi ho sentito che assai probabilmente lei è la persona che mi ha denunciato. Ho subìto dieci mesi di campo di concentramento. Mio padre è morto dopo nove giorni di prigionia. Anche mia sorella è morta in prigione. Il male che lei ha progettato per me si è trasformato in bene per opera di Dio. Mi sono avvicinata a Lui. Una terribile punizione l’attende. Io ho pregato per lei, perché il Signore possa accoglierla se lei deciderà di pentirsi. Pensi che il Signore Gesù sulla croce ha preso su di sé anche i suoi peccati. Se lei accetta questo e vuole essere suo figlio, lei è salvo per l’eternità. Io le ho perdonato tutto. Anche Dio le perdonerà tutto, se lei glielo chiede… Non dubiti mai dell’amore del Signore Gesù. Egli sta con le braccia spalancate per accoglierla. Spero che il cammino che ora lei intraprenderà contribuisca alla sua salvezza eterna. Corrie ten Boom.»

Questo documento, sublime nella sua disarmante radicalità evangelica, si può leggere nello splendido libro che è Consigli per l’anima di John Cummimg, tradotto in italiano dalla Piemme (Genova 1997, pp. 95-96).

DIRSI ADDIO A STALINGRADO. Un conoscente m’ha raccontato che un suo amico, al quale era stato ordinato di lasciare Stalingrado all’ultimissima ora, aveva vissuto questa esperienza: quando per un certo gruppo di soldati era giunta la fine, il cappellano militare protestante aveva tratto di tasca il Nuovo Testamento, ne aveva strappato la copertina e aveva distribuito a ciascuno un foglio del libro sacro. Nessuno l’aveva rifiutato (Romano Guardini, Diario, Brescia 1983, p. 19).

4 giugno 1998.

LINEA RECTA BREVISSIMA. Se la bestia che dorme nell’uomo… Se la bestia che dorme nell’uomo potesse essere trattenuta da minacce – una qualsiasi minaccia, la prigione o la retribuzione dopo la morte – allora il più alto emblema dell’umanità sarebbe il domatore di leoni nel circo con la sua frusta, non il profeta che si è sacrificato (Boris Pasternak). Fede e ragione. Il trionfo della fede consiste precisamente nel conservare alla ragione l’efficacia delle proprie leggi, senza barare sul piano apologetico e senza voler aggiungere qualcosa alla luce divina (Marie-Dominique Chenu). Un brandello d’infanzia. Un brandello d’infanzia che per la maggior parte degli uomini va perduto, è l’impeto verso la verità, il desiderio di una visione d’insieme delle cose e delle loro cause, la struggente brama di armonia e di un sicuro possesso spirituale (Hermann Hesse). Saremo simili a lui. Quando Dio si sarà manifestato, noi saremo simili a lui perché lo vedremo faccia a faccia (Vangelo di Giovanni).

IL PERDONO, POETICA DELLA VITA MORALE. Il perdono, nel suo senso pieno, eccede di molto le categorie politiche; esso appartiene ad un ordine – l’ordine della carità – che supera anche l’ordine della moralità. Il perdono è legato ad una economia del dono, in cui la logica della sovrabbondanza supera la logica della reciprocità. Poiché supera l’ordine della moralità, l’economia del dono appartiene piuttosto a ciò che si potrebbe chiamare la «poetica della vita morale», se si salva nella parole poetica il suo doppio senso: creatività, sul piano della dinamica dell’agire, del canto e dell’inno, sul piano dell’espressione verbale. È dunque da questa economia spirituale, da questa poetica della vita morale che viene essenzialmente il perdono. La sua potenza «poetica» consiste nello spezzare la legge dell’irreversibilità del tempo, cambiando, se non il passato, almeno il suo significato per gli uomini del presente. Essa lo fa togliendo il peso della colpevolezza che paralizza il rapporto degli uomini che agiscono e soffrono la loro propria storia. Non abolisce il debito, nella misura in cui noi siamo e restiamo gli eredi del passato, ma gli toglie la sofferenza del debito. Nella sfera politica la regola superiore è la giustizia e la reciprocità, e non la carità e il dono, e tuttavia l’ordine della giustizia e della reciprocità può essere toccato da quello della carità e del dono: toccato, ossia colpito e, se posso dirlo, intenerito. Non ne abbiamo forse esempi nella giustizia penale, nella sfera sociale e in certe espressioni caritative della solidarietà? Che ne è sul piano dei popoli e delle nazioni?

LA MENZOGNA, OMBRA TENEBROSA DELLA VERITÀ. La fisionomia più oscena della menzogna è quando si ammanta delle stesse parole della verità avvelenandole. Le parole sacre come «pace, giustizia, famiglia, vita, Dio» sono assunte con facilità, costellano i discorsi destinati a catturare menti e cuori, vengono esaltate come programmatiche. In realtà ciò che si progetta è guerra, prevaricazione, dominio, morte, negazione. È questo il volto ipocrita della menzogna, non raro anche ai nostri giorni nella politica e nella società. Denunziata implacabilmente da Cristo ovunque essa si annidasse, l’ipocrisia è il volto più sofisticato della menzogna. Per usare un’espressione di Lutero, essa si fa simia Dei, scimmiottatura del Dio della verità. Ma c’è un secondo aspetto che vorremmo far apparire. È quello più spontaneo della menzogna quand’è al potere ed è la sua inderogabile necessità di bloccare la verità nell’esercizio della giustizia, negandola agli oppressi, corrompendo e annientando la magistratura e il giudizio processuale. Non per nulla nel Decalogo risuona quel comandamento capitale per la vita sociale: «Non pronunziare falsa testimonianza» (Es 20, 16). Esso va ben oltre la semplice bugia e tutela il diritto della verità, alla dignità, alla giustizia. Non per nulla questo monito costituiva il primo dei 282 commi del Codice babilonese di Hammurabi. È una condizione essenziale all’esistenza stessa di ogni società e non solo un impegno etico o religioso. Scriveva Paolo agli Efesini: «Bando alla menzogna! Dite ciascuno la verità al proprio prossimo» (4, 25). (Gianfranco Ravasi, biblista. Da Noi non taceremo – Le parole della Rosa Bianca, ed. cit., pp. 53-54)

CHE COSA SIGNIFICA «UMILTÀ». Il suo primo stadio è la modestia, che dice: ci sono altri ancora e forse migliori di me, donde proviene anche il buon gusto, che trova sciocco mettersi davanti. Il secondo stadio è lo stare nella verità, in rapporto alla quale la persona dimentica se stessa. Il terzo stadio è l’amore, che compie quel moto sacro nel quale il Dio grande s’è calato in ciò che è piccolo (Romano Guardini, Diario, Brescia 1983, p. 13).

11 giugno 1998.

LINEA RECTA BREVISSIMA. Nessuno è inutile. Ogni uomo ha per vocazione di portare a compimento qualcosa in questo mondo. Nessuno è inutile: il mondo ha bisogno di tutti e di ciascuno (Rabbi Baroukh). I bambini, cosa sacra e futuro di ogni speranza. I bambini sono il germoglio del terzo millennio. Non spegniamo le speranze nel loro cuore (Giovanni Paolo II).

Se ha da essere dialogo. Un discorso che va per le lunghe stanca, mentre riposa e attrae l’ascoltatore se è variato nell’alternarsi di coloro che vanno argomentando (Robert Gaguin a Erasmo da Rotterdam, 7 ottobre 1495). Per non perdere il gusto dell’amicizia. Io scrivo all’una o all’altra delle persone con cui ho familiarità e dico cose che possono sembrare di nessun conto, sul tono della chiacchierata, come si fa con un bicchiere davanti tra amici e compagni, che si confidano liberamente tra loro (Erasmo). Povero me e povero te! Povero me che conosco troppo bene la libertà, avvertendone i limiti e i rischi, e povero te che non la conosci abbastanza (Erasmo all’amico monaco Guglielmo Hermans, 14 dicembre 1498).

DUE TRAPPOLE DA EVITARE SULLA VIA DEL PERDONO. È con la più grande prudenza, e guidati da una sobria chiaroveggenza, che occorre impegnarsi sulla via del perdono. Due trappole sono da evitare. La prima consiste nel confondere il perdono e l’oblio; ora, al contrario, non si può perdonare che là dove non c’è oblio, là dove la parola è stata resa agli umiliati. Niente sarebbe più detestabile di ciò che Jankélévitch chiama il perdono smemorato, frutto della frivolezza e dell’indifferenza. La seconda trappola consiste nel prendere il perdono dal suo lato cattivo. Al contrario, il primo rapporto che si ha col perdono non è il perdono facilmente esercitato, che ricorda ancora una volta l’oblio, ma la pratica difficile del domandare perdono.

DAL CARTEGGIO CROCE-EINSTEIN. Einstein a Benedetto Croce, giugno 1944. La filosofia e la ragione medesima sono ben lungi, per un tempo prevedibile, dal diventare guide per gli uomini, ed esse resteranno il più bel rifugio degli spiriti eletti: l’unica vera aristocrazia, che non opprime nessuno e in nessuno muove invidia, e di cui anzi quelli che non vi appartengono non riescono neppure a riconoscere l’esistenza. In nessuna altra società i vincoli tra viventi e morti sono così vivi e i nostri simili dei secoli precedenti stanno con noi come amici i cui detti non perdono mai l’attrattiva, la loro fecondità e la personale loro magia. E, infine, chi realmente appartiene a quella aristocrazia potrà bensì dagli altri uomini essere messo a morte, ma non offeso.

Risposta di Croce, luglio 1944. Quanto alla filosofia, essa non è vera filosofia se non conosce, con l’ufficio suo, il suo limite, che è nell’apportare all’elevamento dell’umanità la chiarezza dei concetti, la luce del vero. È un’azione mentale, che apre la via, ma non si arroga di sostituirsi all’azione pratica e morale, che essa può soltanto sollecitare. In questa seconda sfera a noi, modesti filosofi, spetta d’imitare un altro filosofo antico: Socrate, che fu filosofo ma combatté da oplita a Potidea, e Dante, che poetò, ma combatté a Campaldino. Anche io pratico la compagnia, della quale Ella parla con così nobili parole, di coloro che già vissero sulla terra e ci lasciarono le opere loro di pensiero e di poesia, e mi rassereno e ritempero in essa: di volta in volta m’immergo in questo bagno spirituale, che è quasi la mia unica pratica religiosa. Ma in quel bagno non è dato restare, e da esso bisogna uscire per sottoporsi agli umili e spesso ingrati doveri che ci aspettano sull’uscio. Perciò mi sento oggi, conforme ai miei convincimenti ed ai miei ideali, impegnato nella politica del mio paese. E ringrazio Lei dell’augurio generoso che fa all’Italia, la quale ha sofferto una triste e dolorosa vicenda, dovuta al collasso prodotto in essa come in altri Paesi dalla guerra precedente, onde fu possibile ai dissennati e violenti d’impadronirsi dei poteri dello Stato non senza il gran plauso e la larga ammirazione del mondo intero, e volgere e sforzare l’Italia in una via che non era la sua, che tutta la storia smentiva (Questi due passi molto belli sono stati segnalati dalla prof. Maria Paola Negri).

18 giugno 1998.

LINEA RECTA BREVISSIMA. L’essenza dell’intuizione. L’essenza dell’intuizione non consiste nel comprendere ciò che è descrivibile, ma nel percepire ciò che è ineffabile. Dobbiamo educare la ragione all’apprezzamento di ciò che la trascende (Abraham J. Heschel). Se si è poveri di amore. Tu non conosci che una frase: «Non ho nulla e non posso dar nulla perché sono nullatenente!». In effetti tu sei veramente povero, anzi privo di ogni vero bene. Sei povero di amore, povero di umanità, povero di fede in Dio, povero di speranza nelle realtà eterne (San Basilio, IV secolo). Che cos’è l’inferno? L’inferno non è altro che la perpetua angoscia che accompagna l’abitudine a peccare, giacché il peccato porta con sé un elemento che deve farci orrore (Erasmo da Rotterdam).

L’ACUTA FORMULA DI MARSHALL MC-LUHAN. Qual è il senso, o uno dei sensi, dell’acuta formula di Marshall Mc-Luhan: «Il mezzo è il messaggio». Presa alla lettera, sarebbe priva di senso, poiché la riproduzione non è il quadro, né il disco è la musica, né il telegramma è la notizia; ma è ben vero che, in ciascuno di questi campi, venendo il mezzo della comunicazione ad eliminare la comunicazione da persona a persona, i mass media divengono essi stessi il loro proprio fine. Per quanto riguarda le trasmissioni televisive, chi vi ponga bene attenzione comprende ben presto che in esse l’importante non è tanto l’argomento, il fatto o il personaggio in causa, quanto proprio la trasmissione che diviene fine a se stessa.

IL PERDONO E LA POLITICA. La storia di questi ultimi anni ci offre alcuni esempi ammirevoli di una storia di corto circuito tra la poetica morale del perdono e la politica. Tutti ricordano l’immagine di Willy Brandt inginocchiato a Varsavia; si pensi anche a Václav Havel che scrive al presidente della Repubblica Federale Tedesca per domandargli perdono per le sofferenze inflitte ai tedeschi dei Sudeti dopo la seconda guerra mondiale; si pensi anche al perdono richiesto dalle autorità tedesche al popolo ebreo e alla loro cura meticolosa nell’esercitare queste riparazioni in molte maniere nei confronti dei sopravvissuti alla soluzione finale. Si pensi infine al viaggio folgorante di Sadat a Gerusalemme. La carità eccede la giustizia, ma proprio per questo sbaglia gravemente chi pensa di sostituirla alla giustizia. La carità resta un surplus, un surplus di compassione e di tenerezza suscettibile di dare allo scambio delle memorie la sua motivazione profonda, la sua audacia e il suo slancio.

L’INDIFFERENZA COME «MALATTIA SOCIALE». Quando, inevitabilmente, l’indifferenza da comportamento privato diventa «malattia sociale» è la democrazia stessa ad essere in pericolo. Perché la delega, lo stare alla finestra, incrina alla radice il concetto di cittadinanza, la quale significa, invece, partecipazione consapevole e attenta, esercizio responsabile di diritti e di doveri; e la storia ci ha drammaticamente insegnato in passato che, se non si è pienamente cittadini, si rischia di diventare sudditi. Le guerre, le tirannie, le ingiustizie, per esistere necessitano di passività e indifferenza, occorre che l’urlo delle vittima, dei poveri, dei deboli, degli oppressi non trovi ascolto, non arrivi alle orecchie, non smuova le coscienze. L’indifferenza isola dalla realtà, diventa uno scudo che fa rimbalzare via quel grido, quella vista, quella coscienza, impedendole di toccarci e di coinvolgerci. Così la vittima trasparente: è così che viviamo nelle nostre città, ricche di beni e di merci, senza accorgerci che il povero è il nostro vicino di casa, che nei confronti di chi soffre è stata commessa un’ulteriore ingiustizia, quella, appunto, di renderlo invisibile e muto. La parola diviene allora il «grimaldello» necessario che apre la porta alla giustizia: la parola che descrive e quella che denuncia, la parola che sollecita e quella che unisce, costruisce, promuove; quella che conosce, che fa conoscere e, dunque, ri-conoscere. Quella che rompe il pregiudizio, figlio diretto e inevitabile dell’indifferenza (Luigi Ciotti, sacerdote, è l’animatore del Gruppo Abele di Torino. Da Noi non taceremo – Le parole della Rosa Bianca, ed. cit., pp. 42-43).

POESIA AMERICANA. Rischiando costantemente l’assurdo. Rischiando costantemente l’assurdo / ogni volta che si esibisce / sulle teste / del suo pubblico / il poeta come un acrobata / si arrampica sulle rime / su un filo alto della sua creazione… / e avanza a lunghi passi… / verso quella meta ancor più alta / dove la Bellezza è ferma ad attenderlo / per spiccare il suo salto mortale (Lawrence Ferlinghetti, Poesia. Questi sono i miei fiumi, Roma 1996).

25 giugno 1998.

LINEA RECTA BREVISSIMA. Non lasciarti incantare. Quando ti parlano di Achille, di Serse, di Ciro, di Dario, di Cesare, non lasciarti incantare da questi nomi prestigiosi: sono delle terribili, forsennate canaglie. A nessuno è vietato. Pochissimi sono i dotti, ma a nessuno è vietato di essere cristiano, di possedere la fede. Avrei persino l’audacia di dire: a nessuno è vietato essere teologo. Ciò che più mi preoccupa. Laggiù, dici, si tengono sul mio conto discorsi assai sgradevoli. Ma io posso davvero rispondere della mia innocenza, ed è ciò che faccio. Non sono in grado di rispondere di ciò che la gente racconta sul mio conto. Ciò che più mi preoccupa è quello che, alla fine, tu pensi di me, perché tu conti per me più di tutti gli altri insieme. Prima di ogni altra cosa. L’amicizia deve essere preferita a tutto in questo mondo; non è meno necessaria dell’acqua, dell’aria o del fuoco. (Erasmo da Rotterdam)

DIO NON È L’UNO-TUTTO, DIO NON È IL MONDO. EGLI È PERSONA. Dio non è un «luogo» e non è in un luogo piuttosto che in un altro. Egli è l’Assoluto ed è pertanto onnipresente perché tutto esiste in quanto è creato da lui e da lui mantenuto nell’essere. Di qui la commossa e forte espressione di Agostino: «Io non esisterei, mio Dio, propriamente non esisterei io, se tu non fossi in me… o piuttosto se io non fossi in te» (Non ergo essem, Deus meus, non omnino essem, nisi esses in me. An potius, non essem, nisi essem in te – Conf. I, 2). Io sono e sussisto a me stesso per l’energia creatrice di «Colui che è». La mia esistenza e la conquista della mia autenticità hanno pertanto in lui la prima radice. L’uomo può anche opporsi a Dio, farsi peccatore, separarsi da «Colui che è il Santo» e dare persino un carattere definitivo al suo rifiuto; lo può, ma usando male una forza che gli proviene da Dio. Cielo e terra, tutto ciò che è, è come un immenso calice a cui accostiamo le labbra per attingere qualcosa della divina Sorgente. Ogni uomo e la creazione nella sua totalità non possono avere in sé la pienezza di Colui che è l’infinitamente puro, semplice, vivente. Dio è ed è dovunque totalmente, ma nessuna realtà finita può comprenderlo nella sua interezza.

Non c’è identità tra Dio e il mondo: il panteismo, comunque sia concepito ed espresso, è una risposta fittizia e assurda. Dio non è un flusso indeterminato e impersonale che tende a darsi una forma ed una coscienza attraverso le sue stesse produzioni. È ancora Agostino a dircelo con una di quelle sue espressioni potenti in cui c’è più metafisica che non si immagini: «Tu sei dovunque nella tua totalità e nessuna cosa è in grado di comprenderti totalmente» (ubique totus es et res nulla te totum capit – Conf. I, 3). L’onnipresenza di Dio all’opera sua esclude la confusione tra Dio e il mondo. Dio in quanto infinita potenza non è nulla di ciò che ha creato e nessuna creatura può comprendere l’infinità del Creatore. Non si può concepire la natura di Dio alla pari delle nature da lui create. Ma, appunto perché queste nature vengono da lui, ce ne possiamo servire per la conoscenza del Creatore e accogliere da esse quelle «insinuazioni» che servono alla nostra riflessione. La nostra innegabile impotenza a conoscere Dio, come egli è, si deve certamente attribuire ad un’infermità della nostra facoltà; però il sentirla dimostra quale grande idea abbiamo del nostro Creatore. Se stentiamo a formare concetti non troppo indegni di un essere così perfetto, non è perché egli sia indeterminato, ma perché non penetriamo la sua essenza in sé determinatissima. Essendo egli l’intelligenza e l’amore nella loro fonte e nel loro sommo grado, in lui si trovano portati all’infinito i costitutivi della personalità. A Dio si può parlare e ricorrere; lo si può lodare, ringraziare, amare, pregare.

LA LIBERTÀ È VINCOLATA ALLA VERITÀ. Dobbiamo spingere a fondo la nostra riflessione sulla libertà, perché raramente una parola è stata usata in modo peggiore ed è stata corrotta più a fondo… Non c’è nessuna libertà senza coscienza – tanto meno può esserci coscienza, responsabilità morale in un essere che non è libero. Solo chi sa di essere vincolato dalla verità, ha delle opinioni proprie e delle parole proprie. Solo chi rispetta l’inviolabilità della sfera personale altrui, ha diritto all’inviolabilità della propria (Romano Guardini, La Rosa Bianca, Brescia 1994).

La rubrica “Detti e contraddetti” è stata pubblicata sul Giornale di Brescia con cadenza settimanale dal 5 gennaio 1988 al 25 gennaio 2007.