Detti e contraddetti 2003 – 1° semestre

2 gennaio 2003.

LINEA RECTA BREVISSIMA. Conservare lo spirito dell’infanzia. Conservare lo spirito dell’infanzia dentro di sé per tutta la vita vuol dire conservare la curiosità di conoscere, il piacere di capire, la voglia di comunicare (Bruno Munari). Se l’uomo si sottrae a Cristo. So che l’inferno s’apre sulla terra / su misura di quanto / l’uomo si sottrae, folle, / alla purezza della Tua passione (Giuseppe Ungaretti).

PAROLE CHE DISONORANO CHI LE PRONUNCIÒ. Un nuovo, scarno, prezioso libro di Mario Rigoni Stern, L’ultima partita a carte, è apparso verso la fine del 2002 presso Einaudi. È come sempre un libro che fa memoria di vicende vissute in prima persona, ma la storia dell’autore fa parte di una vicenda corale, fatta di tante altre storie di uomini che, come lui, sono stati sballottati per mezza Europa, dalle montagne d’Albania ai deserti di ghiaccio della Russia. Colpisce ne L’ultima partita a carte il brano che Rigoni Stern riporta dal Diario di Galeazzo Ciano, il genero di Mussolini. Ciano, che ricoprì la carica di Ministro degli Esteri dal 1936 al 1943, riferisce le parole di Mussolini a proposito dei nostri soldati in Albania: «Questa neve e questo freddo vanno benissimo, così muoiono le mezze cartucce e si migliora questa mediocre razza italiana». A Bari affluivano allora a migliaia soldati feriti e soprattutto congelati ai piedi o alle mani. Molti di quelle «mezze cartucce» erano alpini della gloriosa Divisione Julia. Il giorno in cui a noi studenti fu permesso di andarli a visitare – e quel permesso ben presto si trasformò in assoluto divieto – il dolore e la rabbia mandarono a pezzi di colpo, nei nostri cuori, ogni residua illusione sul fascismo e su come sarebbe finita la guerra.

QUELLO SCIAGURATO ATTACCO ALLA GRECIA. Leggo e rileggo con profonda amarezza le frasi di Mussolini prima riportate e le trovo ciniche e insultanti, tanto più che a pronunciarle era proprio il regista principale e il massimo responsabile, anche se non unico, di tante sventure per il nostro Paese. L’Italia fu, infatti, gettata nel secondo conflitto mondiale del tutto impreparata e per un calcolo insieme meschino e del tutto sbagliato: nel giugno 1940 si pensava che la guerra stesse lì lì per concludersi, con la resa imminente della Francia, e che a Mussolini bastassero poche migliaia di morti per sedersi anch’egli al tavolo dei vincitori e mettere le mani nientemeno che su…. Briga e Tenda, sulla Corsica, Malta e, all’estremità del Mar Rosso, Gibuti allora colonia francese. Quelle erano, infatti, le nostre risibili «rivendicazioni»! Si pensi a un particolare sconcertante, ma assai rivelatore: l’attacco alla Grecia fu sferrato nella data simbolo per il regime fascista del 28 ottobre 1940, in cui si celebrava il 18° anniversario della marcia su Roma, nella certezza di poter ottenere un rapido successo, quasi a compensare quello conseguito un mese prima dalla Germania in Romania. La campagna di Grecia doveva essere la nostra piccola guerra parallela all’azione dell’alleato tedesco, ma l’attacco coincise con l’arrivo in anticipo di un inverno assai rigido e la controffensiva greca ci ricacciò in Albania. Il prestigio di Mussolini risultò seriamente compromesso soprattutto quando una seconda offensiva, guidata dal generale Cavallero, il nuovo capo di stato maggiore succeduto al dimissionario Badoglio, fallì con gravissime perdite. Per i nostri soldati – male armati, male equipaggiati e mal comandati – fu la tragedia. Una tragedia di cui gli alpini fecero memoria nella più triste delle canzoni di guerra, Sul ponte di Perati bandiera nera.

PREGHIERA E POESIA. Per lume non voglio che le stelle. Ogni tanto bisogna / chiudere gli occhi / per vedere, / mettere tutto a tacere / per sentire. // Nella notte per lume / non voglio che le stelle / perché l’eterna Bellezza / si disveli. L’ultima invocazione. Quando ogni altra voce tace, / e il corpo si disviluppa / dal mondo fallace, / gli occhi miei fissi nei tuoi, / te invocherò, Signore. // Come Tommaso dirò: / «Signore mio, Dio mio», / e con Giovanni: «Vieni, Signore». / Maranà tha. (Levi Appulo)

9 gennaio 2003.

LINEA RECTA BREVISSIMA. Professione di fede. Nel mondo vi è la bellezza e vi sono gli oppressi. Per quanto difficile possa essere, io vorrei essere fedele a entrambi (Albert Camus). L’attualità. Mi piace quando è passata (Giuseppe Pontiggia). La cattiva politica. Occultando i rischi, i rischi accresce. La fierezza si può insegnare. Fieri li farà la tua fierezza. (Torquato Tasso)

MISURA E FONDAMENTO DI OGNI VERA AMICIZIA. In un’opera medievale, scritta da Aelredo, abate di Rievaulx, L’amicizia spirituale (Roma 1997), si ripercorrono le tappe, o se si vuole i gradi, che conducono la più umana delle virtù al suo compimento perfettivo. L’amicizia non nasce soltanto da impulso naturale o da obbedienza a un comandamento, come nell’amore che dobbiamo verso i nemici. Essa è generata dall’amore e ne è una delle espressioni più alte e libere. L’amicizia esige grande cura e sollecitudine nella scelta, discernimento e sincera ammirazione per quanto di buono vi è in una persona, disposizione ad accogliere l’altro con intima gioia. Gli amici, infine, sono veramente tali se fanno quotidiana esperienza di un sentire comune, di sintonia nelle cose essenziali. La confidenza tra amici non è una forma di cameratismo, non crea fallaci entusiasmi e dipendenza psicologica: unendo allegria e delicato rispetto, essa si esprime sempre attraverso la dolce amabilità dei modi. L’abate Aelredo aggiunge due preziose annotazioni. La prima è che il fiore più bello dell’amicizia è la costanza: si deve, infatti, poter contare in ogni momento su un amico. L’altra è che l’amicizia spirituale tende a eliminare la disuguaglianza: anche l’amico povero, che non abbia cose proprie da offrire, può ben donare se stesso e ciò vale infinitamente di più. Una citazione tratta dalla Sacra Scrittura fa da suggello alle finissime osservazioni di Aelredo: «L’amico fedele è una medicina per la vita, una grazia di immortalità» (Libro di Siracide 6, 16). Io vorrei terminare facendo mia una profonda osservazione di Simone Weil, che si legge in Attesa di Dio (Milano 1996). «È impossibile – scrive la Weil – che due esseri umani siano uno e tuttavia rispettino scrupolosamente la distanza che li separa, se Dio non è presente in ognuno di essi. Il punto d’incontro dei paralleli è nell’infinito».

L’INGLESE NON BASTA. Germania, Spagna e Francia protestano ufficialmente contro la Gran Bretagna perché sarebbe sempre più difficile organizzare scambi fra scuole e perché gli inglesi sanno solo l’inglese. Contrariamente a quello che abbiamo sempre immaginato, infatti, saper solo l’inglese non basta. E questo è vero non solo per gli studiosi di letteratura, che devono conoscere per esempio Dante e Cervantes in originale anche se sono nati a Stratford-upon-Avon. Né soltanto per situazioni che si sperano contingenti: dopo l’attacco alle Torri Gemelle si è scoperto che Cia e Fbi faticavano a trovare persone che sapessero l’arabo per riuscire a sbobinare e tradurre le telefonate intercettate fra sospetti membri di Al Qaeda. Ancora una volta, troppa gente che sapeva solo l’inglese. Quella che sta definitivamente tramontando è l’idea che parlare e intendere più lingue serva solo a una minoranza colta e anche un poco perditempo, mentre il mondo della pratica e della tecnica può combattere sulla trincea del lavoro con le sole, potentissime armi della lingua globalizzata e globalizzante: l’inglese. Necessario l’inglese lo è, o sta per esserlo. Il primato non glielo conferiscono le doti di sintesi, o una sua presunta «semplicità»: la potenza economica e tecnologica è ciò che impone l’inglese come lingua standard dello scambio globale. Ma proprio per questa ragione se sapere l’inglese è ormai necessario, non sarà mai sufficiente (Asterischi di Kappa in Nuova secondaria, n. 10, giugno 2002).

POESIA DEL NOSTRO TEMPO. Non avremo mai. Non avremo mai lottato abbastanza / in questo angoscioso / crepuscolo degli dei e degli uomini / amati sino al limite / dell’impazienza e dell’ira. / Non avremo mai lottato abbastanza / contro il nulla e la notte / nella speranza dell’alba… (Giovanni Cristini). E voi poeti, scribi del mistero. Parole, dimora dell’Essere, / e voi gli scribi del mistero, / o poeti. // Un solo verso, / fessura sull’infinito, / anche un solo verso / può far più grande l’universo (David Maria Turoldo).

 16 gennaio 2003.

 LINEA RECTA BREVISSIMA. Così può suonare una prima definizione dei comici. I veri comici sono gente con la capacità di guardare al di là dell’ovvio (Peter Ludwig Berger). La falsa comicità. La falsa comicità diventa la caricatura di se stessa, un po’ come accade oggi in televisione, quando le risate degli spettatori sono innescate a comando, insieme con gli applausi, o sono indotte per imitazione di risate già registrate e inserite nella colonna sonora. Questa comicità diventa niente più che strumento diretto e riconoscibile del potere. È appunto una comicità cortigiana, in tutta l’estensione semantica che la nostra lingua consente e suggerisce (Roberto Escobar).

L’ALLARME LANCIATO DAL GALILEI BRECHTIANO. Alla fine della Vita di Galilei, il dramma di Bertolt Brecht, il protagonista grida: «Se gli uomini di scienza si limitano ad accumulare sapere per sapere, la scienza può rimanere fiaccata per sempre e le vostre nuove macchine non saranno fonte che di nuovi triboli per l’uomo. E quando, con l’andar del tempo, avrete scoperto tutto lo scopribile, il vostro progresso non sarà che un progressivo allontanamento dall’umanità. Tra voi e l’umanità può scavarsi un abisso così grande che, un giorno, a ogni vostro eureka rischierebbe di rispondere un grido di dolore universale…». A lanciare questo allarme è Galilei, che è il simbolo stesso della ricerca scientifica; ed è bene che sia così perché certi atteggiamenti degli scienziati possono essere criticati solo in nome della scienza stessa e senza tradire la sua logica. Della scienza, comunque, non possiamo fare a meno anche per superare le insidie prodotte dal suo cammino.

SIAMO LEGITTIMAMENTE ANGOSCIATI… Si è tenuto a Trieste il 14 e il 15 novembre 2002 un convegno sul tema Per una critica progressista del progresso. Il problema posto da Galilei ha avuto in quella sede significativi approfondimenti. «La fiducia nella ragione e nel progresso – scrive Claudio Magris nella prolusione al convegno – viene assalita oggi da un apocalittico catastrofismo che, prendendo le mosse da reali e crescenti preoccupazioni, misconosce il merito avuto dalla tecnica nel lenire tanti mali e miserie dell’umanità e vagheggia una pretesa natura autentica violata dall’artificio tecnologico. Tuttavia le preoccupazioni per ciò che succede e potrebbe succedere nel mondo sono reali, anche se spesso vengono espresse in forma scorretta o esaltata. Con buona pace degli ecologisti, tutto è natura, combinazione di elementi, le colline toscane come i deserti di Plutone, i profumi dei fiori come il lezzo dei tubi di scappamento. Resta tuttavia il fatto che certe condizioni della natura sono propizie alla nostra specie e altre no e che di inquinamento e di esplosioni atomiche si può morire. Pure il progresso scientifico e tecnologico deve essere oggetto di critica razionale; se è invece oggetto di cieco e intollerante fideismo, non è più scienza. Lo sviluppo scientifico e tecnologico solleva, nel suo corso, problemi ed anche pericoli, ed è progresso solo se, continuando a procedere, ritorna al contempo di continuo sui suoi passi per superare, con gli strumenti da esso elaborati, quelle insidie create dal suo cammino. L’inquinamento esiste, il traffico pone difficoltà reali, la bioingegneria può modificare l’umanità in misura insospettata, il divario fra ricchezza e misera può assumere dimensioni spaventose. L’uomo comune è legittimamente angosciato dalle prospettive che crede vagamente di intravedere. È facile agli scienziati – dai fisici ai biologi agli economisti – rispondere con sussiego a quelle domande formulate spesso ingenuamente e goffamente; ma le loro rassicurazioni talora supponenti rischiano di essere assai poco scientifiche e di diventare un oppiaceo che ottunde l’attenzione razionale alla realtà. È legittimo difendere nel complesso il nucleare, ma è irragionevole e dogmatico negarne le possibili implicazioni terrificanti, come se paventare che possa succedere un disastro fosse solo frutto di ignoranza. Qualcosa invece ogni tanto purtroppo succede: Chernobyl, le radiazioni in Giappone, il cianuro nel Danubio, i morti di Seveso e di Marghera, gli allarmi del padre di Dolly. È poco scientifico scordare che esistono pure l’incidente imprevedibile, la fragilità dell’essere umano, una macchina che si deteriora o che vi possano essere, nel caso delle manipolazioni genetiche, sviluppi e conseguenze che forse oggi la scienza non è in grado di prevedere».

23 gennaio 2003.

LINEA RECTA BREVISSIMA. Una delle due. Per un’idea vale la pena di correre qualche rischio. Perché se uno per un’idea non vuole correre rischi, o non vale niente l’idea o non vale niente lui (Roberto Benigni, Raiuno, 23 dicembre 2002). Abiti molto speciali. Gli abiti dei governatori erano fatti solo di tasche (Bertold Brecht).

L’EURO HA PROTETTO L’UNIONE. Un anno di euro, un anno di successi. Un anno fa è stata introdotta la moneta unica dopo una lunga preparazione. Il primo obiettivo che gli si chiedeva di raggiungere era già stato ottenuto prima ancora della circolazione fisica. L’euro, ancor prima di nascere, aveva già garantito stabilità ai Paesi che avevano deciso di adottarlo. E sì che viviamo e abbiamo vissuto momenti difficili, incerti tra pace e guerra, sotto la minaccia di un nuovo terrorismo internazionale e in una fase di difficile contingenza economica. Che cosa sarebbe successo all’Europa e al nostro Paese se tali eventi si fossero verificati in assenza dell’Unione Economica e Monetaria? Adesso l’euro viaggia al di sopra della parità con il dollaro. Non che la cosa sia fondamentale. Ciò che importa non è avere una valuta con un elevato tasso di cambio, ma una valuta stabile. Tuttavia, ciò dimostra la credibilità internazionale di questa nuova moneta. Non a caso la Cina ha equilibrato le proprie riserve monetarie pareggiando il volume di dollari con altrettanta quantità di euro; non a caso in Estremo Oriente le finanziarie operano in maniera crescente in euro; non a caso la moneta è accettata sempre di più al di fuori della sua area di circolazione. L’euro ha rafforzato l’integrazione dei mercati europei, non solo eliminando il rischio di cambio e i costi delle operazioni, ma anche permettendo di superare una barriera invisibile, psicologica al commercio oltre frontiera.

LE INACCETTABILI SPECULAZIONI. In tutti i Paesi che hanno adottato l’euro, alla vigilia della sua circolazione, le autorità nazionali e locali hanno vigilato contro il rischio di eccessi speculativi e hanno monitorato il corretto funzionamento degli accordi raggiunti al riguardo tra le associazioni dei consumatori e quelle dei commercianti, degli esercenti e degli altri operatori di mercato. Quasi ovunque la cosa ha funzionato. Le istituzioni europee hanno operato al meglio e garantito il successo dell’operazione, ma non potevano certo sostituirsi alle amministrazioni nazionali per quanto era di loro competenza. In alcuni Paesi, infatti, il meccanismo nazionale di controllo non ha funzionato al meglio o non ha funzionato affatto e così si sono verificati aumenti ingiustificati e immotivati per inaccettabili eccessi speculativi. Rincari che si sono concentrati soprattutto sui beni fuori dal paniere dell’inflazione, così che i dati ufficiali ne hanno risentito poco, ma l’impatto sulle tasche dei cittadini è stato forte… Non è, quindi, legittimo tentare lo scarico delle proprie responsabilità addossandole all’euro. La moneta è uno strumento, gli aumenti di prezzo sono decisi dagli uomini. Sono gli operatori che ritoccano i listini. Ed erano le autorità nazionali e locali quelle cui spettava il compito della sorveglianza in difesa del potere di acquisto dei propri cittadini, soprattutto dei pensionati e dei lavoratori a reddito fisso. Le considerazioni qui riportate, nei passaggi essenziali, sono svolte dal Presidente dell’Unione Europea Romano Prodi su Il Sole 24 Ore di domenica 29 dicembre 2002.

POESIA DEL NOSTRO TEMPO. La goccia di rugiada. Eccentrica, asimmetrica / nella tela del ragno / splende cristallo vivo / la goccia di rugiada / nel taglio della luce del mattino. // Da quando è nata / nel buio vento stellare / pulsa e trema su lunghi fili tesi / da un capo all’altro del mondo. // E tutto le ruota intorno: / gli alberi del giardino, / la rosa, la dalia, il nasturzio, / il pigolio degli uccelli e il silenzio / e lo spazio mutevole e il tempo (Giovanni Cristini).

30 gennaio 2003.

LINEA RECTA BREVISSIMA. Non solo mezzi d’espressione estetica. La letteratura, la poesia e l’arte non sono soltanto mezzi d’espressione estetica, ma anche mezzi di conoscenza. Possiamo trovare in esse – così come nella musica, nella pittura, nella scultura – altrettanti messaggi sulle profondità del nostro io profondo. Il valore dell’introspezione. Se è vero, come ha sostenuto Montaigne, che ogni singolo individuo porta in sé l’intera forma della condizione umana, allora ciascuno, me compreso, deve essere incoraggiato a cercare in se stesso verità di valore universalmente umano. Siamo abitati dal mistero. Non solo ci troviamo in un’avventura ignota. Siamo abitati dal nostro stesso ignoto: il volo della rondine, il saltellare del passero, il balzo del giaguaro, la luce di uno sguardo. Non c’è nulla in questo mondo che non porti in sé il mistero. (Edgar Morin)

I PEGGIORI DI TUTTI, I CORTIGIANI. Perché i comici devono essere liberi e perché lo sono stati quasi sempre anche in regimi autoritari, e perfino dispostici? Nella nostra letteratura c’è un’opera scritta in un linguaggio popolaresco e quanto mai arguta, in cui si racconta di un re, Alboino, e del suo buffone, Bertoldo. Su questo argomento mi piace lasciare la parola a uno studioso di analisi del linguaggio politico, Roberto Escobar, autore di importanti studi quali Metamorfosi della paura, Totò. Avventure di una marionetta e Il silenzio dei persecutori, tutti editi a Bologna da Il Mulino. All’inizio di un suo recente articolo, Escobar scrive: «Racconta Giulio Cesare Croce ne Le sottilissime astuzie di Bertoldo – Le piacevoli e ridicolose simplicità di Bertoldino che Bertoldo a ogni smargiassata e soperchieria di re Alboino, rimedia con uno sberleffo, una battuta, un gestaccio, uno sghignazzo. Bertoldo ha in questo il conforto di ben più antichi modelli e i re per lo più stanno al gioco. I re non mandano a dire a gendarmi e maggiordomi, ad attendenti e uscieri di levargli di torno i buffoni. Anzi, se li tengono accanto e ben stretti, certo anche perché li aiutino a vincere la noia di gendarmi e maggiordomi adulatori, a liberarsi dall’uggia di attendenti e uscieri leccapiedi. Non a caso son re di vaglio. Per questo sanno bene che lo sghignazzo è necessario ed addirittura utile al potere, per quanto talvolta possa risultargli scomodo. Piuttosto, è tra i cortigiani – gendarmi, maggiordomi, attendenti e uscieri – che lo sghignazzo non gode di buona stampa. Chi è abituato a chinare il capo prima ancora che glielo si ordini, chi ha i calli alle ginocchia e li mette bene in mostra, chi affida le proprie fortune e la propria carriera all’entusiasmo dell’obbedienza, non sopporta che altri s’entusiasmino invece per il fragore libertario d’una pernacchia, per la fierezza sulfurea d’una battuta. E infatti sono i cortigiani che, in più di un’occasione, tentano di convincere Alboino a licenziare Bertoldo. Quel che non sopportano è proprio che il buffone non pieghi la schiena davanti al re, e tanto meno l’anima» (Dalla rivista Il Mulino, 2002, n. 6, p. 1037).

CI VOGLIONO I COMICI. Bisogna proteggerli, i comici, perché sono come santi, sono un regalo del Cielo… I comici sono una cosa bellissima, loro infrangono le regole, fanno quello che gli pare, sono viziati come bambini, ricchi d’amore, non gli importa nulla, si farebbero ammazzare per quello che amano. Contrabbandieri senza licenza, hanno il potere di far piangere e ridere: il potere più grosso del mondo… Non li si può imprigionare. Non c’è verso di tenerli boni (Roberto Benigni).

PREGHIERE DEL NOSTRO TEMPO. O Maria, com’è immodesto l’uomo. Maria, / ci sono dei venti / che ardono e gemono in noi, / e dividono le nostre intime parti / in tanti flagelli / e ci rompono le ossa / e sono le tentazioni, / i progetti sbagliati, / le orme indisciplinate, / i feretri dei morti / che secondo noi non hanno resurrezione. // Quanto è immodesto l’uomo / che pensa che l’inverno congeli tutto / e non spera nella primavera. // L’uomo beve il proprio odio / come un buon vino, / e più odia e più si sente ebbro, / e più si sente ebbro / più abbandona le rive della tua giovinezza (Alda Merini, Magnificat, un incontro con Maria, Milano 2002).

 7 febbraio 2003.

 LINEA RECTA BREVISSIMA. La discrezione di Dio. Il vero Dio è discreto. Di qui l’urgenza per la Chiesa di porsi in prima linea nella difesa della libertà di coscienza ovunque e non solo dove i cristiani sono emarginati o perseguitati. Amare Cristo. Chi ama Cristo sa amare tanto gli uomini da comprenderli e da desiderare a ciascuno, in un mondo rinnovato da loro stessi, l’onore, la coscienza libera, la giustizia. (Giulio Bevilacqua, 1881-1965, padre oratoriano della Pace di Brescia)

UN VALORE PROCLAMATO E APPARENTEMENTE CONDIVISO. Nel corso degli anni 1980 e 1990 la questione della uguaglianza tra i sessi è stata largamente occultata, a causa dell’aumento delle disuguaglianze sociali e della disoccupazione, ma anche delle rapide trasformazioni nella collocazione delle donne nella società e nella soppressione degli arcaismi giuridici che in precedenza consacravano un trattamento disuguale degli uomini e delle donne Tuttavia, malgrado miglioramenti incontestabili, l’uguaglianza di fatto tra donne e uomini è ben lontana dall’essere acquisita, tanto più che i miglioramenti si accompagnano spesso a effetti perversi che rafforzano l’oppressione femminile. Il posto delle donne nella società appare per questo del tutto contraddittorio e aperto a possibilità multiple, anche perché gli incontestabili progressi raggiunti negli ultimi decenni restano incompleti e fragili.

A scrivere così non è una femminista radicale di quelle che non sono più di moda. E non si sta parlando dell’Italia, anche se le somiglianze sono forti e la condizione femminile nel nostro Paese è ben più precaria. A scrivere queste parole sono due sociologi francesi, Alain Bihr e Roland Pfefferkorn, in un recente volume, Homme, Femmes, quelle égalité? (Paris 2002).

LA CONDIZIONE FEMMINILE OGGI: NONOSTANTE I MIGLIORAMENTI, SI SVILUPPANO NUOVE FORME DI SUBORDINAZIONE. Una studiosa italiana di grande valore, Chiara Saraceno, ha analizzato in un articolo apparso su La Stampa del 4 gennaio 2003 le tesi dei due sociologi francesi, mettendone in rilievo la rigorosa fondatezza. Nella nostra società a livello formale tutti, o quasi tutti, riconoscono l’uguaglianza tra i sessi, ma nella realtà si deve parlare di uguaglianza introvabile, perché le disuguaglianze persistono in forme aggiornate e sono prodotte in maniera sistematica e cumulativa dall’incrocio tra il permanere di fattori tradizionali negativi e gli effetti perversi imprevisti dei miglioramenti conquistati di recente. Ad esempio, la persistente divisione squilibrata del lavoro familiare produce vantaggi e svantaggi simmetrici per gli uomini e le donne sul mercato del lavoro. Le maggiori difficoltà che le donne incontrano nel mercato del lavoro, a loro volta, scoraggiano molte a investire nella vita professionale, rifugiandosi così esclusivamente nel lavoro familiare. Le stesse politiche sociali spesso incoraggiano questa scelta, specie nel caso delle donne e delle famiglie a basso reddito, fornendo incentivi all’abbandono del lavoro anziché fornire servizi e opportunità di miglioramento delle proprie capacità. Questa possibilità è in realtà di dubbio valore e dà esiti assai discutibili, in quanto rende le donne vulnerabili alla povertà ed economicamente del tutto dipendenti dai mariti. Ed è scandalosamente sotto gli occhi di tutti il fatto che la politica e i luoghi di decisione continuano a rimanere saldamente in mano agli uomini, nonostante le tanto conclamate riforme costituzionali in tema di parità.

RIFLESSIONI CONCLUSIVE. Condivido in pieno le riflessioni conclusive di Chiara Saraceno sul tema della uguaglianza tra i sessi nella nostra società e le riporto integralmente. «Uguaglianza non significa identità priva di differenziazione. Significa possibilità uguale di sviluppare le proprie capacità e di sviluppare le proprie differenze individuali. Eliminare la disuguaglianza significa perciò eliminare una gerarchia di rilevanza, significati, poteri che decide a priori, e fin nell’intimo, dei destini individuali. Ciò comporta la trasformazione dei modelli e delle pratiche maschili tanto, se non più, di quelle femminili. Finché penseremo che c’è uguaglianza solo quando le donne faranno le ingegnere aeronautiche nella stessa proporzione degli uomini e non anche che occorre agli uomini sviluppare vocazioni e competenze nel campo della cura e delle relazioni interpersonali, assumendo in esso la propria quota di responsabilità, l’uguaglianza rimarrà lontana, se non impossibile».

13 febbraio 2003.

 LINEA RECTA BREVISSIMA. La saggezza. La saggezza è la moderazione che nasce non dall’orrore per l’eccesso, ma dall’amore per il limite. La coerenza. La coerenza autentica delle nostre idee non deriva dal ragionamento che le unisce, ma dall’impulso spirituale che le genera. Sviluppo è approfondimento interiore. L’anima cresce verso l’interno. (Nicolàs Gòmez Dàvila)

I regali dell’italica furbizia. Nel conto finale del 2002 la somma di innumerevoli colpi di mano di individui e categorie nell’aumentare i prezzi, a proprio vantaggio, si è tradotta in un pesante danno per tutti (Levi Appulo). Non si rischia più di passare per spie del Kgb. La linea di faglia tra pacifisti e non, tra filo e antiamericani, ora spacca a zig zag le zolle politiche e ideologiche tradizionali. Seppellita l’Unione Sovietica, a dir male degli Stati Uniti non si rischia più di passare per spie del Kgb. Ci sarà pure una ragione se un arciatlantico come Sergio Romano prende le distanze dalla strategia di Bush. La viltà, il conformismo degli intellettuali non sono spiegazioni sufficienti (Riccardo Chiaberge).

LA GABBIA DEL MECCANICISMO E IL SENTIMENTO DELLA VITA. La convinzione profonda e cosciente che la natura è una realtà non solo rappresentabile, ma anche vivente, libera il poeta da quella spaccatura fra una concezione astratta del mondo e il suo modo di sentirlo e viverci dentro. Accettando, invece, passivamente il presupposto meccanicistico, come se si trattasse di una verità scientifica indiscutibile, quegli insostituibili amanti della bellezza che sono i poeti rischiano di non credere più nella loro ispirazione e nel loro mestiere. Chi ha colto nel segno la portata distruttiva di questa scissione interiore è stato Vladimir Sergeevič Solov’ëv, autore non solo di opere teoretiche su La bellezza nella natura, Il significato generale dell’arte, Primi passi verso un’estetica positiva, ma anche di illuminanti saggi critici dedicati ad autori russi. Alcuni di essi sono stati tradotti in italiano e pubblicati col titolo Scritti letterari. Saggi inediti di letteratura ed estetica (Cinisello Balsamo, 1995).

«Come artisti – scrive Solov’ëv nel saggio dedicato alla poesia di Fëdor Ivanovič Tjutčev – i poeti ci trasmettono la vita e l’anima della natura, ma nonostante ciò nel loro intelletto sono convinti che essa è senza vita e inanimata, che il loro sentimento e la loro ispirazione li ingannino, che la bellezza è solo un’illusione soggettiva. È chiaro che in presenza di una tale sfiducia degli stessi poeti nel loro mestiere i semplici mortali imparano a considerare la poesia e la bellezza artistica in generale come un’invenzione oziosa e di ogni idea che s’innalza sulla piattezza della vita dicono: Questa è solo poesia!”, intendendo: Queste sono solo cose sciocche e vane. E allora chi effettivamente si sforzerà di attribuire un significato serio all’arte se persino i suoi stessi sacerdoti vedono in essa solo una graziosa invenzione?».

IL MESTIERE DELLA POESIA. «Il mestiere della poesia come quello dell’arte in generale – continua il grande pensatore russo – non consiste nell’abbellire la realtà con meditazioni piacevoli di pura immaginazione, come si diceva nelle antiche definizioni, ma nell’incarnare in immagini percettibili il senso più alto della vita. Al senso artistico si rivela immediatamente, sotto forma di bellezza percettibile, ciò che in altre attività dello spirito si giunge a cogliere come verità e che nella vita morale si presenta come esigenza incondizionata di coscienza e dovere».

L’ANGOLO DELLA POESIA. La raccomandazione. Il soldato e sua moglie / parlavano insieme, vicini. / Lui per ultima frase le disse: // Non so / se presto o tardi / sarò ucciso, / ma se vuoi consolarmi / nel regno degli spiriti, / pensa a educare bene / nostro figlio (Liu Chi, poeta cinese del secolo XIV).

20 febbraio 2003.

LINEA RECTA BREVISSIMA. Come muore una civiltà. Una civiltà non crolla come un edificio, si direbbe molto più esattamente che si svuota a poco a poco della sua sostanza finché non ne resta più che la scorza (Georges Bernanos). Per una definizione generale della civiltà. Una società è civile se si adorna delle cinque qualità di verità, bellezza, avventura, arte, pace (Alfred North Whitehead).

I DIECI GIUSTI E LA SALVEZZA DELLA CITTÀ. Nel primo dei due Testamenti vi sono pagine di straordinaria profondità in cui l’Occidente farà bene a cercare le proprie origini e insieme la configurazione di una condotta di vita e di ideali capaci di cambiare il mondo. Una di esse è quella sui dieci giusti e la salvezza della città, che si legge in Genesi 18, 20-33. Bisogna, dunque, fermarsi a leggere e rileggere quella pagina in cui Abramo, solitamente di poche parole, ingaggia un confronto serrato che si articola in sei domande. Nella prima chiede a Dio: «Forse vi sono cinquanta giusti nella città: li vorrai sopprimere?». Ripropone poi la domanda, abbassando ogni volta il numero: dapprima di cinque unità e nelle ultime tre richieste di dieci unità. Fino a fermarsi a dieci giusti, il numero legale minimo per lo svolgimento del minian, la riunione in Sinagoga; il numero minimo che rappresenti un gruppo sociale. La risposta del Signore è questa: se ci saranno dieci giusti, la città sarà risparmiata dalla distruzione e anche i colpevoli saranno perdonati. Su quel brano mirabile ha portato la sua attenzione Giovanni Bazoli in una conferenza tenuta a Brescia il 26 novembre 2002; avendo tra le mani il testo di quella lezione, mi è caro proporre ai lettori alcuni passaggi.

«Nella forma sorprendente – scrive Bazoli – di una domanda rivolta direttamente a Dio Abramo pone una questione che è cruciale anche nell’ordine etico e giuridico: come sanzionare le colpe collettive senza punire gli innocenti? Quando il comportamento che viola le regole della convivenza è posto in essere non da un singolo individuo, come accade negli ordinamenti interni, ma da una collettività, da uno Stato, come punire i responsabili senza colpire i giusti? È separabile la responsabilità collettiva di un popolo da quella dei capi? E, quando non lo è, come può essere sanzionata senza che la punizione ricada sull’intero popolo? Tema da sempre irrisolto. Negli ordinamenti interni agli Stati le violazioni, poste in essere da singoli individui, vengono sanzionate con mezzi coercitivi che sono inevitabilmente atti di forza, che però colpiscono soltanto i responsabili. Nell’ordine internazionale, invece, l’esigenza di reprimere l’illegalità, cioè di ripristinare la giustizia violata da uno Stato, viene soddisfatta quasi sempre attraverso il ricorso alle armi, cioè attraverso una misura di violenza radicale e indiscriminata, come è la guerra, la quale coinvolge nella punizione gli innocenti insieme ai colpevoli. Ciò è evitabile o meno?».

UNA SVOLTA DI STRAORDINARIA PORTATA. «Il passo della Genesi, considerato nel quadro culturale in cui si colloca, segna una svolta di straordinaria portata nella storia dell’umanità. L’ordine concettuale e valoriale della responsabilità collettiva, che era connaturato alla cultura e all’etica del mondo antico, viene affiancato da quello della responsabilità individuale, rispondente alle nuove prospettive che proprio con il patriarca Abramo si sono aperte al riconoscimento della dignità di ogni singola persona umana. Ma c’è di più: la stessa idea di responsabilità collettiva viene riproposta da Abramo in un senso ribaltato rispetto a quello tradizionale. Al posto della solidarietà nella colpa, secondo cui le colpe dei malvagi ricadono sull’intera comunità e vengono quindi espiate anche dai giusti, è invece riconosciuta ai meriti di questi ultimi un’efficacia salvifica, che si dispiega anche a vantaggio dei colpevoli».

POESIA DEL NOSTRO TEMPO. Non l’istante, ma la durata reale. Non ha senso l’istante. Ne ha il tempo, / ne ha la misteriosa / continuità di esso… (Mario Luzi). Il cielo che s’accende. Il cielo che s’accende / di porpora, / prima che il sole ceda il suo oro, / è offerta senza parola / d’Infinito / e suo presentimento (Levi Appulo).

27 febbraio 2003.

LINEA RECTA BREVISSIMA. Chi vuol solo comandare queste cose non vuol capirle. 1. Solo se ci contraddicono possiamo affinare le nostre idee. 2. Una convinzione si irrobustisce solo quando la nutriamo di obiezioni. 3. Ogni verità è tensione fra evidenze contrarie che esigono simultaneo rispetto (Nicolas Gomez Davila). Tre sorta di uomini. In tutti i paesi ho veduto gli uomini sempre di tre sorta: i pochi che comandano; l’universalità che serve; e i molti che brigano (Ugo Foscolo). L’ira funesta. Le conseguenze della collera sono molto più gravi delle sue cause (Marco Aurelio).

IL RUOLO DELLE MINORANZE IN UNA SOCIETÀ DEVIATA. Il tema affrontato nella pagina del Primo Testamento su «i dieci giusti e la salvezza della città» (Genesi 18, 20-33) ha risvolti di straordinaria portata, uno dei quali riguarda il ruolo salvifico che vi è attribuito alle minoranze: i dieci giusti appunto, la cui presenza, se si fosse verificata, avrebbe indotto il Signore a salvare la città intera dalla catastrofe annunciata. Ma chi sono i dieci giusti per i quali il Dio d’Israele può ben accordare la salvezza al popolo? La risposta che dà all’interrogativo Giovanni Bazoli nella sua riflessione sul celebre passo della Scrittura ci pare degna di riflessione.

«I giusti sono i cittadini che, per mantenersi fedeli a un codice di valori etici, vengono a trovarsi nella condizione di vivere ed operare in opposizione agli orientamenti prevalenti nella società. Minoranze in contesti politici, ma anche e soprattutto minoranze in contesti culturali, ideologici, di costume. Molte pagine della Sacra Scrittura attribuiscono a minoranze emarginate di uomini retti – il sale della terra o, per usare la definizione di Isaia, il resto di Israele – il compito di salvare intere popolazioni. Ma ci dobbiamo chiedere ancora una volta se si tratti di una prospettiva che interessa solo l’ordine sovrannaturale o anche quello temporale. La virtù – e si può anche dire la santità – di pochi può preservare dalla rovina i molti? Se guardiamo al nostro tempo dobbiamo constatare che il ruolo delle minoranze è reso particolarmente arduo e sacrificato in un contesto come quello attuale. La manipolazione del consenso, anche in forza del potere condizionante dei mezzi d’informazione, è la minaccia più grave che incombe oggi sulla democrazia. La scelta di obiettivi tarati sul minimo comun denominatore d’interessi immediati ed egoistici risulta mortificante per ogni progetto politico, ma rappresenta la strada più sicura per assicurarne il successo, in termini di audience o di voti. Chiaramente qui non è in gioco la fiducia nel popolo, sulla quale si fonda la democrazia. Ma, in certi momenti, quando l’influenza di tendenze negative risulta prevalente, occorre ribellarsi all’imperativo del consenso quale metro unico di valutazione dei comportamenti, parlare fuori dal coro, parlare da profeti. Questo rischio di degenerazione del sistema democratico era avvertito già da Montesquieu: Non ci vuole molta probità – scriveva – perché un governo monarchico o un governo dispotico si mantenga o si sostenga: la forza delle leggi nell’uno, il braccio sempre alzato nell’altro, regolano e tengono a freno tutto. Ma in uno Stato popolare, occorre una molla ulteriore, che consiste nella Virtù”».

L’ANGOLO DELLA POESIA. L’arma segreta. Tutto vi hanno tolto, / fratelli miei! / Ma io vi dico: / lasciate il fucile a retrocarica / e datevi alla penna. / Prendete carta e inchiostro, / perché questo è il vostro scudo. // I vostri diritti scompaiono! / Perciò prendete la penna, / caricatela, caricatela d’inchiostro. / Sedetevi al tavolo, / non nascondetevi, ma sparate con la penna.

L’autore, il poeta I. W. W. Cithashe, è del Mozambico, una colonia in cui la prepotenza e i soprusi dei portoghesi furono di eccezionale gravità. Ma Cithashe non crede al moltiplicarsi di rivolte isolate ed esorta al risveglio di una coscienza che diventi forza di liberazione per tutta la comunità. Risveglio che si ottiene unicamente con la parola e gli scritti.

6 marzo 2003.

LINEA RECTA BREVISSIMA. Ai ricchi raccomanda. Ai ricchi di questo mondo raccomanda di non essere orgogliosi e di non riporre la speranza nell’instabilità delle ricchezze (San Paolo).

Preziosi gli amici. In tutte le cose umane nulla è caro all’uomo senza un amico. Il nostro vero nutrimento. L’uomo vive di tutto ciò che ama. (Agostino)

SIMON WIESENTHAL, IL MOMENTO DELLA DECISIONE. In questi giorni son tornato a rileggere un volumetto, Per una cultura della pace, edito dalla Morcelliana nel 1986, in cui avevo raccolto gli interventi di quattro illustri ospiti su quel grande tema. Memorabile quello di Simon Wiesenthal, che svolse la relazione affidatagli, «La giustizia internazionale condizione di pace», raccontando in qual modo fosse giunto, passando da un lager all’altro, e poi nell’immediato dopoguerra, a maturare le sue convinzioni. Il testo di quella conferenza oggi è forse introvabile in libreria, ma può agevolmente essere recuperato nella sua interezza attraverso internet (www.ccdc.it).

Quando fui liberato dal campo di concentramento ero uno dei tanti scheletri viventi; io sono alto 1,80 e pesavo 44 chili. Venni fotografato dagli americani che mi avevano liberato e mi chiesero chi ero, da dove venivo, che cosa facevo. Risposi che ero architetto; allora mi venne detto che sarei stato portato in un sanatorio e dopo sarei tornato in Polonia a costruire case. Mi guardai attorno e, vedendo tanti altri scheletri viventi, mi venne spontanea una domanda: «Si può dopo Auschwitz continuare la vita al punto in cui è stata interrotta con violenza. Naturalmente no. Per caso venni a sapere che la commissione che si occupava dei crimini di guerra era proprio in quel campo di concentramento. Sperai così di poter realizzare il sogno che avevo nutrito nei lager. Contattai gli americani, spiegando loro che non sarei potuto tornare in Polonia perché tutto, in quel paese martirizzato, ogni località, ogni sasso, ogni albero mi avrebbe ricordato ciò che ora non esisteva più. Quando si è perso tutto, ci si rende conto che per vivere non basta avere qualche cosa da indossare, da mangiare o un tetto sotto cui ripararsi. Per vivere è necessario aiutare gli uomini a costruire la giustizia, perché senza giustizia non può esserci libertà e senza libertà non può esserci pace. Forse allora ero un po’ naïf. Ero, infatti, convinto che sarebbero bastati tre o quattro anni per creare una nuova società, per punire i grandi criminali di guerra e pensavo poi di tornare al mio lavoro di architetto. Non avrei mai immaginato che la mia sete di giustizia e l’attività che essa comportava mi avrebbero preso totalmente la vita.

IL GIORNO PIÙ BRUTTO DOPO LA GUERRA. Ed ecco un altro passo indimenticabile della relazione di Wiesenthal. Ho trascorso quattro anni e mezzo in dodici diversi campi di concentramento. Alcuni mesi dopo la guerra, quando ritrovai mia moglie, la prima sera che fummo insieme, ci mettemmo a fare un elenco delle persone care ancora in vita e ci accorgemmo che solo nelle nostre due famiglie erano morte 89 persone. Il giorno più brutto dopo la guerra fu quando mia figlia, che allora aveva dieci anni, venne a casa poco prima di Natale e mi chiese: «Ma noi che gente siamo? Perché tutti i miei compagni [lei era l’unica bambina ebrea nella sua scuola] hanno nonni, zii e cugini da andare a trovare a Natale e noi non abbiamo nessuno. Questa è stata l’unica volta che ho pianto: non avevo, infatti, il coraggio di spiegare a una bambina di dieci anni perché non aveva più nessuno. Telefonai così ad un amico di Vienna di chiamare il giorno dopo, spacciandosi per un suo cugino. E l’imbroglio andò avanti quattro anni, durante i quali tra i miei amici mi inventai parenti distribuiti in tutto il mondo. Solo a quattordici anni, quando mia figlia fu in grado di capire, ebbi il coraggio di raccontarle tutta la verità.

L’ANGOLO DELLA POESIA. Preghiera. Signore dei miei giorni! Dall’anima smarrita / il serpe dell’orgoglio tieni sempre lontano, / e la fiera ambizione e ogni spirito vano: / ma fammi contemplare, Signore, ogni mio vizio, / fa’ che da me il fratello non patisca giudizio, / ed un genio discreto risvegliami nel cuore / d’umiltà e di purezza, di castità e d’amore (Alessandro Puskin).

 13 marzo 2003.

LINEA RECTA BREVISSIMA. Pungono come spine. Più che redarguire chi è afflitto da sospetti, bisogna aiutarlo a guarirne. I sospetti, infatti, ci pungono come spine. Col cuore oltre questa vita transitoria. La vita eterna annoveri te fra i suoi innamorati. (Agostino)

LE RADICI DELLA NOSTRA CULTURA SONO ANCHE NEL MONDO DELL’ANTICHITÀ CLASSICA. Nel primo volume mondadoriano delle Prose di Giovanni Pascoli ci sono molte pagine in cui il poeta difende con passione il grande lascito della civiltà greca e latina. Mi piace citare in particolare la risposta che egli indirizzò all’allora ministro della Pubblica Istruzione che aveva messo in discussione discipline e metodi dell’istruzione classica. «È vero, è purtroppo vero, che da molti, da troppi si parla contro il greco e contro il latino. E contro l’antico italiano? Contro Dante? Eh! Io non vedrei davvero con quali ragioni si potesse difendere lo studio della Divina Commedia contro chi avesse costrette alla fuga l’Eneide e l’Iliade… Lingue morte! Letterature antiche! Antiche e pur sempre moderne e recenti. Qual letteratura è antica, se il pensiero antico vive, con modi appena mutati nella nuova; o, a dir meglio, qual letteratura non è antica se quella che si dice nuova agita a mano a mano ancora l’antica vita. Pascoli scriveva queste cose nell’ultimo decennio dell’Ottocento e forse non tutti sanno che egli è il più grande poeta latino dell’età moderna. Chi voglia rendersene conto può leggere i suoi Poemi cristiani.

WIESENTHAL, UN CRITERIO LUMINOSO E UNA TESTIMONIANZA PERSONALE. Primo. Io non sono nemico degli arabi, non sono nemico di particolari nazioni e anzi, subito dopo la guerra, sono stato contrario ad addossare il concetto di colpa collettiva al popolo tedesco per i crimini compiuti dal nazismo. La Bibbia ci dà più di un esempio al riguardo e ci insegna a non criminalizzare mai un’intera nazione. Abramo chiede a Dio di non distruggere una città intera perché in essa ci potrebbero essere cinquanta, venti o anche dieci persone rette che non meritano di essere punite e la Bibbia, ricordiamolo, ci offre un insegnamento che deve valere per sempre. Quando io, nei miei viaggi, vado in Israele o quando parlo a studenti arabi in America dico sempre: ebrei e arabi sono costretti, condannati a vivere insieme e quindi bisogna che parlino tra loro per affrontare il futuro insieme e non gli uni contro gli altri.

Secondo. Desidero concludere questa mia conversazione a Brescia, recandovi ancora una testimonianza personale. Nel 1947 mi dissero che in Carinzia c’era un castello con una immensa biblioteca piena di libri ebraici. In effetti sapevo che in molti castelli i nazisti avevano nascosto questi libri perché avevano intenzione, una volta estirpata la razza ebraica, di documentarne l’esistenza attraverso un museo. Oltre ai libri avevano conservato moltissime fotografie e persino scheletri. In una fredda giornata di marzo nel 1947, io e tre rabbini ci siamo recati al castello e ci siamo accorti che era effettivamente stracolmo di libri ebraici, dalla cantina al solaio. Ci saranno stati più di diecimila libri. A un certo punto ho sentito un tonfo: mi sono girato e ho visto che uno dei tre rabbini era svenuto. Una volta ripresosi, mi mostra un libro. Era il libro sacro della sua famiglia, con una dedica di sua sorella che portava questa scritta: «Chi trova questo libro deve consegnarlo a mio fratello. Gli assassini sono già qui intorno alla nostra casa ed è importante che mio fratello non si dimentichi degli assassini». Il messaggio scritto da una sorella per suo fratello io lo sento come un messaggio che ci viene da tutti i morti. Esso è come un testamento universale recante un preciso monito: Non dimenticateci e non dimenticate i nostri assassini. Quel giorno decisi che, finché avrò vita, eseguirò quel testamento che ci è affidato da milioni di vittime innocenti.

Simon Wiesenthal parlò a Brescia nel Salone Vanvitelliano il 15 ottobre 1985.

 20 marzo 2003.

LINEA RECTA BREVISSIMA. La pietà e il sapersi accontentare. La pietà è un gran guadagno se unita al sapersi accontentare. Nulla possiamo portar via con noi da questo mondo e, dunque, se abbiamo quanto ci è necessario, accontentiamoci. Quelli che vogliono diventare ricchi incappano nel laccio di molteplici desideri insensati e dannosi, perché la radice di tutti i mali è la cupidigia del denaro. La legge della vita spirituale. La forza si perfeziona nella debolezza. (San Paolo)

L’IDEA DI SÉ DI CUI LA DEMOCRAZIA HA BISOGNO. Una società di uomini liberi suppone alcuni principi fondamentali che sono al cuore stesso della sua esistenza. Una democrazia autentica implica il consenso degli spiriti e delle volontà su ciò che concerne le basi della vita comune; essa è cosciente di se stessa e dei suoi principi e dev’essere capace di difendere e promuovere la propria concezione della vita sociale e politica. La democrazia deve creare all’interno di se stessa un credo umano comune, il credo della libertà. L’errore del liberalismo borghese è stato ed è quello di concepire la società democratica come una specie di campo chiuso o di arena, in cui tutte le concezioni concernenti le basi della vita comune, anche le più distruttive per la libertà e la legge, incontrano l’indifferenza del corpo politico, mentre per l’opinione pubblica esse si contendono l’egemonia in una specie di libero mercato delle idee-madri, sane o malate, della vita politica. Non c’è da stupirsi quindi se prima dell’ultima guerra mondiale, nei paesi in cui la propaganda fascista, razzista o comunista lavorava a intorbidare o a corrompere, essa non fosse diventata che una società priva di qualsiasi concetto di sé, senza fede in se stessa, senza una fede comune che le potesse permettere di resistere alla disintegrazione. Questa fede e questa ispirazione, questa idea di sé di cui la democrazia ha bisogno, tutto questo non appartiene all’ordine del credo religioso e della vita eterna, ma all’ordine temporale della vita terrena, della cultura e della civiltà. La fede in questione non è una fede religiosa, né una contraffazione di essa, o una caricatura dei valori spirituali come la «religione civile» di Rousseau, laicizzazione di un minimo di credenza religiosa vuotato della sua sostanza e imposto a tutti in nome del popolo e dello Stato. Essa è, invece, un insieme di convinzioni dello spirito e del cuore, una fede temporale nei principi e nelle leggi essenziali per vivere insieme, da persone civili, nella città terrena. Il suo scopo è umano e umano è il suo oggetto perché una democrazia autentica non può imporre ai suoi cittadini o esigere da loro, come condizione di appartenenza alla città, un credo filosofico o religioso.

QUELLI CHE VIVONO COME A LORO PARE E PIACE… «Tu potresti domandarmi in che consista precisamente la vita felice e in questo problema molti filosofi hanno consumato il loro ingegno e il loro tempo… Credi forse che si debba dar ragione a quelli che affermano che è felice chi vive secondo la propria volontà? E che avverrebbe se qualcuno volesse vivere da malvagio? Non si avrebbe allora la prova che si è tanto più infelici quanto più facilmente uno può compiere la sua malvagia volontà? Hanno respinto una simile opinione perfino quelli che ragionavano da filosofi senza adorare Dio. Difatti uno dei più eloquenti di essi si espresse in questi termini: Alcuni, che non sono certamente filosofi ma sono pronti a discutere, asseriscono che felici sono tutti quelli che vivono come a loro pare e piace. Ma questo è un errore, perché volere ciò che non conviene alla propria dignità è senz’altro la cosa più miserevole, e il non ottenere ciò che si vuole non è cosa tanto miserevole quanto il voler ottenere ciò che non conviene. Che ti sembra di queste parole? Non sono state forse pronunciate dalla stessa verità per bocca di un uomo qualunque?». Queste parole qui riportate sono di Cicerone e fanno parte dei frammenti dell’Hortensius. Lo stesso passo di Cicerone ricorre in tre scritti diversi di sant’Agostino: nel De beata vita 3, 10, nel De Trinitate 5, 8 e nella Lettera 130, 5, 10 da cui traggo la citazione.

LO STADIO E L’INCAPPUCCIATO. La dittatura militare del Cile aveva trasformato in carcere lo stadio di calcio, lo Stadio Nazionale. Migliaia di prigionieri erano il pubblico di una partita invisibile. Seduti sulle tribune, aspettavano che si decidesse il loro destino. Un incappucciato girava per le gradinate. Nessuno gli vedeva il volto; lui vedeva il volto di tutti. Quello sguardo sparava proiettili: l’incappucciato, un socialista pentito, camminava, si fermava e indicava col dito. Gli uomini da lui segnalati, che erano stati suoi compagni, venivano allora presi e torturati, o andavano incontro alla morte (Eduardo Galeano).

 27 marzo 2003.

LINEA RECTA BREVISSIMA. Desiderare cose migliori. Abituiamoci a desiderare cose migliori (Agostino). So di essere stato un uomo. Io non so se sono stato un poeta, ma so di essere stato un uomo; perché un uomo deve molto amare, deve molto soffrire. Può sbagliare, ma deve riconoscere il suo errore e, soprattutto, non deve odiare nessuno. Io ho molto amato, molto sofferto, ho commesso degli errori che ho saputo riconoscere, e non ho odiato mai (Queste parole le pronunciò Giuseppe Ungaretti, due anni prima della morte, in occasione dei suoi ottant’anni). Problema gravissimo, il potere dei media. Occorre indurre i media a riconoscere e a dire la verità, a vedere i pericoli che loro stessi nascondono, a sviluppare, come tutte le istituzioni sane, un’autocritica e infine a correggersi. È un compito nuovo per loro. Il danno che provocano attualmente è grande (Karl Popper).

IL TRAMITE LINGUISTICO È STATO IL LATINO. Se la civiltà occidentale è stata sagomata da tre grandi influssi formatori – Atene, Roma, Gerusalemme – il tramite linguistico è stato il latino. La letteratura europea scrive per molti secoli in latino e poi dal latino mutuano temi e topoi le letterature nazionali; le lingue europee, anche quelle non romanze, modellano sul latino o sulle lingue neolatine le loro capacità produttive, morfologiche, semantiche e lessicali. Senza il latino non esisterebbe un «lessico europeo». E Dio sa quanto bisogno abbia l’Europa di rinsaldare la propria identità culturale, presupposto del difficile processo di unificazione economica e politica. Ecco, dunque, cos’è il latino: l’indispensabile strumento per riappropriarci del nostro passato di italiani e di europei, per vivere meglio il nostro futuro di italiani e di europei. Perché, dunque, abbiamo bisogno del latino? Perché siamo italiani e europei, e non possiamo quindi non essere «latini», così come non possiamo, come disse Benedetto Croce, non essere «cristiani». Si è in parte quel che si è stati e si sarà in parte quel che si è.

Queste riflessioni sono di un maestro di cultura umanistica del nostro tempo, Alfonso Traina. Le pubblicò per la prima volta nel 1983, ristampandole nel 1991. Suonano sempre valide.

POESIA DEL NOVECENTO. Mio fratello aviatore. Avevo un fratello aviatore. / Un giorno, la cartolina. / Fece i bagagli e via / lungo la rotta del sud. // Mio fratello è un conquistatore. / Il popolo nostro ha bisogno / di spazio. E prendersi terre su terre, / da noi, è un vecchio sogno. // E lo spazio che s’è conquistato / è sui monti di Guadarrama. / È di lunghezza un metro e ottanta, / uno e cinquanta di profondità (Bertold Brecht da Poesie e canzoni, Torino 1959).

L’ANGOLO DELLA PREGHIERA. All’inizio del nuovo giorno. O Gesù, sole di salvezza, rifulgi nell’intimo dei cuori ora che, passata la notte, più gradito rinasce il giorno nel mondo. / Dandoci un tempo di misericordia, concedici di purificare il nostro cuore, per offrirtelo con lavacro di pianto, perché la carità, lieta, lo bruci. / Viene il giorno, il tuo giorno, nel quale tutte le cose rifioriscono: anche noi ci allietiamo ricondotti dalla tua mano sulla tua via. / Ti adori prostrato, clemente Trinità, l’universo intero; e noi, fatti nuovi dalla tua grazia, canteremo a Te un cantico nuovo.

Questo bellissimo inno è stato scritto da uno dei più grandi santi, Gregorio Magno, che fu papa dal 590 al 604.

3 aprile 2003.

LINEA RECTA BREVISSIMA. Il disinteresse. La carità non cerca le cose che sono di interesse personale (San Paolo). Il pericolo c’è. Ti scongiuro che la nostra discussione non renda oscure cose che sono chiarissime (Agostino). Il silenzio conta. Ho scoperto che basta a volte una sola nota ben suonata o una pausa. Quest’unica nota, questa battuta vuota, questo momento di silenzio contano (Arvo Pärt, compositore).

Che cos’è l’ortodossia? L’ortodossia è la tensione tra due eresie. Tutto è contemporaneo. Per il lettore che sa leggere tutta la letteratura è contemporanea. (Nicolas Gòmez Dàvila)

IL VADEMECUM ETICO-POLITICO DI DARIO ANTISERI. Dario Antiseri è una delle personalità di rilievo del nostro panorama filosofico ed è altresì colui che ha fatto conoscere in Italia sia Karl Popper epistemologo e filosofo della democrazia, sia gli economisti e i pensatori della scuola austriaca i cui capifila sono Friedrich von Hayek (1899-1992) e Ludwig von Mises (1881-1973). Poche settimane fa ha pubblicato un volumetto di un centinaio di pagine, Princìpi liberali (Soveria Mannelli 2003) in cui, sotto forma di massime e citazioni, non solo ci dà tutto l’essenziale del pensiero autenticamente liberale, ma ha modo di dare una risposta alle menzogne del falso liberalismo. Portiamo qualche esempio. Chi ha i voti per farsi valere e pensa sinceramente di essere infallibile, finisce con l’assumere di conseguenza atteggiamenti autocratici, restringendo de facto et de iure sempre più lo spazio della discussione pubblica e il ruolo che in essa deve avere la minoranza. Ebbene, il punto di partenza, il vero principio fondante del liberalismo, è, al contrario, la consapevolezza lucida dei limiti della fallibilità umana e dunque anche della fallibilità propria e della parte politica in cui in qualche modo ci si affida votandola. «Razionale – diceva Popper – è una persona a cui importa più di imparare che di avere ragione» ed è solo l’aperto dibattito tra visioni diverse che può metterci al riparo da esiti inevitabilmente autoritari e dunque disastrosi. Il vero liberale è quindi costitutivamente estraneo alla tentazione di pensare a se stesso come all’uomo del destino a cui tocca il pesante fardello sia di aver sempre ragione, in un Paese in cui tutti gli altri (poco importa se alleati e oppositori) sono solo teste piene di vento. Statista liberale è, invece, colui che in ogni situazione storica lavora senza sosta a individuare e costruire le regole di un’ordinata convivenza, rafforzando le istituzioni che permettono di controllare chi comanda. Questo è il nocciolo del buon governo ed è il solo criterio autenticamente liberale con cui si deve esercitare il potere. Contro le aberrazioni dello statalismo il liberale rivendica nello stesso tempo lo Stato di diritto e l’economia di mercato, proprio perché sa fin troppo bene che «chi possiede tutti i mezzi, stabilisce tutti i fini». Tale massima, infatti, vale non soltanto per i despoti dei regimi totalitari, ma anche per i governanti democratici ogni volta che nelle loro mani il potere politico s’intreccia pericolosamente con quello finanziario e, come oggi si dice, con quello mediatico. Dario Antiseri ricorda ripetutamente una verità oggi dimenticata e, peggio, irrisa, ma molto cara a Luigi Einaudi, che volle enunciarla solennemente nel messaggio alle Camere all’atto del suo insediamento alla Presidenza della Repubblica Italiana: per ogni liberale degno di questo nome l’uguaglianza non può mai essere uniformità degli esiti, ma garanzia di parità dei punti di partenza nella gara della vita. Senza quella garanzia, su cui si fonda lo Stato democratico, l’ingiustizia regna sovrana.

L’ANGOLO DELLA POESIA. Il ladro di ciliegie. Una mattina presto, molto prima del canto del gallo, / un fischiettìo mi svegliò e andai alla finestra. / Sul mio ciliegio – l’alba empiva il giardino – / sedeva un giovane, con un paio di calzoni sdruciti, / e vispo coglieva le mie ciliegie. Vedendomi / mi fece un cenno col capo, con tutte e due le mani / passando le ciliegie dai rami alle sue tasche. / Per un bel po’ di tempo ancora, che già ero tornato al mio letto, / lo sentii che fischiava la sua allegra canzonetta (Bertolt Brecht).

10 aprile 2003.

LINEA RECTA BREVISSIMA. L’ambiente migliore. Dove compiamo qualcosa di utile, lì è l’ambiente più degno. Un bene prezioso è il tempo. Fate uso del tempo, che se ne va così in fretta per noi: l’ordine vi insegni come guadagnarlo. (Johann Wolfgang Goethe)

Non è una fortuna questa? Mi sveglio di buon’ora e passo un po’ di tempo tra i miei libri; ne prendo uno a caso, poi un altro, senza un bisogno preciso che non sia la curiosità di leggere o di rileggere. Apro dove capita e quasi sempre l’occhio mi cade su un passo, una frase che inconsciamente cercavo e che dà un senso alla giornata che comincia. Non è fortuna questa? (Federico Fellini, febbraio 1990).

LA CERTEZZA DEL DIRITTO INTERNAZIONALE E UNA POLITICA UMANISTICA, NON LA GUERRA. La guerra decisa unilateralmente dagli Stati Uniti e dall’Inghilterra nei confronti dell’Iraq, con il dissenso di non pochi membri dell’ONU, non può non suscitare un aspro dibattito sulle categorie stesse con le quali la tradizione occidentale ha concettualizzato quella forma estrema di relazione politica che si traduce nell’annientamento dell’altro in quanto nemico. In sintonia con molte altre voci e con una forza che le supera tutte, la Chiesa cattolica ha parlato chiaro e commuove l’appello appassionato, la supplica che Giovanni Paolo II rivolge senza sosta a chi poteva evitare, o può ancora fermare, l’immane sciagura di una guerra, potenzialmente illimitata nel tempo e nello spazio, se l’annunciata «guerra infinita» divenisse direttrice d’azione nel prossimo futuro. In un corsivo, apparso su Humanitas nel febbraio 2003, quando la guerra preventiva nei confronti dell’Iraq non c’era ancora, Ilario Bertoletti osservava giustamente che la costruzione della pace e di uno jus publicum mundi richiedono la pazienza e il respiro lungo della politica, non sicuramente la via corta delle armi perché questa via contraddice il senso stesso della nostra civiltà, come già Freud ammoniva in una lettera del 1932 ad Einstein dal titolo Warum Krieg (Perché la guerra?).

 IL NOSTRO RIFIUTO IN MISURA QUASI PARI ALLE SUE ATROCITÀ. Il passo centrale della lettera di Freud ad Einstein è il seguente: Poiché la guerra contraddice nel modo più stridente a tutto l’atteggiamento psichico che ci è imposto dal processo di incivilimento, dobbiamo necessariamente ribellarci contro di essa: semplicemente non la sopportiamo più. Non si tratta di un rifiuto intellettuale e affettivo, per noi pacifisti si tratta di un’intolleranza costituzionale, di una idiosincrasia portata, per così dire, al massimo livello. E mi sembra in effetti che le degradazioni estetiche della guerra concorrano a determinare il nostro rifiuto in misura quasi pari alle sue atrocità (Sigmund Freud, Opere, vol. XI, Torino 1999, p. 303).

LA SPERANZA CHE NON MUORE. NEL BUIO DELLA PROVA IL MESSAGGIO DI DUE GIOVANISSIMI. Bortolo Fioletti (Poldo), italiano, contadino, 19 anni, ucciso in combattimento in alta Valcamonica nel maggio 1945, a guerra finita. «Cara mamma, non piangere per me. Perdonami e pensa se io fossi tra coloro che martirizzano la nostra gente… Io sono qui per nessun altro scopo che la fede, la giustizia e la libertà… Presto verremo giù dalla montagna, e vedrai che uomini giusti saremo. Allora si vivrà con la soddisfazione di vivere e non con l’egoismo di oggi». Anne Frank, tedesca, 15 anni, studentessa, morta nel lager di Bergen Belsen nel marzo 1945, autrice del celeberrimo Diario. «È un gran miracolo che io non abbia rinunciato a tutte le mie speranze perché esse sembrano assurde e inattuabili. Le conservo ancora, nonostante tutto, perché continuo a credere nell’intima bontà dell’uomo. Mi è impossibile costruire tutto sulla base della morte, della miseria, della confusione. Vedo il mondo mutarsi lentamente in un deserto, odo sempre più forte l’avvicinarsi del rombo che ucciderà noi pure, partecipo al dolore di milioni di uomini, eppure, quando guardo il cielo, penso che tutto si volgerà nuovamente al bene, che anche questa spietata durezza cesserà, che ritornerà l’ordine, la pace, la serenità. Intanto debbo conservare intatti i miei ideali; verrà un tempo in cui saranno forse ancora attuabili» (15 luglio 1944).

17 aprile 2003.

LINEA RECTA BREVISSIMA. Il fine del precetto. Il fine del precetto è l’amore che viene da un cuore puro, da una coscienza buona e da una fede sincera (San Paolo). La ricerca non finisce mai. Molte cose restano avvolte sotto il velo di figure che nascondono i misteri. Anche nell’essenza delle cose da capire si nasconde un tale abisso di sapienza che alle persone che hanno passato più tempo in questo studio e che sono dotate d’intelligenza più penetrante, capita quello che si legge in un passo della Scrittura, nell’Ecclesiaste: «Quando l’uomo avrà finito, solo allora comincia» (Agostino). Definizione del Cristianesimo. Il Cristianesimo è respiro di libertà (Wolfgang Beinert, teologo tedesco. Un suo libro s’intitola, appunto, Il Cristianesimo respiro di libertà). L’aspetto più incredibile. L’aspetto più incredibile degli avvenimenti inspiegabili è che accadono (Gilbert Keith Chesterton).

FARE I CONTI CON GESÙ CRISTO. Con Gesù Cristo bisogna fare i conti. Non si può lasciarlo in disparte. Non si tratta di una questione erudita, ma di colui che dà un senso, il solo senso possibile, alla vita di ognuno di noi e al cammino umano della storia. Gesù non è un filosofo, non si rivolge ai filosofi e non parla la loro lingua, anche se il vertice di ogni speculazione – da Socrate a Kant, da Agostino a Rosmini, da Tommaso a Hegel, da Pascal a Bergson, da Kierkegaard a Blondel – a lui tende, o dalla sua ispirazione è innegabilmente segnato. Gesù non è il capo di una parte politica o l’esponente prestigioso di una classe sociale; non è neppure un profeta o un pensatore religioso come Isaia, Paolo, Budda. Gesù non cerca Dio, ma ce ne mostra il volto: Filippo, chi vede me, vede il Padre (Gv. 14,9). Egli è venuto a manifestare il segreto di Dio. Gesù non analizza, non costruisce sistemi, ma presenta dati di fatto fondamentali in un modo che nello stesso tempo illumina e inquieta. Egli parla dall’altezza di Dio e proprio per questo illumina il mistero dell’uomo. Non parla come gli scribi, in modo professionale, incomprensibile. Gesù è capace di portare l’uomo che accoglie la sua parola alla più alta realizzazione e insieme al superamento di sé: ma lo può in quanto egli è più che uomo. L’espressione caratteristica di ogni annuncio profetico nel Primo Testamento è: Così dice il Signore. Gesù, invece, con estrema chiarezza parla come nessun profeta poteva parlare. Dice di sé: Io sono la via, la verità, la vita (Gv. 14, 6). E ancora: Questo è il volere di chi mi ha mandato, che chiunque conosce il Figlio e crede in lui, abbia la vita eterna ed io lo risusciti nell’ultimo giorno (Gv. 6, 37). Da questa inaudita realtà nasce il suo personale comando nel Discorso della Montagna: Avete sentito che fu detto agli antichi… Io però vi dico… Solo colui che è il Signore può dire: Il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno (Mt. 24, 35). Colui che è il Signore e lui solo poteva dirci quelle parole che in questi giorni più ritornano sulle nostre labbra: Io lascio a voi la pace. Io do a voi la mia pace. Ve la do non come ve la dà il mondo. Che il vostro cuore non sia turbato (Gv. 14, 27).

VENERDÌ SANTO. Ha messo in fuga gli ultimi clamori / la notte giunta prematura a nona; / il soldato smarrito / ha lasciato cadere la sua lancia. // Accanito fu il giorno e senza tregua / il livore omicida… / ormai tutto è compiuto, il lino bianco / riconsegna lentamente alla madre / il freddo corpo del figlio. // Inesorabile il corteo / procede verso il sepolcro nella roccia… / C’è ancora spazio per il cielo? / Il pianto della donna sulla pietra / dice imminente il giorno del Signore (Giulio Cittadini).

 FRAMMENTO PER LA PASQUA. Nell’Orto degli Ulivi il terrore e l’angoscia, / il sudore di sangue, / il bacio in cui nell’ombra si confondono / la vittima e il carnefice… // Ma ora tra le mura del Giardino / erompe l’alba, rovescia la pietra tombale / e dalle bende si spande odore di gelsomino. // Al tocco di una mano / una donna che piange volge il capo / e nel velo di lacrime non sa / scorgere il Santo Volto. // Ma il suo cuore ha un tremito / ne riconosce la voce, ne grida il nome / e – spaventata- fugge sulla strada / in un delirio d’angoscia e di speranza (Giovanni Cristini).

 24 aprile 2003.

LINEA RECTA BREVISSIMA. Sdegno e passione. Abbi il coraggio di essere un Daniele [il profeta]. / Abbi il coraggio di rimanere solo. / Abbi il coraggio di avere un fermo proposito. / Abbi il coraggio di farlo sapere. Il patriottismo autentico. Il patriottismo non ha nulla a che vedere con il conservatorismo, anzi ne è l’opposto perché il patriottismo è la fedeltà a qualcosa che muta sempre e tuttavia resta misteriosamente la stessa. È un ponte tra il futuro e il passato. Nessun autentico rivoluzionario è stato mai internazionalista (George Orwel).

IL PARADOSSO: PREGARE PER I VINCITORI, PERCHÉ GRANDE È LA TENTAZIONE CHE LI MINACCIA. Talora gli scrittori vedono assai meglio di molti politici i pericoli connessi a una vittoria militare. Romain Gary, ebreo russo, nel romanzo Tulipe, che uscì in Francia nel 1970, scrive: «Quando la guerra è vinta, sono i vinti a essere liberati, non i vincitori». Tre anni dopo David Rousset ne La società esplosa userà una formula simile: «Il terribile è gestire la vittoria». Nel 2001 in Memoria del male, tentazione del bene Tzvetan Todorov riprende lo stesso tema, particolarmente serio e preoccupante in un mondo come il nostro in cui il sic volo sic iubeo dell’unica superpotenza non induce certo a moderazione. Su La Stampa del 1° marzo 2003 Oddone Camerana ha svolto in proposito considerazioni che meritano di non andar perdute e che si aprono addirittura con l’invito a pregare Dio per il difficile futuro dei vincitori. Fare la guerra con l’assillo pedagogico di voler imporre il bene non è, infatti, una «dottrina», né una «prassi» accettabile per uno Stato democratico; ed è inutile nascondere che in una guerra combattuta in una zona chiave per le risorse petrolifere mondiali è più che lecito il sospetto che l’«assillo pedagogico», continuamente esibito, sia la maschera e l’alibi di quella forma specifica di materialismo economico che si chiama imperialismo.

L’INSIDIA DELL’ORA PRESENTE. Il senso di vertigine, che sorge al pensiero che sia soprattutto il vincitore a dover essere salvato più che il vinto, si può spiegare solo se si pensa al formidabile predominio assunto oggi dalla rappresentazione idolatrica del bene, secondo la quale tutto il bene sta da una parte e il male dall’altra. Risorge così l’eresia manichea che vede simmetricamente opposti il nero e il bianco e rifiuta di tener conto del concetto di contaminazione. Tuttavia, il vincitore di una guerra, infettato dalla violenza prodotta per annientare l’avversario, ha bisogno anch’egli poi di istruire processi per assicurarsi di essere stato nel giusto. Nella situazione attuale degli Stati Uniti, un’illimitata potenza militare si unisce alla convinzione di rappresentare in prima persona IL BENE e ciò li autorizza a pensare che ad essi tutto è permesso… I governanti Usa sono così indotti a configurare ogni loro intervento militare come una spedizione punitiva in omaggio al bene e alla pedagogia del bene di cui si ritengono depositari (Oddone Camerana).

 L’ATTESA DEL RISORTO. D’improvviso fu spezzato il tempo. / Hai spalancato gli occhi / vestendo di trionfo l’universo. / Ora tu sei al centro degli spazi liberati / nell’armonia della Resurrezione. / Ma sul pianeta rimane / il buio spalancato della tomba / e il mistero della tua assenza… // La voce del luminoso messaggero / parlava di ritorni, / ridava ali all’attesa e alla speranza. / Per tutto il giorno / abbiamo trepidato ai rari segni. / Il vuoto sepolcro ci offuscava / le concitate annunciatrici, / la fiamma certa di Maria di Magdala / intesa al suono della dolce voce, / la custodita tenerezza di tua madre / e il consapevole sorriso. // Ed ora che la sera si raccoglie / di pudore, attendiamo / il ritorno dei discepoli da Emmaus. / Ti hanno riconosciuto / allo spezzar del pane. / Anche da noi la cena è preparata. / Odora sulla mensa / un cibo fraterno da spartire / fra timori e speranze. / E fiduciosi noi stiamo in attesa (Dal Samizdat, i cui fogli dattiloscritti circolavano clandestinamente nell’Unione Sovietica).

1 maggio 2003.

LINEA RECTA BREVISSIMA. La sorte. Non esiste uno stato, anche provocato da noi, dal quale non si possa uscire in modo dignitoso grazie alla nostra buona volontà. Il genio. Il genio ha degli obblighi e da colui al quale molto è stato dato abbiamo il diritto di pretendere molto. Affermare che al genio tutto è permesso è una volgare idolatria, un feticismo che non spiega nulla e che si spiega solo con l’infermità spirituale di chi professa tali idiozie. No! Se il genio è nobiltà, allora egli in prima istanza e più di tutti gli altri ha degli obblighi. (Vladimir Sergeevič Solov’ëv)

IL DRAMMA DEI NOSTRI GIOVANI: «DIVENTARE GRANDI IN TEMPI DI CINISMO». Il Mulino di Bologna ha pubblicato una ricerca dell’Istituto Cattaneo che tende ad accertare le risorse civili e l’apertura sociale dei nostri giovani studenti alla vigilia della maturità. La documentazione del lavoro compiuto con grande rigore da persone qualificate è presentata nei suoi esiti da Roberto Cartocci con un titolo quanto mai eloquente: Diventare grandi in tempi di cinismo. L’Autore – docente di metodologia della ricerca politica nell’Università di Bologna – dà giustamente un forte rilievo alla nozione di capitale sociale, ossia all’insieme delle virtù personali con le quali il cittadino migliora le sue relazioni con gli altri e partecipa alla costruzione della società rendendone possibili i processi di sviluppo. Il capitale sociale presuppone in ogni cittadino la condivisione dei valori e delle rappresentazioni simboliche che consentono di accettare liberamente i propri obblighi verso la società, in luogo dell’aspirazione opposta a massimizzare il tornaconto individuale. Alla valutazione della consistenza del capitale sociale di un paese concorre non solo il grado di moralità espresso dalle virtù dei cittadini, ma anche quella moralità fatta di atteggiamenti abituali, che confluiscono in un tipo di condotta non sempre nobile, per lo più dominata da conformismo e adeguamento alla pressione sociale. Nel caso italiano, questo secondo genere di moralità – una sorta di ethos consuetudinario che governa la vita quotidiana e i giudizi dei più – appare tristemente orientato alla diffidenza verso gli altri, alla tolleranza per l’illegalità che riesca a imporsi, alla slealtà verso le istituzioni, che fa prevalere in ogni caso il calcolo dell’interesse egoistico o del proprio clan di appartenenza sulla solidarietà fraterna e sulla disponibilità a fare sacrifici per il bene comune. Il bilancio tracciato da Cartocci non è affatto positivo e appare a maggior titolo deludente in quanto compiuto su quel segmento giovanile della popolazione dal quale parrebbe giusto attendersi un risultato migliore. Gabriele Calvi, acuto studioso del cambiamento socioculturale, si chiede sconsolato: «Se tanto poco offre il legno verde, quanto ci si può attendere dalla legna secca?».

UNA RIFLESSIONE SUL RECENTE CONFLITTO. Finora, Bush e Blair sono riusciti a far valere le proprie ragioni nei loro paesi, negli Stati Uniti più che in Gran Bretagna, ma non agli occhi dell’opinione pubblica internazionale. Il resto del mondo guarda alla guerra con un sentimento misto di sdegno e allarme. Quando le 13 colonie britanniche lanciarono la loro guerra d’indipendenza in Nordamerica, Thomas Jefferson comprese che «il giusto rispetto delle opinioni dell’umanità» richiedeva una spiegazione per quella guerra. E fu per tale ragione che presentò la sua Dichiarazione di indipendenza. Oggi non è meno necessario dare spiegazioni suffragate da prove inconfutabili. La propaganda, la rapidità della vittoria militare sulle sgangherate truppe irachene, l’ammirazione per le bombe intelligenti Usa non ci impediscono di riconoscere la triste verità che Bush e Blair abbiano violato la pace nel mondo, dando inizio a una guerra, la quale comporta sempre una campagna di uccisioni contrariamente al parere dell’opinione pubblica mondiale. La vera ricomposizione della spaccatura internazionale potrà avvenire esclusivamente con una nuova leadership politica in Usa e Gran Bretagna, nonché con un deciso riconoscimento dell’autorità dell’Onu (dall’artico Ma non è ancora provato che il conflitto sia giusto di Jeffrey Sachs, pubblicato domenica 6 aprile 2003 su Il Sole-24 Ore).

 8 maggio 2003.

LINEA RECTA BREVISSIMA. Definire le domande. Gli interrogativi abbondano, ma, come diceva l’abate Galiani, ci vuole più intelligenza a definire le domande che a dare le risposte (Valentino Parlato). Meravigliato e stanco. Ero meravigliato di essere vivo, ma stanco di aspettare i soccorsi (Ennio Flaiano). I cittadini e la legge. Indebolire la legge significa solo lasciare i deboli alla mercé dei forti, spianare la strada alla violenza e all’ingiustizia, abbandonare la realtà all’arbitrio del più potente (Claudio Magris).

DATI CHE DOVREBBERO TORMENTARCI. Secondo il censimento del 1991, e sia pure sperando in migliori notizie da quello più recente, in Italia i cittadini analfabeti risultano 1 milione e 200 mila, quelli privi di licenza elementare sono 6 milioni, quelli che hanno raggiunto solo la licenza elementare sono 17 milioni. Non si può rimanere indifferenti dinanzi a dati così preoccupanti. L’analfabetismo strumentale e la continua, inevitabile ricaduta in esso di un numero così rilevante di cittadini dovrebbe costituire un problema assolutamente prioritario, una vergogna e un assillo per tutti. A questa piaga (che spiega, tra le altre cose, anche il successo di programmi televisivi semplicemente ignobili) si aggiunga anche un’altra, assai più perniciosa e più estesa. Il suo nome è analfabetismo spirituale, che si manifesta come immaturità civile, impreparazione alla vita politica, empirismo nel campo del lavoro, insensibilità verso i problemi sociali.

LA COSTRUZIONE DELLA PACE E LA NOSTRA CATTIVA COSCIENZA. «I problema della vittoria» diceva Winston Churchill «sono certo più piacevoli di quelli che s’incontrano dopo una disfatta militare, ma non per questo meno ardui». Perché le guerre lasciano una scia di risentimenti collettivi, umiliazioni, voglia di vendette. Perché l’edificazione di una pace duratura richiede mezzi meno sbrigativi di quelli usati per vincere la guerra. Infine il vincitore deve ingraziarsi Dike, l’antica dea della giustizia, dopo aver ottenuto i favori di Ares, dio della guerra. Per questa somma di ragioni adesso l’Occidente ha il compito di ripianare il solco che lo divide dalle masse arabe, e più in generale dai popoli del terzo e quarto mondo. Ma per riuscirci dovrà dimostrare che gli stanno a cuore ambedue le facce della giustizia: quella formale (la democrazia), e al contempo quella sostanziale (l’eguaglianza economica, o almeno una maggiore dose di eguaglianza tra il Nord e il Sud del nostro mondo). Del resto la seconda è ormai diventata ben più urgente della prima. La forbice tra i paesi sviluppati e quelli depressi, che era di 3 a 1 nel 1820, è diventata di 30 a 1 nel 1960; si è raddoppiata toccando la quota di 60 a 1 nel 1990; per innalzarsi fino a 74 a 1 nel 1997. In questa situazione la crescita del debito dei paesi poveri è diventata esponenziale e, dunque, irrefrenabile e insostenibile. Ancora: secondo l’Human Development Report 2002 stilato dall’Onu, l’1% più ricco del pianeta ha un gettito annuale corrispondente a quello di cui può disporre il 57% della popolazione povera. E ogni giorno, secondo i dati diffusi dalla Fao nello scorso mese di gennaio, muoiono di fame 24 mila uomini, 1 ogni 3,6 secondi. Dinanzi ai numeri di questa tragedia l’Occidente ha una responsabilità e insieme una missione. Europa e America spendono un miliardo di dollari al giorno per tenere a distanza i prodotti dei paesi poveri, innalzando una barriera di dazi doganali. Dobbiamo invertire la rotta e non continuare a lesinare ai paesi poveri gli aiuti promessi: malgrado le chiacchiere e le dichiarazioni rassicuranti sulle prospettive future, fatte dall’uno o dall’altro capo di governo, il fatto è che nel 2001 le somme effettivamente destinate a tale scopo sono diminuite del 20% rispetto al 1990… Ora, però, è il momento di mettere mano al portafoglio: la pace, se davvero la vogliamo, costa (Michele Ainis, La Stampa del 12 aprile 2003).

PER NOSTRO MEZZO, A TUTTI GLI UOMINI. Cristo non ha più mani, / ha soltanto le nostre mani / per fare le sue opere. // Cristo non ha piedi, / ha soltanto i nostri piedi / per andare oggi agli uomini. // Cristo non ha più voce, / ha soltanto la nostra voce / per parlare oggi di sé. // Cristo non ha più forze, / ha soltanto le nostre forze / per guidare gli uomini a sé. // Cristo non ha più Vangeli / che essi leggano ancora, / ma ciò che facciamo in parole e opere / è l’Evangelio che si sta scrivendo (Mario Pomilio).

 15 maggio 2003.

LINEA RECTA BREVISSIMA. Dio mi è testimone. Non abbiamo mai usato parole di adulazione, come ben sapete, né abbiamo cercato occasione di cupidigia. Dio mi è testimone (San Paolo). Vorrei disinteressarmene del tutto. Tutta questa amministrazione dei beni ecclesiastici, sui quali si crede che amiamo farla da padroni assoluti, io la sopporto, ma non la desidero. Se potessi farlo senza venir meno ai miei doveri verso i fratelli, vorrei disinteressarmene del tutto (Agostino).

LA PRODUZIONE DELLA SOFFERENZA NELLA STORIA. È stato detto con grande efficacia: «Né il sole né la morte si lasciano guardare fisso». Bisogna aggiungere: «Ancor meno il male», soprattutto se lo si considera nella sua dimensione sociale e politica. Se si pensa che la storia civile e politica dei popoli è in gran parte storia delle sofferenze che il male produce, tornano spontaneamente alla mente i versi del Grande Lombardo: «… la man degli avi insanguinata / seminò l’ingiustizia; i padri l’hanno / coltivata nel sangue». E pur senza concludere col disperato sospiro di Adelchi: «e ormai la terra altra messe non dà», nessuno può vanificare in un facile ottimismo dialettico l’innegabile retaggio di dolore che accompagna l’uomo nel cammino della storia. Di qui il bisogno di riproporre al vaglio della riflessione critica proprio la domanda sul senso della storia e sulla presenza del male in essa, ma anche l’affermazione decisa del valore universale della lotta di coloro che non si arrendono al male, ben sapendo che la legge del progresso reale è aprire un varco al bene anche tra ostacoli e follie. Sono, quindi, profondamente grato a Michele Nicoletti di aver riportato al centro dell’attenzione questi temi nel libro La politica e il male (Brescia 2000).

 LA POLITICA E IL MALE. Per invitare i lettori a prendere in mano La politica e il male di Michele Nicoletti, riporto la riflessione svolta nella prima pagina. «Nella vita dell’umanità non è solo la natura ad infliggere all’uomo sofferenza. Molto spesso è l’uomo stesso la causa di nuovo e ulteriore dolore. E non solo l’uomo nel rapporto personale con l’altro uomo, ma anche l’uomo nel suo associarsi ad altri uomini, nel suo dar vita a forme organizzate di società, in breve nel suo agire storico. La sofferenza sembra accompagnarsi così alla storia di tutte le società umane e tuttavia, benché questo rapporto sia profondo e radicato, la sua presenza viene spesso minimizzata o addirittura rimossa. Gli storici e i politici sono bravissimi a seppellire le minuzie della sofferenza individuale nelle presunte magnalia del corso degli eventi. Parecchi filosofi della storia hanno addirittura elevato questo gioco di disattenzione al livello di strumento essenziale del mestiere. Quando ignorare la sofferenza diventa difficile, procurano di legittimarla. Di fronte al male che deriva all’uomo dalla sua vita nella storia, ci si preoccupa immediatamente – e certo troppo in fretta, senza nemmeno lasciare il tempo allo stupore e al silenzio – di giustificarlo. Ma anche il giustificare troppo e troppo in fretta può essere un modo di incrementare il male, anziché di mitigarlo o comunque di rendere possibile la convivenza con esso. Gli uomini sono tutti avvoltoi – ha scritto Peter Berger – in quanto vivono sui patimenti del passato. Alla base di ogni società ci sono cataste di cadaveri vittime degli atti omicidi che direttamente o indirettamente portarono all’istituzione di quella stessa società. Ma alcuni uomini sono avvoltoi in senso più attivo. Producono cataste di cadaveri supplementari con le loro azioni; ed essi stessi, o più probabilmente altri al loro servizio, forniscono le giustificazioni dei massacri mentre questi sono ancora in corso, e qualche volta in anticipo. Di fronte alla sfida della sofferenza e del male dobbiamo tornare a riconoscere con Karl Löwith che l’interpretazione della storia è in ultima analisi un tentativo di comprendere il senso dell’agire e del patire degli uomini in essa».

POESIA DEL NOVECENTO. Elegia. Al di là della porta un uomo fatto / di solitudine, di amore e tempo, / all’insaputa anche dello specchio, / ha versato qualche lacrima umana, / su tutto quello che merita lacrime: / la bellezza di Elena, mai vista, / il fiume irreparabile degli anni, / la mano di Gesù nel crocifisso / romano, la brace di Cartagine, / la breve gioia e l’ansietà che assilla, / la musica e l’avorio di Virgilio, / la configurazione delle nuvole / di ogni nuovo ed unico tramonto / e la mattina che sarà la sera (Jorge Luis Borges, La cifra. 46 poesie, Milano 1996. Borges, 1899-1986, è un esponente di primo piano della letteratura argentina).

 22 maggio 2003.

LINEA RECTA BREVISSIMA. Una macchia gialla e il sole. Alcuni pittori trasformano il sole in una macchia gialla, altri trasformano una macchia gialla nel sole (Pablo Picasso). Da un affanno all’altro. In origine, tutta la nostra produzione materiale era un mezzo per conseguire un fine: il fine di una maggiore felicità. Noi pretendiamo che anche adesso sia così, ma in realtà la produzione materiale è diventata fine a se stessa… Basterà un esempio: il desiderio di risparmiare tempo. Quando lo abbiamo risparmiato siamo nell’imbarazzo perché non sappiamo che farcene, e così dobbiamo trovare il modo di ammazzarlo. Dopo di che ricominciamo a risparmiarlo (Erich Fromm).

DIO NON VA ALLA GUERRA. Tutti lo hanno chiamato in causa in questi anni colmi d’inquietudine: Bush padre e Saddam Hussein prima, Bush figlio e Bin Laden poi; gli arabi, gli ebrei e i cristiani. Tutti lo vogliono dalla loro parte, alleato invisibile ma potente. Ancora una volta, come tante altre nel passato, ciascuno prende le armi convinto, come lo erano i nazisti, che «Dio è con noi». Questo aiuta, tra l’altro, a perseguire lo sterminio del nemico con la coscienza non soltanto che si è con Dio, ma che si combatte per Dio (chiamato con i nomi più vari: giustizia, libertà, ordine, civiltà, ecc.). Per una coscienza religiosa nominare il nome di Dio invano è sempre stato un male. Diventa un sacrilegio nominarlo in occasione di una guerra, col sottinteso che se c’è Lui si è dalla parte giusta. Anche la coscienza religiosa, almeno tra i cattolici, ha conosciuto una evoluzione. Qualunque sia il giudizio su fatti e comportamenti del passato, è certo che oggi collegare Dio alla guerra costituisce per un numero crescente di persone una contraddizione inaccettabile. Dio non è una coperta che ciascuno tira dalla propria parte per coprire se stesso e lasciare nudi gli altri. Non può essere ridotto ad un generale che abbandona la propria dimora celeste per schierarsi con l’uno o l’altro dei contendenti terreni dopo averlo giudicato meritevole di aiuto perché più buono e fedele. Dio affida se stesso e la fede in Lui soltanto alla nostra ragione e alla nostra libertà, mai alla violenza. C’è un solo modo accettabile di parlare di Dio anche in giorni di guerra, ed è quello della preghiera. E pregare significa cercare, aprirsi, quasi confrontarsi, in un dialogo ove è impegnata lealmente tutta la nostra forza spirituale, con l’Essere che è tutto in tutti, che è Padre di tutti gli esseri umani. Si mette in discussione la nostra particolarità, con i suoi interessi e punti di vista, per avvicinarsi il più possibile all’ampiezza senza confine dello sguardo divino, che non conosce distinzioni di razza, di storia, di cultura. Rivolgersi a Dio implica necessariamente il riconoscimento dei nostri egoismi e il desiderio, almeno quello, purché sincero (con Dio è impossibile barare), di superarli. Ne consegue che il nome di Dio non può essere collegato alla guerra, ma solo alla pace… È assurdo pregare Dio per la guerra. Quanto di più alto spiritualmente si possa fare è pregarlo invece per la pace. Per non perderla, prima che la furia della guerra tutto distrugga; per riacquistarla, quando la si è perduta.

Con queste riflessioni si apre il volumetto – prezioso, appassionato e illuminante – di Enzo Giammancheri, Pensieri sulla guerra, pubblicato nel settembre 2002 a Brescia. Lo scritto si divide in due parti: Idee e Testimonianze. Nella seconda parte prendono in qualche modo la parola figure significative del cattolicesimo italiano: Giacinto Tredici, Francesco Brunelli, Stefano Bazoli, Arturo C. Jemolo.

SCAGLIE LUMINOSE DI POESIA RUSSA. Non è un volto senz’anima. Non è quello che voi pensate la natura, / non è un calco, non è un volto senz’anima: / in essa c’è l’anima, la libertà, la favella. Non hanno occhi per vedere. Essi non vedono e non sentono, / vivono in questo mondo, come nelle tenebre, / non aspirano a conoscere il sole, / e per loro non c’è vita nelle onde del mare. / I raggi non scendono nella loro anima, / la primavera non fiorisce nei loro petti. / Davanti a loro i boschi tacciono, / e la notte è muta di stelle. Come sei bello mare di notte! Come sei bello mare di notte, / qui raggiante, là grigio-azzurro e nero! / Esso va e respira e brilla / e vive nello splendore della luna. / Lo spazio appare libero e infinito. / Splendore e movimento, fracasso e tuono, / movimento grande e foschi bagliori! / Come sei bello mare di notte! (Fëdor Ivanovič Tjutčev)

 29 maggio 2003.

LINEA RECTA BREVISSIMA. La meraviglia. La meraviglia favorisce la poesia e la religione. Ma è anche un buon coefficiente della ricerca scientifica. La meraviglia dello sciocco dipende da ignoranza, ma la meraviglia del sapiente dipende dal desiderio di sapere. Avanti ogni causa, oltre ogni scopo. Il «silenzio di Dio» è coperto dai discorsi umani. Profeti di ieri, di oggi e di domani hanno cercato e cercheranno di interpretare nelle loro metafore la cifra della vita e della morte. L’Altissimo rimane inattingibile principio che è avanti ogni causa, fine che è oltre ogni scopo. (Mauro Laeng)

QUANDO MNACQUE IL PROGETTO DELLA COMUNITA’ EUROPEA DI DIFESA. Il 25 giugno 1950 le truppe nordcoreane invasero la zona meridionale del paese e scoppiò la guerra in Corea con l’intervento americano seguito da quello dell’Onu. Tale vicenda ebbe un’eco straordinaria in tutto il mondo. Si temette che il confronto armato segnasse l’inizio di una terza guerra mondiale, la quale sarebbe stata anche la prima guerra fra potenze atomiche. A quel punto gli Stati Uniti chiesero ai paesi della Nato il riarmo della Germania. La proposta fu accettata da tutti i membri della Nato, a eccezione della Francia, nelle cui carni troppo bruciavano le ferite del 1870-71, del 1914-18 e del 1939-45. Al posto del riarmo tedesco il ministro della difesa francese, il socialista Pleven, suggerì la formazione di un esercito integrato europeo e l’idea si trasformò ben presto nel progetto della Comunità Europea di Difesa, la CED. Senza abolire la Nato, del cui ombrello protettivo avevano tutti bisogno per scoraggiare ogni aggressione, la CED apparve ai sei Stati europei aderenti una condizione essenziale a realizzare il proprio futuro: unire gli eserciti per la difesa comune di una patria più vasta, l’Europa, significava infatti rendere questa patria più visibile, azzerare per sempre l’idea stessa di un conflitto tra le nazioni del nostro continente, accelerarne il cammino verso l’integrazione politica ed economica.

L’ULTIMA BATTAGLIA DI DEGASPERI. De Gasperi prese parte attiva al dibattito sulla CED e ne divenne uno dei più tenaci sostenitori anche presso gli Stati Uniti. L’invito a colazione, all’ambasciata italiana di Parigi, rivolto nel dicembre 1952 dal nostro premier al generale Eisenhower, giocò un ruolo decisivo: De Gasperi mostrò ad Eisenhower che per l’America era un vantaggio che l’Europa provvedesse a difendersi da sé e che la CED era la via più idonea per impedire la temuta rinascita sia del militarismo germanico, sia dell’esiziale contrapposizione fra Germania e Francia. Un’Europa pacificata e forte poteva, invece, costituire per gli Stati Uniti un alleato ben più affidabile con cui esercitare una vera e propria partnership. Eisenhower s’insediò alla Casa Bianca il 20 gennaio 1953 e con lui gli Stati Uniti premeranno sugli alleati europei perché sviluppassero le forme d’integrazione progettate, anzitutto sul piano economico e militare. Dal canto loro, gli Stati europei identificarono sempre più nella loro politica europeistica la miglior garanzia contro gli eccessi e le tentazioni dell’egemonia americana. Quando, però, il 15 giugno 1954, alla sua designazione al governo, Pierre Mendès France aveva espresso riserve sulla CED, Adenauer e De Gasperi colsero subito i segnali di un mutamento di rotta che avrebbe potuto vanificare i loro sforzi e ne furono costernati. De Gasperi, benché prossimo alla fine per una forma cronica di sclerosi renale, che comportava sofferenze assai dolorose, non si arrendeva: da Sella Valsugana sollecitava con lettere e telefonate, incessantemente, a non lasciar cadere l’occasione storica che il progetto della CED avrebbe potuto significare per il futuro dell’Europa. Confidava alla figlia Romana: «Vedi, se io potessi essere a Bruxelles, sento che anche questa battaglia si vincerebbe. Saprei porre certi responsabili di fronte alla loro coscienza di uomini prima che di politici, e sono certo che non uscirebbero di là senza aver firmato». Il 19 agosto 1954 De Gasperi moriva. Pochi giorni dopo, il 30 agosto, con un voto su una questione di procedura, l’assemblea nazionale francese respinse il trattato della CED.

12 giugno 2003.

LINEA RECTA BREVISSIMA. Se sei saggio. Se sei saggio, misura ogni cosa in rapporto alla condizione umana (Seneca). Un criterio di composizione. Prenda contatto con se stessa… Stenda un elenco di appunti-citazioni e il discorso che li deve legare crescerà in mezzo da solo, come un rampicante tra i sassi (Cristina Campo). L’abilità dei cinici. L’abilità cinica procede di trionfo in trionfo, fino al trionfo finale che l’annienta. Contro il rozzo dualismo dei nuovi manichei. Solo una meditazione metodica rintraccia la larvata presenza del male, la sua accorta ubiquità tra gli uomini. (Nicolas Gòmez Dàvila)

IL SENSO DI GIUSTIZIA. 1. Quando sono chiamato a dare un giudizio. Quando sono chiamato a dare un giudizio, io riconosco che posso sbagliare, che si tratta di un giudizio contingente, e però, poste le circostanze, le indicazioni, i dati presenti e l’obbligo che me ne incombe, cerco di agire ragionevolmente. Dunque il testo del Vangelo di Matteo 7,1 («Non giudicate per non essere giudicati; con il giudizio con cui giudicate sarete giudicati, con la misura con la quale misurate sarete misurati») mette in luce la limitatezza della nostra azione, anche se non toglie la libertà e la responsabilità che dobbiamo assumerci rispetto anche al sistema legale, alla difesa delle persone, dei deboli. È, insomma, un testo dal quale occorre lasciarsi scuotere proprio per non pretendere di possedere una chiave magica per giudicare il cuore del fratello. Non si tratta di sostituirsi a Dio nel giudicare, ma di cogliere il senso di ciò che è giusto per tutti. Ne consegue che il mio giudizio non potrà mai toccare l’intimo dell’altro e devo sempre esprimergli una riserva di buona coscienza.

  1. L’anelito alla giustizia. L’anelito alla giustizia è inseparabile da ogni persona umana. Il senso di giustizia è percepito da ciascuno di noi come valore assoluto, non negoziabile. Un valore che non dipende né da un contratto, né da un’utilità, né da una norma imposta, ma che ha uno spessore metafisico. Questo fondamento irrinunciabile è basato per il cristiano sulla dignità dell’uomo, e per ogni persona è comunque qualcosa di insuperabile, di valido sempre e in ogni tempo. (Carlo Maria Martini)
  2. La giustizia non è questione di opinioni. Martini sottolinea la comunanza di ogni essere umano nell’apertura al senso della giustizia, nella fame e nella sete di giustizia. Se è così, la beatitudine di cui parla Matteo 5,6 («Beati gli affamati e assetati di giustizia, perché essi saranno saziati») è, sì, una promessa per i credenti, ma è anche una chiamata rivolta a tutti, che tocca l’essenza stessa dell’essere umano. Perché una società in cui sia spento il senso della giustizia, in cui non lo si possa coltivare, è una società disumana in cui non vale la pena di vivere… Tutti, forse, avvertiamo l’ingiustizia, ma poi ci dividiamo nella reazione e non solo perché entrano in gioco egoismi e interessi particolari, ma anche perché effettivamente si entra nel campo delle incertezze. Dico incertezze e non opinioni. La giustizia non è questione di opinioni. L’opinione della maggioranza e perfino della totalità non può trasformare in giusto l’ingiusto, come non può trasformare in vero il falso (Gustavo Zagrebelsky).

Di Carlo Maria Martini e Gustavo Zagrebelsky è uscito in questi giorni il libro-dialogo La domanda di giustizia (Torino 2003). Le riflessioni qui riportate sono tratte dalle pagine finali.

QUATTRO RIGHE A MATITA… C’è un libro su De Gasperi che ha un suo particolare fascino, quello della testimonianza diretta. Si intitola De Gasperi, uomo solo, edito da Mondadori nel 1964. Non so se è ancora in commercio, ma è un testo da cui non si dovrebbe prescindere quando si parla del maggiore statista cattolico che l’Italia abbia avuto. L’autrice, la figlia maggiore Maria Romana, conclude un capitolo difficile e impegnativo, il XIII, «Di fronte al Portone di Bronzo», sul difficile rapporto tra il padre e il Vaticano, riportando quattro righe scritte a matita e dimenticate da suo padre in un libro: Perdonami, Signore, ma porto con me nelle mie occupazioni la Tua preghiera. Penetra tutta la mia attività, prega Tu nel mio lavoro e in tutta la donazione di me stesso.

 19 giugno 2003.

IL RECUPERO DELLA PIETA’ E DELLA MEMORIA IN VARLAM ŠALAMOV. Il regista cinematografico russo Andrej Tarkovskij (1932-1986), già gravemente malato, nelle ultime settimane passate in ospedale, lesse proprio I racconti di Kolyma di Varlam Šalamov. Dalle sue impressioni, affidate al diario, traggo una frase significativa: «Molti, dopo averli letti, si chiedono con stupore da dove venga, dopo tutti questi orrori, un tale senso di purificazione. Nel raccontare la sofferenza Šalamov, con la sua verità senza compromessi – l’unica arma di cui disponga – costringe il lettore a com-patire, a soffrire insieme a lui, e a inchinarsi a quell’uomo che è stato all’inferno». Varlam Šalamov (1907-1982), che ha trascorso per reati d’opinione quasi vent’anni complessivi – la prima condanna è del 1929 – tra prigioni e lager, dei quali quindici nella regione siberiana di Kolyma, fra il 1938 e il 1953, si è poi dedicato per un numero quasi uguale di anni, dal 1954 al 1972, alla stesura dei racconti che compongono il ciclo. Šalamov racconta come riuscisse a trarre il materiale della sua narrazione dallo scorrere nella memoria della fiumana di vite spezzate, scegliendone i frammenti, «rallentandoli» in qualche modo nel loro fluire e lasciandoli decantare, fino all’ideale forma voluta, perché aderissero come un guanto o un’orma, alla realtà evocata. Ciò, però, ha comportato un prezzo altissimo e ha rimesso in gioco la vita stessa di Šalamov, che ha potuto realizzare la sua opera solo «urlando e piangendo in una stanza vuota», sacrificandosi, lui che era sopravvissuto, al dovere di perpetuare la memoria di quelli che non erano tornati. È ancora lui a dirlo nel racconto Il guanto: «I documenti del nostro passato sono stati distrutti, le torrette di guardia segate, le baracche rase al suolo, il reticolato arrugginito riavvolto e portato altrove. Sulle macerie è fiorito l’epilobio, il fiore dell’incendio, dell’oblio, nemico degli archivi e della memoria dell’uomo. Siamo mai esistiti? Rispondo: siamo esistiti, con tutta la forza espressiva del verbale, con tutta l’autorevolezza, la precisione del documento». Tra le opere apparse nel tempo sui lager sovietici due costituiscono altrettanti monumenti letterari: L’Arcipelago Gulag di Aleksandr Solzenicyn e, appunto, I racconti di Kolyma di Varlam Šalamov. Solzenicyn ha reso omaggio in modo esplicito al genio di Šalamov: «Nei suoi racconti il lettore avvertirà più esattamente lo spirito spietato dell’Arcipelago e il limite dell’umana disperazione». Dopo varie edizioni parziali, in Italia i 145 racconti, per complessive 1313 pagine, sono usciti integralmente nel 1999; l’edizione einaudiana si basa sulla versione definitiva uscita l’anno prima a Mosca. Ne I racconti di Kolyma non sai se ammirare di più l’icastica asciuttezza dello stile, la cura puntigliosa con cui l’Autore scava nella sua memoria per riportare alla luce i singoli particolari che possono suggerirci il significato di una situazione e di un evento, o le fulminanti accensioni poetiche che costellano qua e là la narrazione. Šalamov è anche autore di circa 800 poesie e alcune di esse sono le uniche cose che riuscì a pubblicare in patria durante la sua tormentata esistenza.