Educazione sociale dei giovani d’oggi

1. Orientamenti di pedagogia sociale

Il centro dinamico è nella coscienza personale

La persona umana esige le «comunicazioni» della vita sociale non solo per ciò che si riferisce alla sua natura animale ed istintiva – in ragione cioè dei bisogni di un individuo che nasce sprovvisto di tutto – ma anche essenzialmente in ragione dell’intelligenza e dell’amore. L’educazione se vuole tendere a formare una personalità integralmente umana, non può ignorare i rapporti sociali, ma deve prenderne coscienza ed orientarli razionalmente.
Non tutte le relazioni umane sono però degne dell’uomo: affinché quelle esistenti diventino autenticamente sociali, bisogna infatti che l’uomo le sviluppi così come esse dovrebbero essere. L’insocievole socievolezza («ungesellige Geselleskeit») dell’uomo va integrata dalla coscienza morale e purificata di continuo dalle insinuazioni e dai camuffamenti della dialettica naturale degli istinti che in noi tentano costantemente di negare o togliere ogni valore all’umanità di coloro che ci circondano.
La persona non si eleva alla moralità per la limitazione posta alla sua libertà e ai suoi interessi dalle altre persone socialmente coesistenti; non diventa soggetto morale per un calcolo o per un equilibrio di egoismi; ma essenzialmente per quell’impegno libero, volontario che traduce un’intenzione retta in una scelta. La lotta morale s’impone allora come atto elementare di umanità persino alle coscienze più rozze e in questo conato risiede il primo principio di civiltà così mirabilmente espresso nell’asserzione del “Genesi” (4, 7): «L’appetito tuo ti sarà sottoposto e tu potrai dominarlo». Ogni educazione sociale rimane perciò deficiente e precaria se non vi è un’interna formazione morale: per essere uomini che vivono degnamente in ognuna delle comunità di cui fanno parte, quello che importa innanzi tutto è il centro interno, il centro dinamico, la sorgente viva della coscienza personale, da cui sorgono insieme gli ideali e la generosità, il senso della legge e il senso dell’amicizia, il rispetto per gli altri e l’energica affermazione della propria indipendenza morale.
«Da ciò si deduce – osserva il Card. Siri – che la parola "sociale" è male usata quando la si attacca a cose che si direbbe siano vaganti per aria; la parola "sociale" sta bene soprattutto quando la riferiamo a noi; deve avere un soggetto, perché se non ha soggetto è inutile ed ingannevole; è mistificazione che può fare da ombrello a chissà quanti fatti che non hanno a che vedere col benessere degli uomini» (“Il Samaritano”, maggio 1957, p. 185).
All’attenzione dei giovani potremmo perciò proporre in una formula epigrafica un concetto attivo, non nebuloso e impersonale di socialità. Parafrasando un’espressone di un grande maestro di recente scomparso potremmo così sintetizzare questa prima basilare convinzione: «quanto più discendi in te stesso tanto più trovi gli altri, la misura interiore per rendere agli altri giustizia e per amarli; e quanto più ti poni al servizio degli altri e ti apri agli altri, tanto più approfondisci te stesso».

L’alienazione sociomorfica

L’educazione sociale, per sua intima natura, si oppone con tutte le sue forze all’alienazione sociomorfica dell’uomo, cioè a quell’atteggiamento – oggi assai diffuso – per cui l’uomo si dimette, per così dire, da se stesso, dalle sue responsabilità morali e sociali, per lasciarsi assorbire nella banalità quotidiana di uno scetticismo senza dignità e grandezza o nel regno irresponsabile del collettivo, delle masse fanatizzate e dei suoi capi.
La forma più bassa di alienazione sociomorfica che si possa concepire per dei giovani è quella che un filosofo contemporaneo ha dichiarato il mondo del «das Man», del «si dice», quel mondo in cui noi «ci lasciamo agglomerare quando rinunciamo ad essere dei soggetti coscienti e responsabili: il mondo della coscienza sonnolenta, degli istinti senza volto, dell’opinione vaga, del rispetto umano, delle relazioni mondane, del conformismo sociale e politico, della mediocrità morale, della folla, della massa anonima, dell’organismo irresponsabile. Mondo arido e senza vita, in cui ogni persona ha provvisoriamente rinunciato a sé in quanto persona per divenire un "qualsiasi", senza nome, intercambiabile» (Mounier). Il mondo del «si dice» non è legato in modo esclusivo a questa o a quella forma sociale; esso è, in tutte, come una tentazione in agguato.
Il primo atto della vita personale è il prender coscienza di questa vita anonima e il ribellarsi alla degradazione che essa rappresenta. Promuovere questa presa di coscienza e questa ribellione doverosa significa avviare in modo virile e appassionato il risveglio dell’adolescente ai fini superiori della sua natura, e per ciò stesso dar inizio alla sua formazione sociale.
Senza dubbio l’affermazione del Nietzsche "ogni comunità rende volgari" ha un’anima di vero; ma la tendenza alla spersonalizzazione è prima di tutto una tara che dall’uomo trapassa nella società, e non pesa sull’uomo per il solo fatto che egli vive in una società complicata. Per questo "la diagnosi di ogni malattia sociale deve essere condotta in modo da scoprirne nella persona la radice ed i mezzi per curarla" (Stefanini, “Personalismo sociale”, Studium, Roma, p. 78).
Rende volgari solo la partecipazione a quelle società chiuse, che si arrestano nell’esaltazione di un egoismo individuale o collettivo, a quelle società chiuse in cui gli individui sono legati unicamente dalle passioni che caratterizzano i fenomeni di massa, per la quale si reclamano i fideismi ciechi, le certezze prefabbricate, le messe in scena.
Non si insisterà abbastanza sull’urgenza di premunire i nostri giovani dal mito della massa, della folla, del pubblico, del numero; queste categorie pagane rappresentano la forza bruta e lo strumento irresponsabile dei mestatori dei popoli, dei maghi della suggestione, dei dittatori e pervertono gli ambienti naturali di espansione e di formazione dell’uomo la cui socialità non è certo quella degli animali gregari.

Bisogno della comunità e indipendenza morale

In questa nostra epoca di maggiore sviluppo e perversione degl’istinti sociali è dunque d’importanza fondamentale guidare i giovani a compiere in sé la conciliazione tra lo spirito d’indipendenza morale e il bisogno della comunità. L’educazione sociale tende a salvaguardare l’uomo dalle tendenze inferiori che lo spingono all’egoismo e a non essere solidale con gli altri uomini, giacché il senso della propria dignità non può essere mai disgiunto dal rispetto della personalità altrui. L’educazione sociale guida lo sviluppo della persona umana nella sfera sociale svegliando la coscienza dei suoi obblighi e delle sue responsabilità verso la comunità: ma proprio per questo affermando il senso della sua libertà spirituale, della dimensione interiore del suo agire fra gli uomini, dell’indipendenza fermamente radicata nella difficile fedeltà a ciò che più conta, alle verità che sono più in alto di ogni orizzonte statale e dei facili umori delle maggioranze e delle minoranze del momento. Ai giovani che hanno bisogno di criteri certi, espressi con incisività, si può dire: "ciò che appartiene all’ordine dei beni sensibili deve essere subordinato dal privato al bene comune, ma non può essergli subordinato ciò che non sopporta permuta o baratto": ciò che è dignità, verità, libertà, coscienza morale, fede religiosa. L’uomo trova se stesso nella misura in cui si dona alle altre persone della comunità di cui fa parte, per cui si potrebbe quasi dire che io esisto nella misura in cui esisto per gli altri e che tutto si può chiedere all’uomo per il bene comune.
Non esclusa la vita; ma non gli si può chiedere di «perdere l’anima» – come pretendeva Machiavelli – perché nulla è più contrario al bene comune. Il gruppo sociale che spegne lo spirito nei suoi associati prepara con quella dei suoi associati la propria rovina.
Noi crediamo che in un’epoca pronta ad abbandonare la propria libertà per un minimo di sicurezza i giovani debbano ripudiare lo spirito di servaggio in tutte le sue forme, se vogliamo lavorare a ricostituire la specie degli uomini liberi.
Queste considerazioni valgono oggi più che mai per la nostra "era democratica", se vogliamo che la democrazia non si risolva nella tirannia demagogica, che ne è la controfigura. Se la cosiddetta opinione pubblica non deve portare alla dittatura del gregge dei più ciarlatani e dei loro sconsiderati seguaci, se l’ideale regolativo di democrazia oltre a indicare una direzione deve poter costituire un reale modo di vita, si esige assolutamente la presenza di uomini che di fronte alle finalità del momento e dinanzi alla meschinità di inconfessabili interessi, facciano valere gli eterni fondamenti etici della convivenza umana e le considerazioni più lungimiranti di un pensiero che abbraccia il passato, il presente e l’avvenire.
"Uomini siate e non pecore matte" ammonisce Dante e "Vien dietro a me e lascia dir le genti" dice Virgilio a Dante quando questi nella sua ascesa a una perfezione superiore si volge ad ascoltare le chiacchiere degli uomini privi di carattere. Nella giovinezza simili espressioni ed immagini spesso possono offrire incoraggiamenti notevolissimi.

2. Indirizzi metodologici

La gioventù età polemica

Chiariti gli orientamenti di fondo, tracciate in breve alcune linee di forza di un’educazione sociale coerente col senso cristiano dell’uomo, sorge ora il problema del metodo: come parlare ai giovani, come aiutarli a formarsi un’autentica coscienza sociale?
Per quel che riguarda gli atteggiamenti dei giovani di fronte alle varie forme di vita associata di cui sono chiamati prima a rendersi conto e poi a farne parte in maniera sempre più cospicua e determinante, qui basti ricordare come sia psicologicamente fondato il vedere nell’adolescenza e nella gioventù un’età polemica ed insieme un’età-gang, un’età cioè in cui si avverte come ineludibile il bisogno dell’integrazione sociale. In rapporto al normale sviluppo dell’uomo la giovinezza è un’età eminentemente preparatoria ed è diseducativo che i giovani si credano «una specie di corporazione con diritti senza doveri», forniti di non so quali privilegi nei confronti degli adulti. Essi sono chiamati a vivere a loro volta le forme fondamentali della vita sociale degli adulti, e lo faranno in maniera più pura e più radicale, se sapranno cogliere con le deficienze da colmare anche ciò che di più grande e di più degno vi è nel messaggio a loro trasmesso dagli adulti: coloro che credono di non avere nulla da imparare e da rispettare, diventano solo egoisti e brutali e non acquistano mai una conoscenza realistica di se stessi e del proprio compito.
Se il giovane non è diventato l’animale domestico delle sue passioni e non si è immiserito in una concezione volgare della vita, allora conserva in sé qualcosa della freschezza e dello slancio delle origini: quale che sia la sua base ambientale, egli sente confusamente di voler lasciare il mondo meno ingiusto e più affratellato di come lo ha trovato e questa mirabile disposizione naturale può aiutare a comprendere il significato profondamente attivo e innovatore del «Discorso della Montagna». Il fattore particolare che rende l’adolescente e il giovane elementi positivi tra i più importanti per un nuovo passo in avanti della società, prescindendo dal loro più ricco spirito d’avventura e di novità, è che essi non accettano come dato l’ordine stabilito e non hanno interessi investiti né nelle sue strutture né in termini di valutazioni e di abitudini. Per questo «la gioventù appartiene a quelle risorse latenti che ogni società ha a sua disposizione e dalla cui mobilitazione dipende la sua vitalità» (K. Mannheim, “Diagnosi del nostro tempo”, Mondadori, Milano, p. 56): verità questa assai spesso dimenticata da quelle guide pavide che preferiscono la neutralizzazione alla vivificazione cristiana delle risorse giovanili.

La scienza e l’arte della vita

Il giovane, come è stato più volte osservato, ha fortissimi interessi etici concreti in connessione col predominio degli interessi sociali caratteristico alla sua età; si tratta di indurlo, parlando da questa base psicologica, a considerare con spirito equanime i casi della vita di cui è attore o testimone, per interpretarli rettamente, e a ricavarne l’indicazione del proprio dovere.
Questo è lo spirito animatore della foersteriana e modugnana «scienza ed arte della vita», la quale non è nuda esposizione di freddi concetti né arida precettistica, e può servire mirabilmente come guida per cogliere nella vita concreta le intime relazioni tra le singole azioni e i massimi principi della religione, della morale e della vita sociale. Nel fatto, nei giudizi iniziali dei giovani vive più o meno forte e coerente l’esigenza di adeguarsi al valore.
Le vie attraverso le quali la verità si fa strada sono molteplici: nella conversazione, in cui liberamente ognuno può esprimere il suo punto di vista, spesso si passa da una verità all’altra; si assiste ad un susseguirsi di intuizioni e di esperienze vive, bisognose di integrazione e di approfondimento; altre volte l’educatore deve aiutare i giovani a superare le opposte unilateralità di cui pure è necessario cogliere l’esigenza giusta insoddisfatta, dissipare la confusione di un valore con un disvalore, l’incoerenza dei mezzi proposti rispetto al fine eletto; ed è frequente il caso che si giunga a scoprire il valore insospettato di atti e fatti che prima sembravano negativi.
La scienza e l’arte della vita insegnano ad usare la forza del pensiero direttamente per rielaborare le difficoltà della propria esperienza, per compenetrare la vita quotidiana e trarne un risultato positivo; esercitano a cogliere se stessi nei moventi più profondi delle proprie parole e azioni; educano la gioventù al giusto atteggiamento etico, all’obbiettività, all’autocritica e al dominio di sé nei riguardi dei conflitti di interessi, delle diversità di opinione; indirizzano il giovane alla fermezza di fronte alla vita istintiva e al conformismo sociale. L’iniziazione dei giovani nelle conversazioni di scienza della vita – nota il Modugno (“Religione e vita”, La Scuola, Brescia; si veda la IV edizione) – mentre è preziosa per creare sane convinzioni, li mette in grado di cominciare a distinguere tra convinzioni vere e false, fortifica il senso del concreto e combatte alla radice la superficialità, la quale non fa mai raggiungere il secondo piano delle cose, quello più vero.
La scienza e l’arte della vita non sono che un’originale moderna applicazione al mondo etico-sociale dei procedimenti classici della meditazione ignaziana e salesiana; per questo il metodo illustrato dal nostro Modugno – e ne parliamo per diretta esperienza – ci sembra il più idoneo sia a destare il senso sociale, sia a riscoprire attivamente e a precisare con rigore le ragioni più profonde della socialità, non in astratto, ma, intimamente congiunte alla realtà del vivere quotidiano e al risveglio della coscienza personale.
Questo metodo unisce ciò che non va separato: il pensiero, il sentire, il volere, e fa scaturire l’azione da convinzioni accertate come intrinsecamente coerenti: la chiarezza delle idee è così accompagnata da un calore schietto, proprio di chi partecipa a ciò che insegna, calore che non sforza, ma sollecita e conquista gradatamente tutte le energie dello spirito.

L’istruzione organica e l’insegnare a «saper leggere»

È inutile dire che occorre pure un’esplicita prolungata considerazione di alcuni princìpi dottrinali, decisivi per l’orientamento dei giovani. Così, per esempio, è indispensabile conoscere bene i princìpi promulgati dalle Encicliche sociali dei Papi. Vi sono poi problemi generali che esigono un’organica istruzione riguardante l’ordine sociale cristiano: le conversazioni di scienza ed arte della vita ben lungi dall’escludere questa parte dottrinale, preparano nel modo più opportuno i giovani ad accoglierla con intima adesione.
Importa solo che nell’insegnamento si metta l’accento sulla ragionevolezza e sul giusto discernimento piuttosto che sui poteri minutamente analitici e presuntuosamente critici, sulla sintesi intuitiva piuttosto che sul nozionismo enciclopedico.
Queste considerazioni metodologiche sarebbe forse interessante riferirle pure a quelle altre fonti di educazione sociale quali sono i libri, le riviste, i giornali. In attesa di un rinnovamento, da più parti auspicato, della nostra stampa, teniamo presente che non meno importante è l’insegnare, con esercizi reali, che sono del più vivo interesse, a saper leggere con senso critico e con sensibilità umana e cristiana, in tempi come i nostri in cui lo slogan blocca in molti la capacità di riflessione e di critica.

3. Aspetti convergenti dell’educazione sociale dei giovani

Alcune idee-forze basilari

Ed ora qualche rapidissimo cenno esemplificativo ad alcune idee-forze e ad aspetti diversi ma convergenti dell’educazione sociale dei giovani cattolici.
L’educazione sociale comincia quando io comprendo che al mondo non ci sono solo io, ma anche gli altri i quali non sono estranei o assenti, ma simili a me, e che io ho la capacità di amare come me stesso, come soggetti che possono disporre delle loro speranze e che vanno assecondati nella loro individualità di esseri liberi e intelligenti. Il rapporto interpersonale è una vicendevole fecondazione o un reciproco immiserimento: occorre che i giovani si rendano conto che l’asocialità, l’indurirsi nella propria relatività, quest’intima «indisponibilità e inospitalità del cuore» (Mounier) rivela meschinità prima che cattiva volontà e che rifiutare al prossimo il nostro amore disinteressato significa rifiutare a noi stessi il maggior aiuto per la propria crescita spirituale. La più efficace pedagogia sociale si ottiene partendo da una gratitudine attiva verso coloro a cui siamo legati da infinite relazioni indirette e dirette, persone di cui normalmente ignoriamo i servigi.
Bisogna motivare in ogni modo e con le più vive suggestioni quella verità prima che ogni Caino, invano sfuggendo all’intimo pungolo di Dio, cerca di non mettere a capo dei propri pensieri e dei propri atti: noi, di diritto e di fatto, per determinati aspetti oggettivi, sul piano naturale e ancor più nell’economia cristiana dell’amore sovrannaturale, siamo i custodi dei nostri fratelli, anche quando ci sembra di non averne avuto uno speciale incarico, perché ogni uomo è uomo e si chiama mio fratello. L’esercizio della rinuncia all’egoismo deve apparire al giovane come l’ascesa della vita personale che prepara la responsabilità, la generosità senza calcolo, la discrezione fatta di speranza e di vigile attenzione, la donazione totale, il perdono, la fiducia liberatrice, la gratuità, la fedeltà alle cose più alte. Sovrattutto con la gioventù studiosa è opportuno ribadire virilmente che voler «fare sul serio non consiste nel dire parole sonore, e fare a gara nell’esprimere grandi esigenze» (Guardini, “Lettere”, p. 55).
La generosità è un’invocazione che annulla l’opacità dell’isolamento, anche quando pare non trovi risposta. In realtà molti sono coloro che si aspettano un nostro dono, spesso senza saperlo: genitori, amici, fratelli, tutti quelli ai quali la vita ci ha uniti. E si attendono qualcosa da noi non solo quelli che ci sono vicini, e per i quali abbiamo simpatia, ma anche quelli che pur avversandoci, segretamente confidano in quello che è il gigantesco segreto del cristiano: l’amore, e non un amore meschino di cui «anche i pagani sono capaci», ma un amore fraterno saldamente ancorato nel cuore di Dio Padre e che tutti abbraccia per divino mandato. Pregnante di risonanze sociali è l’acuta osservazione di A. Carrel che meriterebbe di essere discussa dai giovani: «Il dovere di ciascuno non è solo quello di amare gli altri, ma soprattutto di rendere se stessi degni di essere amati dagli altri. Un individuo ineducato, grossolano, brutale, anche divorato dall’amore del prossimo, viola la legge evangelica perché rende impossibile agli altri la legge dell’amore». Chi non lavora a realizzare se stesso nel perfetto, chi non impara in modo solido a infrenare i propri difetti e a sopportare quelli altrui, che cosa mai potrà donare?
Ciò può creare la posa, l’insincerità, la fuga dalle responsabilità concrete, l’evasione da se stessi e dal reale, l’auto-inganno di chi crede di vivere le perfezioni impossibili che esige dagli altri. Chi vuol prendere sul serio la responsabilità, prende invece le mosse dove la responsabilità lo riguarda immediatamente, chiarendo a se stesso le sue intenzioni e gli effetti delle sue parole, sforzandosi di fondare il rapporto di comunanza umana su ciò che è quotidiano: opera quegli atti di comunanza, che gettano veri ponti tra gli uomini.

La cultura dell’espressione

L’educazione sociale ha da curare una «cultura dell’espressione». «Di fronte alla tendenza particolare della gioventù verso l’auto… indulgenza e di fronte al generale inselvatichimento dei rapporti umani sarebbe indispensabile una difesa saldamente ordinata contro gli istinti egoistici. Le buone maniere rompono la cupa inerzia dell’Io, destano la presenza di spirito e l’autocontrollo…» (Foerster).
Quanti sono gli uomini che portano in sé le migliori intenzioni, ma che non hanno mai imparato a far apparire l’interno all’esterno e a dire una parola di benevolenza, di simpatia, di riconoscenza, di gratitudine al momento opportuno?
L’educazione alla cultura dell’espressione ha dunque la sua profonda importanza anche per la liberazione psicologica dell’io migliore, della nostra volontà di bene e di comunanza fraterna.
Cleridge ha detto: «L’essenza del gentleman consiste in un’attenzione cavalleresca nelle cose più piccole della vita». Forse varrebbe la pena, anche per le nostre associazioni giovanili, elaborare un codice delle forme di cortesia di contenuto più schiettamente sociale (Förster).
Né va dimenticata l’opportunità di promuovere nei giovani ciò che Dante chiamava la «proportio hominis ad hominem»: un esatto sentimento per l’ordinamento gerarchico dell’età, della posizione sociale, della competenza. Niente appare più volgare che tendere a un’equiparazione che non ci spetta; è bene che il giovane sappia che il suo onore consiste nell’essere completo in ciò che lo riguarda, nel nutrire quel sano orgoglio che è connesso con ogni responsabilità profondamente sentita e compiuta.
È evidente infine che la cultura dell’espressione non ha nulla a che vedere con quella specie di tecnica dell’amabilità con cui certe persone, designate dal Pieper come i romantici dello spirito comunitario, invece di scacciare l’egoismo e l’istinto di asservimento, si sforzano soltanto di salvare le apparenze.

Lo sport

Alto valore sociale può avere il gioco. Il buon giocatore vuole tenacemente una piena vittoria, vuole raggiungere il più alto rendimento, ma la vittoria deve essere raggiunta nobilmente, in cavalleresca tensione, in libera disciplina, senza brutalità; altrimenti è menomata, è indegna.
«Così per mezzo del gioco rettamente inteso si risvegliano alcune nobili virtù dell’uomo: si dà prova che c’è qualcosa di più alto del vantaggio e dell’utilità: la bellezza e l’onore. Si ridesta il coraggio che non si spaventa di fronte alla prevalenza delle forze. Si esercita un disciplinato dominio di sé che insegna a simulare il dolore… Il nostro senso di giustizia non si oppone a una sconfitta e vuole, sì, aver ragione, ma lascia la vittoria a chi spetta, e ci fa capaci di stringere la mano all’avversario senza invidia e di dire: – Hai condotto un gioco migliore» (Guardini, Lettere, Morcelliana, Brescia, p. 85). Tutto questo è scuola di lealtà, tirocinio di vita etico-sociale.

La famiglia

La prima scuola in cui si vivono e si apprendono i rapporti umani è la famiglia. L’amore familiare è il prototipo di ogni amore che unisca una comunità umana e l’amore fraterno è il nome stesso di quell’amore del prossimo che è una sola cosa con l’amore di Dio. Tuttavia la vita spirituale del giovane in famiglia può essere minacciata dal logorio dell’abitudine, dallo spirito di corpo, dall’assenza di quella reciproca discrezione amorevole necessaria allo sviluppo della vita interiore, dal prevalere esclusivo di finalità e preoccupazioni utilitaristiche su quelle etico-educative. Se a queste carenze si aggiunge la complessità dei problemi posti sul tappeto dalla volontà degli adolescenti e dei giovani di irrompere finalmente nell’universo della vita personale e dell’attività virile si comprende perché in troppe famiglie scaturiscono tra genitori e figli quei tragici conflitti che possono oscurare tutta una vita. «È di grande importanza assistere i giovani in tali momenti e incoraggiarli a servirsi proprio di questi conflitti come di una vera scuola della maturità e dell’autoeducazione, nel senso che essi cerchino di assolvere ambedue i compiti, cioè la necessaria conservazione della propria personalità e il rispetto, altrettanto necessario, dell’età avanzata, dell’unità e dell’autorità nella famiglia, rispetto che esige dei sacrifici, se non altro almeno una suprema pietas pur nell’opposizione delle volontà» (Foerster).
Aiutare il giovane a vivere cristianamente i rapporti con i familiari è già preparare il giovane a porre le basi cristiane della sua futura famiglia.

Patria, pace e fraternità mondiale

La patria è una realtà sociale che il giovane d’oggi – nota il Baroni (“Per la formazione sociale civile e politica della gioventù”, Studium, Roma, p. 24) – «ritrova nel suo sentimento, ma non sa più chiarirla e sistemarla entro il quadro delle nuove idee». Dobbiamo sbrogliare i giovani da quell’equivoco che li porta inavvertitamente a confondere sia l’amor patrio con le ideologie patriottarde dei nazionalisti, sia la fraternità umana e cristiana con l’assurda pretesa di livellare i popoli a una civiltà unica che impoverisce il patrimonio di tutta l’umanità e che potrebbe realizzarsi sotto forma di governo mondiale soltanto coi mezzi a disposizione degli anticristi.
Si badi perciò che i giovani non confondano l’universalismo della religione cattolica con le utopie cosmopolitiche che ne sono la contraffazione laicistica. La realtà della patria non è nell’esclusivismo nazionalistico, come la realtà della famiglia non è nella consorteria e la realtà della religione non è nel fanatismo farisaico; tra patriottismo cristiano, aperto alla comprensione internazionale, e il nazionalismo pagano bellicista, razzista e imperialista non c’è differenza di grado, dal meno al più, ma la contrapposizione morale più netta esistente tra valore e disvalore, bene e male, progresso della coscienza umana e suo imbarbarimento, sanità e malattia. Il vero amore di patria non è elementare trasferimento dell’egoismo individuale al cosiddetto «sacro» egoismo di Patria, ma amore del proprio paese nel rispetto e nell’amicizia per tutti gli altri Paesi.
Se invece «per il fiammeggiare dell’amore di patria fosse necessaria l’occasione della guerra, o anche soltanto la competizione ostile e astiosa che fa condizione dell’amore per la propria Patria il disprezzo e l’odio per le Patrie altrui, l’ideale di Patria sarebbe in contraddizione con quello di Umanità e di Pace, e dovrebbe essere cancellato dai cuori degli uomini». Noi cattolici – è stato scritto recentissimamente – dobbiamo «sviluppare la coscienza di Patria sul metro della pace» («Studium», Editoriale su “Patria e pace”, maggio 1957), accettando il principio che lo spirito di sacrificio personale, che dovrebbe dominare nel tempo di guerra, deve dominare anche nel tempo di pace, senza l’ausilio di artificiose tensioni psicologiche, ma per intimo convincimento, per devozione abituale, per una fedeltà operosa e senza esaltazione: impegno e programmi tanto più doverosi in Italia, i cui giovani sono forse più pronti a morire per il proprio paese che non a saper vivere per esso: donde la paurosa proliferazione dell’incivismo.
 

Pedagogia e Vita, agosto-settembre 1957.