Detti e Contraddetti 2002 – 1° semestre

DETTI E CONTRADDETTI 2002 – PRIMO SEMESTRE

3 gennaio 2002.

LINEA RECTA BREVISSIMA. Niente come un libro. Nessun vascello c’è / che come un libro possa / portarci in contrade lontane / né corsiere che superi la pagina / di una poesia al galoppo (Emily Dickinson). Al lettore, questa dedica in versi. Immaginario, candido lettore, / queste parole nate dalla spina e dal fiore, / sono a te indirizzate. // Benevolmente accoglile. / Leggile, / se mai ti andrà di leggerle, / con intelletto d’amore (Pier Luigi Piotti).

NELL’ANNO 2002 CON UN PENSIERO DI DOSTOEVSKIJ. Solo se accettassero di morire, ha scritto Dostoevskij, come vivrebbero felici, questi pazzi… E dire che basterebbe un niente. Qualcosa come un movimento dell’anima appena percettibile. Verso ciò che, del resto, è nell’ordine delle cose. Devo morire, come chiunque, lo so bene. Ma davvero lo so, davvero ne sono persuaso? Lo fossi, non vivrei più come invece vivo: quasi dovessi vivere sempre, e con me il mondo. Nella luce della mortalità, al contrario, ogni cosa mi apparirebbe infinitamente degna di essere amata. Quanto più effimera e caduca, sentirei di dovermene far carico, struggendomi di tenerezza, io, a mia volta destinato a morire, per la supplica muta che credo di cogliere negli occhi di una bestiola sofferente, o anche per molto meno, l’ingiallire di una foglia, l’incresparsi di un’onda… Non solo, ma la condizione di cui tutti i mortali partecipano li stringerebbe in un vincolo di solidarietà che fa cadere inimicizia e odio. La morte diffonde una luce aurorale sulla vita. E la vita ne riceve senso e valore, scoprendo uno scenario non ancora mai visto ma che giace sepolto nella memoria e che per l’appunto un niente può ridestare in qualsiasi momento. Allora finalmente gli uomini abiterebbero la terra amandola e amandosi gli uni gli altri… «Bello, vero?», è il commento fatto seguire, ogni volta (più d’una, in diverse occasioni, romanzi e lettere) a questa visione utopica. Cambia soltanto il tono sulla bocca di Versilov ne L’adolescente, o su quella di Ivan ne I fratelli Karamazov. Dostoevskij è tornato su questo tema in luoghi fondamentali della sua opera perché per lui resta vero, come dice padre Zosima, che se gli uomini lo volessero, il mondo sarebbe per loro un paradiso. Se lo volessero… ma proprio questo è il punto.

Questo brano, direttamente ispirato da colui che può ben dirsi il Dante russo dell’epoca moderna, è tratto dal volume Eros/ethos di Sergio Givone (Torino 2000).

ERASMO, ANTESIGNANO DELLO SPIRITO ECUMENICO. Erasmo, coscienza critica e un po’ anche enfant terrible della Chiesa cattolica, rimase sempre in essa, ma ebbe discepoli e amici sinceri nei due schieramenti e il termine «erasmiano» stette a significare uno spirito che cerca e costruisce la pace, rifiuta il fanatismo e non rinuncia alla grande speranza di ricomporre l’unità religiosa tra i seguaci di Cristo. Erasmiano fu detto allora anche chi lavorava alla reciproca convivenza delle confessioni cristiane all’interno di uno stesso Stato. La Confessio augustana del 1530 – quando Erasmo e More erano ancora in piena attività – e la Dieta di Ratisbona dieci anni dopo, nel 1540, quando i due amici erano entrambi morti, resero visibile all’Europa e alle due Chiese la larghezza di vedute e il coraggio degli erasmiani. L’erasmismo ha costituito comunque, nell’ampio arco di quasi mezzo millennio, un punto di riferimento alto per la coscienza cristiana, una fonte d’ispirazione per l’ecumenismo, una vera e propria «magistratura spirituale», come ha scritto felicemente Roland Bainton.

L’irrefrenabile avversione che Lutero nutrì fino alla sua morte nei confronti del grande olandese non può farci dimenticare che Erasmo aveva visto giusto nel cogliere le esigenze profonde da cui era nata la protesta e l’anima di verità che si celava nelle stesse «iperboli teologiche» del riformatore di Wittenberg. Agli occhi di Erasmo Lutero, malgrado il suo linguaggio aggressivo ed estremo, ha avuto un grande merito, ha posto la Scrittura nelle mani del popolo cristiano e ha proclamato la gratuità della salvezza, facendo riscoprire a tutti i cristiani che la grazia di Dio, lungi dall’essere meritata, è essa stessa la sola sorgente possibile di un merito che non sia illusorio. Dopo il Concilio Vaticano II questi giudizi sono largamente condivisi nella Chiesa cattolica e nelle Chiese evangeliche. Ben pochi, però, sanno ancora oggi che a formularli alcuni secoli prima fu Erasmo.

10 gennaio 2002.

LINEA RECTA BREVISSIMA. Battuta di spirito, deficit di umanità. Una battuta di spirito non ha mai reso migliore nessuno (Victor de Laprade). Amante di bons mots? Amante di bons mots? Cattivo carattere (Blaise Pascal). Se è incauta e ingenua… La bontà disarmata, incauta, inesperta e senza accorgimento non è neppure bontà, è ingenuità stolta e provoca solo disastri (Antonio Gramsci). Una cattiva insinuazione. Il partito più numeroso raccoglie necessariamente il maggior numero di idioti, non solo perché è il più numeroso, ma anche perché gli idioti si attirano (Paul Valéry).

Quale buonsenso? Per essere veramente un grand’uomo, bisogna saper resistere anche al buonsenso (Fëdor Dostoevskij). Il buonsenso c’era; ma se ne stava nascosto, per paura del senso comune (Alessandro Manzoni).

L’ALTRO ISLAM, QUELLO DELLA JIHAD. Nel volume Fedeli a oltranza (Milano 2001) lo scrittore indiano V.S. Naipaul, recentemente insignito del Nobel, racconta le impressioni dei suoi viaggi in quattro paesi sconvolti dall’integralismo islamico: Indonesia, Malesia, Iran, Pakistan. Particolarmente interessanti mi sembrano le pagine in cui un giornalista mussulmano, Salman, gli confida come scoprì accanto all’Islam del Dio clemente e misericordioso (prima sura del Corano), quello dominato dall’idea della jihad, la guerra santa in senso niente affatto metaforico. «La parola del Corano – afferma Salman – va presa alla lettera e il Corano attribuisce grande valore alla jihad. Una delle massime di Maometto, che non sono contenute nel Corano, ma fanno parte delle tradizioni dice: Se vedi una pratica contraria all’Islam falla cessare con la forza. Se non possiedi la forza per fermarla, la condannerai verbalmente. Se neanche questo è possibile, la condannerai nel tuo cuore. Praticamente conosco tali parole da sempre. Credo che esse autorizzino i mussulmani a ricorrere alla violenza».

Nel volume Preghiere dell’umanità (Brescia 1993), introducendo la sezione delle preghiere mussulmane, scrivevo: «Il pensiero dominante di Maometto è la tremenda maestà dell’unico Dio, infinitamente giusto e clemente. Egli chiama alla fratellanza i popoli e nello stesso tempo divide la famiglia umana in ‘casa dell’Islam’ (dar al-islam) e ‘casa della guerra’ (dar albarb), comprendente tutti i non mussulmani. La guerra santa (jihad), che spalanca subito il paradiso, diventa obbligo, però, solo in caso di aggressione. La compresenza nella figura di Maometto del profeta religioso e del profeta armato ha segnato la mentalità dei suoi seguaci, che hanno accentuato ora l’uno, ora l’altro aspetto. Si distinguono, perciò, e si contrappongono all’interno dell’Islam scuole diverse, anche se unite nei precetti, nel culto, nell’attesa della resurrezione».

LA VOCE PIÙ ALTA DELL’ISLAM, QUELLA DEI MISTICI. Tra le voci più alte dell’Islam il primato deve essere assegnato senz’altro ai mistici, costitutivamente estranei a ogni deformazione politica e razziale del messaggio religioso. Tra i mistici mussulmani ho imparato ad amare Râbi’a (+801), Ibrahim Misri (+856), Ar-Razi (+871), Bayezid Bestâmi (+875), Husayn al-Hallâj (+922) e Jalaloddin Rûmi (+1273). Mi piace riportare qui una preghiera di Râbi’a, una grande figura del sufismo che è anche donna, e tutti sanno quale sia tuttora la condizione femminile nei paesi islamici.

«Mio Dio, se ti adoro per paura dell’inferno, bruciami nell’inferno; se ti adoro per la speranza del paradiso, escludimi dal paradiso; ma se ti adoro unicamente per te stesso, non privarmi della tua bontà eterna. Mio Dio, la mia sola occupazione e tutto il mio desiderio in questo mondo è incontrare te nelle cose create. Quanto a me, è proprio come ho detto: ma tu fa’ pure ciò che vuoi».

L’ANGOLO DELLA POESIA. Deridete, deridete! Deridete, deridete, Voltaire e Rousseau! / Deridete, deridete! È tutto vano! / Voi buttate la sabbia contro il vento, / e il vento la soffia indietro sempre di nuovo. // Riflessi nei raggi divini, / i granelli di sabbia diventano una gemma; / soffiati indietro, accecano l’occhio che deride, / ma splendono ancora sui sentieri di Israele (William Blake, Poesie, Roma 1976).

17 gennaio 2002.

LINEA RECTA BREVISSIMA. A chi mi rimprovera di ricorrere talora all’allusione. A chi non capisce l’allusione è inutile fornire la spiegazione (Guido Ceronetti). Capita spesso a chi signoreggia la parola. Non dice nulla, ma come sa spiegarlo! (Elias Canetti). Il vero psicanalista delle donne. Il vero psicanalista delle donne è il loro parrucchiere (Ennio Flaiano). Avvertenza quanto mai necessaria. Vedi di non chiamare intelligenti solo quelli che la pensano come te (Ugo Ojetti). Un test quanto mai rivelatore. Nulla rivela meglio il carattere degli uomini di ciò che essi trovano ridicolo (Johann W. Goethe).

L’INCONTRO TRA HEIDEGGER, IL FILOSOFO CHE TERGIVERSA, E PAUL CELAN. «Nel libro della baita, con lo sguardo rivolto alla stella nel pozzo, con la speranza di una parola che viene nel cuore». Questo è quanto Paul Celan, dopo essersi deciso fra dubbi e titubanze a far visita a Heidegger nel famoso ritiro di Todtnauberg, lascia scritto congedandosi (25 luglio 1967). Nemmeno una settimana dopo, egli invia al suo ospite alcuni versi intitolati al luogo del loro incontro. Vi si legge di «una speranza, oggi / dentro il cuore, / per la parola / ventura / d’un uomo di pensiero». Tutto sembra chiaro. Celan si augura – un augurio che evidentemente è un invito – che Heidegger finalmente rompa il silenzio. Su che cosa, non è necessario dire: si tratta del tremendo passato che pesa su di loro, muro che li separa, lui, Celan, che il nazismo ha straziato negli affetti e nella stessa possibilità di sopravvivere, e lui, Heidegger, giustificatore e quindi connivente se non complice. No, non che Celan si aspetti da Heidegger una confessione delle proprie colpe; piuttosto, dal pensatore che nel nazismo ha visto qualcosa di fatale, qualcosa come un destino del popolo tedesco, vuole una parola che aiuti a pensarne anche l’orrore. Ma proprio quella parola Heidegger non può pronunciare. Rispondendo a Celan con ritardo, Heidegger quanto meno è evasivo. Si rende conto benissimo, e ne prende atto, che i versi del poeta sono incoraggiamento e ammonimento a un tempo. Eppure non sa dire altro se non che un giorno quel che è rimasto fra loro sottaciuto, si chiarirà. Sottaciuto? Ma poteva Heidegger non rendersi conto che il «sottaciuto» incombeva in modo totale, cupa, silenziosa presenza, e anche solo accennarvi come se potesse essere oggetto di discorso era già rimuoverla? Il filosofo tergiversa. Addirittura bamboleggia. Scrive che chiederà al suo legatore una copertina speciale per i versi inviatigli. Facile da immaginare la reazione di Celan, per il quale la poesia è strumento chirurgico che lavora dentro il linguaggio come dentro una piaga sanguinante.

PER CHI CREDE VERAMENTE NEL VALORE DELLA CULTURA. Il compito di chi crede sinceramente nel valore insostituibile e nella forza umanizzante della cultura non è quello di servire un partito o un’ideologia, tanto meno gli interessi di chi domina la scena del mondo. Occorre, invece, adoperarsi – questo è il tipo d’impegno a cui non ci si deve sottrarre – a superare la scissione fra cultura e spiritualità, che corrode nell’intimo l’Occidente, inserendo anche la problematica politica nel quadro ben più vasto delle idee-forza classiche ed ebraico-cristiane della nostra civiltà, perché la speranza di avere un futuro è direttamente proporzionale al movimento di riappropriazione creatrice dei nostri valori fondanti (Levi Appulo).

L’ANGOLO DELLA PREGHIERA. Io, sposo, chiedo… Dateci, o Dio, gioie pure, dolori sopportabili, amore paziente, lieta e forte concordia nel bene. Datemi un pane per la mia donna. // Se destinato a esser padre, donatemi vita e virtù per educare i miei figli. Se i giorni a me numerati son brevi, nelle vostre mani raccomando, Signore, colei che è ormai tanta parte dell’anima mia… // Benediteci. In voi, temendo, esultiamo. In voi, lieti o afflitti, riposeremo (Niccolò Tommaseo, Fede e bellezza, 1840).

Tommaseo fu scrittore, poeta, pubblicista, filologo, pedagogista, patriota. Fabio Danelon ha pubblicato l’edizione critica, con ampia introduzione e commento, di Fede e bellezza, il capolavoro narrativo di Tommaseo, presso le Edizioni dell’Orso, Alessandria 1996. Tommaseo è forse il più dostoewskijano degli scrittori italiani dell’Ottocento per l’analisi penetrante del «doppio», della scissione interiore che caratterizza la vita dell’uomo.

24 gennaio 2002.

LINEA RECTA BREVISSIMA. Né schiavo, né padrone. Non vorrei essere uno schiavo, ma non vorrei neanche essere un padrone. Questo esprime la mia idea di democrazia (Abram Lincoln). Felice e grande è soltanto chi non ha bisogno di comandare o di obbedire per essere qualcuno (Johann W. Goethe).

Saggio proposito. Non so far tutto, ma so fare qualcosa. E non lascerò che quel che non so fare interferisca con quel che so fare (Edward E. Hale). I corpi e le anime. I corpi li unisce il piacere, le anime la pena (Guido Ceronetti).

KARL LOEWITH E L’AMBIGUO HEIDEGGER. Vi è un pensatore tedesco che ha influito molto nella formazione intellettuale di non pochi studiosi e su una cerchia ancora più vasta di persone che avvertivano l’importanza del dibattito culturale e filosofico per cercare una risposta alla crisi della civiltà europea, ed in particolare al ruolo giocato in essa dalla Germania prima e dopo quel maledetto 30 gennaio 1933, ossia prima e dopo l’avvento di Hitler al potere. È Karl Loewith, l’autore di opere come Da Hegel a Nietzsche, Significato e fine della storia, Fede e ricerca, Saggi sulla storia. Figlio di un ebreo aconfessionale, incontrò nel suo cammino pensatori come Weber, Husserl e Heidegger. Su tutti, però, domina la figura enigmatica e inquietante del «mago di Messkirch», l’autore di Essere e tempo, l’opera di cui l’allora giovane allievo corresse le bozze insieme al maestro. Loewith fuggì dalla Germania in seguito alle leggi razziali del nazismo, ma ciò che lo ferì nell’intimo fu vedere Heidegger aderire a quel regime. Nel racconto autobiografico, La mia vita in Germania prima e dopo il 1933 (Milano 1988), l’ultimo gentleman della filosofia contemporanea scrive tra l’altro: «Il dopo Hitler era cominciato per me già durante gli anni universitari di Friburgo. Non avevo visto il mio miglior amico dall’epoca precedente alla guerra del 1914. Quando nel 1920 ritornai a Monaco, per il periodo di vacanze universitarie, volli andare a trovarlo. Bussai alla porta della pensione dove abitava, e dissi il mio nome. Dopo un periodo di attesa sorprendentemente lungo, comparve sua moglie per dirmi che era dispiaciuto, ma non poteva più parlarmi: non lo sapevo forse che lui stava con Hitler? In silenzio scesi le scale, e da allora non l’ho più rivisto. Il nazionalsocialismo cominciò per me da quel momento, e con esso anche la separazione fra tedeschi ed ebrei».

LA SOSTANZIALE OMOGENEITÀ CON L’ATMOSFERA E LA MENTALITÀ NAZIONALSOCIALISTA. Quando nel 1936 Loewith era esule con la madre a Roma, Heidegger giunse nella capitale italiana per tenere una conferenza. L’ex allievo si recò allora a salutarlo in albergo, ma il maestro gli intimò di allontanarsi, e senza dare nell’occhio, perché la sua presenza poteva comprometterlo di fronte alle autorità naziste da cui era circondato e che, ovviamente, avevano organizzato la trasferta romana. È inevitabile chiedersi che razza di uomo fosse, nel suo intimo, il tanto celebrato filosofo tedesco. A lui Loewith dedica la parte centrale della sua autobiografia e una serie di ritratti indimenticabili. Eccone uno. «Portava una sorta di giacca da contadino della Foresta Nera, con ampi risvolti e un colletto mezzo militare, e per giunta i calzoni alla zuava, il tutto di una stoffa marrone scuro. Allora noi ci scherzavamo, ma senza capire che era una via di mezzo tra un vestito civile e l’uniforme delle SA. Era un piccolo grande uomo misterioso, sapiente incantatore, capace di far sparire dinanzi agli astanti quel che aveva appena mostrato». Quale che sia il suo posto nella storia del pensiero contemporaneo, Heidegger si porta dentro, in quanto persona e dunque in quanto filosofo, un’ambiguità innegabile e un deficit di umanità che fanno spavento. Il giudizio di Karl Loewith è di una straordinaria lucidità: «Di fronte alla sostanziale omogeneità di Heidegger con l’atmosfera e la mentalità nazionalsocialista, era ed è fuorviante criticare o giustificare la sua decisione politica isolatamente, invece di spiegarla sulla base del principio che fonda la sua filosofia. Non è Heidegger che ha male interpretato se stesso quando si è schierato con Hitler; al contrario, non hanno capito affatto Heidegger coloro che non hanno compreso perché egli ha potuto farlo».

31 gennaio 2002.

LINEA RECTA BREVISSIMA. I veri eroi non fanno teatro. Non credo facilmente alle qualità sublimi di quegli eroi che hanno bisogno di un gran teatro e di una folla di spettatori (Abbé de Mably). Il segreto di ognuno. In ogni uomo abita una sua propria innocenza (Hugo von Hofmannsthal). Per i giornalisti è proprio così. Il giornalista è stimolato dalla scadenza. Scrive peggio se ha tempo (Karl Kraus). I giorni e la notte. I giorni vengono distinti tra loro, ma la notte ha un solo nome (Elias Canetti).

LA MALEDIZIONE DELL’AMOR FATI. HEIDEGGER COME NIETZSCHE. In un’intervista che Heidegger concesse al direttore del settimanale Der Spiegel, pubblicata nel 1977, dopo la sua morte, il filosofo tedesco riconosce di aver accettato la carica di rettore dell’Università di Friburgo agli inizi del regime nazista perché aveva visto nel nuovo corso politico l’occasione per un radicale rinnovamento della vita universitaria. Nel 1934 si dimetteva da rettore e assumeva un atteggiamento di silenziosa riserva. Malgrado la palese mancanza di coraggio, attestata in tante occasioni dalla condotta di Heidegger, non c’è nella sua opera un legame diretto o indiretto con quel mito della razza e del sangue che era alla base del nazismo. Vi si trova, però, l’incapacità costitutiva di opporsi allo stato di cose che il movimento della storia ha realizzato o va realizzando. Questo significa che per Heidegger non sono gli uomini a fare la storia, come aveva detto il nostro Vico, ma che è la storia a fare gli uomini. La vita dell’uomo nella storia è perciò un destino, un essere quello che già si è stati, un ripetere in forme diverse quello a cui si è già costretti. In una filosofia del genere la sola prospettiva di autenticità per l’uomo è rimanere fedeli al proprio destino, che è poi quello del popolo a cui si appartiene, accettandolo consapevolmente dal momento che ogni distacco o ribellione sarebbero inutili. Lasciare che l’essere sia fu la formula riassuntiva del pensiero di Heidegger e il filosofo è il pastore dell’essere in quanto custode fedele di ciò che inevitabilmente deve accadere. Una volta riconosciuta che nella storia la necessità assoluta annulla ogni ostacolo, questa filosofia non lascia alcuna possibilità di disconoscere o combattere una realtà politica che le appare imposta dalla storia. Vi è, in ultima analisi, solo una differenza rispetto a Nietzsche: il superuomo nicciano è tale proprio perché accetta appassionatamente il destino di un mondo, anche se oscuro e perverso; il filosofo Heidegger annega, invece, la sua disperazione in un oceano di analisi sfuggenti, sottili, ambivalenti. Ma la posizione di fondo rimane la stessa: la radicalità della distruzione di ogni visione umanistica nell’una e nell’altra dottrina discende direttamente dalla Wurzellosigkeit, la mancanza di radici. Che Nietzsche si lasci afferrare dalla «magia dell’estremo» e Heidegger no è cosa del tutto secondaria.

ANATOMIA DEL TRADIMENTO. Nel suo ultimo film, L’infedele, Ingmar Bergman ha voluto ancora come protagonista Liv Ullman, la sua ex compagna, che ha continuato a tradire per tutta la vita e da cui non è riuscito mai a staccarsi del tutto. L’attrice spiega a Paola Piacenza, che ebbe a intervistarla per il settimanale Io donna del 21 aprile 2001, la differenza tra la sua visione della vita e quella del celebre regista. «Dio non appartiene all’universo di Bergman, ma appartiene al mio… Ingmar sa che non ho paura di Dio, perché credo in lui. E se credi, non puoi non chiederti: Quello che sto per fare, che effetto avrà sulla vita di chi mi è accanto?». Alla giornalista che le chiede se la sua visione del tradimento non sia troppo «nordica» e «calvinista», Liv Ullman ha dato una risposta che merita di essere riferita testualmente. «L’infedeltà è ormai diventata in Occidente uno stile di vita per molti. Crediamo di poter avere un’avventura a Parigi e tornare poi dal nostro compagno come se niente fosse accaduto. Ma non è così: non riusciremo mai più a guardarlo negli occhi. Le conseguenze di quello che abbiamo fatto, prima o poi, si faranno sentire. Nessuno che abbia tradito è poi tornato a casa a vivere la propria vita di prima più felice e appassionato. Questo è vero anche per Bergman. Perché credete che alla fine della sua vita ha voluto raccontare l’amarezza che si portava dentro e rileggere così il proprio passato e le proprie colpe.

7 febbraio 2002.

LINEA RECTA BREVISSIMA. Talora accade, e allora sono guai. Coloro che sono incapaci di imparare si mettono a insegnare (Oscar Wilde). Testa e cuore. Credo alla tua saggezza solo se viene dal cuore, credo alla tua bontà solo se viene dalla ragione (Arthur Schnitzler). Sì, anche un nonnulla. Un nonnulla ci consola perché un nonnulla basta ad affliggerci (Blaise Pascal). Due specie di sciocchi. Ci sono due specie di sciocchi: quelli che non dubitano di niente e quelli che dubitano di tutto (Charles-Joseph de Ligne).

L’occhio è aperto all’Infinito. Nulla per lo spirito è più raggiungibile dell’Infinito. Con chi siamo soli. Si è soli con tutto ciò che si ama. (Novalis)

LA VIA PIÙ SICURA DELLA NOSTRA RESA ALL’ISLAM. «Visto che l’invasione islamica è ormai inarrestabile, bisogna porre anche il problema dei rapporti giuridici dei cittadini islamici sul nostro territorio. Forse bisognerà tornare ai modelli antichi dell’impero ottomano. Penso al regime degli ‘statuti personali’, per il quale i rapporti matrimoniali e familiari sono regolati dalla religione di appartenenza. Quindi dovremo accettare la poligamia e la superiorità dell’uomo sulla donna in famiglia e nel rapporto con i figli, anche in deroga alla Costituzione».

Queste dichiarazioni si leggono nell’intervista rilasciata al Corriere della Sera di venerdì 2 novembre 2001 da Francesco Cossiga, l’ex Presidente della Repubblica italiana. Noi ci limitiamo ad osservare che esistono precisi doveri degli islamici di fronte ai Paesi che li accolgono e che il rigoroso rispetto delle leggi – a cominciare proprio dal rifiuto della poligamia e della schiavizzazione della donna – è conditio sine qua non della loro permanenza. Se ciò non accadesse, se si transigesse su questi principi, sarebbe l’inizio della fine. La fine della civiltà europea e occidentale.

QUESTA DEVASTANTE INCONSISTENZA. «Guardando nei nostri dintorni, all’atteggiarsi dei commerci civili, culturali e sociali, constatiamo che alla dissimulazione si è sostituita l’ostentazione strepitosa, alla durata dei comportamenti l’istantanea magia degli eventi, alla discreta traccia dell’essere la vistosa evidenza dell’apparire, alla costanza della ragione le capriole dell’improvvisazione accattivante. Tutto deve essere clamorosamente visibile ed esibito, tutto deve stare alla superficie, nulla nella profondità. Ciò che importa è essere puntuali all’ora del successo o della sua illusione… Così l’impudenza sorpassa l’ipocrisia, mentre la prosopopea sostituisce la sincerità. L’importante è che tutto si svolga sotto la luce artificiale dei riflettori possibilmente televisivi, solleciti all’occhio bulimico dell’homo videns, così spesso prossimo all’homo demens. Non è strano che su questa scena chiassosa la trama sia quella dell’astuzia che dichiara tutte le fedi e tutte le morali purché funzionali al tornaconto del momento. E questo rende persino comprensibile la spavalda apologia dei voltragabbana, nobilitati dalla presunta intelligenza della flessibilità e dalla capacità di aderire all’onda capricciosa delle cose».

Questa riflessione, in cui molti lettori possono ben ravvisare un’acuta diagnosi della malattia di cui soffre oggi il nostro Paese, è tratta dall’Elogio di Nicodemo, edito da La Quadra, a Brescia nel novembre 2001. L’autore è Mino Martinazzoli.

L’ANGOLO DELLA POESIA. Dove vai, o pensiero? Ditemi dove dimorano i pensieri dimenticati finché tu non li richiami fuori? / Dove dimorano le gioie del passato? E dove gli antichi amori? / E quand’è che essi si rinnoveranno e la notte di oblio sarà passata? / Potessi io attraversare tempi e spazi molto lontani e portare / conforto a un affanno in una notte di dolore. // Ditemi, che cos’è il pensiero e di quale sostanza è fatto? / Ditemi, che cos’è una gioia? E in quali giardini crescono le gioie? / E in quali fiumi nuotano i dolori?

Dove vai, o pensiero? Verso quale remota terra è il tuo volo? (William Blake, Poesie, Roma 1976).

LA BENEDIZIONE PIÙ BELLA. La si legge nel Libro dei Numeri (6, 24-26), nell’Antico Testamento. Eccone il testo: Ti benedica il Signore / e ti protegga. / Il Signore faccia brillare il suo volto su di te / e ti sia propizio. / Il Signore rivolga su di te il suo volto / e ti conceda pace.

14 febbraio 2002.

LINEA RECTA BREVISSIMA. Un semplice dato. I ragazzi di oggi sono chiamati a competere con il mondo globale per guadagnarsi il pane. Se non diamo loro i mezzi per essere all’altezza dei concorrenti, dentro e fuori l’Unione Europea, resteranno indietro. Questo vuol dire: insegnare a scrivere bene in italiano, a leggere bene un testo, a parlare correntemente le lingue, a impossessarsi sul serio della matematica e delle scienze, a conoscere le tecnologie in quanto forma di alfabetizzazione nel mondo contemporaneo (Gianni Riotta). I bambini innanzitutto. Salviamo i bambini per salvare la speranza dell’umanità (Giovanni Paolo II nel messaggio natalizio del 2001).

DALL’EPISTOLARIO DI MARTIN BUBER. Uno dei più grandi pensatori del Novecento – e dei più completi per la vastità degli orizzonti e la ricchezza straordinaria degli apporti nei campi più diversi – è Martin Buber. In Italia alcune delle sue opere più importanti furono fatte conoscere all’indomani del secondo conflitto mondiale nelle Edizioni di Comunità. Oggi presso la San Paolo si possono leggere Il principio dialogico e altri saggi e Due tipi di fede, fede ebraica e fede cristiana. Nel 1992 Guanda di Parma ci ha dato una nuova, splendida edizione di un libro buberiano, che rimarrà una delle opere immortali che più abbiano arricchito l’umanità, I racconti dei Hassidim. Recentemente nella Giuntina di Firenze è apparsa una raccolta di lettere, scritte da Martin Buber o a lui indirizzate, riguardanti il ventennio 1918 – 1938 con il titolo La modernità della Parola. Le lettere tradotte comprendono un periodo che per Buber è denso di mutamenti esistenziali e di scelte decisive ed attestano quanto grande sia stata la sua influenza sul mondo culturale di lingua tedesca, essendo egli divenuto un alto punto di riferimento per gli intellettuali ebrei e non ebrei che, proprio in quegli anni, vivevano una delle più profonde crisi mai attraversate dall’Europa. Una crisi, come ben sappiamo, sfociata poi nell’avvento del nazismo e nell’orrore di Auschwitz.

NON ESISTE UNA POLITICA RELIGIOSA. Cito da una lettera di Martin Buber a Ernst Simon del 31 maggio 1923. Ciò che Lei chiama politica religiosa non è più politica ed è ancor meno un fatto storico. Non esiste una politica religiosa, tutt’al più ci sono politici religiosi. Questi sono coloro che sono consapevoli della vasta problematica relativa alla distanza fra il regno di Dio e quello dell’uomo… Il profeta, che parla dell’essenza della politica, non è un politico, né può diventarlo… Se un profeta si comportasse in questo modo, avrebbe rinnegato e perduto la sua profezia. La politica religiosa è pensabile solo come superamento della politica stessa….

ALL’INTERNO DELLA REALE SITUAZIONE UMANA Dalla lettera di Martin Buber a Theodor Bäuerle del 18 gennaio 1929: Questo mondo, così mi sembra, non è né di Dio né del diavolo, bensì appartiene innanzitutto a se stesso e agli uomini. Ed è per questo che il comandamento divino vale solo all’interno della reale situazione umana, in cui noi, di volta in volta, dobbiamo rendere concreto qualcosa; proprio la capacità di questo momento, di questa persona, di questo qualcosa (se siamo in grado di realizzarlo) è ciò che Dio pretende da questo uomo… Saremmo capaci di vivere senza violenza, il mondo potrebbe farlo se fosse già interamente redento, ma non lo è. Malgrado ciò, noi possiamo mettere in pratica davvero un pizzico di non violenza in ogni luogo e in ogni circostanza. Quanta? Proprio quella di cui qui e ora siamo capaci.

21 febbraio 2002.

LINEA RECTA BREVISSIMA. Se si vuole che diventi migliore. In coscienza, non so dire se la situazione sarà migliore quando cambierà; posso dire che deve cambiare se si vuole che diventi migliore (Georg Lichtenberg). L’ultima e più grande fra le arti. L’ultima e più grande fra le arti, l’arte di cancellare (Alexander Pope). I sogni del cuore. Cantavano come non sanno / cantare che i sogni del cuore, / che cantano forte e non fanno / rumore (Giovanni Pascoli). Capire. E quanto intendo più, tanto più ignoro (Tommaso Campanella).

LA TESTIMONIANZA DI ENRICO FERMI. Sono trascorsi molti anni, ma ricordo come fosse ieri. Ero giovanissimo, avevo l’illusione che l’intelligenza umana potesse arrivare a tutto. E perciò m’ero ingolfato negli studi oltre misura. Non bastandomi la lettura di molti libri, passavo metà della notte a meditare sulle questioni più astruse. Una fortissima nevrastenia mi obbligò a smettere; anzi a lasciare la città, piena di tentazioni per il mio cervello esaurito, e a rifugiarmi in una remota campagna umbra. Mi ero ridotto a una vita quasi vegetativa: ma non animalesca. Leggicchiavo un poco, pregavo, passeggiavo abbondantemente in mezzo alle floride campagne (era di maggio), contemplavo beato le messi folte e verdi screziate di rossi papaveri, le file di pioppi che si stendevano lungo i canali, i monti azzurri che chiudevano l’orizzonte, le tranquille opere umane per i campi e nei casolari. Una sera, anzi una notte, mentre aspettavo il sonno, tardo a venire, seduto sull’erba di un prato, ascoltavo le placide conversazioni di alcuni contadini lì presso, i quali dicevano cose molto semplici, ma non volgari né frivole, come suole accadere presso altri ceti. Il nostro contadino parla di rado e prende la parola per dire cose opportune, sensate e qualche volta sagge. Infine si tacquero, come se la maestà serena e solenne di quella notte italica, priva di luna ma folta di stelle, avesse versato su quei semplici spiriti un misterioso incanto. Ruppe il silenzio, ma non l’incanto, la voce grave di un grosso contadino, rozzo in apparenza, che stando disteso sul prato con gli occhi volti alle stelle, esclamò, quasi obbedendo ad una ispirazione profonda: «Com’è bello! E pure c’è chi dice che Dio non esiste». Lo ripeto, quella frase del vecchio contadino in quel luogo, in quell’ora: dopo mesi di studi aridissimi, toccò tanto al vivo l’animo mio che ricordo la semplice scena come fosse ieri. Un eccelso profeta ebreo sentenziò, or sono tremil’anni: «I cieli narrano la gloria di Dio». Uno dei più celebri filosofi dei tempi moderni scrisse: «Due cose mi riempiono il cuore di ammirazione e di reverenza: il cielo stellato sul capo e la legge morale nel cuore». Quel contadino umbro non sapeva nemmeno leggere. Ma c’era nell’animo suo, custoditovi da una vita onesta e laboriosa, un breve angolo in cui scendeva la luce di Dio, con una potenza non troppo inferiore a quella dei profeti e forse superiore a quella dei filosofi.

Il profeta citato da Enrico Fermi è David (Salmo 18, 1) e il filosofo è Kant (Critica della Ragion pratica). La testimonianza del grande scienziato italiano sulla fede in Dio e la sapienza dei semplici è tratta dal saggio di M. Micheli, Enrico Fermi e Luigi Fantappiè. Ricordi personali, «Responsabilità del sapere», XXXI (1979), voll. 131-132, pp. 21-23.

POESIA EUROPEA DEL NOVECENTO. Che sia un giorno bello e puro. Mio Dio, / fa’ che il giorno della mia morte / sia bello e puro. // Che sia giorno di grande pace, / in cui la mia fronte finalmente / non sia più affaticata / da scrupoli, ironia o altro. // Mio Dio, / fa’ che io prenda le mani / dei miei figli tra le mie / e possa andarmene / con una grande calma nel cuore (Francis Jammes, Il lutto delle primule, 1901. Nel 1978 Città Armoniosa di Reggio Emilia ne pubblicò la traduzione italiana).

28 febbraio 2002.

LINEA RECTA BREVISSIMA. Amico è. Amico è con chi puoi stare in silenzio (Camillo Sbarbaro). Anche per tergiversare. Bisogna essere decisi anche per tergiversare (Stanislaw J. Lec). Ciò che è giusto e ciò che serve al nostro interesse. L’uomo superiore comprende ciò che è giusto, l’uomo inferiore ha occhi solo per ciò da cui può trarre profitto. Il primo dovrebbe occuparsi del bene comune, il secondo no (Confucio).

PASCAL, UNA GRANDE LEZIONE: IL RIFIUTO DEL MONISMO METODOLOGICO. La prima cosa che colpisce in Pascal è il suo metodo di ricerca. Egli odiava les mots d’enflure, gli artifici dialettici e le formule presuntuose che gonfiano di vento le teste e si oppose con forza allo spirito di sistema che nel suo tempo imponeva l’assetto matematico di ogni conoscenza teorizzato da Cartesio. Per evitare il pericolo di precostituite simmetrie, Pascal esamina una qualunque realtà dai più diversi punti di vista e cerca il significato di essa nella convergenza dei risultati a cui si è potuto giungere attraverso molteplici prospettive. Dinanzi al sempre rinascente fascino dell’esclusivismo, della matrice unica e dell’unica causa per tutte le manifestazioni della natura e dello spirito, contro l’apparente scientificità dei monismi distruttivi, la lezione di Pascal è attuale oggi come e più che al tempo di Cartesio. Per conto suo, prima di muovere un passo verso una qualsiasi affermazione, Pascal prende tutte le precauzioni e non si stanca mai d’interrogare l’esperienza sia che si tratti di scienza, sia che si tratti della dialettica delle passioni umane, o dell’esistenza più alta della vita di grazia e carità. Non i fatti devono essere sottoposti alla nostra possibilità di concepirli, ma la ragione deve guardare ai fatti, sforzandosi di penetrarli nel loro significato e, quando sia necessario, riconoscere che vi sono cose che oltrepassano la sua capacità di spiegazione. Pascal, sommo matematico, si rifiuta di subire e d’imporre agli altri il metodo del matematismo universale, proprio perché non esistono principes à tout faire d’où l’on peut tout déduire. Ed aveva ragione. Ogni monismo totalizzante è, infatti, una forzatura, una frode, un vero e proprio attentato alla complessità e alla diversità qualitativa del reale. Come si fa – si chiedeva corrucciato Pascal – a prendere un uomo per una proposizione geometrica? Due secoli e mezzo dopo Dostoevskij gli farà eco ricordandoci che il problema della vita non è certo paragonabile all’estrazione di una radice quadrata.

LA VITA NASCOSTA. Mancano cento giorni alla primavera. Non c’è ancora uno stelo d’erba, né una gemma, ma nella terra e nelle radici è già presente la direttiva della primavera, che in segreto attende, trema, si cela, urge sotto la neve, nei rami nudi, nel vento gelido, per esplodere infine con la fioritura improvvisa. È da osservatori superficiali vedere solo disordine nel tempo variabile di una giornata di marzo; lì, nelle profondità c’è qualcosa che matura momento dopo momento secondo una logica, qualcosa che si accumula e si ordina obbedendo a una legge che conosciamo poco o non conosciamo affatto. Questo invito a saper attendere e a stimolare nel modo più opportuno ciò che si nasconde nelle profondità dell’animo di chi è affidato all’amore pensoso di una persona adulta ha un’importanza enorme nel rapporto educativo. Il brano citato è tratto dal libro Come amare il bambino, Milano 1979 di Janusz Korczak (Varsavia 1879 – Treblinka 1942), uno dei più grandi educatori del Novecento. Korczak fu ucciso nel campo di sterminio di Treblinka il 6 agosto 1942 insieme ai duecento bambini ebrei della Casa degli Orfani che aveva diretto per trent’anni. Li volle accompagnare anche nella morte, insieme al personale della Casa, nonostante gli fosse stata offerta più volte e da più parti la possibilità di mettersi in salvo da solo. Di Korczak la Luni Editrice e Telefono Azzurro hanno pubblicato, sotto il patrocinio dell’Unesco, Il diritto del bambino al rispetto (Milano 1994).

7 marzo 2002

LINEA RECTA BREVISSIMA. Ipocrisia diffusa. L’uomo che conduce una vita indegna deve esprimere sempre propositi morali (Ennio Flaiano). Due espressioni attribuite a Socrate. 1.Avendo così pochi bisogni, che meno non si potrebbe, sono assai vicino agli dei. 2. Socrate, nel guardare tante merci in vendita, disse: «Di quante cose non ho bisogno!» (Diogene Laerzio).

Quello che fai, fallo bene. Non basta fare il bene, bisogna anche farlo bene (Denis Diderot). Il bene che è ancora in noi. Soltanto il bene che è ancora in noi può aiutarci a conseguire il meglio che ci manca (Johann H. Pestalozzi). Dov’è la vera grandezza. Il bene non è nella grandezza, ma la grandezza nel bene (Zenone di Elea). Anche nel beneficare ci vuole misura. I benefici sono graditi finché possono essere ricambiati; quando sono troppo grandi, invece di gratitudine ingenerano avversione (Tacito).

FARÒ DI TUTTO PERCHÉ NON MI DEFLORINO. Dopo le dimissioni da Lord Cancelliere, presentate il 16 maggio 1532, all’indomani della vergognosa resa della gerarchia cattolica inglese alle imposizioni di Enrico VIII, Thomas More, molto malandato in salute, si trovò all’improvviso senza danaro e nell’impossibilità di riprendere la professione forense. Il 1° giugno 1533 Anne Boleyn fu incoronata regina nell’abbazia di Westminster. Qualche tempo prima tre vescovi, cari amici e grandi ammiratori di More, gli scrissero invitandolo a partecipare insieme a loro alla cerimonia dell’incoronazione, e lo pregarono di accettare venti sterline perché potesse comprarsi una veste adatta alla fastosa cerimonia. More accettò il danaro, perché ne aveva bisogno, ma rimase a casa, malgrado le pressanti insistenze, dirette e indirette, di Enrico VIII. La prima volta che i tre vescovi amici si trovarono insieme a More, l’ex Cancelliere disse loro che, avendo accondisceso a una delle loro richieste, aveva pensato di poter con maggior franchezza dire di no all’altra. Poi narrò loro un aneddoto storico venato di sottile ironia. Un imperatore voleva condannare a morte non si sa per quale delitto una vergine, ma non poteva farlo avendo egli stesso decretato, «per l’alta considerazione che aveva della verginità», che nessuna vergine potesse essere condannata a morte. William Roper, il marito di Meg, la dilettissima figlia primogenita di More, riferisce in questi termini la parte conclusiva del racconto del suocero: «A un certo punto si levò a parlare uno dei consiglieri dell’imperatore, un uomo senza tante complicazioni, e disse: Perché far tanto chiasso per una cosa così trascurabile? Prima deflorate la fanciulla, e quindi sopprimetela. Ora, signori, – concluse sir Thomas More – io non credo che potrò farci niente se decideranno di sopprimermi; ma, con l’aiuto di Dio, vi assicuro che farò di tutto perché non mi deflorino» (W. Roper, Vita di sir Thomas More, Brescia 1963, pp. 76-78). I tre interlocutori di More erano Cuthbert Tunstall, John Clerk e James Gardiner. L’imperatore di cui si parla è Tiberio e il delitto della ragazza era semplicemente quello di essere la figlia di Seiano, l’onnipotente factotum dell’imperatore caduto in disgrazia. La poveretta, infatti, continuava a chiedere: «Ma qual è la mia colpa? Ditemelo, e vi assicuro che non lo farò più». L’episodio è narrato da Tacito negli Annali, VI, 4. Benché non esplicitato da More, vi è nell’aneddoto un parallelo abbastanza trasparente sia tra il dispotismo di Tiberio e quello di cui ormai Enrico VIII forniva prove sempre più agghiaccianti, sia tra la fine immeritata della giovinetta romana e quella che More sentiva incombere su di sé.

POESIA ITALIANA DEL NOVECENTO. Quel che non si ha. Fonte di sapienza postuma / vengo ogni giorno interrogata / sull’amore. Quel che non si ha, / si sa (Patrizia Cavalli, Poesie 1974-1992, Torino 1992). Pensiero. La gente ha sempre bisogno di un frastuono assordante, / perché ha paura di stare sola, / a rispondere dentro di sé / quando affiorano certe domande… Cielo. Non passa giorno, / che io non guardi il cielo. / Forse la mia vera casa / sta da quelle parti (Gian Antonio Cibotto, Amen. Versi in lingua e in dialetto, Venezia 1998).

14 marzo 2002

LINEA RECTA BREVISSIMA. Lo sciocco si crede furbo. Nessuno quanto lo sciocco si crede capace di ingannare le persone intelligenti (Luc de Clapiers de Vauvenargues). Quando si stanno già avverando. Nulla è così confortante come parlare dei nostri desideri quando si stanno già avverando (Novalis). Un piacere perverso. Nulla piace agli uomini quanto avere dei nemici e poi vedere se sono proprio come ci s’immagina (Italo Calvino).

CARATTERE DIALETTICO DELLA VIRTÙ. Ho conosciuto persone per le quali la loro cosiddetta «sincerità» esclude ogni considerazione nei confronti degli interlocutori. Nasce tuttavia una domanda: quanto e in qual misura ciò che noi affermiamo può tradursi per chi ci ascolta in offesa, in atteggiamento oppressivo e in provocazione incivile, o addirittura in atto di violenza? Nella veracità, infatti, è in gioco non solo il contenuto oggettivo delle nostre affermazioni, ma anche e soprattutto il modo in cui lo comunichiamo a un’altra persona, concorrendo a risvegliare o a cancellare in lei il bisogno di verità, e, dunque, ciò che sta all’origine del suo esistere come essere umano. Chi aveva compreso esattamente il problema era stato Pascal in due frammenti dei suoi Pensieri.

Ecco il primo: «Quando si vuol tendere alla conquista delle virtù fino all’estremo, si affacciano allora dei vizi che vi s’insinuano inavvertitamente, per certe loro vie indiscernibili… E si presentano in folla, così che ci perdiamo tra i vizi e non abbiamo più occhi per le virtù. Finiamo così con l’essere irretiti da un’idea troppo ambiziosa di perfezione» (Fr. 357, ed. Brunschwig). E il secondo: «Noi non ci manteniamo nella virtù con le nostre proprie forze, ma per il controbilanciarsi dei due vizi opposti, così come restiamo in piedi tra due venti contrari: togliete uno di questi vizi, e cadiamo nell’altro» (Fr. 359, ed. Brunschwig).

IL GIORNO PIÙ NERO PER ISRAELE. Yitzhak Rabin, il generale vittorioso e l’abile diplomatico divenuto capo del governo, nel 1993 aveva firmato insieme ad Arafat l’accordo di Oslo. Con quell’accordo gli Stati israeliano e palestinese si riconoscevano reciprocamente e ognuno s’impegnava a rispettare il diritto dell’altro ad esistere. Era il primo passo decisivo per liberarsi dall’odio e avviare il processo di pace in quella regione. Due anni dopo, il 4 novembre 1995, Rabin fu ucciso a Tel Aviv, mentre migliaia di suoi sostenitori gli esprimevano con canti e fiaccolate la gioia per il nuovo corso impresso alla politica di Israele. A ucciderlo non fu un palestinese, ma un israeliano. Ogni venerdì i giovani israeliani che vogliono essere costruttori di pace accendono delle candele nella piazza dove fu assassinato Rabin e sul Monte Erzl dove è sepolto. Penso a quei giovani con commozione e insieme con angoscia: ho paura che quelle candele restino il simbolo desolato di un’eredità che Israele sembra aver rifiutato. Ma quell’eredità è di così immensa rilevanza che non può e non deve rimanere senza eredi. Se ciò accadesse, sarebbe la rovina economica, militare e politica di Israele. Occorre scegliere una volta per sempre fra Rabin e Sharon.

A CHIARE LETTERE. Riconoscere l’unicità dell’Olocausto. Considero anch’io improprio stabilire paralleli con Auschwitz e con la Shoah quando si parla di cose che non hanno un nesso circostanziato e specifico con quel che è avvenuto nei campi di sterminio nazisti. Sono paragoni che non dovremmo fare. Mai. Neanche in riferimento agli ebrei di oggi e a Israele. Né pro, né contro la loro causa (Paolo Mieli su Corriere della Sera del 16 dicembre 2001). Lo dice un anticomunista come Edward Luttwack. Un Berlusconi che non si separa dalle sue proprietà pur dovendo fare leggi in quasi tutti i settori in cui opera, viola i punti più sacri del capitalismo. E per gli investitori americani è un deterrente non sapere dove investire senza scontrarsi con interessi protetti (Il Sole 24 Ore del 23 dicembre 2001).

21 marzo 2002

LINEA RECTA BREVISSIMA. Le mani che piantano. Le mani che piantano non muoiono mai (vecchio proverbio nordafricano). Noi mangiamo, altri mangeranno. Altri hanno piantato ciò che noi mangiamo. Noi piantiamo ciò che altri mangeranno (antico proverbio persiano). Il tuo cuore. Più di ogni altra cosa custodisci il tuo cuore, poiché da esso sgorga la vita (Libro dei Proverbi). L’ombra che mi si pone a lato. Mai, non saprete mai come m’illumina / l’ombra che mi si pone a lato, timida, / quando non spero più… (Giuseppe Ungaretti).

«IO LAVORO E PENSO A TE». LA DIFFICILE SITUAZIONE DELLE MADRI LAVORATRICI E DEI LORO PICCOLI. Le mamme lavorano, nonostante tutto. Nonostante il maschilismo e le deformazioni ideologiche della nostra società, nonostante la disoccupazione le colpisca di più, nonostante i salari meno alti di quelli degli uomini, nonostante una politica familiare carente, nonostante il problema di dover accudire i figli e la poca partecipazione dei mariti all’andamento della casa. Facendosi carico di tutto, esse si sobbarcano a un vero e proprio doppio lavoro. Ma ne escono valorizzate? Per nulla. Prese tra due fuochi, quasi tutte pagano il prezzo in termini di fatica, di penalizzazione sul posto di lavoro e con il senso di colpa di non riuscire a fare tutto bene. Eppure si sta facendo strada una nuova tendenza: dove viene applicata una politica seria a sostegno della famiglia aumenta il livello di occupazione femminile e cresce il tasso di natalità. Nei paesi della Scandinavia, dove i servizi alla maternità sono tra i più evoluti al mondo, il 79% delle donne lavora e di queste ben l’81,1% sono mamme. In Italia i numeri parlano da soli: il 46,2% delle donne lavora e siamo in testa alla classifica della denatalità. Se la maternità è tutelata, dopo c’è il vuoto, con 2200 asili nido sufficienti solo a soddisfare il 6% delle richieste. E allora la priorità è proprio quella di battersi affinché siano garantiti adeguati servizi di base per le madri lavoratrici. Ma non solo. Occorre uno sforzo ulteriore per costruire l’uguaglianza nel lavoro e una vera condivisione delle responsabilità familiari.

Con queste riflessioni la rivista Madre, che si pubblica a Brescia, nel numero di marzo 2002 presenta un inserto (dal titolo molto azzeccato «Io lavoro e penso a te») sui problemi delle madri lavoratrici. Dopo decenni di retorica sull’Italia paese cattolico che tutela e promuove la famiglia, è doloroso constatare quanto siamo indietro in Europa rispetto ad altre nazioni nel rendere meno duro il mestiere di giovane madre. Ci sono dati su cui bisogna fermarsi a riflettere perché denunciano una situazione assolutamente intollerabile. Mi limito a evidenziarne uno solo: gli asili nido sono pochissimi in Italia e arrivano a soddisfare solo il 6% delle richieste. E il 94% delle madri come provvedono, dovendo lavorare, ai loro figli? E con quali costi?

COME SIMONE WEIL SI CONFRONTA CON IL VANGELO. C’è un passo di Simone Weil che non mi stanco di rileggere e che sono lieto di proporre alla riflessione dei lettori di questa rubrica. Non ricordo più in quale suo scritto l’abbia letto e sono grato a Giulio Cittadini per averlo riportato nel suo acutissimo volumetto La tenda e i paletti (Brescia 2000). Eccolo: Vi sono alcuni passi del Vangelo che un tempo mi infastidivano e che adesso sono diventati per me estremamente luminosi. La verità che vi si trova, però, non assomiglia affatto al senso che credevo di scorgervi prima e che mi infastidiva. Se non li avessi letti e riletti con attenzione e amore, non sarei potuta pervenire a questa verità. Ma non vi sarei pervenuta nemmeno se avessi abdicato alla mia propria opinione, se avessi fatto davanti a loro atto di sottomissione, prima ancora di scorgere la luce che essi contengono.

POESIA ITALIANA DEL NOVECENTO. Al partigiano Mario Pasi. Cosa pensasti / in quell’ultimo attimo, / un momento prima / che il cappio ti stringesse? / Poi ci fu il volo notturno / degli uccelli, / gli occhi tuoi / che più non guardavano, / le orecchie che non udivano / le risate dei tedeschi (Mario Tobino, Veleno e amore secondo, Milano 1974). Lo sguardo di un bambino. Oh non ti dare arie / di superiorità. / Solo uno sguardo io vidi / degno di questa. Era / un bambino annoiato in una festa (Sandro Penna, Tutte le poesie, Milano 1977).

28 marzo 2002

LINEA RECTA BREVISSIMA. Umani per essere giusti. È impossibile essere giusti se non si è umani (Luc de Clapiers de Vauvenargues). I migliori maestri. S’impara spesso dai ricchi a fare il pitocco (Carlo Dossi). Salute e malattia dello spirito. Lo spirito sano cerca il reale, l’insano si attacca all’irreale (Hugo von Hofmannsthal).

BUONA PASQUA! UNA LETTERA DI DIETRICH BONHOEFFER. Devo inviarti già oggi i saluti e gli auguri speciali per la Pasqua? Mi piacerebbe che tu sapessi che mi sono sentito legato a te da molti bei ricordi proprio nelle settimane che precedono e seguono la Pasqua. Pasqua? Il nostro sguardo cade più sul morire che sulla morte. Per noi è più importante come veniamo a capo del morire che non come vinciamo la morte. Socrate ha vinto il morire, Cristo ha vinto la morte in quanto «ultimo nemico» (1 Cor. 15,26). Venire a capo del morire non significa ancora venire a capo della morte. La vittoria sul morire rientra nell’ambito delle possibilità umane, la vittoria sulla morte si chiama resurrezione. Non è dall’ars moriendi, ma è dalla resurrezione di Cristo che può spirare nel mondo presente un nuovo vento purificatore. Qui c’è la risposta al «datemi un punto d’appoggio e solleverò il mondo». Se un po’ di persone lo credessero veramente e si lasciassero guidare da questo nel loro agire terreno, molte cose cambierebbero. Vivere partendo dalla resurrezione: questo significa Pasqua. C’è un’attesa inconsapevole della parola risolutrice, della verità che libera. Verrà il tempo in cui essa può essere udita.

La lettera è del 27 marzo 1944 ed è pubblicata nel volume: Dietrich Bonhoeffer, Resistenza e resa. Lettere e scritti dal carcere, Milano 1988. Bonhoeffer fu arrestato dalla Gestapo il 5 aprile 1943 e impiccato a Flossenbürg il 9 aprile 1945. Aveva trentanove anni. Sul luogo della sua morte è scritto: «Fu testimone di Gesù Cristo tra i suoi fratelli». Resistenza e resa è il libro che meglio introduce alla conoscenza di questo grande cristiano.

SUL MISTERO DI GESÙ. Non riesco a staccare la mia attenzione da alcune pagine in cui Bonhoeffer ha detto cose molto profonde su Gesù. Ecco il primo brano: Il nostro rapporto con Dio non è un rapporto ‘religioso’ con un essere, il più alto, il più potente, il migliore che si possa pensare – questa non è autentica trascendenza – bensì è una nuova vita nel partecipare all’essere di Gesù, nell’ ‘essere-per-altri’. Il trascendente non è l’impegno infinito, irraggiungibile, ma il prossimo che è dato a noi di volta in volta, che è raggiungibile. Dio in forma umana! ‘L’uomo-per-altri’ e dunque Gesù, il crocifisso. In questo senso il cristiano è l’uomo che vive a partire dal trascendente (Resistenza e resa, Milano 1988, p. 462).

Questo è il secondo brano: L’amore è la rivelazione di Dio; e la rivelazione di Dio è Gesù Cristo. L’amore non ha la sua origine in noi, ma in Dio. Gesù Cristo è l’unica definizione dell’amore. Cadremmo, però, nel più grave equivoco se dalla visione di Gesù Cristo, della sua opera e delle sue sofferenze, volessimo ricavare una definizione generale dell’amore. L’amore non è ciò che egli fa e soffre, ma egli stesso. Amore è sempre la rivelazione di Dio in Gesù Cristo (Etica, Milano 1969, p. 20).

IL «SÌ» DI DIO ALL’UOMO REALE. L’ultima riflessione di Bonhoeffer che mi piace offrire ai lettori è la seguente: Gesù non è un’umanità eccelsa trasfigurata, ma è il ‘sì’ di Dio all’uomo reale: il ‘sì’ misericordioso del compagno di sofferenza, in cui è racchiusa la vita intera e l’intera speranza del mondo. Nell’uomo Gesù Cristo è stata pronunciata una sentenza sull’intera umanità, non come fredda sentenza di un giudice bensì come giudizio misericordioso di colui che prende su di sé e soffre fino in fondo il destino di tutta l’umanità (ibid. p. 63).

L’ANGOLO DELLA PREGHIERA. Tu parli anche quando taci. Non permettere che dimentichiamo: Tu parli anche quando taci. Donaci questa fiducia: quando siamo in attesa della Tua venuta, Tu taci per amore e per amore parli. Così è nel silenzio, così è nella parola: Tu sei sempre lo stesso Padre, lo stesso cuore paterno e ci guidi con la Tua voce, ci elevi con il Tuo silenzio (Søren Kierkegaard, Diario III, 1229; VII, 131).

4 aprile 2002

LINEA RECTA BREVISSIMA. Le proprie idee anziché se stessi. Sono giunto a scorgere dell’eroismo nell’agire anonimamente, nel far parlare le proprie idee anziché se stessi (da una lettera di Stefan Zweig, scrittore e poeta austriaco, inviata il 30 dicembre 1918 a Martin Buber). L’esito ultimo della confusione delle lingue. Gli uomini soffrono a causa della differenza dei loro punti di vista; ognuno, però, è soddisfatto della propria personale verità e rifiuta quella degli altri. Così alla fine tutto appare come un’enorme allucinazione e nulla ha più la forza vincolante di ciò che è comune (Margarete Susman a Martin Buber nella lettera del 30 aprile 1921).

Il sì e il no. Per capire e raggiungere ciò che vuoi, comincia ad escludere ciò che non vuoi (Mark Twain). La forza capace di dire parole vere. La forza capace di dire parole vere è la stessa che è necessaria per tacere, per non analizzare interminabilmente, per spezzare il cerchio delle chiacchiere (Sergio Quinzio).

«LA MUSICA ASCOLTATA SOLTANTO CON L’ORECCHIO INTERIORE ». Mentre continuavo a sfogliare in questi giorni il Nuovo libro di canti, mi sono reso conto che devo sostanzialmente a te la conoscenza del canto come espressione della gioia pasquale. Da un anno non ho più sentito cantare nemmeno un corale. Ma è straordinario come la musica ascoltata soltanto con l’orecchio interiore possa essere quasi più bella di quella ascoltata materialmente, quando ci si abbandona ad essa nel raccoglimento; possiede una maggiore purezza, e tutte le scorie vengono eliminate; in certa misura, acquista un nuovo corpo! Ci sono solo pochi pezzi che conosco così bene da poterli ascoltare interiormente; ma la cosa mi riesce particolarmente bene con i Lieder pasquali. Riesco a capire meglio la musica composta da Beethoven quand’era già sordo… (D. Bonhoeffer, Resistenza e resa. Lettere e scritti dal carcere, Milano 1988, p. 313. La lettera, da cui è tratto il brano citato, è del 27 marzo 1944 ed è indirizzata al carissimo amico Eberhard Bethge).

AL DI SOPRA DELLA NOSTRA PORZIONE DI VERITÀ… «Io mi domando: come possiamo noi guardare alla Verità, al di sopra della nostra porzione di verità e di quella dei cristiani? Quello che intendo dire è: ci sono popoli, e c’è Un popolo, che vivono uno accanto all’altro per volere di Dio, fino al momento in cui l’eternità non coglierà e non risolverà il percorso dell’eterno cammino nell’ora finale e nella luce in cui tutte le singole porzioni di verità siano ricondotte alla Verità. Allora – e solo allora – si potrà guardare al di sopra dei propri errori e i demoni verranno ricacciati nel Nulla…». Questo è il brano centrale della lettera del 26 agosto 1924 indirizzata da Eduard Strauss a Martin Buber. In essa è posto con forza da parte di un eminente studioso ebreo il problema di un confronto storico e speculativo tra ebraismo e cristianesimo. In quel momento la posizione di Eduard Strauss era più aperta rispetto a quella di Martin Buber, il quale ritornerà sull’argomento in un saggio di ampio respiro pubblicato nel 1950 col titolo Due tipi di fede. Fede ebraica e fede cristiana, tradotto in italiano nel 1995 nelle Edizioni San Paolo. La lettera di Eduard Strauss si può leggere nel volume: Martin Buber, La modernità della Parola, Firenze 2000. Il pensiero di Buber sull’argomento trova un’espressione sintetica in questa sua riflessione: «La fede dell’Ebraismo e la fede del Cristianesimo sono, nel loro rispettivo genere, essenzialmente differenti e lo rimarranno fino a che il genere umano non verrà radunato dall’esilio delle ‘religioni’ nel Regno di Dio. Ma un Israele e un Cristianesimo che si sforzassero di rinnovare la propria fede avrebbero da dirsi l’un l’altro cose che non si sono mai dette e da prestarsi l’un l’altro un aiuto che oggi è appena immaginabile». Come si vede l’ultimo Buber dà ragione a Eduard Strauss.

EPIGRAMMI ITALIANI. La visita di Pascal. Pascal venne col solleone / a casa nostra / in sembianza di lattaio. Non c’era la bottiglia. / E fece scivolare / sotto la porta di servizio / un breve saluto / scritto con un mozzicone di matita: / «Non ho trovato il vuoto» (Leonardo Sinisgalli, Il passero e il lebbroso, Milano 1970).

11 aprile 2002.

LINEA RECTA BREVISSIMA. Al criminale va meglio. La società spesso perdona il criminale, ma non perdona il sognatore. Il cinico. Cinico è colui che conosce il prezzo di tutto e il valore di nulla. (Oscar Wilde)

L’ALTO MAGISTERO DI ITALO LANA E LA SUA STRAORDINARIA UMANITÀ. Nell’attività svolta nell’arco degli ultimi venticinque anni ho potuto incontrare e conoscere da vicino molti protagonisti, e non solo italiani, della vita culturale, religiosa e artistica. Sono persone che di solito meritano la stima di cui godono per i loro apporti originali, che bisogna valorizzare e mettere al servizio del maggior numero possibile di persone. Pochi, anzi pochissimi, sono però coloro che uniscono a una competenza eccezionale nei rispettivi ambiti di ricerca schietta umanità, senso della misura, autentica umiltà. Per me i veri maestri di sapere e di vita sono questi ultimi, costitutivamente estranei ad ogni teatralità, a qualsiasi forma di esibizione. Tra i maestri di sapere e di vita che ho avuto la gioia d’incontrare, e di cui sono divenuto amico, il primato va al maggiore degli antichisti italiani, il grande e caro Italo Lana, che il 13 marzo 2002 ha chiuso, a Torino, la sua giornata terrena. Come delineare in breve la sua straordinaria personalità, la sua passione educativa, l’elevatezza del suo magistero, la vastità delle sue indagini, i cui risultati arricchiscono, rendendola sempre più attuale e umana, la lezione dei classici?

Suo padre, ferroviere socialista, fu gettato sul lastrico dal fascismo perché svolgeva attività sindacale e aveva rifiutato d’iscriversi al partito, non essendo disposto a comprare il pane per sé e per i suoi quattro figli a prezzo della propria dignità. Italo Lana serbò sempre nel suo cuore il ricordo di quella prova che segnò duramente, con sacrifici di ogni genere, vent’anni della sua vita. Nel 1941 fu chiamato al servizio militare e sotto le armi trascorse ben cinque anni, dal ‘41 al ‘45: in Italia, in Montenegro, nei lager nazisti. I venti lunghi mesi nel lager gli fecero conoscere molti uomini di forte tempra, capaci di mostrare, con il loro comportamento quotidiano, ciò che era essenziale e irrinunciabile per l’uomo. Uno di questi fu Giuseppe Lazzati, studioso di letteratura cristiana antica, che con le sue lezioni sulle lettere di san Paolo, tenute nel campo di Sandbostel, Stalag X B, con una forza d’animo ed una serenità eccezionali, lo aiutò a resistere alla tentazione del cedimento e della resa. L’altro fu un collega in senso stretto, Osvaldo Molinari, che era studente di Magistero a Roma. E fu proprio il coetaneo Molinari a fargli incontrare il Cristo dei Vangeli. Durante la prigionia una terza scelta, altrettanto importante, si fece strada nel suo spirito: «Nei mesi di lager – ebbe poi a dichiarare Italo Lana nell’intervista che fa da premessa al volume-omaggio degli allievi, De tuo tibi (Bologna 1996) – maturai l’orientamento di porre l’uomo e i valori propri dell’uomo, tra i quali considero preminente quello della libertà, anche per le esperienze dolorose vissute dalla mia famiglia sotto il fascismo, al centro dell’interesse dei miei studi rivolti al mondo antico». La fedeltà a quella decisione segnò l’attività scientifica di Italo Lana per cui egli divenne, nel giro di alcuni lustri, lo studioso della civiltà classica più attento alla storia del pensiero politico greco e latino, ai rapporti fra gli intellettuali e il potere (insuperati sono su questo punto i suoi studi su Seneca), alle condizioni dei ceti subalterni, nonché all’evoluzione di Atene e Roma in rapporto ai temi della pace e della libertà. Lana ha saputo congiungere in grado eminente l’amore per la poesia di Orazio e Virgilio, la ricerca e l’intelligente riproposta in rapporto all’oggi di ciò che è universalmente umano, l’interesse per gli uomini-cittadini, inseriti nelle comunità statali ed insieme appartenenti a una società spirituale più ampia che cammina nella storia e la trascende. Gli scritti che portano la sua firma sono circa trecento ed è semplicemente incalcolabile il lavoro svolto, con autorevolezza e signorilità, nel promuovere grandi collane di studi e opere a più voci, come quelle pubblicate dall’Utet. Nelle pagine di Italo Lana ciò che si offre a noi è in primo luogo lui stesso. Il segreto della sua opera, vasta ed insieme centrata sui temi essenziali dell’esistenza, è infatti l’umanità straordinaria del suo autore, la sua purezza d’animo, il suo sentire cristiano.

EPIGRAMMI ITALIANI. Per essere assolti. Bisogna rubarne molti / per essere assolti (Mino Maccari, Con irriverenza parlando, Bologna 1993). Servi e padroni. Gli Italiani a che son buoni? / Non san fare che il proprio danno. / Esser liberi non sanno: / o son servi o son padroni (Curzio Malaparte, Battibecco, Torino 1982).

18 aprile 2002.

LINEA RECTA BREVISSIMA. Vale la pena. Vale la pena di vivere perché sempre qualcuno ha bisogno di te (Angelo Bracconi). Il solo carcere che migliora. La botte è l’unico carcere che renda migliore chi vi sta dentro (Cesare Marchi).

La pensano come Thomas More. Dove non c’è umorismo non c’è umanità. Dove non c’è umorismo – questa libertà che ci si prende, questo distacco di fronte a noi stessi – c’è il campo di concentramento (Eugène Jonesco). Ci sono troppe facce serie in giro, troppe mascelle grintose. Chi può deve spezzare una lancia in favore della vecchia ironia. Tra poco potrebbe essere troppo tardi (Fruttero e Lucentini). Non parlatemi della gente che non ride mai: non è seria (Robert Schuman). Una civiltà senza humour prepara i propri funerali (Jacques Maritain).

LA LINEA CHE SEPARA IL BENE DAL MALE. Nel 2001 è stato pubblicato nei Meridiani Mondadori, in due volumi, l’Arcipelago Gulag 1918-1956 di Aleksandr Solzenicyn. L’opera, che segna la ripresa della memoria russa attraverso un gigantesco lavoro storico e una nuova forma narrativa, è splendidamente introdotta da Barbara Spinelli, grande giornalista e donna coraggiosa fedele all’impegno di vivere senza menzogna. Nel capitolo quarto del primo volume sono andato subito a cercare un passo che mi aveva profondamente colpito quando l’avevo letto nella versione italiana del 1974. È un brano che esprime un monito valido per tutti, ma che è da rimeditare particolarmente in tempi come questi in cui un rozzo, opaco, arrogante manicheismo di comodo tende a dividere l’umanità nettamente in due opposte categorie: noi, i puri, e con noi quelli che accettano con entusiasmo le nostre parole d’ordine e i nostri anatemi, e tutti gli altri. Lo riporto testualmente.

Chiuda pure il libro a questo punto il lettore che si aspetta un atto d’accusa politico. Se fosse così semplice! Se da una parte ci fossero uomini neri che perfidi tramano nere azioni e bastasse distinguerli dagli altri e distruggerli! Ma la linea che separa il bene dal male attraversa il cuore di ogni uomo. Chi può distruggere un pezzo del proprio cuore? Nel corso della vita di un cuore quella linea si sposta, ora stretta dal gioioso male, ora facendo spazio perché il bene vi fiorisca. Il medesimo uomo diventa, nelle sue diverse età, nelle diverse situazioni della vita, una persona completamente diversa. Ora è vicino al diavolo, ora al santo. Ma il suo nome non cambia e noi gli ascriviamo tutto. Socrate ci ha affidato il suo monito: conosci te stesso! E noi ci fermiamo stupefatti davanti alla fossa nella quale eravamo lì lì per spingere i nostri offensori: è un caso se i boia non siamo noi, ma loro. Dal bene al male non c’è che un passo, dice il proverbio. Dunque anche dal male al bene.

LA DIFFERENZA FRA AMMIRAZIONE DELLA VERITÀ E SEQUELA. Che differenza c’è fra un «ammiratore» e un «imitatore»? Un imitatore è, ossia aspira ad essere ciò che ammira; un ammiratore, invece, rimane sempre personalmente fuori. In modo inconscio o conscio egli evita di vedere che l’oggetto della sua ammirazione contiene nei suoi riguardi l’esigenza di essere, o almeno di aspirare a essere, ciò che egli ammira… Tutta la vita del Cristo sulla terra, dal principio alla fine, fu indirizzata assolutamente ad avere solo imitatori e non ammiratori… È stata la vita di Cristo a render manifesto quale orribile falsità sia quella di ammirare la verità invece di seguirla (Søren Kierkegaard, Esercizio del cristianesimo, Roma 1971).

EPIGRAMMI ITALIANI. Scritto su un quaderno di appunti. Mentre inseguo motivi di poesia, / lo stesso andare mi basta / e il campo mi è molto gradito, / anche se poi non catturo la preda (Giovanni Pascoli, Poematia et epigrammata. Ecco il testo latino: Cum multi secter vestigia carminis, error / ipse sat et campus, ni data praeda, iuvat).

9 maggio 2002.

LINEA RECTA BREVISSIMA. Tanti e… geniali. In Italia abbondano i cretini di genio (Ennio Flaiano). No, non è una sorta di Campi Elisi. Non immagino il paradiso cristiano come una sorta di Campi Elisi greci. Il possesso, fuori dallo spazio e dal tempo, di quell’amore in cui ho più fiducia che nella mia stessa vita, è letteralmente inimmaginabile. Sfugge alle capacità della mente e della vita umana, a ogni approssimazione. Bisogna tendervi, ma senza parlarne (François Mauriac). In politica come al marketing. Oggi il problema non è di fare un buon prodotto, ma di catturare l’attenzione. Tutte le strategie sono subordinate a questo scopo e chi riesce nell’intento può agevolmente far dimenticare anche la qualità del prodotto che è riuscito a piazzare (Levi Appulo).

A COSA PUÒ SERVIRE OGGI UNA LETTURA DI SOLZENICYN. Nel bellissimo saggio premesso alla nuova edizione di Arcipelago Gulag 1918-1956 (Milano 2001), Barbara Spinelli si domanda a che cosa può servire oggi una lettura di quel grande libro, dal momento che il comunismo si è spento nell’Europa orientale, l’impero sovietico non è più quello degli anni Settanta e in Occidente il clima politico e culturale è cambiato in profondità: l’illusione totalitaria ha fatto fallimento, i suoi tempi sono tramontati. La prima osservazione di Barbara Spinelli è che lo scrittore russo racconta fatti incontrovertibili, l’epopea dolorosa di un’umanità ferita dinanzi alla quale non è possibile dire: «Tutto ciò non esiste». I Gulag, però, sono scaturiti da un’idea di illimitata rigenerazione dell’umanità, da una spaventosa falsificazione del bene e, proprio per questo, tanti uomini non sono riusciti a vedere il male che pure era inscritto nei fatti che percepivano e di cui venivano a conoscenza. Per questo è importante leggere ancor oggi Solzenicyn: per ricostruire un’epoca che non volle riconoscere l’Arcipelago, per comprendere le ragioni che in ogni momento possono spingere gli uomini a vivere e parlare come se la verità non fosse stata detta, accertata, resa manifesta.

Da questo punto di vista – scrive Barbara Spinelli – l’opera di Solzenicyn mantiene la sua esemplarità… Esemplare resta il suo metodo, che è quello di esaminare le sciagure totalitarie partendo dall’esame di se stessi, dallo sguardo attento, spesso spietato, sulle proprie omissioni, i propri silenzi, le proprie rassegnazioni precoci. Apprendere tale sguardo sul male è utile per chiunque, compresi i giovani che non hanno conosciuto la forza delle menzogne comuniste e non hanno avuto a che fare con il Golgota della Lubjanka. Questo non è un libro per rileggere da lontano quel che accadde più di sette decenni fa, ma per imparare a leggere il presente e a pensare il futuro tenendo a mente la lezione che ci viene dal mondo di ieri. Per rammentare come aprirsi la strada che dall’indifferenza consenziente conduce alla coscienza, come avviene il passaggio dalla depravazione dell’inerzia alla elevazione, all’ascesa.

L’Arcipelago è l’orizzonte sempre possibile, ma l’imponente opera di Solzenicyn attesta anche la misteriosa grandezza delle anime umane che ad un certo punto avvertono di non doversi arrendere e fanno sentire ai compagni di sventura il dovere di resistere. Le accensioni delle anime umane – commenta Solzenicyn – nessun sapiente ha imparato a prevederle e a spiegarle. Nascono nelle ore in cui ci si ferma a pensare, si sospende il giudizio negativo sugli altri, guardando infine dentro se stessi, dentro le proprie responsabilità. Allora e solo allora si apprende una libertà che è molto diversa e più ricca di qualsiasi altra liberazione: essa somiglia, infatti, piuttosto a un’armatura spirituale. Conclude Barbara Spinelli: Il comandamento cui Solzenicyn è stato straordinariamente fedele negli anni del Gulag è questo: conosci te stesso. Per le persone che non sono recluse il compito non muta, poiché sempre c’è qualche gabbia che incombe, e anche fuori in libertà ci si corrompe.

EPIGRAMMI ITALIANI. Prevenzioni. È l’epigramma un genere fallito, / oggi poco gustato e men gradito. / O bravo amico mio, che c’è di strano? / Oggi trionfa il grosso, il gonfio, il vano. Il caffè. Ultimo ospite al desco, e pur sì caro! / L’ultimo amore è un temperato amaro. La gloria. Torbida fonte. A poco dolce mesce / molto amaro. E la sete ognor più cresce. (Manfredo Vanni, 1860-1937)

16 maggio 2002.

LINEA RECTA BREVISSIMA. Il sì e il no. Per capire e raggiungere ciò che vuoi, comincia ad escludere ciò che non vuoi (Mark Twain). La forza capace di dire parole vere. La forza capace di dire parole vere è la stessa che è necessaria per tacere, per non analizzare interminabilmente, per spezzare il cerchio delle chiacchiere (Sergio Quinzio).

La gioia che suscitiamo negli altri. La gioia che suscitiamo negli altri ha questo di bello, che invece di illanguidirsi, come ogni riflesso, ci viene rimandata più splendente (Victor Hugo). Occorre navigare seminando incessantemente nei cuori la gioia e la pace (Teresa di Lisieux).

LA PERLA PREZIOSA DELLA NOSTRA COSTITUZIONE: ARTICOLO 3, COMMA 2. «Il tema dell’uguaglianza – o meglio delle disuguaglianze tra individui, classi e nazioni – è stato centrale nel dibattito e nello scontro, che ha segnato il secolo XX, fra liberismo e marxismo. La pretesa estrema e utopica, che ha motivato l’ideologia comunista, di realizzare attraverso lo Stato una piena uguaglianza tra gli uomini, non ha raggiunto l’obiettivo dichiarato. L’utopia, come spesso è accaduto nella storia, ha generato immani tragedie, anche se non si può dimenticare – come opportunamente ammoniva in un recente dibattito Claudio Magris – che “il comunismo non è stato solo Gulag, ma ha anche dato a tante masse, in Occidente, la consapevolezza della propria dignità e la possibilità di trasformarsi da plebe a forza politica, a componente dello Stato”. Il pensiero liberale, che nelle sue versioni più radicali rifiuta l’idea di qualunque intervento statale nel campo economico, negli sviluppi più maturi e aperti alle istanze sociali del nostro tempo riconosce la perfetta compatibilità con l’obiettivo dell’efficienza economica di interventi statali che siano rivolti ad attenuare le disparità iniziali dei cittadini (ossia a perseguire il traguardo di un livellamento delle “posizioni di partenza”). Appare, quindi, coerente con il messaggio evangelico assegnare allo Stato il compito di realizzare il più possibile l’eguale dignità di tutti gli uomini. È ciò che dice l’articolo 3, comma 2 della nostra Costituzione: È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese. Non credo di dover aggiungere altro per sottolineare come in questa norma sia riconoscibile una diretta ispirazione cristiana, anzi evangelica. Di conseguenza credo anche di poter qui fondatamente sostenere che qualunque iniziativa di revisione costituzionale che toccasse questo articolo, così come gli altri che fanno parte del preambolo della nostra Costituzione, sarebbe un atto grave e irresponsabile. Nella discussione su questa norma all’Assemblea costituente, la consapevolezza da parte di ogni settore politico delle sue radici culturali, è testimoniata dalle parole pronunciate il 6 marzo 1947 da Lelio Basso, un politico non certo di parte cattolica: “Noi avremo realizzato una grande opera se riusciremo a tradurre nella nostra Carta costituzionale questa grande aspirazione di libertà e di giustizia sociale, se riusciremo a tradurre quei principi in cui si incontrano i più antichi motivi della civiltà cristiana”».

Queste riflessioni di Giovanni Bazoli si leggono nella parte conclusiva del suo intervento su Gli operai chiamati all’ultima ora (Matteo 20, 1-16). Il testo integrale lo si può leggere nel bel volume Alle origini dell’Occidente – Parabole e personaggi del Vangelo, appena pubblicato dalla Morcelliana di Brescia. Fa piacere che a parlare di alcuni tra i personaggi più stimolanti del Vangelo e sulle parabole più emblematiche, accanto a cinque illustri teologi ed esegeti della Sacra Scrittura, ci siano cinque laici: Giovanni Bazoli, appunto, e con lui Gustavo Zagrebelsky, Mino Martinazzoli, Massimo Cacciari, Erri De Luca.

23 maggio 2002.

LINEA RECTA BREVISSIMA. Le riletture. Se non si può trovare soddisfazione nel rileggere più volte un libro, sarebbe stato meglio non leggerlo affatto. Chi lo dice? Ciò che si dice di un uomo non è nulla: quel che conta è chi lo dice. Prima o poi. Se si dice la verità, si è sicuri di essere scoperti, prima o poi. (Oscar Wilde)

I DUBBI DI CLIFFORD STOLL, UNO DEI CREATORI DI INTERNET. Clifford Stoll è uno di coloro che, a partire dal 1975, ha più contribuito a fare di internet un fenomeno mondiale, ma ora sente il dovere di «iniettare qualche nota di scetticismo nei sogni di un utopico, digitale paese delle meraviglie». Lo fa a voce alta, pubblicamente, nelle Confessioni di un eretico high-tech (Milano 2001). La domanda a cui Clifford Stoll intende rispondere è: «Che cosa si perde quando si adotta una nuova tecnologia? Chi viene emarginato? Quali preziosi aspetti della realtà rischiano di venire calpestati? Quali sono i costi diretti e indiretti delle nuove tecnologie, le frustrazioni che queste cose generano, i loro effetti collaterali?». Poiché la cultura del computer tende a essere una pratica universale, di cui si danno per scontati gli effetti positivi e le enormi possibilità, è questo il momento per metterne in luce con forza gli aspetti negativi che possono anche essere superiori ai superpubblicizzati benefici. E il problema acquista, com’è ovvio, uno straordinario rilievo se si riflette con serietà sul rapporto tra il computer e la scuola, tra il computer e i processi di apprendimento degli studenti. Le argomentazioni essenziali svolte nelle Confessioni di un eretico high-tech mi sembrano essenzialmente queste. 1. «Vogliamo una nazione di stupidi? Basta centrare sulla tecnologia il curriculum di studio: insegnamento attraverso video-cassette, computer, sistemi multimediali. Si punti al massimo risultato possibile nei test di verifica standardizzati e si tolgano di mezzo quelle materie non di massa come la musica, l’arte, la storia e avremo una nazione di stupidi. È facile scambiare per intelligenza la semplice familiarità con i computer, ma saper manovrare un computer non significa acutezza mentale, così come l’incompetenza informatica non significa stupidità». 2. «Non c’è navigazione in rete che possa rimediare a una mancanza di pensiero critico e di capacità comunicativa. Nessun computer multimediale aiuterà uno studente a sviluppare capacità di analisi». 3. «Saggezza e conoscenza sono legate allo studio, a esperienza, maturità, discernimento, ampiezza di vedute e introspezione. Tutte cose che hanno poco a che vedere con il sovraccarico d’informazioni sempre crescente, che non siamo più in grado di assimilare. La società oggi tende assurdamente a gestire i puri dati d’informazione superiori all’esperienza, alla maturità, alla compassione umana, all’illuminazione interiore, e quindi superiori alla saggezza».

IL MESSAGGIO INCISO SU UNA CAMPANA. Nella parte finale delle sue Confessioni Clifford Stoll racconta una disavventura che gli capitò quand’era studente all’università. Scambiato per un contestatore mentre si aggirava nel campus, venne inseguito da un poliziotto. Per non farsi prendere Stoll riuscì a ripararsi in una torre con un grande orologio, salendo a perdifiato i numerosissimi scalini. Ed ecco lì, su una campana, al chiaro di luna, riuscì a leggere questa scritta: La verità è una. / In questa luce s’adoperino scienza e religione / per il continuo / progresso dell’uomo / dall’oscurità alla luce, / dal pregiudizio alla tolleranza, / dall’ottusità all’apertura delle menti. / È la voce della vita che vi chiama. / Venite e imparate. Quel messaggio, letto per caso, penetrò nelle profondità dell’anima di Stoll. Divenne per lui saldo criterio di orientamento e di giudizio, luce per i suoi passi. Il successo conseguito nel campo dell’invenzione tecnologica non distolse Stoll dall’intima certezza che rifulse per lui quella sera, cambiando la sua esistenza. La scienza e l’arte della vita appartengono ad un ordine infinitamente più alto rispetto a quello della conoscenza e dell’uso dei mezzi che servono a conferire alla nostra attività un raggio d’azione incomparabilmente più vasto.

L’ANGOLO DELLA POESIA. Libertà. La libertà non verrà / oggi, quest’anno / o mai / tramite il compromesso e la paura. / Io ho gli stessi diritti / di chiunque altro / di camminare / con le mie gambe / e possedere la terra. // Sono stufo di sentirmi ripetere / Lascia correre / Domani è un altro giorno. / Non mi serve la libertà da morto. / Non posso vivere del pane di domani. // La libertà / è un seme robusto / seminato / nella grande necessità. / Io vivo qui / e voglio la libertà / proprio come te (Langston Hughes, poeta e drammaturgo afroamericano, 1902-1967).

30 maggio 2002.

LINEA RECTA BREVISSIMA. Tutti i giorni. Si ha bisogno di amare e di essere amati tutti i giorni. Il credo di chi è onesto. Il bene dev’essere e l’ingiustizia non dev’essere. Tale è il credo degli uomini onesti. Uomini e animali. Se l’uomo fosse veramente buono, sarebbe adorato dagli animali, di cui è diventato il tiranno capriccioso e sanguinario. L’abilità e l’umiltà. L’abilità consiste nell’apparire; l’umiltà nel sentire che siamo poca cosa. (Heinrich F. Amiel)

MORTE DELLA RESISTENZA ITALIANA E FARNE DONO AI GIOVANI. Nel marzo 2002, nella collana «I millenni» di Einaudi, è apparsa, a cinquant’anni di distanza dalla prima, la nuova edizione delle Lettere di condannati a morte della Resistenza italiana. È la sedicesima e si rivolge non alle persone che avevano vissuto i fatti, o almeno i tempi, della Resistenza perché quella generazione è quasi completamente scomparsa; e neppure ai loro figli, che hanno toccato o superato anch’essi i cinquant’anni. Quel libro va consegnato invece ai nipoti, cioè agli adolescenti e ai giovani di oggi, che non hanno conosciuto la grande frattura politica, morale e culturale che segnava l’Europa e non sanno che – nel momento dell’estremo pericolo, sotto il giogo crudele della barbarie più organizzata che mai si vide nella storia, e in una situazione di vera e propria guerra civile, la più terribile e insidiosa che possa esserci – in questa nostra Italia uomini e donne, appartenenti a tutte le età e ad ogni classe sociale, presero coscienza del dovere della libertà e furono pronti a pagare con la loro stessa vita il prezzo che essa comporta. Con la denominazione di Lettere di condannati a morte s’intende lettere o messaggi di partigiani e patrioti scritte quando essi, catturati da fascisti o tedeschi, già sanno che verranno uccisi, o ne hanno il sicuro presentimento. Questo è l’unico criterio comune a tutte le lettere riportate nel volume. Tutti gli autori delle lettere furono «giustiziati», anche se parecchi non arrivarono davanti al plotone d’esecuzione perché uccisi dalle torture, o perché si erano uccisi. Sono lettere, dunque, che non furono scritte per essere pubblicate. Concepite nel momento più solenne della vita, quando si è faccia faccia con se stessi in presenza della morte, esse erano indirizzate alle persone più care, in cui sono riposti gli affetti più personali, o a compagni di lotta e d’impegno civile. In esse si chiede memoria, conforto e anche perdono per una scelta che è causa di dolore, ma che è stata fatta per adesione a un valore più alto.

«Questi testi sconvolgenti – scrive Gustavo Zagrebelsky nella sua nota introduttiva – parlano di esseri umani negli ultimi istanti della loro vita, nell’attesa consapevole della fine per mano di altri esseri umani. Ogni facoltà spirituale deve essere stata provocata fino all’estremo. La psiche non può essere sollecitata più di così – testimoniano coloro i quali, per un motivo inaspettato, hanno potuto dare testimonianza. Le parole scritte in quelle circostanze, anche quelle svuotate dall’uso quotidiano, tornano improvvisamente a riempirsi del loro significato primigenio. Chiunque, perciò, può farle parlare da sé, senza intermediari».

SE POTESSI RIVOLGERMI AI GIOVANI LETTORI… Se io, che nel 1945 avevo vent’anni, potessi rivolgermi ai figli dei miei figli, ai giovani che leggeranno le Lettere di condannati a morte della Resistenza italiana, ecco che cosa direi loro:

La memoria di persone e di eventi che questo libro ci restituisce, l’onore che esso tributa a quanti hanno lottato per la libertà di tutti, dando la vita per essa, esige anche da parte di voi giovani un’assunzione di responsabilità degna del loro sacrificio. Anche voi non potete, non dovete arrendervi all’indifferenza, ai calcoli meschini, all’attendismo, alla menzogna e all’illegalità che uccidono la democrazia, ai miti disumanizzanti di turno, all’arroganza e all’ingiustizia, a tutto ciò che offende le coscienze. Anche voi siete chiamati all’impegno di capire dove oggi si gioca l’istanza di un’uguale libertà, di una rinnovata rivolta morale e al dovere di essere interiormente pronti a compiere quell’istanza con purezza di cuore. Anche voi siete chiamati a diventare ribelli per amore. L’umanità ha bisogno dell’eroismo morale dei giovani, se si vuol evitare il naufragio, a cui la sospinge il consumismo e lo svuotamento spirituale che l’accompagna. Questo è il compito dei giovani di ogni generazione, e dunque anche il vostro.

6 giugno 2002.

LINEA RECTA BREVISSIMA. È tutto un gioco di… riflessione. Chi conosce bene se stesso impara a conoscere bene anche gli altri. È tutto un gioco di riflessione (Georg C. Lichtenberg). Perché ognuno abbia un piccolo regno tutto suo. Non senti il bisogno di un piccolo regno tutto tuo che nessuno possa toglierti? Ecco che cosa possono darti i libri. Ecco perché tutti hanno diritto all’educazione, a una vera educazione (John Horne Burns). Le piccole virtù quotidiane. L’eroismo può salvare un popolo in circostanze difficili, ma soltanto un complesso di piccole, quotidiane virtù determina la sua grandezza (Gustav Le Bon).

QUANDO IL MITO UCCIDE LA SCIENZA. Lo psichiatra svizzero Carl Gustav Jung, che visse tra il 1875 e il 1961, elaborò la nozione di «complesso» come un insieme di rappresentazioni inconsce, di violenta intensità affettiva, tale da scardinare i poteri inibitori e di controllo dell’io. A poco a poco Jung fece di essa la chiave interpretativa della schizofrenia, della demenza precoce e di tutti i disturbi profondi della psiche. La posizione di rilievo acquisita all’interno del movimento psicoanalitico, spinse Jung a contrapporsi sempre più a Freud, contestandogli in primo luogo che la rimozione abbia esclusivamente un carattere sessuale. Gli sviluppi successivi della psicologia analitica pongono sempre più al centro la teoria dell’inconscio collettivo, che emergerebbe dall’interpretazione dei miti e dei sogni, per sfociare in un simbolismo alchemico-religioso che tutto abbraccia e in cui tutto si confonde. In questa in questa seconda fase, purtroppo, Jung abbandona il terreno dell’indagine scientifica, diventa maestro di esoterismo e dà voce ai suoi ignobili pregiudizi antisemiti. Nei testi pubblicati fra il 1934 e il ‘35, nello Zentralblatt für Psychoterapie, una rivista da lui direttamente ispirata, si possono leggere affermazioni di questo genere: La netta distinzione fra la psicologia germanica e quella ebraica non sarà ulteriormente dissimulata… L’inconscio ariano possiede una potenzialità più grande di quello ebraico… Lo straordinario fenomeno del Nazionalsocialismo, al quale tutto il mondo guarda con stupore, ha forse insegnato qualcosa a Freud e a tutti i suoi pappagalli tedeschi.

CARL GUSTAV JUNG ADORAVA ADOLF HITLER. Primo testo. «I grandi atti di liberazione della storia del mondo sono stati compiuti da personalità dominatrici e mai dalla massa inerte, che per muoversi ha bisogno di un demagogo. Il peana della nazione italiana è rivolto alla personalità del suo Duce. Le lamentazioni funebri delle altre nazioni piangono l’assenza di grandi dominatori». Il passo è tratto da una conferenza tenuta al Kulturbund di Vienna nel 1932. Jung la ripubblicò dopo l’avvento di Hitler con questa nota in calce: «Dopo di allora anche la Germania ha trovato il suo Capo». Secondo testo. «Vi sono due tipi di dittatori: il tipo del Capo e il tipo del Guaritore. Hitler appartiene a quest’ultimo. Egli è il portavoce degli antichi Dèi, della Sibilla, dell’oracolo di Delfi… Forse nessuno, a parte il Führer, può prevedere il destino del Nazionalsocialismo. Il movimento hitleriano ha fatto rialzare in piedi l’intera Germania producendo lo spettacolo di una grande migrazione di gente che cammina a passo di marcia». Dal saggio Wotan, pubblicato nel 1936. Terzo testo. «La religione di Hitler insegna la virtù della spada. La sua prima idea è di far potente il suo popolo, perché lo spirito del Tedesco ariano merita di essere sostenuto dalla forza, dal muscolo e dall’acciaio». Da un’intervista concessa nel gennaio del 1939 a una pubblicazione inglese, Cosmopolitan.

EPIGRAMMI ITALIANI. Telegiornale. Stando nel cerchio d’ombra / come selvaggi intorno al fuoco / bonariamente entra in famiglia / qualche immagine di sterminio. / Così ogni sera si teorizza / la violenza della storia (Nelo Risi).

La critica letteraria. Da noi, la critica letteraria / campa felice: accattivante e bonaria / essa sa quel che non dice. Il potere. Il potere va / e viene, / logora chi non ce l’ha / e corrompe chi lo tiene (Luigi Compagnone).

13 giugno 2002.

LINEA RECTA BREVISSIMA. Il volto umano. La superficie più interessante della terra è per noi la faccia dell’uomo. Come i bambini. Si è spinti irresistibilmente a credere che non si è mai visti dagli altri quando non si vede nessuno; come i bambini, che chiudono gli occhi per non essere veduti. Per molti purtroppo è così. Per molti uomini la virtù sta più nel pentirsi che nell’evitare gli errori. (Georg Christoph Lichtenberg)

Il male degli altri. Tutti ci sentiamo abbastanza forti per sopportare il male degli altri (François de La Rochefoucauld). Il preciso significato. Indagare il preciso significato delle parole è mettere chiarezza nelle proprie idee (Aristide Gabelli). Pur di dire: «Io l’avevo detto. C’è della gente che si consolerebbe persino della fine del mondo, pur di poter dire: «Io l’avevo detto!» (Friedrich Hebbel).

NON SCUSARE I CRIMINI, MA PIANGERE DI TRISTEZZA. Nel libro Non c’è futuro senza perdono, edito in Italia da Feltrinelli (Milano 2001), l’autore, l’arcivescovo anglicano Desmond Tutu, racconta come la Commissione sulla verità e la riconciliazione abbia contribuito in modo determinante a chiudere l’epoca dell’Apartheid e ad aprire il tempo della democrazia in Sud Africa. A pagina 68 ci viene incontro un passo di grande significato, che va letto e riletto con intelletto d’amore e che ci fa venire in mente una riflessione analoga di Solzenicyn, riportata di recente in questa rubrica.

Ascoltando nella Commissione scrive Desmond Tutu – i resoconti di coloro che avevano commesso crimini contro i diritti umani, mi resi conto che nessuno di noi può avere la certezza che, esposto alle stesse influenze, agli stessi condizionamenti, non si rivelerebbe identico a quei criminali. Questo non significa condonare o scusare ciò che essi hanno fatto. Significa colmarsi sempre più della compassione di Dio, osservando senza giudicare e piangendo di tristezza perché uno dei suoi figli si è risolto a un simile passo. Con profondo sentimento, e non con facile pietismo, dobbiamo dire a noi stessi: «Sarei anch’io come lui se non fosse per la grazia di Dio».

L’ANGOLO DELLA POESIA. Canzone del silenzio. Credi solo all’amore / e in nulla più. / Taci: ascolta il silenzio / che ci parla / più intimamente; ascolta / tranquilla / l’amore che sfoglia / il silenzio… / Lascia le parole alla poesia… L’uomo che pensa. L’uomo che pensa / porta nei pensieri / i venti preclari / che vengono dalle origini. / L’uomo che pensa / pensieri chiari / ha la fronte vergine / di risentimenti. / All’uomo che pensa / pensieri puri / il giorno è duro / la notte è lieve: / ché l’uomo che pensa / solo pensa quel che deve / solo deve quel che pensa. Un bacio. Un minuto il nostro bacio / un solo minuto; tuttavia / in questo minuto di bacio / quanti secondi di stupore!

L’autore di questi versi è il brasiliano Vinicius de Moraes, 1913-1980. Copiosa è la sua produzione poetica, ma ineguale. Giornalista e diplomatico, nell’ultima parte della sua vita fu anche cantautore e una sua canzone nel 1956 segnò la nascita della bossa nova.

20 giugno 2002.

LINEA RECTA BREVISSIMA. L’onestà intellettuale. L’onestà intellettuale è un esercizio di moralità, una religiosità che si esplica non nei proclami, ma nella giustezza delle opere, non nel parlare in nome di Dio, ma nel fare quanto si fa come se si fosse al cospetto di Dio (Mario Pomilio). Così dovrebbe essere. Un politico lotta per annullare gli errori, gli abusi, le sopraffazioni; uno spirito religioso lotta per vincere lo spirito negativo che sta alla base di queste deviazioni delittuose (Carlo Bo).

LA RAGIONE E IL TORTO. «Un mio amico, di cara e onorata memoria, raccontava una scena curiosa, alla quale era stato presente in casa d’un giudice di pace in Milano. L’aveva trovato tra due litiganti, uno dei quali perorava caldamente la sua causa; e quando costui ebbe finito, il giudice gli disse: «Avete ragione». «Ma, signor giudice, – disse subito l’altro – lei deve sentire anche me prima di decidere». «È troppo giusto, – rispose il giudice – dite pure che vi ascolto attentamente». Allora quello si mise con tanto più impegno a far valere la sua causa; e ci riuscì così bene che il giudice gli disse: «Avete ragione anche voi». C’era lì accanto un suo bambino di setto o otto anni, il quale, giocando pian piano con non so qual balocco, non aveva lasciato di stare attento al contraddittorio; e a quel punto, alzando un visino stupefatto, non senza un certo che d’autorevole, esclamò: «Ma babbo! Non può essere che abbiano ragione tutt’e due». «Hai ragione anche tu», gli disse il giudice. Come poi sia finita, o l’amico non lo raccontava o m’è uscito di mente; ma è da credere che il giudice avrà conciliate tutte quelle sue risposte, facendo vedere tanto a Tizio quanto a Sempronio che, se aveva ragione per una parte, aveva torto per un’altra.

Questa pagina di Alessandro Manzoni a prima vista ci fa sorridere, ma l’autore ce l’ha offerta per farci ragionare su a lungo. La conclusione a cui giunge Manzoni è insieme fortemente dialettica e di superiore buon senso. Essa suggerisce un metodo di discussione e di confronto che esclude sia lo scetticismo che confonde bene e male, ragione e torto, così come la pretesa ducesca di chi crede di aver sempre ragione e presenta arrogantemente le sue tesi come atti di sfida all’avversario. Metodo questo rozzo, barbarico, anche se con i tempi che corrono può fare audience.

LA COSCIENZA. La religione nel suo significato più profondo supera certamente la sfera della vita morale, e tuttavia la vita morale ne rimane l’attestazione più diretta, ciò da cui non si può prescindere. Kant lo ha detto molto bene in una sua opera oggi poco letta, La pedagogia. «La legge che è dentro di noi si chiama coscienza; la quale più propriamente è la subordinazione delle nostre azioni a questa legge. I rimproveri della coscienza sono senza effetto quando essa non è considerata come la rappresentante di Dio, il quale ha posto l’alta sua sede al di sopra di noi, ma ha anche posto un tribunale dentro di noi».

POESIA ITALIANA DEL NOVECENTO. Ottimismo. Attilio Regolo / fu il primo / a dire: / «Sono in una botte di ferro» (Gino Patroni). A me. In questo mondo colpevole, che solo compra e disprezza, / il più colpevole son io, inaridito dall’amarezza (Pier Paolo Pasolini). A un burocrate. In una busta paga / è tutto il tuo avvenire. / Nato sei nato, basta! / E vivi per morire (Tito Balestra). Il dito e il braccio. Molti, se porgi il dito, ti prendono il braccio: / son quelli che, se ti occorre un braccio, / non porgeranno un dito (Guido Mazzoni).

Le bugie. Le bugie certamente / hanno le gambe corte / ma nell’età presente / corrono molto forte / specie lungo la via / della demagogia. La vana attesa. Nel mondo dei ciarlatani / il miracolo fissato / per oggi, vien rimandato / eternamente a domani. (Luciano Folgore)

27 giugno 2002.

LINEA RECTA BREVISSIMA. Tutto, eccetto l’uomo. Tutto è o può essere contento di se stesso, eccetto l’uomo, il che mostra che la sua esistenza non si limita a questo mondo, come quella dell’altre cose. Se è vero e caldo amor patrio. Dovunque è esistito vero e caldo amor di patria e massime dove più, cioè nei popoli liberi, i costumi sono stati sempre quanto fieri altrettanto gravi, fermi, nobili, virtuosi, onesti e pieni d’integrità. Proprio quelli che hanno meno tempo libero. Quelli che non vogliono far mai nulla, e che per conseguenza hanno più tempo, sono ordinariamente i più difficili a trovare il tempo per un’occupazione, ancorché di loro premura, a ricordarsi di una cosa che bisogna fare, di una commissione che loro sia stata data e che anche prema loro di eseguire. Al contrario, quelli che hanno la giornata piena e quindi meno tempo libero e più cose da ricordarsi… (Giacomo Leopardi)

LA STORIA DEI MIEI PASSEROTTI. Ti racconterò la storia dei miei passerotti. Devi, dunque, sapere che ho un passerotto e che ne ho avuto un altro che è morto… Il primo passerotto era molto più simpatico dell’attuale. Era molto fiero e di una grande vivacità. L’attuale è modestissimo, di animo servile e senza iniziativa. Il primo divenne subito padrone della cella… Conquistava tutte le cime esistenti e quindi si assideva per qualche minuto ad assaporarne la sublime pace. Salire sul tappo di una bottiglietta di tamarindo era il suo perpetuo assillo… Ciò che mi piaceva in questo passero è che non voleva essere toccato. Si rivoltava ferocemente, con le ali spiegate e beccava la mano con grande energia. Si era addomesticato, ma senza permettere troppe confidenze. Il curioso è che la sua relativa familiarità non fu graduale, ma improvvisa. Si muoveva per la cella, ma sempre nell’estremo opposto a me. Per attirarlo gli offrivo una mosca in una scatoletta di fiammiferi: non la prendeva se non quando io ero lontano. Una volta invece di una, nella scatoletta erano cinque o sei mosche: prima di mangiare danzò freneticamente intorno per qualche secondo. La danza fu ripetuta sempre quando le mosche erano numerose. Un mattino, rientrando dal passeggio, mi trovai il passero vicinissimo; non si staccò più, nel senso che da allora mi stava sempre vicino, guardandomi attentamente e venendo ogni tanto a beccarmi le scarpe per farsi dare qualcosa.

L’autore di questo brano, Antonio Gramsci, fu per molti anni confinato dal regime fascista a Ustica e poi in prigione. Questo passo è tratto dalle Lettere dal carcere, pubblicate per la prima volta da Einaudi nel 1947, che egli scrisse ai suoi familiari. Esse costituiscono un documento umanissimo della capacità di osservazione e della forza interiore del loro autore.

LA RAGIONE SUPREMA DELLA VITA. La ragione ultima della vita consiste nel dare al Bene il proprio consenso, il proprio affetto, la propria attività. Essa sta dunque anche nel rispettare, nel coltivare ed accrescere in sé e negli altri l’immagine del Bene. Chiunque fa il suo dovere e lo compie sinceramente, con generosità, entra in quell’ordine superiore in cui consiste l’essenza e la bellezza della vita. Volere il Bene è la ragione dell’esistenza, la soluzione del mistero della vita, la parola d’ordine che riassume il nostro compito. La meta è accessibile e, malgrado le apparenze, accessibile a tutti.

L’autore di questo brano è un filosofo francese che nella seconda metà dell’Ottocento dette un forte impulso allo spiritualismo classico. Il suo nome è Léon Ollé-Laprune, vissuto tra il 1839 e il 1898. Se all’inizio di quel movimento si deve porre l’opera del «Kant» francese, il grande e ancor oggi sconosciuto in Italia Maine de Biran, la ripresa speculativa, al più alto livello, di quell’indirizzo filosofico si deve a Maurice Blondel.

La rubrica “Detti e contraddetti” è stata pubblicata sul Giornale di Brescia con cadenza settimanale dal 5 gennaio 1988 al 25 gennaio 2007.