Erasmo e More: parola e scrittura

L’abbraccio tra Erasmo e More a Bruges, nell’agosto 1521, e un mese dopo la lettera dell’olandese a Budé, con lo schietto elogio dell’amico inglese, chiudono un’epoca. Nei dieci, dodici anni successivi la storia registra un’accelerazione incredibile a causa della rivoluzione portata dalla stampa nella circolazione delle idee e per l’intreccio di fattori molto diversi, tra i quali assumono particolare rilevanza la protesta religiosa, il destarsi della coscienza nazionale tedesca e l’agitazione sociale. Tra il 1510 e il 1525 la leadership culturale e religiosa in Europa è formata in netta prevalenza da umanisti cristiani, tra i quali primeggiano Erasmo e More; intorno alla metà degli anni venti chi domina la scena è un ex monaco agostiniano di Wittenberg, il teologo Martin Lutero, divenuto in pochi anni maestro di fede, scrittore efficacissimo e formidabile trascinatore di folle. Negli studi della seconda metà del Novecento l’interesse si è portato sempre più sulla teologia di Lutero, perché questa caratterizza il riformatore di Wittenberg più della sua critica nei confronti della Chiesa, ma per i contemporanei, e anche per Erasmo, non fu affatto così: fu la critica ai costumi corrotti della Chiesa che diede alla protesta religiosa una risonanza immediata e vastissima, rendendo popolare il nome di Lutero e vittoriosa la sua lotta, al punto che in meno di due lustri metà Europa si mise al suo seguito. In Inghilterra la voce di Lutero giunse attraverso gli scritti di William Tyndale, che trovarono consensi in ambienti diversi e soprattutto nell’aristocrazia, particolarmente interessata a metter le mani sui beni della Chiesa, senza essere tenuta ad assolverne le funzioni sociali nei confronti delle masse diseredate. Aiutato nella ricerca del materiale di documentazione dal suo ministro e consigliere Thomas More, Enrico VIII ha scritto contro Lutero una Difesa dei sette sacramenti, pubblicata nel luglio 1521, e per questo è stato insignito da Leone X del titolo di defensor fidei; ma sette anni dopo, nel ’28, una donna da cui il re era molto attratto, Anne Boeleyn, gli pone tra le mani un opuscolo di Tyndale, L’obbedienza civile, in cui il distacco da Roma viene associato alla tesi del dovere di sottomissione assoluta dei credenti ai principi temporali. Dopo averlo letto, Enrico VIII avrebbe esclamato: “Ecco il libro che fa per me!”.
I luterani inondavano l’isola delle loro pubblicazioni, e il vescovo di Londra, Cuthbert Tunstali, supplicò un suo amico, già molto preso da importanti occupazioni, di assumersi nel tempo libero la fatica supplementare di leggere e confutare gli scritti degli eretici. La vittima designata era More, che si accinse all’impresa con impegno. More, con l’intelligenza e la preparazione che aveva, avrebbe potuto scrivere una sintesi vigorosa, di grande respiro, sui problemi in discussione senza impegnare le sue forze in un lavoro estenuante di documentazione minuziosa, come invece gli era stato richiesto dal vescovo di Londra; tuttavia il pensatore originale e penetrante, che sa affermare il nocciolo di una questione e i caratteri della crisi della coscienza europea del suo tempo, emerge lo stesso, qua e là, e ripaga il lettore.
Il problema discusso più in profondità da More è quello della Chiesa. Sulla Chiesa società mistica e regno di Dio realizzato, “dove l’errore e il peccato sono assenti”, tutti sono d’accordo; è l’altra Chiesa, infatti, che fa problema, quella che è entrata nella storia del mondo e che si presenta, ora come all’inizio, in una duplice dimensione: la dimensione della divino-umanità del suo capo e maestro, Gesù Cristo, e quella semplicemente umana dei suoi membri tra i quali, insieme a uomini e donne che vivono in totale dedizione a Dio e al prossimo, ci sono peccatori e traditori. La logica dell’incarnazione ci pone di testimoniare il Cristo nel mondo e attraverso una Chiesa che deve continuamente annunciare il Vangelo e proclamare, nello stesso tempo, la sua inadeguatezza nel testimoniarlo. Il realismo ecclesiologico di More non poteva essere più schietto e deciso, ed è alla luce di esso che egli pone e avvia a soluzione la questione del rapporto tra chiesa e scrittura e quella correlativa di fede e storia. L’affermazione basilare di Lutero-Tyndale è l’anteriorità cronologica e l’assoluta priorità di valore della Scrittura sulla Chiesa. More cerca di preparare il terreno della discussione ricordando che vi è distinzione fra Parola orale e Scrittura. Orbene, la Parola orale è venuta prima della Chiesa e ha presieduto alla sua nascita; la Chiesa, a sua volta, ha fatto sì che la Parola orale diventasse Scrittura. Ma si è trattato di un passaggio e di un processo, non di un diktat o di un colpo di fulmine. “La Chiesa primitiva – precisa More nell’Apologia – si riuniva a professare la fede prima che una qualsiasi parte del Nuovo Testamento fosse stata redatta”. Del resto anche le origini della fede nel popolo inglese confermano questa realtà: l’Inghilterra è stata evangelizzata e le anime conobbero la Parola di Dio prima e senza l’uso del libro. I luterani reclamano l’uso esclusivo della Bibbia, ma se nella prima metà del XII secolo più dei due quinti della popolazione britannica è illetterata, se ne deve concludere che l’analfabetismo è causa di dannazione? Chi oserebbe proferire una bestemmia del genere?
Tyndale replicò a More introducendo la nozione di feeling-faith, “fede-sentimento”, e opponendola alla historical faith, “fede storica”, in cui la Parola giunge a noi attraverso gli altri uomini e le istituzioni. La fede-sentimento, invece, nasce dall’ispirazione interiore di un’anima svegliata a se stessa da Dio solo attraverso il contatto con la Scrittura. More rispose con finezza a Tyndale nella Confutazione, pubblicata in due volumi nel 1532 e nell’anno seguente. Il momento dell’incontro personale tra un’anima e la Scrittura contemplata con amore è aspetto insostituibile e privilegiato della vita di fede, così come l’ispirazione che sorge da quell’esperienza. In questo senso dodici anni prima egli aveva scritto nella famosa lettera a Dorp: “Ciò che è necessario alla salvezza ci è comunicato innanzi tutto dalla Sacra Scrittura”. Ognuno deve essere messo in grado di sperimentare “la potenza meravigliosa della Scrittura, che trasforma l’anima e la riempie di amore di Dio” e non c’è atto di fede che non sia atto di adesione del singolo alla salvezza portata da Cristo. Tutto ciò è vero, scrive More, ma è assurdo negare che l’accesso di ogni singolo alla Scrittura abbia bisogno di una comunità di persone che, riunite in una Chiesa, siano consapevoli del valore incommensurabile della Scrittura. Certamente lo Spirito soffia dove vuole, ma Dio parla “agli uomini per mezzo degli uomini” (hominibus per homines), come diceva sant’Agostino. L’appello di Lutero è sola Scriptura; ma un appello per essere accolto deve essere trasmesso: ha bisogno di una predicazione, di un insegnamento, di una disciplina spirituale. In una parola ha bisogno di una Chiesa che custodisce, trasmette, annuncia la Parola di Dio. Occorre, dunque, personalizzare l’accesso dei fedeli alla Scrittura – servendosi anche dell’apporto delle scienze filologiche e di un’esegesi più corretta e sobria, nonché della traduzione della Bibbia nelle lingue nazionali dei singoli popoli – e promuovere il rinnovamento autentico della Chiesa in ogni suo aspetto. Era il programma dell’umanesimo cristiano di Erasmo e dei suoi amici e More torna a proporne l’attualità, la bellezza, l’urgenza.

Giornale di Brescia, 3.8.1999.