Detti e contraddetti 2004 – 2° semestre

1 luglio 2004.

LINEA RECTA BREVISSIMA. Non l’oscillazione permanente, ma la scelta liberatrice. Francois de Curel ha elevato a modello un personaggio interiormente scisso, «nomade fra cielo e terra»; Francesco d’Assisi, invece, è libero da tutto perché tutto ama e nell’amore di Dio congiunge terra e cielo. La luce. Dio è la mia luce (È il motto dell’Università di Oxford). Nella luce entra l’uomo che ha domato il suo cuore di tenebra e l’ha offerto a Dio perché lo trasformi nel «cuore puro» del Vangelo. (Levi Appulo) In spirito e verità. Dio è il punto di partenza per accostarsi a tutto e per orientare tutto verso colui al quale tutto appartiene. Il culto «in spirito e verità» è dunque qui; tutto il resto non è che un mezzo o un segno (Antonin-Gilbert Sertillanges).

IL VANGELO NON FA DA SUPPORTO A UN’IDEOLOGIA POLITICA. Il Nuovo Testamento non mitizza lo Stato, le sue istituzioni, i suoi rappresentanti, né assolutezza mai la sfera politica. Non nutre illusione alcuna nei loro confronti. L’azione politica – statuale o no – non è mai trasfigurata e associata all’azione salvifica. Mai nel Nuovo Testamento si pone l’annuncio religioso a supporto di un’ideologia politica, come facevano al tempo di Gesù i «rivoluzionari messianici» (Barabba era uno di loro e, a quanto pare, anche Giuda il traditore). I cristiani debbono portare il loro ethos, il loro senso di responsabilità e di servizio anche nei rapporti politico-sociali e nelle strutture statali, per umanizzare sempre di più gli uni e le altre; ma essi non configurano affatto lo Stato come una specie di riflesso terreno della Gerusalemme celeste e della sua gloria. Desideri del genere potevano ancora essere presenti nell’Antico Testamento, ma sono screditati per sempre nel Nuovo Testamento, che sconfessa ogni esercizio clericale del potere. Cosa del tutto diversa è porre il problema, e il Nuovo Testamento lo fa apertamente, della mutua, funzionale, necessaria indipendenza e convivenza tra Chiesa e potere politico. Ma perché una tale possibilità pratica, estranea alla mentalità onninclusiva dello Stato dell’antichità classica, potesse sorgere, occorreva che lo Stato riconoscesse – cosa non facile e interamente nuova, addirittura rivoluzionaria! – accanto alla sua, un’altra basiléia, la sovranità di Dio. È il senso del racconto della «moneta del tributo» riportato dai sinottici (Mc 12, 13-17; Mt 22, 15-22; Lc 20, 20-26) e della distinzione di piani e di poteri mirabilmente enunciata da Gesù nella massima evangelica: «Date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio» (Mt 22, 21).

COS’È UNA CITTÀ? Cos’è una città? / È un luogo dove ciascuno / ha una casa per amare, / una scuola per pensare, / un campo per coltivare, / un laboratorio per creare, / un medico per guarire, / una piazza per incontrare, / un luogo per pregare, / un teatro per sorridere, / un bosco per respirare, / e i giardini, perché i bambini / possano giocare (Giorgio La Pira).

POESIA BRASILIANA DEL SECOLO XX. L’ultima poesia. Così io vorrei la mia ultima poesia / che fosse tenera dicendo le cose più semplici / che fosse ardente come un singhiozzo senza lacrime / che avesse la bellezza dei fiori quasi senza profumo / la purezza della fiamma in cui si consumano i diamanti più limpidi (Manuel Bandeira, 1886-1968, è uno dei maestri della poesia moderna brasiliana). Non dire mai di noi. Non dire mai di noi / se non l’esatto: / il cielo, / e l’aperta campagna (Alberto da Costa e Silva, poeta brasiliano, nato il 12 maggio 1931). Alibi. Se i poeti non cantassero / che avrebbero i filosofi da spiegare? (José Paulo Paes, 1926-1998).

8 luglio 2004.

LINEA RECTA BREVISSIMA. Che cos’è la maturità? La maturità è il perdono, è perdonare ai nostri genitori di non essere delle meraviglie, ma è anche perdonare a noi stessi di esserci sbagliati in questo senso. E se non si arriva a questo, si resta adolescenti a vita (Daniel Pennac). Qui il grande Marcel coglie nel segno. Quello che chiamiamo bisogno di affetto non è in realtà il bisogno di essere amati, è il bisogno di amare. In noi c’è un bisogno di amare simile all’acqua di un ruscello che, se è fermata, torna indietro, fugge o si distende, o sale. Nulla può impedirci di amare; meno che mai il non essere amati (Marcel Proust).

NON POSSONO ESSERE VIOLATI A NESSUN PREZZO. I valori, come ha insegnato una volta per tutte Max Weber, non si possono dimostrare, bensì mostrare: proprio per questo, essi sono l’elemento fondamentale, la cosa più importante della vita di ognuno – e vengono facilmente falsati in dichiarazioni programmatiche, che scadono facilmente nella retorica o nella predica… Ovviamente i valori – e la loro esigenza – devono essere rivendicati in una cultura che, sempre più considera la vita in termini di bisogni, efficienza e utilità: anche in questo caso, i valori non vanno contrapposti ai bisogni, ma devono ispirare il modo in cui li si considera, li si soddisfa, oppure li si sacrifica a qualcosa di superiore. Fra i valori dell’Europa rientra, dunque, in primo luogo, anzitutto la consapevolezza e la difesa del principio di valore, di quell’esigenza di valori universali che costituisce, da più di due millenni, l’essenza della civiltà europea… I valori sono comandamenti morali assoluti che – a differenza di quelli storicamente e socialmente condizionati dalle epoche, dagli usi e dalle culture – non possono essere violati a nessun prezzo (Claudio Magris in Asperia, rivista semestrale dell’Aspen Institute Italia, 1997, 4).

POESIA PORTOGHESE DEL NOSTRO TEMPO. Nel cuore della parola. Trovava che le cose dentro i libri / erano più vere che fuori / che le cose nei libri e le persone / stavano al posto giusto e se stonavano / era solo per poi riprendere il posto / esatto che spettava loro (Vera Lúcia de Oliveira, poetessa e docente di letteratura portoghese all’Università di Lecce).

15 luglio 2004.

LINEA RECTA BREVISSIMA. L’eleganza del vero uomo di cultura. Sa insegnare agli altri avendo l’aria di non insegnare affatto, proponendo loro cose che non sanno come se le avessero soltanto dimenticate (Alexander Pope, poeta inglese, 1688-1744). Tra il lume e le ombre. Le cose vedute tra il lume e le ombre si dimostreranno di maggior rilievo di quelle che sono nella luce o nelle ombre (Leonardo). Aspro è il cammino quando la scelta è seria. Non esiste un cammino pacifico verso un ideale, che su questa terra non è possibile raggiungere. Penso piuttosto a una lotta seria per diminuire l’ingiustizia e aumentare l’onestà. I giovani saranno motivati a questa lotta se avranno capito che è più bello dare che ricevere (Carlo Maria Martini).

SE NOI, CUSTODI NATURALI DELLA LIBERTA’, CESSIAMO DI ESSERLO… Se a sorvegliare la crescita della libertà ci fossero stati solamente i governi, è probabile che essa sarebbe ancora in fasce… La società del denaro e dello sfruttamento non ha mai avuto il compito, che io sappia, di far regnare la libertà e la giustizia. Gli Stati polizieschi non sono mai stati sospettati di avere aperto scuole di diritto negli scantinati dove interrogavano i propri pazienti. Quando opprimono e quando sfruttano non fanno che il loro mestiere, e chiunque metta la libertà nelle loro mani senza alcun controllo non ha il diritto di stupirsi se essa viene immediatamente disonorata. Se la libertà oggi è umiliata o incatenata, non è perché i suoi nemici sono subdoli traditori, ma proprio perché i suoi custodi naturali, hanno cessato di essere tali, dimenticando che il prezzo della libertà è l’eterna vigilanza. Questa riflessione è di Albert Camus ed è tratta da La rivolta libertaria, Milano 1998. In quel libro il lettore coglie subito l’eccezionale lucidità degl’interventi politici di Camus. Egli è, infatti, uno dei pochi grandi scrittori del Novecento – era nato nel 1913 in Algeria e morì in Francia in un incidente stradale nel 1960 – che nella sua vita ha obbedito sempre a un solo imperativo: non barare, non tradire mai la verità da cercare e testimoniare con tutta l’anima costi quel che costi.

«CI VOGLIONO I RITI». Per conoscerci ci vuole tempo, pazienza e, come dice la volpe nel Piccolo principe, «ci vogliono i riti». Nel XXI capitolo di quel libro, leggiamo come ci si accosta, ci si conosce e si prepara nel cuore lo spazio per un amico, uno dei pochi beni che non si possono comprare già belli e pronti dai mercanti. Il piccolo principe ha fatto conoscenza della volpe e si sono dati appuntamento per l’indomani. Quando il piccolo principe arriva dalla volpe si sente accogliere con queste parole: «Sarebbe stato meglio ritornare alla stessa ora. Se tu vieni, per esempio, tutti i pomeriggi alle quattro, dalle tre io comincerò ad essere felice. Col passare dell’ora aumenterà la mia felicità. Quando saranno le quattro, incomincerò ad agitarmi e ad inquietarmi; scoprirò il prezzo della felicità! Ma se tu vieni non si sa quando, io non saprò mai a che ora prepararmi il cuore… Ci vogliono i riti». «Che cos’è un rito disse il piccolo principe. «È quello che fa un giorno diverso dagli altri giorni, un’ora dalle altre ore». Fulvio Scaparro – l’illustre studioso di Psicopedagogia e docente, fino al 1997, nella facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Milano – commenta sobriamente: «Perché un’ora sia diversa dall’altra, perché i giorni non si assomiglino tutti, perché la festa sia una festa, il lutto un lutto, la regola una regola e la trasgressione una trasgressione, la nostra esistenza deve avere un ritmo, dei riti e dei rituali» (La bella stagione. Dieci lezioni sull’infanzia e sull’adolescenza, Milano 2003, pp. 39-40).

22 luglio 2004.

LINEA RECTA BREVISSIMA. Quanto importante? Una cosa diventa importante per una persona quando ha preso tanta parte del suo tempo, quando è stata oggetto della sua «cura» (Levi Appulo). Un bambino sulla sabbia. Su tutta la splendida spiaggia ricordo specialmente i bambini e le bambine che giocavano e ruzzolavano e che forse non sarebbero mai stati così felici. «Felice come un bambino sulla sabbia» è una frase vera come il calore del sole (Thomas Dylan). Chi sono i migliori alleati degli Stati Uniti? Coloro che si battono per i diritti umani in tanti Paesi del mondo sono i migliori alleati del nostro Paese. Essi rappresentano la speranza di liberarci dall’odio e dalla paura. Sono un fronte di libertà che gli Stati Uniti devono sostenere e non isolare (Jimmy Carter, ex presidente degli Stati Uniti, 14 maggio 2004).

PER LA SCUOLA E PER LA VITA. Vi sono persone nella cui formazione la scuola, in un modo o nell’altro, ha svolto un ruolo più importante rispetto ad altre istituzioni; per me negli anni dell’adolescenza essa contò più della famiglia e della Chiesa. Consapevole di quanto avevo ricevuto, per suo tramite, alla fine delle scuole superiori, al momento d’iscrivermi all’Università, decisi di dedicare la mia vita all’insegnamento di due splendide discipline come la storia e la filosofia, rimanendo saldamente all’interno della scuola, accanto ai giovani. Dopo tanti anni quella scelta mi appare come una benedizione: non c’è, infatti, mestiere più alto e umanizzante dell’insegnamento. Insegnare significa rivivere ogni giorno, con rinnovato interesse, linee di pensiero ed eventi significativi, stare costantemente in compagnia dei grandi spiriti dell’umanità, unire vichianamente il certo e il vero, l’accertamento storico e lo sforzo di giustificare teoreticamente qualsiasi giudizio di valore; ma insegnare significa anche ed in primo luogo amare i giovani, destarli incessantemente alla coscienza di una vita più alta, educarli a un civismo lucido e coraggioso, al rifiuto del fanatismo, alla pratica della lealtà democratica – la quale esige sempre da parte dei docenti l’aperta, severa individuazione dei torti e delle insufficienze della parte a cui, a vario titolo, ci si collega o in cui si milita.

POESIA DEI NOSTRI GIORNI. Lo stupore del sorriso. Leggero soffio biblico, / la nostra piccola esistenza naturale / si accompagna a sfaceli e distruzioni… / Eppure, nel nostro mondo instabile, / ancora ascoltiamo Boccherini, / guardiamo le vetrine, poi si viaggia, / si fa l’amore, si prega, si cucina, / si va allo stadio, si gioca a briscola. / I migliori di noi, se la fortuna vuole, / coltivano le arti e la sapienza (Inìsero Cremaschi, Poesie cortesi e scortesi, Brescia 2004).

29 luglio 2004.

LINEA RECTA BREVISSIMA. Il bello e il difficile. Il bello è difficile, ma non è il difficile (Niccolò Tommaseo). Un’attrattiva più forte. La certezza di un Dio che conferisca un significato alla vita supera di molto, in attrattiva, il potere di fare il male impunemente (Albert Camus). L’avevo detto. Sull’esito di ogni avvenimento in corso si fanno sempre tante ipotesi che, comunque finisca, si troverà sempre qualcuno che dirà: «L’avevo detto» (Lev Tolstoj).

UN PO’ DI N PO’ DI DIGNITÀ PER I DETENUTI. Il 16 giugno 2004 Il Manifesto ha pubblicato la seguente lettera: «I detenuti della prima sezione del carcere di Nuoro segnalano che la struttura di questo istituto è vecchia, decadente, obsoleta e all’interno regna l’anarchia totale. Il gabinetto è scoperto ed è angoscioso essere costretti a espletare i bisogni corporali sotto gli occhi dei compagni che occupano la stessa cella. Come si fa in una situazione simile a preservare quel briciolo di dignità che ci rimane? La nostra sezione ha tre piani, ma per distribuire il vitto c’è un solo carrello, che viene trasportato a mano attraverso le rampe delle scale. È facile immaginare i disagi che ne derivano: sono relativamente fortunati i detenuti del piano da cui si comincia la distribuzione del vitto. Ai carcerati che arrivano dal continente è difficile poter ricevere visite ed è quindi molto importante per loro l’arrivo di un pacco postale dai propri cari; ma se viene consegnato a distanza di settimane, ciò che vi è di commestibile si deteriora e va buttato». La grande forza di questa lettera sta nella capacità di raccontare due o tre fatti essenziali, senza perdersi in chiacchiere inconcludenti. Ci chiediamo quanti altri detenuti vivono nella situazione di vergognosa incuria che caratterizza la prima sezione del carcere di Nuoro? Nel 1944, esattamente sessant’anni fa, mi recavo spesso a visitare in carcere, a Ginosa, in provincia di Taranto, una persona cara imprigionata per reati annonari. Da quel che vedo, dopo tanto tempo, nel nostro Paese poco è cambiato per i nostri carcerati. Ed è un disonore per tutti. Nessuno escluso.

L’EUROPA NELLA SUA FORMA PROPRIA. «L’Europa è un delta: la corrente si divide prima della foce, ma tutti i suoi rami vanno a finire nello stesso mare. L’Europa nella sua forma propria è una protesta appassionata contro ogni semplificazione, ogni soluzione plausibile, ogni tentativo di ridurre uomini e popoli a un unico denominatore. E proprio questa protesta, questa confessione ardente verso l’individualità storica è la forma di vita europea, non come negazione bensì come adempimento, come struttura nella storia, nel pensiero e nell’arte». Era Reinhold Schneider una figura di spicco in Germania, fra il 1930 e il 1958, l’anno della sua morte. Critico letterario acuto, la sua creatività poetica si espresse potentemente nella narrativa e nel teatro. Poi, con la sua scomparsa, è calato il silenzio sul suo nome. Nella nostra lingua sono state tradotte dall’editrice Città Armoniosa, di Reggio Emilia, un suo libro di pensieri intitolato Parole dal profondo – da cui traggo il brano sull’Europa e uno dei suoi due drammi maggiori: Il gran rifiuto, su Bonifacio VIII, il nemico di Dante, Jacopone da Todi e Celestino V. L’altro suo dramma s’intitola Innocenzo e Francesco.

POESIA PORTOGHESE DEL NOSTRO TEMPO. Arte poetica. Un’idea / vale come una promessa / e promettere è mettere all’arco / la grande freccia. / Il fianco delle cose / solo se sanguina mi commuove, / e una domanda è quella giusta / quando apre una ferita (Vitorino Nemésio, nato nelle Azzorre, 1901-1978).

5 agosto 2004.

LINEA RECTA BREVISSIMA. Il nostro primo istinto. Entrando in qualunque forma di attività organizzata, una chiesa, una banda, un ufficio governativo, una commissione parlamentare, il nostro primo istinto è di chiedere chi comanda (John K. Galbraith). Il di più nel comandare. L’attività dell’uomo è limitata: e tutto il più che c’era nel comandare, doveva tornare in tanto meno nell’eseguire. Quel che va nelle maniche, non può andar ne’ gheroni (Alessandro Manzoni). Questa è la cosa migliore. Ho amato il mio Dio come chi, bambino nel cuore, / cerchi profondi seni su cui riposare, / ho amato il mio Dio come fanciulla un uomo, / ma questa è la cosa migliore: / amare il proprio Dio come un gagliardo avversario che gioca dietro il velo / … chi perde con Dio da uomo a uomo, / al volger della sorte vincerà (Ezra Pound).

UNO DEI VERTICI DELLA RIFLESSIONE TEOLOGICA DI AGOSTINO. Per sant’Agostino la ferita del vitium originis ha distrutto la libertas bene operandi come stato permanente dell’uomo e non ha distrutto il libero arbitrio; per Lutero e Calvino, invece, non c’è più ombra di libertà di scelta. Nel De servo arbitrio (l’opera ha un titolo programmaticamente opposto al De libero arbitrio di sant’Agostino) Lutero giunge a scrivere: «La volontà umana è situata nel mezzo, come un giumento… Se la cavalca Dio, vuole e va dove Dio vuole. Se la cavalca Satana, vuole e va dove vuole Satana». La cancellazione della libertà di scelta conduce a proclamare, in modo particolare con Calvino, uno spietato determinismo teologico. Per sant’Agostino, invece, come si fondono in perfetta «sinergia», secondo l’espressione paolina, il libero arbitrio dell’uomo e la grazia di Dio, allo stesso modo, non c’è opposizione, ma inclusione e unificazione intima tra la gratuità pura della grazia, l’universale volontà salvifica di Dio, la elezione dei giusti, da una parte, e, dall’altra, il valore insostituibile del «sì» e del «no» che l’uomo dice a Dio in ogni istante della sua vita. Proprio perché Dio, Atto Puro ed Eterna Presenza, conosce gli esseri nella natura in cui li ha creati, egli conosce e vuole come liberi gli atti volontari degli esseri razionali per natura dotati di libero arbitrio.

SULLA BASE DI DUE VERITÀ SALDAMENTE CONOSCIUTE. Lo sforzo per addentrarci in un mistero che sorpassa da ogni parte l’uomo non deve in nessun caso farci abbandonare quelle certezze che già abbiamo guadagnato, quali che siano le difficoltà che sopraggiungono quando si vogliono conciliarle tra loro. Per Agostino vi sono due verità saldamente conosciute. La prima è la imprevedibilità del divenire concreto dell’uomo. Agostino è ben lontano dal ridurre a dei vani fantasmi le vicende di questo mondo, con le reali alternative di bene e di male che si succedono nelle coscienze. Finché non è sorto l’ottavo giorno, che è il giorno della morte e del giudizio che l’accompagna, non cessa per nessuno l’alternativa delle tenebre e della luce. La seconda verità è questa: «Dio è buono, Dio è giusto. Perché è buono, può salvare ognuno senza meriti; perché è giusto, non può condannare nessuno senza demeriti» (Contra Julian., III, 18, 35). L’espressione più semplice e profonda del suo pensiero e del pensiero cattolico sul difficile problema Agostino ce la dà nel Sermone 169 (11, 13): «Chi ti ha creato senza di te, non ti giustifica senza di te; ti ha creato senza che tu lo sapessi, ti giustifica solo se tu lo vuoi».

POESIA INGLESE. Lo studente di Oxford. Poneva nello studio molta cura / e non parlava mai fuor di misura, / ma pur con appropriata citazione / ai suoi discorsi dava concisione. / Era il suo fare alla virtù mirato / e apprendere o insegnare gli era grato (Da I racconti di Canterbury, uno dei più celebri poeti inglesi di tutti i tempi. Visse a Londra dal 1342 al 1400).

12 agosto 2004.

LINEA RECTA BREVISSIMA. Chi ha giovato di più alla cultura? La cultura ha guadagnato soprattutto da quei libri con i quali gli editori hanno perso (Questa considerazione è di Thomas Fuller, storico inglese ed ecclesiastico anglicano). Non desidero conversare con lui. Non desidero conversare con un uomo che abbia scritto più di quanto abbia letto (Samuel Johnson). Due modi ‘piemontesi’ di far politica. Ci sono due modi di essere piemontesi: quello che si rifà a Giuanduja, che ha come motto «è questione di non prendersela», e quello alfieriano, di chi s’indigna. Io appartengo a questo secondo filone: sento ancora il bisogno di «prendermela» con le cose ingiuste, con le cose che non vanno (Diego Novelli).

ESSERE AFFERRATI DALLA PAROLA PER LA PRIMA VOLTA. «Aprii la Sacra Scrittura una vigilia di Natale a Potsdam, me l’ero comperata da ragazzo nella traduzione di Lutero, e dopo pochi capitoli fuggii sulla strada fredda e buia. Perché era completamente chiaro: la vita cambia alla radice in questa pretesa di verità. È un libro che non si può leggere: si può solo metterlo in pratica. Non è un libro, è una potenza di vita, ed è impossibile capirne anche una riga soltanto se non si ha l’intenzione di viverla. Da questo deriva la più atroce impossibilità di comprensione umana: comprende la fede solo chi crede, si impara a credere solo se si prega e tuttavia si può pregare solo se si crede. Cristo non ha scritto e non ha ordinato di scrivere, né ha pensato: ha vissuto. Cristo è parola vivente. Ed anche oggi il libro parla solamente in quanto Cristo vive e perché noi vediamo la luce nella luce dello Spirito inviato nel mondo (Reinhold Schneider, Parole dal profondo, Reggio Emilia, 1978). Un invito agli amici lettori e a me stesso: occorre ripensare e ricostruire, nel modo più preciso possibile, il momento del primo incontro col Cristo dei Vangeli. Alla fine di un’interrogazione ininterrotta sul senso della vita e di una ricerca appassionata di ogni singola verità, da chiunque ci venga proposta, l’esperienza decisiva, che cambia la vita, rimane l’irruzione della parola di Gesù Cristo nella nostra esistenza.

POESIA PORTOGHESE DEL NOSTRO TEMPO. Orfeo ribelle. Orfeo ribelle, canto come sono: / che nella scorza del tempo, col coltello / incida la furia di ogni momento; / canto, per vedere se il mio canto scalfisce / l’eternità del mio tormento. / Altri, felici, siano usignoli… / Io alzo la voce così, in una sfida: / so che ci son grida come venti, / violenze affamate di tenerezza. / Canto come chi usa i versi in legittima difesa, / canto, senza domandare alla Musa / se il canto è di terrore o di bellezza (L’autore di questa composizione è Miguel Torga, portoghese. Torga significa erica, l’umile pianta tipica del paesaggio natale del poeta, ed è lo pseudonimo di Adolfo Correia da Rocha. Oltre la corposa produzione poetica, Torga ha lasciato ben dodici volumi di memorie del proprio tempo).

L’ANGOLO DELLA PREGHIERA. Domanda e risposta. Domanda: «Che cosa c’è, Signore, in me che ancora non vedo? / Illuminami, Signore, / che io possa mutare ciò che devo mutare». / Risposta: «Al servizio dei viventi cresce la pace che cerchi. Soffri ancora per quel tanto che pensi a te» (Marco Guzzi, poeta vivente). Così pregava Rabi’a, mistica mussulmana del secolo VIII, nella notte stellata di Baghdad. Mio Signore! In cielo brillano le stelle, / gli occhi degli innamorati si chiudono. / Ogni donna innamorata è sola col suo amato. / E io sono sola, qui, con te!

19 agosto 2004.

LINEA RECTA BREVISSIMA. Non dire mai no, non chiedere mai niente. Non dire mai no a qualsiasi chiamata, non chiedere mai niente per te (Francesco di Sales, grande santo ginevrino). Non ci si rivolge a un pubblico. Niente di buono può uscire da chi in primo luogo si rivolge a un pubblico. Quando ci si rivolge a un pubblico non si parla a qualcuno. In ogni ricerca di effetti sul pubblico si insinua un artificio, una insincerità di fondo che mina in partenza l’opera intrapresa (Henri De Lubac). Ti è stato insegnato… Uomo, ti è stato insegnato ciò che è buono / e ciò che richiede il Signore da te: / praticare la giustizia, / amare la pietà, / camminare umilmente con il tuo Dio (Libro del Profeta Michea).

IN DIO NON C’È VIOLENZA. In un testo dell’età apostolica, a me tanto caro, l’A Diogneto, si legge l’espressione: «In Dio non c’è violenza» (VII, 4). Queste grandi parole sono inserite nel seguente brano: «Dio ha inviato – scrive l’ignoto autore di quella lettera – l’Artefice e l’Autore stesso dell’universo. Forse che egli fece queste cose – come qualcuno potrebbe fantasticare – per tiranneggiare, spaventare, atterrire? No certo. Il Padre lo inviò in mitezza e bontà, come un re manda suo figlio re. Lo inviò come Dio, qual era, e come uomo, come conveniva che diventasse per salvare gli uomini, mediante la persuasione e non con la violenza. In Dio, infatti, non c’è violenza. Egli l’ha inviato per chiamarci a lui, non per porci in stato d’accusa. L’ha inviato spinto da amore, non da rigore» (VII, 3-5). Il tema della benignità di Dio e della grandezza teocentrica dell’uomo è già il motivo dominante degli scritti del primo grande pensatore cristiano, Ireneo di Lione. «È gloria di Dio l’uomo vivente (gloria Dei, vivens homo)» scrive Ireneo intorno al 170-180 d.C. in Contro le eresie (IV, 34, 77) e queste sue parole costituiscono la formula più positiva e intensa dell’umanesimo cristiano. «Dio ha creato libero l’uomo, affinché osservasse volontariamente la volontà di Dio, senza esservi costretto. In Dio, infatti, non c’è violenza» (ibid. IV, 37, 1) – ribadisce Ireneo, usando senza saperlo la stessa formula dell’A Diogneto. L’uomo, infatti, non può essere buono come si dice di una cosa che è buona. La sua eccellenza dev’essere un’eccellenza voluta, consentita. Il paradosso della rivelazione cristiana consiste proprio in questo: la libertà dell’uomo non può essere giustificata che dall’onnipotenza della libertà creatrice e redentrice. L’onnipotenza di un Dio che è agàpe, che è spirito e libertà, ed essa sola, può garantire l’indipendenza di colui che è posto nell’essere. Ancora una volta si tocca qui per mano l’originalità della ‘metafisica cristiana’, che non concepisce il rapporto tra Dio e l’uomo in termini di concorrenza antagonistica – per cui l’affermazione dell’uno esigerebbe la negazione dell’altro – ma come «sinergia» e «vincolo nuziale». Si può accettare o rifiutare il Cristianesimo, ma fraintenderlo sistematicamente – e proprio sul punto centrale del suo messaggio – non è cosa seria.

POESIA PORTOGHESE DEL NOVECENTO. Una vaga sensazione simile alla paura. Ah, la freschezza dei mattini in cui si arriva / e il pallore dei mattini in cui si parte, / quando le nostre viscere si contraggono / e una vaga sensazione simile alla paura / – la paura ancestrale di allontanarsi e di partire, / il misterioso timore ancestrale dell’Arrivo e del Nuovo – / ci aggriccia la pelle e ci tormenta, / e tutto il nostro corpo angosciato sente, / come se fosse la nostra anima, / un inesplicabile desiderio di poterlo sentire altrimenti, / una nostalgia di qualche cosa, / un’inquietudine di affetti per quale vaga patria? / per quale costa? per quale nave? per quale molo? (Fernando Pessoa, 1888-1935, è il più grande poeta portoghese contemporaneo. La sua opera è quasi interamente tradotta nella nostra lingua).

26 agosto 2004.

LINEA RECTA BREVISSIMA. Chiarimento decisivo. Che nessuno dica: «è Dio che mi tenta». Poiché Dio non può essere tentato dal male ed egli stesso non tenta nessuno; ciascuno è tentato dalla sua propria bramosia che lo attira e lo lusinga (Lettera di Giacomo Apostolo). Ci vogliono i non rassegnati attivi. La salvezza dell’uomo è nelle mani dei disadattati creativi (Martin Luther King ne La forza di amare). Avranno l’ultima parola. Sono fermamente convinto che la verità disarmata e l’amore disinteressato avranno l’ultima parola (Martin Luther King nel Discorso pronunciato alla consegna del premio Nobel, 11 dicembre 1964). La reiterazione ossessiva. Quando, in questo mondo, un uomo ha qualcosa da dire, la difficoltà non sta nel fargliela dire, ma nell’impedirgli di dirla troppo spesso (George Bernard Shaw).

COME SARÀ IL PARADISO? Le espressioni che riguardano la nostra vita nell’al di là sono nella Sacra Scrittura luminose ed insieme estremamente sobrie. Ecco come sant’Agostino ci parla del paradiso nei paragrafi finali delle Confessioni (libro XIII, 35-36-37-38). «Signore Dio, che ci hai dato tutto, donaci la pace (Is. 26, 12), la pace del riposo, la pace del sabato, la pace senza tramonto. Tutta questa stupenda armonia di cose assai buone, una volta colmata la sua misura, è destinata a passare. Esse hanno, infatti, un mattino e una sera. Ma il settimo è il giorno senza sera, il giorno senza tramonto. L’hai santificato perché durasse eternamente. Il riposo che prendesti al settimo giorno, dopo aver creato le tue opere buone assai, pur rimanendo in te stesso, in perfetta quiete, ci dice, per mezzo del tuo Libro, che noi pure, dopo aver compiuto le nostre opere, buone assai a causa della tua generosità, nel sabato della vita eterna riposeremo in te. Anche allora sarai tu a riposare in noi, come ora sei tu a operare in noi. Sarà, quello, un riposo tuo per mezzo nostro, come ogni opera buona è opera tua per mezzo nostro. Tu, però, Signore, operi sempre e riposi sempre. Non vedi, non ti muovi, non ti riposi secondo il tempo; e tuttavia sei tu che ci fai vedere nel tempo, e crei il tempo e il riposo oltre il tempo. Noi vediamo gli esseri che tu hai creato perché esistono. Tu invece li fai esistere perché li vedi. Con i sensi vediamo che esistono, con la riflessione che sono buoni. Noi ora siamo spinti a fare il bene, dopo che il nostro cuore lo concepì per opera del tuo Spirito, mentre prima eravamo inclinati a fare il male e ad abbandonarti. Tu, però, Dio unico e buono, mai cessasti di operare il bene. Possono alcune opere nostre essere buone, certamente per tuo dono, ma non eterne; eppure dopo di esse speriamo di riposare nel seno della tua sublime santità. Tu, invece, sei il Bene che non abbisogna di altro bene e sei tu stesso la pace. La comprensione di questa verità quale uomo potrà darla a un uomo? A te si chieda, in te si cerchi: perché è così che ci sarà dato ed è così che troveremo. Bussiamo alla porta: ci sarà aperto.

QUEGLI SPIRITI DOVREBBERO FAR PARTE DELLA NOSTRA VITA. Per coloro che credono, non c’è forse segreto più doloroso del destino di quelli che furono dotati di doni grandissimi e non percorsero il cammino della fede. Non spetta a noi giudicare, né possiamo valutare, quali lotte spirituali furono condotte per ieri, oggi e domani in questa vita allo stesso tempo storica e metastorica. Ma gli spiriti che ci fanno doni e ci portano alla verità, esortando all’imitazione o alla rivolta, dovrebbero avere una parte, nella nostra vita interiore, che arriva fino alla preghiera; e qui, nei momenti più silenziosi e raccolti, può sembrarci possibile la penetrazione del mistero cui a mala pena osiamo accennare (Reinhold Schneider in Parole dal profondo).

2 settembre 2004.

LINEA RECTA BREVISSIMA. Ciò che è veramente stupefacente. Lo strano, lo stupefacente non sarebbe tanto che Dio esistesse davvero: lo stupefacente è che un tale pensiero – il pensiero della necessità di Dio – sia potuto nascere nel cervello d’un selvaggio, d’un malvagio animale com’è l’uomo (Fëdor Dostoevskij). Sazietà e indigenza sono termini inadeguati. Nel giorno senza sera, saremo simili a Dio per opera di Dio. Vedremo il suo volto. Non vi sarà più alcuna indigenza, e tuttavia giammai cesseremo di ricevere. Nel gaudio della Verità non vi sarà in cielo né sazietà né indigenza, ma piuttosto un incessante saziarsi (Levi Appulo).

L’INSOSTENIBILE FANTASTICHERIA DA CUI È NATO L’ANTITEISMO. Platone aveva ben visto che, se si cade nella trappola dell’antromorfismo, nessuna affermazione blasfema è esclusa, neppure quella di un «dio-vampiro», secondo la quale l’Essere, che pure è pensato come l’Assoluto, sussisterebbe solo nell’atto di svuotare della loro stessa sostanza tutti gli altri esseri. Byron, in fondo, esprime proprio quella fantasticheria quando rappresenta Giove come «il dominante principio dell’Odio / che per suo piacere crea / le cose ch’egli possa distruggere» (Prometheus, vv. 20-22). Di fronte a una rappresentazione così ripugnante dell’Assoluto, in cui l’onnipotenza è assimilata al capriccio e alla malvagità, è destinato inevitabilmente a grandeggiare il mito antagonista di Prometeo, il lottatore audace e infelice che si ribella a uno smisurato, cieco potere. Si tratta di una proiezione pseudo-religiosa della logica mondana della forza bruta che assoggetta, sfrutta, aliena. Quella logica e la proiezione corrispondente sono state apertamente criticate e respinte da ogni filosofia degna del nome e dall’autentica coscienza religiosa. Fiera e limpida fu sempre la protesta di Israele; ma nella Grecia, forgiatrice di miti, Senofane elaborò assai presto un’acuta confutazione dell’antropomorfismo e il suo discorso fu portato a perfezione, con insuperata efficacia, da Socrate nell’Eutìfrone platonico. All’attività fabulatrice del mito, sempre ambivalente, il pensiero greco ha cercato di sostituire l’indagine razionale sulla causa incausata del reale e sul fondamento primo della coscienza morale. Platone conia nella Repubblica (II, 379a) anche il termine theologia. In Aristotele la theologia diventa non solo momento essenziale e definitorio, ma vertice e punto di confluenza dell’intera ricerca metafisica; e lo è a tal punto che egli può usare quel termine a indicare, da solo, la metafisica in quanto tale (Metafisica VI, 1, 6; XI, 7, 7). Chi, infatti, fa ricerca delle cause prime e dei principi primi di necessità deve incontrare Dio. Assai profonda e bella è la risposta di Platone alla domanda sul perché dell’esistenza stessa del mondo: «L’Artefice era buono e in uno buono nessuna invidia nasce mai per nessuna cosa. Immune da invidia, volle che tutte le cose divenissero simili a lui quanto potevano. Né ora né mai è lecito, infatti, a chi è sommamente buono di far altro se non la cosa più bella secondo la natura e la più buona che si potesse» (Timeo 29 e 30b). È difficile leggere una confutazione più appassionata e profonda del mito del «dio-vampiro».

POESIA INGLESE. Il sorgere del sole. Il segno radioso di Dio / sorge sul grande mare ondoso / scintillando ad oriente / in tutta la sua gloria. / Le stelle si nascondono, / sommerse dall’oceano ad occidente, / oscurate dall’alba, / la notte si parte con le tenebre. / La luce celeste si avvicina / scivolando da oriente / sull’immenso mare (Dall’antico poemetto cristiano La Fenice. L’autore inglese è ignoto, la datazione incerta).

9 settembre 2004.

LINEA RECTA BREVISSIMA. Il miracolo della storia cristiana. Il miracolo della storia cristiana è la presenza di un numero, sempre rinnovato, di testimoni invincibili che osano opporsi al mondo ma anche alla chiesa che si secolarizza continuamente; questo miracolo è opera dello Spirito Santo ed è la chiamata dei deboli alla trasformazione storica del mondo (Reinhold Schneider). La prima forma di alienazione. La prima e più radicale forma di alienazione è quella dell’uomo che non si conosce. Il filosofo è con Dio. Il filosofo è con Dio perché ha coscienza della propria interiorità. (Agostino)

UN FAMOSO EPIGRAMMA DI SCHILLER. Il poeta Schiller, che pure vide nell’etica kantiana il prototipo di ogni morale, non interpretava correttamente il pensiero di Kant quando nel suo noto epigramma, Gewissenscrupel, scriveva: «Ho aiutato volentieri i miei amici. L’ho fatto con inclinazione e per questo spesso ho il rimorso di non essere virtuoso». L’equivoco – che quei versi, così spesso ripetuti acriticamente alimentarono – nasce da un fraintendimento radicale. Kant non ammette alcuna neutralità morale negli atti umani e giudica le proprietà del temperamento non idonee di per sé a costituire l’essenza della moralità: queste, infatti, possono essere buone sotto un certo aspetto, e persino desiderabili, ma possono diventare anche estremamente cattive e dannose, quando non è buona la volontà che deve servirsi di esse. Il filosofo di Kønisberg distingue nettamente il dovere dall’inclinazione, dall’istinto, dal calcolo, ma ciò non significa affatto che vi sia una incompatibilità permanente fra dovere e sentimento, come invece pensa Schiller.

LA PRIMA RISPOSTA DI KANT A SCHILLER. Kant replicò serenamente nella Religione entro i limiti della ragione. La prima osservazione di Kant è che altro è agire «con inclinazione» (mit Neigung), altro agire «per inclinazione» (aus Neigung). L’inclinazione può anche coesistere con il dovere, ma l’azione etica per essere tale deve avere solo nella volontà buona il movente precipuo e determinante. È facile illudersi quando l’accordo tra sentimento e legge morale è spontaneo (come, ad esempio, nel cercare una giusta sicurezza economica); rimane, però, sempre vero che l’atto ha valore morale, anche in questi casi, se è compiuto per rispetto alla legge, non per inclinazione. Su questo punto decisivo Kant ha scritto cose geniali e profonde su cui torneremo al più presto.

LA BENEDIZIONE DI CHI È DIVENTATO VECCHIO. Nella benedizione c’è una forza santa e impenetrabile, che è la vera prerogativa dell’età matura e non possiamo immaginare che cosa perderebbe il mondo senza la benedizione di chi è diventato vecchio. E forse si può dire che, nell’ordine visibile delle cose, gli uomini non possono raggiungere niente di più alto della possibilità di impartire una benedizione. Occorre una lunga vita, soprattutto una fine piena di grazia per poter benedire e lo possono fare soltanto i puri di cuore o quelli che lo sono ridiventati (Reinhold Schneider in Parole dal profondo).

POESIA RELIGIOSA DEL NOVECENTO. Domus aurea. Stava nascosto il piccolo gran Re / ed eri tu, Maria, casa di terra, / la casa d’oro del sole infinito, / o Illuminata, Illuminante! // L’uomo inciampava, tristo, nel suo buio, / e tu sola adoravi, in te stessa, / la germinazione di quella Luce / che esisteva prima delle stelle (Domenico Giuliotti).

16 settembre 2004.

LINEA RECTA BREVISSIMA. Dio e l’anima. Mi chiamerai: «Marito mio» – dice il Signore – e non mi chiamerai più: «Mio padrone» (Libro di Osèa). Se lo fai malvolentieri… Nessuno fa bene ciò che fa malvolentieri, benché sia bene quello che fa. Vale infinitamente di più. Per imparare vale più la libera curiosità che la pedante costrizione. (sant’Agostino)

QUANDO SBAGLIA CHI SIEDE IN CATTEDRA. Chi siede in cattedra può anche commettere uno sbaglio, ma conserva lo stesso la sua autorità se sa serenamente correggersi; se si precipita, invece, alla difesa del suo errore, allora ne commette uno più grande (De catechizandis rudibus 11, 16). Spesso ripensando alle cose dette noi troviamo affermazioni che ci risultano inaccettabili. Ebbene, come siamo disposti a rimproverare noi stessi in silenzio, così dobbiamo, quando è necessario, riconoscere i nostri errori in pubblico. Chi può dire di non aver mai pronunciato una parola che avrebbe preferito non aver detto? Una lode del genere sarebbe da rivolgere piuttosto a un perfetto somaro che non a un uomo veramente saggio, il quale sa di poter sbagliare e si sforza di appartenere al numero di coloro che progrediscono perché si pentono di quel che hanno detto di non buono, o sconsiderato e inopportuno (Epistola 143, 2-3). Il problema su cui abbiamo voluto richiamare l’attenzione è tra i più seri e concreti. La soluzione proposta da Agostino qui attestata da due luminose citazioni è la sola che meriti di essere accolta in particolare da chi svolga opera educativa. I giovani stimano chi non si chiude mai in una pretesa autosufficienza e tanto più chi non pretende di aver ragione anche quando ha torto. Agostino attestò fino all’ultimo quanto fosse radicato nella sua personalità questo atteggiamento. In un’opera degli ultimi anni ebbe, infatti, a scrivere: «Beato l’uomo che nell’ultimo giorno ha ancora conservato le sue possibilità di progredire. Io sto per finire la vita prima di aver finito di correggermi» (De dono perseverantiae 21, 55).

SUL COSIDDETTO «RIGORISMO» DI KANT. Il problema posto dall’epigramma schilleriano sulla morale kantiana era troppo importante e il filosofo di Kønisberg colse l’occasione per illustrare il significato autentico della sua dottrina. Mi pare di poter sintetizzare il pensiero di Kant sull’argomento attraverso due passaggi di grande chiarezza.

  1. Una volontà santa, che non avesse a fare i conti col sistema di bisogni e di stimoli, aderirebbe senz’altro alla legge, che perderebbe ipso facto il suo carattere di intransigente imperatività. La legge morale assume carattere coercitivo rispetto ad una sensibilità indocile o ribelle, com’è quasi sempre quella dell’uomo. La volontà santa spetta solo a Dio. Per l’uomo la legge riveste, in linea generale, carattere imperativo e determina la tensione diretta ad ostacolare gli eccessi e i difetti della sensibilità naturale. In definitiva Kant nega che su questa terra l’uomo possa accordare talmente la sua natura sensibile con la legge, da diventare una «bell’anima» – secondo l’ideale schilleriano – che compie naturalmente il bene.
  2. Non è lecito assolutamente confondere la serietà dell’impegno morale e il compiere con ripugnanza il proprio dovere. In tal senso l’insinuazione di Schiller va respinta con forza. Kant scrive testualmente: «L’obbedienza servile alla legge non può andare immune da un certo occulto odio verso la legge stessa, mentre il cuore lieto nell’osservanza del proprio dovere è un segno della genuinità della coscienza virtuosa, anche nella sfera religiosa che non consiste nel cruccio del peccatore pentito, ma nel saldo proposito di far meglio per l’avvenire». Senza una gioconda disposizione di spirito, non si è mai sicuri che il bene sia conquistato con amore, cioè assunto nella propria massima. Gli atteggiamenti cupi, stoicizzanti o farisiaci, non hanno nulla a che fare con la morale kantiana; non costituiscono un problema di morale, ma di patologia. Kant ci mette dunque in guardia contro il preconcetto che la virtù debba avere un aspetto accigliato.

23 settembre 2004.

LINEA RECTA BREVISSIMA. Se c’è ancora qualcuno che pensa a te. Nella dolce notte, al lume della luna, è una gioia immaginarsi che c’è ancora qualcuno al mondo che pensa pure a te! Siamo per lo più addormentati. Finché non amiamo, siamo addormentati. Siamo fatti di fango… ma ama e diventi un Dio, diventi puro come il primo giorno della creazione. Sii degno di essere amato ed ama. Cogli i momenti di gioia, fatti amare ed ama tu stesso! Solo questo è vero nel mondo; il resto, son tutte sciocchezze. (Lev Tòlstoj)

NEL SECOLO IV: L’INTUIZIONE DECISIVA SUL RAPPORTO TRA SCIENZA E FEDE. In polemica con i manichei – la cui gnosi presumeva di spiegare con assoluta razionalità le realtà divine e i fenomeni fisici – Agostino denuncia «l’audacia sfrontatissima» di quei credenti che osano incorporare al dato rivelato una teoria o un’ipotesi scientifica, piegando la Scrittura ad un compito che le è del tutto estraneo. Nuoce, e molto, ai cristiani confondere la scienza, vera o presunta che sia, con l’insegnamento religioso e affermare con ostinazione quanto si ignora. Non esiste una rivelazione religiosa dei fenomeni naturali ed è pertanto assurdo attribuire alla Scrittura una rivelazione cosmologica invece che morale e religiosa. «Quando sento parlare questo o quel fratello cristiano che è inesperto nelle scienze e in esse ha idee sbagliate, io – incalza Agostino nelle Confessioni – considero le sue opinioni con pazienza; né vedo come gli nuoccia l’ignorare accidentalmente la posizione e la condotta di enti corporei creati da te, allorché su di te, Signore, creatore di tutto, non abbia opinioni sconvenienti. Gli nuoce, invece, il pensare che la scienza faccia parte proprio dell’insegnamento religioso e l’affermare con sfrontata ostinazione quanto ignora» (V, 5, 9). È questa una lucida, radicata convinzione di Agostino che egli ripropone in testi diversi. «Attribuire alla Scrittura dati scientifici è delirare, è far ridere» giunge a scrivere nel De Genesi ad litteram (I, 19). E nel Contra Felicem: «Non si legge nel Vangelo che il Signore abbia detto: vi mando il Paraclito perché v’insegni come camminano il sole e la luna. Egli voleva fare dei cristiani non degli astronomi» (I, 10).

KANT: «ASSICURARE LA PROPRIA FELICITÀ È UN DOVERE, ALMENO INDIRETTO…». Mi sembra opportuno ricordare qualcosa che viene abitualmente ignorato: Kant aveva prevenuto l’interpretazione rigoristica della sua dottrina morale già nella prima opera di filosofia morale, la Fondazione della metafisica del costume. In essa si sostiene, ad esempio, che anche la cura del proprio benessere è un dovere: «Assicurare la propria felicità è un dovere, almeno indiretto, in quanto l’insoddisfazione del proprio stato, nella stretta di molte preoccupazioni e in mezzo a bisogni insoddisfatti, potrebbe diventare una grave tentazione di trasgredire i propri doveri». Anche questa osservazione umanissima ci autorizza a concludere che se al termine «rigorismo» si vuol conferire il significato di rigidità, astrattezza, incomprensione della vita, il rimprovero di rigorismo a Kant, ancora oggi così ossessivamente in circolazione, è del tutto infondato.

POESIA ITALIANA DEL NOVECENTO. Anche se non so bene l’ora… Amici, credo che sia / meglio per me cominciare / a tirar giù la valigia. / Anche se non so bene l’ora / d’arrivo, e neppure / conosca quali stazioni / precedono la mia, / sicuri segni mi dicono, / da quanto m’è giunto all’orecchio / di questi luoghi, ch’io / vi dovrò presto lasciare. / Vogliatemi perdonare / quel po’ di disturbo che reco (Giorgio Caproni).

30 settembre 2004.

LINEA RECTA BREVISSIMA. Nel nostro cuore. Bada di non fare nessuna distinzione che possa turbare l’eguaglianza. Vola in aiuto al tuo fratello, chiunque egli sia, ammaestra colui che ha errato, rialza il caduto, e non nutrire mai odio e inimicizia verso il fratello. Sii dolce e cortese. Sveglia in ogni cuore il fuoco della virtù. Dividi la tua gioia col prossimo, e che l’invidia non turbi mai questo piacere. Perdona il tuo nemico, non ti vendicare di lui. Adempiendo in tal modo alla legge suprema, tu troverai le tracce dell’antica grandezza da te perduta. Poligonia della verità. L’infinita diversità delle menti umane fa sì che una verità non si presenti mai nello stesso modo a due persone. Finché siamo vivi. Sì, finché siamo vivi bisogna vivere ed essere felici. (Lev Tòlstoj)

AGOSTINO E GALILEI. Agostino scriveva le sue ardite riflessioni sul rapporto tra scienza e fede undici secoli prima di Galilei e lo scienziato pisano trarrà proprio da Agostino citazioni quanto mai calzanti a sostegno della sua tesi sull’autonomia delle conoscenze scientifiche e sull’intendimento specificamente religioso della Bibbia, la quale non ha lo scopo di determinare «le costituzioni e movimenti de’ cieli e delle stelle». Nella Lettera a madama Cristina di Lorena, del 1615, Galilei riprende il principio agostiniano della rigorosa distinzione di ambito, di finalità e di metodo tra scienza e fede, facendo sue le parole che dice di aver inteso dal cardinal Baronio, secondo cui «l’intenzione dello Spirito Santo è d’insegnarci come si vada al cielo e non come vada il cielo». Galilei concordava perfettamente con il santo dottore quando nella Lettera a monsignor Piero Dini, del marzo 1615, affermava che bisogna andare con molta circospezione «intorno a quelle conclusioni naturali che non sono de fide, alle quali possono arrivare l’esperienza e le dimostrazioni necessarie». La Scrittura, insomma, non deve venir impegnata da fallibili interpreti su questioni risolvibili dalla ragione umana e delle quali si possano una volta o l’altra «aver dimostrazione in contrario». Se i giudici di Galilei avessero avuto la consapevolezza profonda che Agostino aveva della Scrittura, messaggio di salvezza che non prefissa i risultati alla ricerca umana, non si sarebbero certo arrogati un’autorità in un campo in cui non erano competenti a giudicare.

L’UOMO TRA IL BENE E IL MALE. Per crescere interiormente ci vuole risolutezza. Concretamente l’uomo, prima di decidersi, dev’essere concentrato e attento; deve aver rilevato con tutte le membra del suo corpo che cosa è realmente in gioco in questa decisione. Uno viene rimproverato perché prima avanza, poi però indietreggia: la vaghezza, il carattere a zigzag dell’azione solleva dei dubbi… Il Baal Shem spiegava così il versetto della Scrittura: «Tutto ciò che la tua mano trova da fare, fallo con la tua forza!». L’azione che si compie va fatta con tutte le membra, ossia anche l’intera essenza fisica dell’uomo dev’essere impiegata affinché nulla ne rimanga fuori. Farci condurre non dal successo, ma dalla verità. Se le parole pronunciate sono la verità, e lo si riconosce quando si dice «Ci siamo sbagliati», si tratta della verità di oggi e anche di domani; ma ora la cosa principale è smetterla con le astuzie, prendendo su di noi il giogo della verità. Perfino quando la menzogna trionfa nel mondo, la disperazione è inopportuna, a meno che noi abbiamo contribuito a tale trionfo, perché così tradiremmo il nostro futuro. Non dobbiamo disperare se ci opponiamo alla seduzione della menzogna, riconoscendo la nullità della sua forza e facendoci condurre non dal successo, ma dalla fedeltà (Dal volume antologico L’uomo tra il bene e il male di Martin Buber, Torino 2003, pp.14-15 e 159).

7 ottobre 2004.

LINEA RECTA BREVISSIMA. Cultura e vanità. Il tuo sapere è forse nulla, se altri non sa che tu sai? (Persio). Esiste un’opera compiuta? Un’opera non è mai compiuta, ma sempre abbandonata (Paul Valéry).

IL COINVOLGIMENTO AFFETTIVO CHE DANTE SUSCITA IN ELIOT. È un momento davvero avvincente, per noi e per la nostra storia culturale, il coinvolgimento affettivo che Dante suscita in Eliot: mi colpiscono e mi emozionano la generosità e larghezza di affronto, lo stupore, qualcosa che spesso, non dico a noi lettori comuni, ma persino in certa intelligencija che con il massimo artista della nostra lingua ha tutta la confidenza e la competenza del caso, viene a mancare. Ma forse questo è il quid che stacca e distingue il lettore-poeta. E infatti per l’americano che ha sete di altro, che vede e scopre un orizzonte all’improvviso sconvolgente, si apre e si allarga la fonte di un’emozione incontenibile, allagando la sua mente di suggestioni, di suoni che devono echeggiare di nuovo, e continuare in altre vite poetiche, nella sua per esempio, dove gli echi e le parole di Dante tornano a pieno diritto, non trafugati ma ereditati, come di un figlio la cui devota fedeltà al padre si riconosca lì, nel mettere piede in una terra e un tempo lontani, in una lingua lontana e incomprensibile, per farli propri. Eliot lesse Dante prima di conoscerne bene grammatica e sintassi, prima di afferrarne, parola per parola, verso per verso, il significato letterale. Ne comprese invece il ritmo e la musica: la musica è un linguaggio senza confini e senza pregiudizi per un animo minimamente disponibile. Quanto a Eliot, lo era nella più aperta delle forme; forse il poeta possedeva quello che in musica si chiama «orecchio assoluto», la peculiarità che permette di riconoscere una nota nel quadro di una partitura e chiarisce un percorso musicale con limpidezza e senza sforzo. Temo che neanche un italiano, oggi, «senta» il ritmo dantesco con la sensibilità e la duttilità che appartennero a Eliot. Poi venne per lui il tempo della comprensione letterale, quando si dedicò con attenzione allo studio della lingua in cui aveva composto Dante. Allora accanto al metro e al ritmo della poesia-musica si squaderna agli occhi e alle orecchie dell’artista americano un universo di contenuti sempre più chiaro, e ritmo e melodia diventano, nota dopo nota, parola e frase e storia. Quello che i giovani (e non solo!) di oggi osservano con la diffidenza delle cose lontane nel tempo, diciamolo pure, delle cose morte, per Eliot è stato il fiorire, lo svelarsi della vita di un’Europa medievale diventata ai suoi occhi viva e pulsante. Ed è la fonte da cui trarre materia e da cui elaborare materia. In uno dei suoi scritti teorici avrebbe osservato che «un poeta, uno scrittore mediocre imita, un grande ruba». Nella rapacità audace del furto sta la consapevolezza, magari sottaciuta e inconscia, di un diritto, di una comunione. Io l’ho chiamata eredità. Questo splendido brano è tratto dalla prefazione che Marta Morazzoni ha scritto per il volume Poesie di Thomas Stearns Eliot, apparso nella Collana La grande poesia – Corriere della Sera, n. 21.

POESIA BRASILIANA CONTEMPORANEA. Io non avevo questo viso. Io non avevo questo viso / così calmo, triste, magro, / né questi occhi così vuoti, / né il labbro amaro. // Io non avevo queste mani fiacche, / così scure e fredde e morte: / non avevo questo cuore / che neppure si manifesta. // Io non m’accorsi di cambiare: / fu semplice, sicuro, facile. / In che specchio è rimasto / il mio perduto viso? (Cecília Meireles, 1901-1964, è la principale voce femminile della poesia brasiliana).

14 ottobre 2004.

LINEA RECTA BREVISSIMA. Non sono grandi uomini. Coloro che disprezzano l’uomo non sono grandi uomini (Vauvenargues). Gli atti disinteressati. Gli atti disinteressati sono le stelle della terra (Henri de Montherlant). Lavoro e divertimento. Lavorare è meno noioso che divertirsi (Charles Baudelaire). Saggezza elementare. Non abbattere mai una palizzata prima di conoscere la ragione per cui fu costruita (Gilbert Keith Chesterton, citato da John Kennedy in un taccuino del 1945).

IL CAPOLAVORO DEL «PENSIERO INTERROGATIVO». A quarantatré anni, dodici dopo la conversione, Agostino scrisse le Confessioni per lodare Dio e per aprirsi al genere umano al cospetto di Dio. Intorno ai settantaquattro anni, quando si volgerà a giudicare le sue opere in quella specie di ‘contributo alla critica di se stesso’ che sono le Ritrattazioni, dirà delle Confessioni: «esse mi commuovono ancora quando le leggo, così come mi commuovevano quando le scrivevo» (Retr. 11, 32). Le Confessioni sono, più del De civitate Dei e del De Trinitate, l’opera sua di maggior risonanza. Esse costituiscono un unicum, un’opera di così intensa originalità che invano si tenterebbe di incasellare in un genere letterario. Nessun libro più delle Confessioni scalza con tanta abilità artistica quelle che sono le premesse di una biografia convenzionale. Manifesto della vita interiore, capolavoro di autobiografia intellettuale, le Confessioni sono una fonte di straordinaria ricchezza per chi vuol cogliere l’uomo nella concretezza esistenziale del suo divenire e nelle profondità abissali del suo spirito. Mai prima un uomo si era trovato di fronte alla sua anima come in questo libro, in cui le esperienze originarie sono rese evidenti. Ne I grandi filosofi (ilano 1973, p. 416), Karl Jaspers coglie uno dei tratti caratteristici del pensiero interrogativo dell’africano, quando scrive: «Agostino trova, infatti, frasi di mirabile semplicità per dire in poche parole ciò di cui gli uomini fino ad allora non avevano avuto coscienza. Egli pensa nella forma di un processo che avanza interrogando, di un interrogare che apre il campo, di un interrogare, cui non si possono dare risposte semplicistiche».

«INTRAVI IN INTIMA MEA». Colui che ha potuto dire di sé: «Sono entrato in ciò che ho di più mio» (intravi in intima mea, Conf. VII, 10, 16) non è solo il primo psicologo moderno, ma il più grande metafisico dell’esperienza interiore: egli penetra i fenomeni psichici reali che descrive, illumina le strutture e i dinamismi dell’uomo, fa della presenza dell’anima a se stessa il punto di partenza del nostro autentico conoscere e agire, il centro di focalizzazione dell’umano esperire, la via insostituibile per mettere in valore la dignità di ogni persona. Con l’africano Agostino, come mai prima nella storia del pensiero, l’uomo, divenuto per se stesso motivo di sorpresa e di stupore (factus ipse mihi magna quaestio, Conf. IV, 4, 9), s’interroga sul mistero della propria condizione.

PER IL BUON USO DELLE MALATTIE. Essere malato significa essere vigilante davanti a se stesso, per se stesso e in questo stato di veglia nasce una conoscenza e un presagio delle cose su cui il giorno non permette di meditare. La malattia è la verità che ci chiama. Se impariamo a capirla in questo modo, non possiamo più rinfacciarle di distruggere il nostro tempo e la nostra forza. È la preparazione alla grande resa dei conti che un giorno dovremo sostenere, anche se saremo guariti: essere malati significa vivere nell’Avvento.

21 ottobre 2004.

LINEA RECTA BREVISSIMA. La pratica della poesia. La pratica della poesia non dà necessariamente la saggezza né aumenta il numero delle cognizioni, ma dovrebbe perlomeno conferire alla mente un’abitudine di valore universale: l’abitudine ad analizzare il significato delle parole, proprie e altrui (Thomas Stearns Eliot). Le stelle della terra. Gli atti disinteressati sono le stelle della terra (Henri de Montherlant).

I QUATTRO SAGGI DI ROMANO GUARDINI SULL’EUROPA. Romano Guardini, la cui vita è compresa tra 1885 e il 1968, è una delle maggiori figure della storia culturale europea ed è altresì una delle più affascinanti. I suoi libri, man mano che nascevano, sono stati tradotti in Italia dalla Morcelliana di Brescia, talora addirittura prima che apparisse l’edizione tedesca. E ora dalla Morcelliana veniamo a sapere che è ormai in programma la pubblicazione delle Opere complete dell’illustre maestro. Grande è, dunque, la mia gioia nel segnalare l’ultimo scritto di Guardini apparso in traduzione italiana nell’aprile di quest’anno: Europa. Compito e destino. Il curatore del volume, Silvano Zucal, aiuta il lettore, nella sua densa e illuminante postfazione, a capire il messaggio profondo che ci viene dai quattro saggi sull’Europa che Guardini compose in momenti diversi. Il primo di essi, in cui si affronta un argomento decisivo, Il rapporto tra coscienza nazionale ed Europa, risale al 1923, un periodo nel quale l’esplosione della crisi del primo dopoguerra sembrava travolgere ogni cosa, specialmente in Germania. Guardini era allora il leader riconosciuto della gioventù tedesca e fu ad un convegno della Jugendberwegung che prese la parola su quel tema, quasi per caso, dovendo sostituire all’ultimo momento il relatore assente. Circostanza questa che conferì più immediatezza ed efficacia al suo intervento. Il secondo testo, il più drammatico, è scritto negli anni bui del nazismo, quando a Guardini era stata tolta la cattedra universitaria e il nazionalsocialismo era al potere. La prima redazione è del 1935 ma, la sua pubblicazione si ebbe solo nel 1946. Il titolo estremamente significativo, L’Europa e Gesù Cristo, fu poi ripreso nel celebre discorso Europa e «Weltanschauung» cristiana tenuto all’Università di Monaco il 17 febbraio 1955. L’ultimo contributo fu pronunciato a Bruxelles il 28 aprile 1962 per il conferimento al grande europeo del Premio Erasmo. Per quattro decenni, dunque, Guardini ha riflettuto sull’Europa, sul suo compito e sul suo destino. Il suo piccolo, grande libro merita l’attenzione e la gratitudine di coloro che pensano all’Europa come alla loro patria più grande e anche come a una grande speranza per l’umanità intera.

ANCORA SEMPRE MI COMMUOVO… Ancora sempre mi commuovo nel cuore quando sulla carta geografica vedo l’immagine dell’Europa: la configurazione piccola e graziosa – non so più chi l’abbia detto – come fosse disposta dal cesello di un orafo tra i colossi Asia, America, Africa. La ricchezza delle sue forme, l’insinuarsi reciproco tra il mare e la terra, la molteplicità delle sue situazioni etniche dalle Alpi fino alla pianura più bassa – tutto questo appare come una preparazione al destarsi dello spirito più luminoso a opere grandi e audaci imprese (Romano Guardini, Europa. Compito e destino, Brescia 2004, pp. 34, 35).

28 ottobre 2004.

LINEA RECTA BREVISSIMA. L’aveva imparato in prigionia. In prigionia, nella baracca, Pierre aveva imparato non con l’intelletto, ma con tutto l’essere suo, con la sua vita, che l’uomo è creato per la felicità, che la felicità è in lui stesso, nelle soddisfazioni dei bisogni umani naturali, e che tutto il male proviene non dalla mancanza delle cose ma dal loro superfluo. La ferita morale. La ferita morale, che proviene da una lacerazione dell’essere spirituale, si rimargina soltanto, come la ferita fisica, con la forza della vita che si apre la via dall’interno. (Lev Tolstoj)

EUROPA, COMPITO E DESTINO. L’Europa ha avuto tempo per perdere le illusioni. Non sbaglio certo se penso che all’Europa autentica è estraneo l’ottimismo assoluto, la fede nel progresso universale e necessario. I valori del passato sono ancora in essa così vivi che le permettono di sentire che cosa sta in gioco. Essa ha già visto rovinare tante cose, e spesso in modo irrecuperabile, ed è stata colpevole di tante guerre omicide, da essere capace di sentire le possibilità creatrici, ma anche il rischio, anzi la tragedia dell’umana esistenza. Nella sua coscienza vi è certamente la forma mitica di Prometeo, che porta via il fuoco dall’Olimpo, ma anche quella di Icaro, le cui ali non resistono alla vicinanza del sole e che precipita giù. Conosce le irruzioni della conoscenza e della conquista, ma in fondo non crede né a garanzie per il cammino della storia, né a utopie sull’universale felicità del mondo. L’Europa ne sa troppo. Perciò io credo che il compito affidato all’Europa – compito il meno sensazionale di tutti, ma che nel profondo conduce all’essenziale – sia la critica della potenza. Non critica negativa, né paurosa né reazionaria; tuttavia ad essa è affidata la cura per l’uomo, perché essa ne ha provato la potenza non come garanzia di sicuri trionfi, ma come destino che rimane indeciso dove condurrà. L’Europa ha creato l’età moderna; ma ha tenuto ferma la connessione col passato. Perciò sul suo volto, accanto ai tratti della creatività, sono segnati quelli di una millenaria esperienza. Il compito riservatole, io penso, non consiste nell’accrescere la potenza che viene dalla scienza e dalla tecnica – benché naturalmente farà anche questo – ma nel domare questa potenza.

UNA «FORZA DI SERVIZIO» PER TUTTI. L’Europa è un fatto politico, economico, tecnico. Ma è soprattutto una disposizione di spirito, un sentimento. Al formarsi di questo sentimento si oppongono e si opporranno sempre forti resistenze. Il compito dell’Europa può essere adempiuto se ciascuna delle sue nazioni ripensi la sua storia e intenda il suo passato in relazione al costituirsi della federazione europea. C’è nella storia del nostro continente un esempio che ci può mettere in guardia e mostrare quanto pericolo vi sia di sbagliare. Noi non possiamo dimenticare che, ad esempio, i greci hanno fallito di fronte all’obiettivo storico di creare uno Stato che abbracciasse insieme la ricchezza vitale di tutte le diverse etnie. Anche l’Europa può mancare la sua ora. Ma essa sa che oggi il mondo le chiede di diventare «una forza di servizio», che sia responsabile per la vita di tutti e s’impegni a far sì che le cose della terra divengano giuste. Il compito è arduo, tuttavia la struttura essenziale dell’Europa c’è; la vediamo in ogni gesto, la sentiamo con intensità nuova. Siamo pertanto fiduciosi che l’Europa continuerà ad essere soggetto di storia, e di una storia più alta. Questi due brani sono tratti dal volume di Romano Guardini: Europa. Compito e destino, Brescia 2004.

POESIA INGLESE. Abbi cura di te, dolce amore. Abbi cura di te, dolce amore, / com’io farò non per me, ma in tua vece, / custodendo il tesoro del tuo cuore. Questi versi sono di Shakespeare, Sonetto 22.

5 novembre 2004.

LINEA RECTA BREVISSIMA. Il come e il perché. La chiave di tutte le scienze è indiscutibilmente il punto di domanda. Dobbiamo la maggior parte delle grandi scoperte al come? E la saggezza nella vita forse consiste nel chiedersi, a qualunque proposito, perché? (Honoré de Balzac). Lo capiremmo se fossimo meno ciechi. È in gioco il tuo interesse, quando brucia il muro del vicino (Orazio). Quello a cui tendere nell’educare. Una testa ben fatta piuttosto che ben piena (Michel de Montaigne).

MANZONI, TOMMASEO, LA QUESTIONE ROMANA. Nel 1859 – l’anno più decisivo del nostro Risorgimento – in data 23 giugno Tommaseo scrive una lettera che qui riporto integralmente, come la si legge in Attilio De Marchi, Dalle carte inedite manzoniane, Milano 1914, p. 64. La lettera è indirizzata alla seconda moglie di Manzoni, anche se il vero destinatario è l’illustre consorte. Chi dette incarico al Tommaseo di scriverla, non lo sappiamo; è certo, però, che la lettera avanzava una proposta nobile e degna, dava voce ad attese e speranze assai più diffuse di quanto si potrebbe pensare. Pregiatissima donna Teresa, se ambasciatore non porta pena, io spero perdono dell’ardimento di questa lettera; che non scriverei di mio capo; ma c’è delle cose che, dette, bisogna ridire per discarico di coscienza. Scrivesi a me: la questione del dominio temporale, dalla quale dipendono le sorti d’Italia, a scioglierla in modo conforme e all’onore e alla fede degli Italiani, aiuterebbe, assai più dell’armi e delle negoziazioni, la voce d’uomo autorevole per la pietà religiosa e la moderazione dell’animo, per la potenza dell’ingegno e del nome. Chi sia quest’uomo, la modestia dell’affetto coniugale non lo può nascondere a Lei. Non c’è che la troppa modestia di lui stesso che possa reprimere il suo zelo e coraggio, a farglisi scusa. Ella veda di vincerla. Qui ci vuole (dirà lui) un volume. No, una lettera, due versi bastano, anzi questo ci vuole. Io non dico di più. Ho fatto il debito mio; e di bel nuovo chiedo perdono. Mille augurii di cuore. Tommaseo.

L’ESERCIZIO FECONDO DELLO SPECCHIO. Il formarsi dell’Europa presuppone che tutte le nazioni che la compongono ripensino la loro storia e intendano il loro passato in relazione al costituirsi di questa grande «forma vitale» che è appunto l’Europa. Occorre un’Europa compiutamente dialogica che superi l’egoismo nazionalistico degli Stati membri. Ciò potrà avvenire con l’esercizio fecondo dello «specchio», ovvero col vedere davvero se stessi con gli occhi dell’altro: Chi vuole liberarsi dall’irretimento nel proprio carattere nazionalistico deve imparare a conoscere persone di altre nazionalità e poi, in un momento adatto, domandarsi: come potrà apparire la nostra natura, il nostro comportamento reciproco, il nostro stile di vita agli occhi di un francese, di un inglese, di un italiano? Nel caso in cui tale sguardo gli riesca, ciò che appare è inquietante, ma anche questa inquietudine è salutare. In questo modo la persona impara a sentire come una parola pronunciata da un tedesco possa suonare agli orecchi di un francese, che effetto faccia ad un inglese ciò che il tedesco definisce bravura, che sensazioni possano determinare in Italia il modo di vestire e il comportamento dei turisti tedeschi. Per il processo di formazione di un’Europa veramente unita sarebbe utile che davvero molti praticassero questo esercizio… (Romano Guardini, Etica, Brescia 2001, p. 261).

11 novembre 2004.

LINEA RECTA BREVISSIMA. Se siamo vagamente nel giusto. Meglio essere vagamente nel giusto che precisamente in errore (John Maynard Keynes). Ripensare la sofferenza. In questo campo ogni domanda possiede più forza che la risposta (Elie Wiesel). Perché allora non vogliamo rivolgere lo sguardo alle stelle? Sbocciò l’ultima notte. Nella sua seconda metà tutto l’azzurro del cielo, il sipario di Dio che avvolge il mondo, si coprì di stelle… Tutto passerà. Le sofferenze, i tormenti, il sangue, la fame e la pestilenza. Ma le stelle resteranno quando sulla terra non resterà neanche l’ombra dei nostri corpi e delle nostre azioni. Non c’è un solo uomo che non lo sappia. Perché allora non vogliamo rivolgere lo sguardo alle stelle? Perché? (Michail Bulgàkov).

LA POESIA METAFISICA DI MARIO LUZI. Invitai Mario Luzi a Brescia il 18 ottobre 1983, alla vigilia del suo sessantanovesimo compleanno. Le sue poesie erano state allora raccolte in un unico volume edito da Garzanti. In una sola giornata il poeta ebbe tre incontri indimenticabili, in cui i giovani furono gl’interlocutori privilegiati. Luzi li affascinò con la sua parola limpida e profonda e con la sua gentilezza, umile e accogliente. E fu soprattutto per loro che egli tracciò il suo percorso poetico e lesse le sue liriche che gli sembravano più significative. Nell’ottobre di quest’anno si sono stretti attorno al maggiore dei poeti italiani viventi, ormai novantenne, i numerosi ammiratori e discepoli con senso di commossa gratitudine. Scelgo tra gl’innumerevoli scritti in suo onore un brano del discorso che l’amico Sergio Givone ha tenuto a Palazzo Vecchio, in Firenze, il 20 ottobre. «Come definire altrimenti che metafisica la dimensione in cui, per lo meno da Per il battesimo dei nostri frammenti (1985) fino alla recentissima Dottrina dell’estremo principiante (2004), si muove la poesia di Luzi? Lì doveva arrivare, Luzi, e lì è arrivato. Non per trovarvi un punto d’arresto, un approdo, o una tregua, ma per oltrepassare e magari forzare la vietata soglia. A volte, e come per miracolo, il verso si scioglie in canto; però la forma della poesia resta essenzialmente interrogativa, e quindi essenzialmente metafisica. La poesia non dà risposte, ma interroga il silenzio delle cose. Il silenzio delle cose ultime. Vola alta, parola, cresci in profondità, / tocca nadir e zenith della tua significazione, leggiamo in Per il battesimo dei nostri frammenti. La metafisica di Luzi è una metafisica creaturale. Creaturale è la luce dell’essere che si diffonde su tutte le cose: sulla passione che le anima e sulla quiete cui tendono, sulla loro nullità e sulla loro gloria. Metafisica creaturale significa in Luzi mantenere la poesia all’altezza di un dramma cosmico che coinvolge uomo, mondo e Dio».

NON INQUINARE LA COSCIENZA MORALE. Lo sforzo di procurarsi con mezzi leciti e schietti la stima di coloro che ci circondano è naturale e legittimo. È, invece, evidentemente immorale subordinare la propria coscienza alla sola preoccupazione della «riuscita», cioè del successo, elevato a supremo criterio di giudizio e di azione. Una preoccupazione del genere, infatti, è di per sé fonte di ambizione, di piccoli e grandi intrighi, di arrivismo e di ipocrisia. Se Socrate si fosse preoccupato di conservare la stima della maggioranza e dei maggiorenti degli Ateniesi, avrebbe evitato il processo e la cicuta, ma avrebbe tradito la sua missione: la civiltà e il pensiero filosofico non avrebbero potuto, in tal caso, annoverarlo tra le più grandi personalità della storia, alle quali tuttora l’umanità va debitrice. Se Cristo avesse voluto seguire la dottrina ufficiale dei farisei o degli zeloti, sarebbe stato uno di loro, ma non colui che pronunciò il Discorso della Montagna e altre divine parole. Se Tommaso Moro avesse voluto conservare con l’alta carica, di cui era insignito, il favore e la stima di Enrico VIII e della corte, non sarebbe stato quel testimone della verità che fu e che oggi anche gli anglicani onorano.

18 novembre 2004

LINEA RECTA BREVISSIMA. Tre pensieri di Tolstoj. 1. L’uomo non può possedere nulla finché teme la morte, mentre tutto appartiene a colui che non teme la morte. 2. Se non ci fosse il dolore, l’uomo non conoscerebbe i propri limiti, non conoscerebbe se stesso. 3. La cosa più difficile consiste nel saper congiungere nella propria anima il significato di ogni cosa.

NON ILLUDERE I GIOVANI, NON MENTIRE. I giovani hanno bisogno di far propria una verità su cui Tommaso d’Aquino e Kant non si stancarono di richiamare l’attenzione: qui, in questo mondo, non c’è identità tra virtù e felicità, ma non c’è neppure equazione tra il bonum honestum, che noi riusciamo a testimoniare nella misura in cui siamo uomini di buona volontà, e la delectatio che può venirci dalla nostra buona coscienza ed anche dalla stima, dal consenso, dalla gratitudine degli altri. Non è lecito, dunque, spingere i giovani a farsi illusioni e a fantasticare il successo come risultato che comunque non può sfuggire a una retta condotta di vita. C’è di più: a mio avviso occorrerebbe insegnare che è un bene che le cose vadano così, altrimenti sarebbe impossibile evitare una degenerazione utilitaristica della coscienza morale. Se qui e ora il trionfo del bene fosse immancabile, il bene finirebbe con l’essere voluto non in quanto tale, ma per i vantaggi che ci procurerebbe. Nel Vangelo di Giovanni c’è una frase ammonitrice: veritas odium parit. La verità genera odio sicuramente in quelli che si rifiutano di accoglierla, ma non solo in essi. Sant’Agostino notava acutamente che noi amiamo la verità quando risplende senza toccare i nostri interessi e le nostre passioni; la odiamo, però, palesemente e più spesso nel segreto del nostro cuore, quando la sua presenza o la sua affermazione costituisce per noi un rimprovero: odimus redarguentem. La verità ha un enorme potere, ma non può annullare nell’uomo, creato libero, la facoltà di aderirvi o di contestarla. L’educazione, nel senso più alto della parola, è quel processo che aiuta la coscienza a scegliere il bene con piena consapevolezza della sua superiorità su ogni alternativa perché «il bene morale non è affatto un comparativo, ma uno schietto positivo», com’è stato ben detto da Nicolai Hartmann. Ma questo fine così alto sarebbe irraggiungibile se nei nostri figli e nei giovani alimentassimo la mentalità meschina del do ut des. Guai a incoraggiare la tendenza a pretendere una «paga» per ogni dovere compiuto. Bisogna apprendere per tempo anche a fare a meno delle lodi, se mancano, e tanto più delle adulazioni, fuorvianti per chiunque. La stima degli altri fa innegabilmente piacere, ma bisogna cercare di meritarla senza sollecitarla e tanto meno pretenderla a tutti i costi.

POESIA INGLESE. Il buongiorno. Buongiorno ora alle nostre anime deste… / Nei tuoi occhi il mio volto e il tuo nei miei, / e nei volti riposano cuori leali e puri… / Chissà che mai tu e io stavamo a fare prima di amarci. Trascorso un breve sonno. Trascorso un breve sonno, noi vegliamo in eterno, / e morte più non sarà: morte, tu morrai. (John Donne, 1573-1631)

25 novembre 2004.

LINEA RECTA BREVISSIMA. Sì, sono fratelli. Il pane dei bisognosi è la loro vita, toglierlo a loro è commettere un assassinio. Chi versa sangue e chi ruba il salario agli operai sono fratelli (Libro di Siracide). Il dolore e il silenzio. Perché il dolore è più dolor, se tace (Giovanni Pascoli). La maestà dell’umana sofferenza. Amo la maestà dell’umana sofferenza (Alfred de Vigny).

IL FATTO «EUROPA» E ROMANO GUARDINI. «Per motivi di professione la mia famiglia si trasferì in Germania; e mentre in casa si parlava e si pensava in italiano, io crebbi spiritualmente in seno alla lingua e alla cultura tedesca». Così Romano Guardini presenta il «suo» problema, a cui pure bisognava dare una risposta. Egli rimane legato alla prima patria, l’Italia, e tuttavia ha imparato ad amare intensamente la seconda patria, la Germania, in cui si è svolta tutta la sua formazione culturale e spirituale e si sono annodate la grandi amicizie che costelleranno la sua esistenza. Guardini vuol pensare, scrivere, insegnare in tedesco e nel 1911 decide, nonostante l’opposizione esplicita dei genitori, di assumere la cittadinanza tedesca. Continuerà a visitare l’Italia e a nutrirsi della sua arte e della poesia di Dante; le sue soste nella patria di origine saranno frequenti e prolungate, inizialmente sul lago di Como e poi a Isola Vicentina, dove gli era caro preparare le sue lezioni, camminando tra gli alberi che contemplava senza mai stancarsi. Anche dopo la scelta del 1911 la doppia appartenenza alle due patrie non fu priva di conflitti e lacerazioni; ma la grandezza di Romano Guardini ebbe modo di affermarsi proprio perché egli fece leva su ciò che avrebbe potuto costituire motivo di scissione interiore per costruire una superiore visione della vita e la sua stessa personalità, una delle più ricche ed insieme fortemente unitaria del Novecento. Guardini riuscì a non trasformare l’effettiva diversità di apporti e di risonanze che s’intersecavano nella sua esistenza in contrasto insanabile e reciproca esclusione. Maturò, infatti, in lui l’intima convinzione che può cogliere della vita il senso più alto solo chi non sopprime o mette a tacere le «tensioni polari» (Gegensätze) come se si trattasse di contraddizioni (Widersprüche) fra le quali bisogna scegliere. Per Guardini sarebbe stato, infatti, paralizzante dover optare fra l’immediatezza intuitiva e la chiarezza latina da un lato e, dall’altro, la riflessività e la sensibilità tedesca: in realtà le une hanno bisogno delle altre, le prime per non scadere a superficialità, le seconde per non finire in astratto cerebralismo. Ciò che deve risultare chiaro è che ogni nazione, ogni popolo, ogni cultura reca in sé, accanto a eredità negative di cui liberarsi, dei «doni» preziosi che offre disinteressatamente agli uomini che fanno parte di altre nazioni, popoli e culture. Occorre, però, un elemento comprensivo che permetta insieme di salvaguardare le diverse identità nazionali e il superamento della loro chiusura sciovinistica. Ebbene quell’elemento comprensivo Romano Guardini lo trovò quando scoprì che cosa significava essere europeo, divenire europeo. Per lui la «scoperta» dell’Europa significò trovare anche «la risposta a un problema sommamente personale».

POESIA INGLESE. Brinda a me solo coi tuoi occhi. Brinda a me solo coi tuoi occhi, / e io risponderò coi miei; / lascia un bacio, giusto nel calice, / ed io non cercherò più vino. Questi versi sono di Ben Jonson, il secondo drammaturgo elisabettiano in ordine di importanza. Visse tra il 1572 e il 1637.

2 dicembre 2004.

LINEA RECTA BREVISSIMA. La strada e l’alibi. Se una cosa la vuoi, una strada la trovi; / se una cosa non la vuoi, una scusa la trovi (Proverbio africano). I libri e la vita. I libri hanno valore solo se guidano alla vita, se sanno servirla e giovarle, ed è sprecata ogni ora di lettura se da essa non scaturisca per il lettore una scintilla d’energia, un senso di rinnovamento, un alito di nuova freschezza (Hermann Hesse). Adamo ed Eva. Chi abbraccia una donna è Adamo: la donna è Eva. / Tutto accade per la prima volta… / Non c’è nulla di antico sotto il sole. / Tutto accade per la prima volta, ma in modo eterno (Jorge Luis Borges).

LA NOVA LUX IN SENECA. Nella Lettera a Lucilio 102, 28 Seneca scrive: «Allora confesserai di aver passato la vita nelle tenebre, quando tu vedrai, nella tua pienezza, la luce piena che ora, in questo mondo, attraverso le strettissime fessure degli occhi vedi confusamente. Tuttavia tu la ammiri anche da lontano; che cosa ti sembrerà la luce divina, quando la vedrai in quel luogo suo appropriato, a casa sua?». Le stesse immagini Seneca usa per esprimere la stessa idea nella Lettera 41, 5. «In quell’anima eccellente, equilibrata è discesa una forza divina. Quell’anima è quindi in grado di trascurare tutte le cose come se fossero secondarie e ridersela di quanto noi temiamo o desideriamo perché è agitata da una celeste potenza. Una cosa tanto meravigliosa non può sussistere senza appoggio divino: perciò colà rimane con la maggiore parte di sé, donde discende». Ed ancora nella Lettera 79, 11-12: «L’uomo che vede il sole splendere attraverso la nebbia, anche se è contento di essere per il momento sfuggito alle tenebre, ancora non gode del bene della luce. La nostra anima avrà motivo di felicitarsi con se stessa, quando, uscita dalle tenebre nelle quali è avvolta, vedrà la luce non debolmente, ma sarà inondata dal giorno pieno e sarà riammessa nel suo cielo, quando riavrà quel posto che la sorte le assegnò quando nacque». I passi tratti dalle Lettere a Lucilio, tradotti splendidamente da Giuseppe Scarpat, si leggono nella parte finale del saggio che l’illustre filologo ha scritto sulla preghiera dei defunti, il Requiem aeternam. Il saggio è inserito nel volume collettaneo Studi di Filologia e tradizione greca (Napoli 2003). I brani riportati acquistano un particolare rilievo se si tien conto che il filosofo romano oscillò a lungo fra due modi di guardare alla morte: come «dissoluzione» di tutto l’uomo e come «transito», passaggio a una vita nuova e più alta. L’immortalità personale è per Seneca una speranza, a cui non può e non vuole rinunciare: qualcosa che non rimanda tanto a deduzioni filosofiche quanto, piuttosto, a considerazioni religiose.

MA COME SI FA A PARAGONARE LA FINANZIARIA AL VANGELO? «Il sottosegretario all’Economia, Giuseppe Vegas, ha sostenuto in Parlamento che il precedente evangelico dei pani e dei pesci, l’unico miracolo sociale, risponde allo stesso meccanismo di sviluppo che è il cardine di questa Finanziaria. Che Gesù fosse un liberista non era mai venuto in mente neppure a Bush. L’onorevole Vegas ha spiegato con assoluta serietà che il Signore non spezzettò il pane e i pesci per soddisfare tutti con poco, come gli avevano probabilmente suggerito la Banca di Giudea e quel comunista del buon samaritano. Li moltiplicò per soddisfare i bisogni di tutti. Cioè tagliò le tasse anche ai filistei» (Massimo Gramellini su La Stampa del 6 novembre 2004). Che cosa pensare di una simile affermazione, che a noi sembra inconsciamente blasfema e comunque del tutto inopportuna? Leggendola, ne ho sofferto e mi sono ricordato del motto del grande Gino Capponi: «Quando non piango, rido».

9 dicembre 2004.

LINEA RECTA BREVISSIMA. Se vuoi regalare, regala. Non dire che vuoi regalare, regala. Non riuscirai mai a soddisfare un’attesa (Johann Wolfgang Goethe). La dismisura. Che cosa ha aggiunto Auschwitz di nuovo a quanto si poteva sapere da sempre su ciò che di spaventoso e terribile gli uomini sono capaci di fare, e da sempre hanno fatto, contro altri uomini? Ha aggiunto la «dismisura» (Hans Jonas). Conoscere la sofferenza dell’uomo. Chi cerca la verità dell’uomo deve farsi padrone del suo dolore (Georges Bernanos). Un senso deve esserci. Anche quando il niente pare affermarsi assoluto, alla radice della parola e oltre la parola che dice non-senso (bestemmia, rivolta, dissonanza) sta l’imperativo che il senso deve essere. Tutto può essere senza senso tranne il principio che rende possibile esperire e rifiutare il non-senso (Alberto Caracciolo).

SEMPRE UNA GIOIA PIÙ GRANDE È PRECEDUTA DA PIÙ GRANDE TORMENTO. Come si spiega che l’anima gode nel ritrovare le cose che aveva care assai più che se le avesse sempre conservate? È questa una verità universalmente attestata e tutti sono d’accordo nel dire: «È proprio così». Quanto maggiore fu il pericolo nella battaglia, tanto maggiore è la gioia del trionfo. La tempesta sballotta i naviganti e minaccia di farli naufragare, tutti sbiancano nell’imminenza della morte (Virgilio, En., 4, 644), poi il cielo e il mare si rasserenano e l’eccesso dell’esultanza nasce dall’eccesso della paura. Una persona cara sta male, il polso rivela le sue cattive condizioni: tutti ne desiderano la guarigione, stanno male con lei in cuor loro; ma poi migliora, e prima ancora che si aggiri col vigore primitivo, già si diffonde un giubilo che non esisteva quando, prima, si aggirava sana e robusta. Persino i piaceri fisici della vita umana gli uomini se li procurano non solo a mezzo di noie impreviste e subite controvoglia, ma attraverso disagi premeditati e volontari. Così il piacere del cibo e della bevanda è nullo, se non preceduto dal tormento della fame e della sete; i beoni accompagnano il cibo con certe salse piccanti per provocare un’arsura tormentosa: estinguerla, bevendo, procura piacere. Si è persino stabilita l’usanza di non consegnare subito le spose già promesse, perché i mariti le apprezzerebbero meno se da fidanzati non avessero dovuto sospirarle un po’. Sempre una gioia più grande è preceduta da più grande tormento (ubique maius gaudium molestia maiore praeceditur) (Agostino, Confessioni, libro VIII, 3, Brescia 2004).

CANZONE RUSSA PER CHI È COSTRETTO A EMIGRARE. Speranza. Sono di nuovo lontano da casa / e lontano tante cose scompaiono dalla vista, / le offese patite appaiono assurde, / si sciolgono le nuvole delle tempeste… // Speranza, sei la mia bussola terrestre / e tu, fortuna, sii premio per il mio coraggio. // Bisogna imparare ad aspettare. / Bisogna essere tranquilli ed insistenti / per poter prendere dalla vita ogni tanto / i telegrammi corti di gioia. // Nel cielo una stella brilla: / è il monumento della speranza. Gli autori della canzone sono A. Pacmutova e N. Dobronzavov; la canzone è stata lanciata da Anna German. Si può leggere il testo integrale nel volume Il bagaglio invisibile, Confcooperative Brescia, 2004, p. 65.

16 dicembre 2004.

LINEA RECTA BREVISSIMA. La libidine documentaria. Quel genere di libidine che si può chiamare «documentaria», la libidine di chi si compiace di moltiplicare i documenti allo scopo preciso di recar noia a colui il quale ha l’audacia di chiedere alla pubblica autorità la licenza di esercitare un proprio diritto (Luigi Einaudi). No, non sono doveri. Non ci sono doveri ignobili (Alessandro Manzoni). Le ragioni ideali. Le donne sono più aperte alle ragioni ideali che agli opportunismi (Alcide De Gasperi nel discorso del 2 febbraio 1948, tenuto a Roma).

CHI HA SCRITTO QUESTE PAGINE SUL NATALE? La festa di Natale rimane la sera più felice dell’anno. Con gioia davvero sovrumana io l’attendevo da gran tempo, ma negli ultimi giorni non stavo più nella pelle, contavo i minuti, e le giornate mi sembravano lunghe come mai durante l’anno. Una volta – questo è curioso – in preda a una particolare impazienza, mi scrissi subito una lettera di Natale, trasportandomi addirittura con la fantasia in quel momento in cui la porta si sarebbe aperta e l’albero di Natale ci avrebbe abbagliato sfavillante. In un piccolo saggio d’occasione così scrivevo: «Com’è magnifico l’abete che ci sta davanti con la cima ornata da un angelo, allusione all’albero genealogico di Cristo, la cui corona era il Signore in persona. Come risplendono i numerosi lumi, che rappresentano simbolicamente il chiarore nato tra gli uomini grazie alla nascita di Cristo. Alle radici, Gesù bambino nella mangiatoia, circondato da Giuseppe e Maria e dai pastori adoranti! Che sguardi pieni di fede ardente gettano sul bambino! Voglia il Cielo che anche noi ci abbandoniamo con tale dedizione al Signore!». Un’alta significazione eleva questa festa al di sopra di ogni altra. Il Natale non riguarda solo noi stessi, bensì tutta l’umanità in generale, poveri e ricchi, grandi e meschini, illustri e oscuri. Ed è proprio questa gioia universale che aumenta quella nostra personale. Se ne può parlare con tutti, tutti gli uomini sono in certo modo uniti in una comune attesa. Si pensi poi alla sua collocazione, che rende il Natale per così dire il culmine dell’anno, si pensi a quell’ora notturna, quando l’anima è in genere assai più eccitata, e infine l’eccezionale solennità con cui questa festa viene celebrata. Il Natale è la festa della cristianità intera. L’autore di queste commosse considerazioni e di questi ricordi, pervasi da intima nostalgia, è Friedrich Nietzsche. Il brano citato è tratto dal volume La mia vita. Scritti autobiografici (1856-1869, Milano 1977, pp.32-33).

POESIA POLACCA DEI NOSTRI GIORNI. Come dimenticare? Il canto primaverile dell’allodola / il gioco dei bambini nel cortile / il bianco infinito dei campi invernali / i bucaneve spuntati timidamente / la dolcezza delle fragole mature / il Grande Carro dietro la mia finestra / il pupazzo di neve con un naso di carota / gli arrivi e le partenze delle cicogne / i dipinti del gelo sui vetri / il passo grazioso dei caprioli / il profumo delle viole di bosco / i blocchi di ghiaccio discesi dal fiume / il primo sole primaverile / gli aromi della cucina natalizia / le peonie e gli astri dei piccoli giardinetti / i faggi che bucano le nubi / la poesia / come dimenticare? Come raccontare? L’autrice di questa poesia è Agnieszka Kopecka, emigrata polacca a Brescia. Il testo è tratto dal libro Il bagaglio invisibile, Brescia 2004, p. 37. Il volume può essere richiesto gratuitamente a Concooperative Brescia. In apertura del suo intervento Agnieszka Kopecka scrive di sé: «Da sette anni spero di trovare qualche ragione per restare in Italia. Da sette anni spero di riuscire a realizzarmi in qualche modo. Quanto tempo ancora può durare questa speranza?».

23 dicembre 2004.

LINEA RECTA BREVISSIMA. La pace, priorità assoluta dell’impegno cristiano. Siate uomini pacifici, siate costruttori di pace, siatelo tutti (Giovanni XXIII). La solita storia. La frase: «Le cose sono accadute come dovevano accadere», è menzogna e vigliaccheria. È la solita storia: si tenta di cancellare le proprie responsabilità dando loro l’apparenza della necessità (Romano Guardini,).

NATALE TRA LE ROVINE. «Questa volta la Natività di Altdorfer, che raffigura la sacra famiglia con la greppia tra le rovine di una casa crollata – come si è arrivati solo 400 anni fa a questa rappresentazione, che va contro tutte le tradizioni? – è di una straordinaria attualità. Forse voleva dire: si può e si deve celebrare il Natale anche così; in ogni caso, è questo che dice a noi». Chi scriveva queste righe era Dietrich Bonhoeffer. Dalla cella 92 del carcere nazista di Tegel Bonhoeffer ci ricorda che non dobbiamo permettere che in noi e nell’umanità possa essere oscurata la memoria liberatrice della nascita di Gesù: memoria tanto più necessaria quando in noi e intorno a noi c’è buio, sofferenza, violenza. Questo bisogno dev’essere avvertito in tutta la sua forza in primo luogo da chi sa di possedere un passato e un’eredità interiore. In una lettera del Natale 1943 così scriveva quel grande cristiano ai genitori: «Voi ci avete preparato per decenni feste di Natale tanto meravigliose che il loro ricordo riconoscente è abbastanza forte da illuminare anche questo Natale buio. È in tempi come questi che si dimostra veramente che cosa significhi possedere un passato e un’eredità interiore che non dipendono dal mutare dei tempi e degli eventi. La consapevolezza di essere sorretti da una tradizione spirituale che si estende nei secoli dà una salda sensazione di sicurezza davanti a qualsiasi transitoria difficoltà. Credo che chi sa di possedere siffatte riserve di forza non ha bisogno di vergognarsi nemmeno dei sentimenti più teneri, che per altro a mio giudizio sono propri degli uomini migliori e più nobili, quando siano suscitati dal ricordo di un passato bello e ricco» (Da Resistenza e resa. Lettere e scritti dal carcere, Cinisello Balsamo 1989, pp. 222 e 234).

PER RIVIVERE LA MEMORIA LIBERATRICE DI BETLEMME. Bonhoeffer confida ai suoi familiari come si è preparato a celebrare il Natale nella prigione in cui è rinchiuso. Egli si affida con tutto il cuore ai testi della liturgia e ai Lieder, di cui scopre, in alcuni casi per la prima volta, la commovente bellezza. Nella lettera ai genitori, che reca la data 25 dicembre 1943, si legge: «Mi sono acceso la vostra candela e quella di Maria [la fidanzata di Bonhoeffer], ho letto il racconto di Natale e ho canticchiato qualche bel Lied natalizio; ho pensato a voi tutti, sperando che dopo tutti gli affanni delle settimane passate abbiate potuto avere dei momenti di pace. Il vostro pacco di Natale mi ha dato una grande gioia: soprattutto la tazza del bisnonno, del 1845, che adesso è sul mio tavolo insieme ai rami d’abete. Ma anche i conforti materiali erano stupendi e mi basteranno ancora per un po’…» (Resistenza e resa, cit., p. 249).

30 dicembre 2004.

LINEA RECTA BREVISSIMA. Maria, madre di Gesù. Colui che i cieli non potevano contenere, tu lo portasti in grembo (Sono due versi di un responsorio del Mattutino di Natale. Hegel li amava a tal punto che se ne appropriò e nel Frammento di sistema del 1800 ci dette la sua versione: «Den aller Himmel nicht umschloss, der liegt nun in Mariae Schoss»). L’ultimo dei Canti spirituali di Novalis. In mille immagini, Maria ti vedo / amabilmente ritratta; / ma nessuna di esse può fissarti / come ti vede la mia anima. / So soltanto che da allora il trambusto del mondo / è dileguato come un sogno, / e un cielo, indicibilmente dolce, / regna eternamente nel mio animo.

IL MISTERO E IL PRODIGIO DI NATALE. «Il mistero e il prodigio del Natale è incentrato sulla parola del Credo: Nato dalla vergine Maria per opera dello Spirito Santo» – scrive Karl Barth nella sua Dogmatica in sintesi. Con questo articolo del Credo, prosegue il teologo evangelico, ci troviamo sulla terra. «Ci troviamo di fronte a un essere umano: la vergine Maria. E come procede da Dio, Gesù procede anche da questo essere umano particolare. “Nato dalla vergine Maria” significa che Dio si dà un’origine terrestre, umana. Gesù Cristo è vero Dio, altrimenti l’incarnazione non ci sarebbe, ma egli è come ognuno di noi, nostro simile… “Nato dalla vergine Maria” sta a significare che in questa nascita, a Betlemme, l’uomo in quanto essere maschile non vi ha alcuna parte. Non che l’uomo, in quanto essere umano, ne sia escluso: c’è la vergine. Ma l’uomo maschile, nella sua funzione di capo della specie e di creatore della storia umana, si trova relegato sullo sfondo. Questa è la risposta della fede cristiana al problema della donna: è la donna ad occupare qui il primo posto, una creatura umile che non può stare davanti a Dio se non dicendo: “Ecco, io sono l’ancella del Signore. Avvenga di me secondo la sua parola” (Lc 1, 38). La risposta di Maria, questo grande dell’uomo a Dio, indica l’atto con cui il Creatore accetta e si prende cura della sua creatura» (Roma 1969, pp. 146-147).

LETTERA A UN’AMICA CHE STA PER EMIGRARE. Amica mia cara! La vita nel nostro paese va sempre peggio. Adesso tu devi fare la stessa strada che io ho percorso tre anni fa. Non è una scelta facile. Nella mia esperienza la cosa più difficile è stata stare lontano dai miei figli. Credo che anche per te sarà così. Devi imparare a non pensare a ciò che stai per lasciare. La forza la devi cercare guardando avanti. Devi aver ben chiaro il perché di questo sacrificio. Sei sicura di non poter fare nessun’altra scelta? Se è così, in bocca al lupo! Non piangere, via le lacrime! Voltaire disse più di due secoli fa «Il successo è figlio dell’audacia» e il motto ha un suo valore anche adesso. Con lo spirito forte, l’anima dolce, le mani capaci di fare mille cose, doni che sempre hanno avuto le donne della nostra terra, non aver paura di venire in Italia. All’inizio sarai disperata perché non conosci la lingua. Ma dopo due, tre mesi comincerai non soltanto a sentire ma anche ad ascoltare. Ti meraviglierai di te stessa quando finalmente riuscirai a parlare italiano. Carissima, ti ripeto, la nostalgia ti farà molto male, la tua anima piangerà e non una volta. Ma la supererai con la speranza di un futuro migliore, con il tuo lavoro e imparando cose nuove. Ti auguro di essere forte e di non perdere l’ottimismo. (Vira Horila in Il bagaglio invisibile, Brescia 2004, p. 23).