Due scelte di Agostino

Agli occhi di Agostino sperimentare con intima gioia l’immanente eticità della cultura, la sua straordinaria capacità catartica era già «un cominciare ad alzarsi per andare verso Dio» (“Confessioni” III, 4, 7); ma la via che conduce all’incontro con Dio attraverso Cristo sarebbe stata assai più lunga e difficile. Insegnante di retorica, ancor giovanissimo, nella natìa Tagaste e ben presto nella metropoli dell’Africa romana, a Cartagine, Agostino diverrà, com’è noto, titolare di quella cattedra a Milano, allora capitale dell’impero. E sarà a Milano che incontrerà Ambrogio e, attraverso i circoli culturali d’ispirazione cattolica, la filosofia di Plotino. Sempre, anche prima della conversione, Agostino non si limitò affatto a «vendere chiacchiere atte a vincere cause»; egli insegnava tanto ad acuere linguam, quanto la ricerca della vera sapientia. Agostino avvertì sempre il valore positivo del suo far scuola poiché portava nell’insegnamento la sua «buona fede» (IV, 2, 2); non era tutto fumo, c’era pure qualche sprazzo di luce nel suo lavoro di professore (ibid.). Tra i molteplici motivi di grande rilevanza pedagogica che le “Confessioni” offrono occorre ricordare la felice concezione che Agostino ebbe del rapporto tra retorica e filosofia. Infatti nell’antichità la cultura oratoria e letteraria non era in contrasto, come oggi, con quella scientifica, ma con la filosofia, che poneva al di sopra della eloquenza la serietà e l’impegno del pensiero.
Agostino, ex-professore di retorica e vescovo cattolico, vive assai intensamente la tensione drammatica e la convergenza di retorica e filosofia. Malgrado il ricorso ad espressioni drastiche, sempre originate dalla vibrata protesta per la vacuità morale che si accompagna all’estetismo e a quella specie di ignoranza fastosa che è l’erudizione fine a se stessa, Agostino era troppo colto e di animo elevato per ignorare il valore delle lettere, i diritti della poesia, la funzione umanizzante della cultura. Egli confessava: «Dai versi, dalla poesia posso anche trarre un reale alimento» (versus et carmen etiam ad vera pulmenta transfero, III, 6, 11).
In realtà la soluzione che Agostino dà del problema rifugge costantemente sia dal sincretismo compromissorio, sia dagli esclusivismi settari: occorre invece riscoprire e far proprio l’universalmente umano che brillò anche in epoche pagane, abbandonare al passato il male e valorizzare sempre tutto ciò che è buono. «Un argomento esposto non deve sembrar vero perché esposto eloquentemente, né falso perché è forbito il discorso. La sapienza e la stoltezza sono come dei cibi utili e nocivi; possono essere somministrati con parole ornate o disadorne, così come su piatti signorili o rustici» (V, 6, 10). L’ideale a cui tendere rimane quello di fondere in sintesi armonica forma e contenuto, retorica e filosofia, coscienza estetica e coscienza etico-religiosa. I più grandi umanisti – da Petrarca a Pico della Mirandola, da Marsilio Ficino a Erasmo da Rotterdam – non avranno altro programma e nutriranno le stesse aspirazioni. In ogni caso – come ha osservato giustamente E. Auerbach (“Lingua letteraria e pubblico nella tarda antichità latina e nel Medio Evo”, Milano 1974, p. 60) – nelle Confessioni quella sintesi è stata realizzata a un livello altissimo, poiché in essa la massima artisticità serve a dar voce alla più autentica e profonda interiorità.
In polemica con i manichei – la cui gnosi presumeva di spiegare con assoluta razionalità le realtà divine e i fenomeni fisici – Agostino denuncia nel V libro delle “Confessioni” «l’audacia sfrontatissima di quei credenti che osano incorporare al dato rivelato una teoria o un’ipotesi scientifica», piegando la Scrittura ad un compito che le è del tutto estraneo. Nuoce e molto ai cristiani confondere la scienza, vera o presunta che sia, con l’insegnamento religioso e affermare con ostinazione quanto si ignora. Non esiste una rivelazione religiosa dei fenomeni naturali ed è pertanto assurdo attribuire alla Scrittura una rivelazione cosmologica invece che morale e religiosa. «Quando sento parlare questo o quel fratello cristiano che è inesperto nelle scienze e in esse ha idee sbagliate, io – incalza Agostino – considero le sue opinioni con pazienza; né vedo come gli nuoccia l’ignorare accidentalmente la posizione e la condotta di enti corporei, creati da te, allorché su di te, Signore, creatore di tutto, non abbia opinioni sconvenienti. Gli nuoce, invece, il pensare che la scienza faccia parte proprio dell’insegnamento religioso e l’affermare con sfrontata ostinazione quanto ignora» (V, 5, 9).
È questa una lucida, radicata convinzione di Agostino che egli ripropone in testi diversi. «Attribuire alla Scrittura dati scientifici è delirare, è far ridere» giunge a scrivere nel “De Genesi ad litteram” (I, 19). E nel “Contra Felicem”: «Non si legge nel Vangelo che il Signore abbia detto: – Vi mando il Paraclito perché v’insegni come camminano il sole e la luna -. Egli voleva fare dei cristiani, non degli astronomi» (I, 10). Agostino scriveva queste cose, la cui importanza per una formazione autenticamente cristiana è quanto mai decisiva, undici secoli prima di Galilei e lo scienziato pisano trarrà proprio da Agostino citazioni quanto mai calzanti a sostegno della sua tesi sull’autonomia delle conoscenze scientifiche e sull’intendimento specificamente religioso della Bibbia, la quale «non ha lo scopo di determinare le costituzioni e movimenti de’ cieli e delle stelle». Nella “Lettera a madama Cristina di Lorena”, del 1615, Galilei riprende il principio agostiniano della rigorosa distinzione di ambito, di finalità e di metodo tra scienza e fede, facendo sue le parole che dice di aver inteso dal cardinal Baronio, secondo cui «l’intenzione dello Spirito Santo è d’insegnarci come si vadia al cielo e non come vadia il cielo». Galilei concordava perfettamente con il santo dottore quando nella “Lettera a monsignor Piero Dini”, del marzo 1615, affermava che bisogna andare con molta circospezione «intorno a quelle conclusioni naturali che non sono de fide, alle quali possono arrivare l’esperienza e le dimostrazioni necessarie». La Scrittura, insomma, non deve venir impegnata da fallibili interpreti su questioni risolvibili dalla ragione umana e delle quali si possano una volta o l’altra «aver dimostrazione in contrario». Se i giudici di Galilei avessero avuto la consapevolezza profonda che Agostino aveva della Scrittura, messaggio di salvezza che non prefissa i risultati alla ricerca umana, non si sarebbero certo arrogati un’autorità in un campo in cui, non erano competenti a giudicare.

Giornale di Brescia, 21 maggio 1990.