Dio e il male

Innanzitutto ringrazio, insieme agli organizzatori di quest’incontro, anche il professor Canobbio per questa lettura così attenta del mio libro, che ha esposto in modo efficace, come forse io non sarei stato in grado di fare. E non solo di questo gli sono molto grato, ma anche per le numerose e fondamentali questioni che mi pone

Poiché non considero sostanzialmente concluso il mio percorso di ricerca, occasioni come quella di questa sera sono occasioni che stimolano a pensare ancora ed eventualmente correggere le mie posizioni, per approfondirle. Tenterò, improvvisando, perché non sapevo quali sarebbero state le sue obiezioni, qualche risposta, qualche osservazione sulle cose che ha detto, sui rilievi che ha mosso il professor Canobbio.

Farei prima qualche osservazione introduttiva. Il professor Canobbio ha detto fra le altre cose che io espongo il rapporto tra Dio e male in termini di circolarità e ha detto giustamente che non penso la filosofia come un incremento del nostro sapere sul male e su Dio; con questo ho voluto dire che per me la filosofia ha un carattere ermeneutico. Non intendo infatti la filosofia come un nuovo sapere che si aggiunge a quel sapere fondamentale, che viene anzitutto dall’esperienza, dalla religione, dalla pratica morale e, successivamente, anche dalla scienza. La filosofia non può che riflettere sulle esperienze, sui contenuti di verità che riceve altrove. Il suo compito è quello di chiarirli, di illustrarli, di renderli comunicabili, di esaminarli criticamente, ma la filosofia è, a mio modo di vedere – molti colleghi pensano esattamente il contrario – un sapere modestissimo, almeno nel senso che è un sapere che non crea altro sapere, una tesi questa che è stata esposta per la prima volta da un grandissimo pensatore qual era Fichte.

Sul tema del male ho cercato di mostrare come la filosofia abbia percorso, anche perché non ha tenuto conto di quel suo limite, vie pericolose. Pericolose anzitutto perché riduttive e riduttive precisamente perché essa non ha voluto porsi in attento ascolto delle esperienze più profonde dell’umanità, dell’esperienza religiosa in particolare, e ha voluto invece razionalizzare l’esperienza del male; ma razionalizzare l’esperienza del male vuol dire dissolverla.

La seconda cosa che mi premeva sottolineare è che il mio libro è segnato dall’insistenza, se volete un po’ ossessiva, dalla preoccupazione di mettere in luce il carattere irriducibile del male, l’impossibilità, o meglio non l’impossibilità perché invece ciò è avvenuto, ma piuttosto l’inaccettabilità di qualsiasi giustificazione del male. Io credo che chi ne ha fatto fino in fondo l’esperienza ha avuto anche quest’esperienza del carattere ingiustificabile del male sia come colpa sia come sofferenza. Questa è la tesi che percorre tutte le argomentazioni, quale che sia il loro valore, di questo libro, tesi che porta con sé quelle conseguenze che sono estranee a molte tradizioni teologiche e che con comprensibili ragioni anche il professor Canobbio mi rimprovera o comunque mette in discussione.

Questo mi importava anzitutto mettere in luce, come sia sospetta ogni via che magari partendo da un iniziale riconoscimento dell’irriducibilità del male viene poi a concludere a una qualche soluzione del problema. Quello che io ho voluto dire e mostrare è che, per quello che è dato a noi di comprendere e nei limiti in cui possiamo comprendere, non è possibile giungere a configurare una soluzione del problema del male. Si pensi ad esempio a come la rappresentazione del regno di Dio nel Nuovo Testamento sia una rappresentazione assolutamente paradossale, una rappresentazione che possiamo sostenere, che ci offre una speranza, ma sapendo che non possiamo dirla se non in forma di paradosso: così in particolare il regno di Dio è il luogo in cui la libertà si compie ma anche è il luogo in cui la libertà sembra finire, perché è possibile soltanto più il bene; e anche è il luogo in cui da un lato dobbiamo pensare il male come redento, ma dall’altro questa redenzione sembra mettere in gioco l’identità personale. In che modo infatti ci possiamo raffigurare, se ci è lecito raffigurarla, questa redenzione dal male, se essa significa che anche la sofferenza è dimenticata e cancellata? Non possiamo dire questo se non pensando che l’uomo redento è un altro uomo, ha un’altra identità assolutamente discontinua rispetto alla sua identità precedente.

Ora si può dire che il libro è un libro aporetico: poiché tutte le vie percorribili mi sembrano pericolose, è meglio restare in quest’aporia, in quest’impossibilità di raffigurare e di pensare in modo coerente la redenzione del male. In realtà per me non si tratta di un’aporia, che non conduce da nessuna parte, ma invece di un paradosso, che tiene insieme ciò che non riusciamo a comprendere come possa stare insieme. Perciò non è vero – il libro è chiaro su questo punto – che io non possa credere, affermare, desiderare la possibilità della redenzione del male e che perciò la dedica alla mia nipotina, che il professor Canobbio ha voluto ricordare, la mia nipotina Benedetta di due anni e mezzo, non ha un senso. La dedica ha senso, perché è proprio a partire dal desiderio e prima ancora dalla promessa di redenzione che il male acquista tutta la sua configurazione tragica e ci costringe ad entrare nelle aporie e ad uscirne soltanto con il paradosso. E’ proprio a partire dall’affermazione dell’assoluta positività di Dio, dalla promessa e dell’attesa di redenzione che il male assume il suo rilievo. E d’altra parte il desiderio di redenzione non sarebbe così pressante, così urlante in noi, se non si misurasse, se non si relazionasse ad un male che ci appare, come dicevo, incancellabile.

Da questo punto di vista, mi si può dire giustamente e il professor Canobbio lo ha detto, che non si vede una via d’uscita; certamente nel libro non si prospetta una via d’uscita, e non la si prospetta perché con i mezzi che ci sono dati, i mezzi dell’esperienza e della ragione, non è possibile trovarla, se non operando delle semplificazioni. Non basta dire: Dio nella sua bontà e nella sua onnipotenza cancellerà il male. E’ un po’ troppo semplice. Sì, Dio cancellerà il male, ma intanto come lo cancella, qual è la via che attraversa per cancellarlo? Come ricorda Kierkegaard, la sofferenza di Dio è uno scandalo ulteriore. Come se non ci fosse già abbastanza male, consentitemi di dire, si aggiunge anche quest’altro male, che per un verso è redentivo ma per un altro verso ancora è appunto un male che si aggiunge al male che c’è già nel mondo: la sofferenza del figlio di Dio è assolutamente scandalosa.

E inoltre, come già dicevo, come pensare una redenzione che sia cancellazione anche della memoria, che sia cancellazione della traccia del male? Parlavo oggi con Luca Ghisleri della conclusione del libro di Giobbe, una conclusione che appare francamente inaccettabile: Giobbe ritorna ad avere figli, casa, beni, ma i figli che sono morti? La redenzione va pensata su questo modello, come semplice cancellazione del male fatto e subito? E la sofferenza patita, che ne è della sofferenza patita? Se scompare, con essa non dilegua anche la nostra identità?

Per quanto riguarda poi le questioni teologiche che il professor Canobbio ha sollevato, sono un po’ in difficoltà non essendo un teologo di professione e mi riprometto di ripensare alle osservazioni critiche che mi sono state rivolte. Forse mi si può rimproverare, nonostante la mia prospettiva ermeneutica e in essa il mio impegno a fare dell’esperienza religiosa l’oggetto privilegiato della riflessione filosofica, mi si può rimproverare d’essere ancora troppo filosofo, e cioè di cedere in ultima istanza alla tentazione della razionalizzazione. Ma non è forse piuttosto la teologia che troppo spesso cade in questo errore, che cioè cede alla tentazione della demitizzazione? Ma fino a che punto possiamo demitizzare il Dio biblico e anzitutto quello dell’Antico Testamento? Le passioni di Dio le cancelliamo, la sofferenza di Dio la cancelliamo, l’ira di Dio la cancelliamo, le riduciamo tutte a metafore, ad antropomorfismi. Ma in questo modo ci resta quello scheletro nudo che è il Dio d’Aristotele. Cari amici, a me del Dio d’Aristotele non importa assolutamente niente, non è un Dio che mi salva, non è Dio che m’interessa. Se questo è Dio, allora mi dichiaro francamente ateo.

Non corriamo il rischio di ricadere nel Dio della metafisica, cioè nel Dio necessario; quello cristiano è il Dio della libertà. Non solo c’è una bella differenza, ma si deve anche aggiungere che libertà e necessità, nonostante che una venerabilissima tradizione abbia pensato il contrario, non sono conciliabili. Come osservò Schelling, in un corso di lezioni del 1827/28, se si comincia dalla necessità la libertà è persa per sempre. Allora anzitutto si deve decidere se Dio sia necessario o libero. Questa è la questione di fondo. Se si comincia dalla necessità di Dio, allora non vedo come si possa appiccicargli poi, con un’evidente forzatura, un po’ di libertà. Se invece Dio è anzitutto libertà, un Dio che agisce, un Dio che sceglie, un Dio che opera, un Dio vivente, allora ne consegue che difficilmente si può eliminare da lui la dimensione della passione. Se poi, come il cristianesimo non può non sostenere, Dio è amore, allora come si può pensare questo amore se si esclude che Dio si faccia carico della sofferenza dell’amato.

Naturalmente si può dire che qui antropomorfizzo, qui dimentico la differenza tra Dio e l’uomo. Ma a parte il fatto che il libro della Genesi mi giustifica alquanto dicendo che siamo immagine di Dio, se mi si dice che antropomorfizzo troppo Dio, io sono costretto a rispondere che, se devo comprendere qualcosa di Dio, se Dio non è un puro nulla, se non è quello della teologia negativa, allora le metafore, i simboli che vengono usati, che la Bibbia ha usato per parlare di Dio, non possono essere ridotti a puri scheletri concettuali dissolvendo tutto il contenuto, tutta la ricchezza infinita che posseggono. Mi riesce difficile farmi un immagine di Dio se astraggo radicalmente da tutte queste dimensioni, tutte queste raffigurazioni che la tradizione biblica e la tradizione cristiana ci hanno consegnato.

Da questo punto di vista e in particolare guardando al problema centrale della redenzione a me pare onestamente difficile prescindere dal concetto di sofferenza di Dio e anche da quello di peccato attribuito a Cristo, dicendo però che è appunto un peccato attribuito, come ha precisato il professor Canobbio (ma la sostanza della questione non cambia); Cristo non era peccatore, perché era uguale a noi in tutto tranne che nel peccato, ma Dio l’ha fatto peccato. Anche qui ci troviamo di fronte a un insuperabile paradosso. Possiamo farcene una pallida idea pensando ad esempi come quelli di Padre Kolbe o di Salvo D’Acquisto, che si sono caricati della responsabilità di un’azione che non avevano commesso e ne hanno pagato le conseguenze impedendo che queste ricadessero su altre persone. Sicuramente non ho una competenza teologica sufficiente, ma, per quel che capisco, mi sembra difficile evitare queste determinazioni della realtà del Dio cristiano.

Naturalmente c’è il problema della differenza tra l’uomo e Dio, che può essere determinata attraverso la figura dell’analogia. Sul concetto di analogia sarebbe importante svolgere una più ampia riflessione. Il mio sospetto è che esso sia ancora troppo debitore del concetto di partecipazione, con gli equivoci che questo porta con sé. Ora il concetto di partecipazione contiene in sé il concetto di parte, termine del tutto inadatto a definire la relazione tra finito e infinito. E ancora: il concetto di analogia da un lato avvicina troppo i due termini della relazione analogica e dall’altro li distanzia in modo tale da impedire qualsiasi determinazione vanificando la somiglianza. Non dovremmo piuttosto ricorrere al concetto, che del resto è biblico, di immagine? Badate, il concetto d’immagine differisce dal concetto di partecipazione perché non dice che l’uomo per una parte somigli a Dio e per una parte gli sia difforme, ma dice che l’uomo è totalmente identico e insieme totalmente diverso, che è una cosa un po’ diversa. L’immagine non è nient’altro che ciò di cui è immagine ma allo stesso tempo è tutt’altro da ciò di cui è immagine.

Di nuovo mi rendo conto di correre il rischio di sovrapporre artificiosamente concetti filosofici all’esperienza religiosa. E’ un rischio da correre se l’intenzione è quella di restare ermeneuticamente fedeli a quell’esperienza di verità che io, come Pareyson, considero la più originaria. Uso quei concetti tentativamente e sapendo in ogni caso qui si apre un campo di ricerche vastissime; e più che rispondere in modo convincente, come non sono capace, alle obiezioni, vorrei indicare delle piste di ricerca.

E particolarmente feconda mi pare, in teologia come in filosofia, quella offerta dal concetto d’immagine, dell’uomo come immagine di Dio, cioè come totalmente identico e insieme totalmente diverso. Comprendere la relazione tra il finito e l’infinito in termini di immagine significa anche pensare la concretezza e determinatezza dell’immagine come vera (anche se non perfettamente adeguata) rappresentazione dell’infinito. Da questo punto di vista acquistano piena legittimità le metafore e i simboli che la Bibbia usa e che noi usiamo per parlare di Dio, senza demitizzarli, sapendo che essi sono in grado di preservare la differenza radicale proprio nella loro capacità di offrirsi a inesauribili processi di interpretazione.

Ancora una precisazione finale sull’uso del paradosso a cui io tengo molto e che mi è stato rimproverato. Il rimprovero mi sorprende, perché il paradosso è la traduzione in termini filosofici del concetto di mistero: se parlo in termini religiosi uso il concetto di mistero, se traspongo il mistero in termini filosofici logici allora uso il concetto di paradosso, intendendo per paradosso il pensiero dell’unità di due contrari, non contradditori ma contrari la cui unità non è pensabile eppure va affermata. Solo una filosofia o una teologia che tentino, consapevolmente o meno, di ridurre il mistero possono rinunciare al paradosso. Naturalmente in questo modo, lo ripeto, si presuppone un modo di far filosofia che è ermeneutico nel senso che riflette sull’esperienza religiosa. Ora l’esperienza religiosa mi pone di fronte al mistero e a questo mistero cerco di dare una forma più concettuale, più critica, più filosofica, e questa forma mi sembra possa essere quella del paradosso.

NOTA: testo rivisto dall’Autore della conferenza tenuta a Brescia il 4.10.2006 su invito della Cooperativa cattolico-democratica di Cultura.