Ferrante Aporti, apostolo e pedagogista dell’educazione infantile in Italia

Quest’anno si celebra il primo centenario della morte di Ferrante Aporti, pioniere ed apostolo infaticabile dell’educazione infantile in Italia. Rievocando, nei motivi centrali ed in rapida sintesi, una così nobile figura di educatore e di pedagogista, noi cercheremo di cogliere il significato della sua opera e del suo messaggio dal punto di vista della situazione storica in cui il sacerdote cremonese operò, dal punto di vista della fecondità pratica e della efficacia stimolatrice della sua azione nel primo periodo del nostro Risorgimento e, infine, dal punto di vista del contenuto di verità, convinti che gli uomini così altamente benemeriti si onorano sovrattutto chiarendo a noi stessi in che cosa consiste il nostro debito di riconoscenza e, a un tempo, i limiti oggettivi della loro concezione educativa.

L’educazione infantile in Italia prima dell’Aporti

Il mondo dell’infanzia prima dell’Aporti era escluso dai piani didattici dei vari stati d’Italia. Mancava, come dirà poi il Tommaseo, «il primo grado di quella scala, per cui deve il povero popolo essere levato al tranquillo e lecito esercizio dei propri diritti, mediante la retta coscienza e l’adempimento spontaneo dei doveri».
Quando l’Aporti nella prefazione del “Manuale” fa sue le parole di un biografo del Calasanzio, come se fossero state scritte per il suo tempo, denuncia una situazione assai diffusa in Italia nei primi decenni dell’800. «I genitori occupati nel procacciare il vitto alla loro famiglia non possono caricarsi del peso dell’istruzione e spesso ancora gareggiano con i figli nell’ignoranza dei doveri cristiani. Restano pertanto abbandonati quegli innocenti in braccio al loro consiglio, vale a dire della loro cecità e delle inclinazioni meno buone della loro natura. La miseria li guida alle piazze, all’ozio, ai ridotti, ed apprendono le prime massime della scuola gratuita del vizio… La povertà medesima pare che faccia comparire agli occhi del mondo le loro anime men preziose» .
I bambini, scrive l’Aporti, restano abbandonati a se stessi o per eccesso di miseria, o per difetto di salute, o per mancanza di tempo e di attitudini dei loro genitori: «deriva da questa impotenza che i fanciulli son tenuti in un dannevole ritiro in casa, e ciò che è peggio abbandonati sulle strade e sovente costretti dalle insinuazioni dei genitori a mendicare (si tace il rubare)» . Quando poi i fanciulli, a sei anni, sono accolti nelle scuole pubbliche elementari, portano con sé abitudini cattive così radicate che è assai difficile il correggerle.
Questi fatti – incalza il Nostro – è pur forza ammetterli perché sono desunti dall’esperienza e dall’osservazione: da essi si deduce con irrefutabile evidenza la necessità di «ordinare la scuola infantile dei poveri, la quale raccogliesse i fanciulli dell’età dai 2 e mezzo ai 6 anni» .
Prima dell’Aporti esistevano, è vero, le cosiddette sale di custodia dei bambini: il buon sacerdote cremonese ce ne dà una descrizione assai significativa in una lettera del 29 gennaio 1850 e, con maggior ricchezza di dolorosi particolari, in altri scritti posteriori. Le sale di custodia erano scolette «governate e dirette da donnicciuole ignoranti, che limitavano la cura alla semplice custodia di quei pargoli, reputando buona educazione fisica il tenerli in tutte le ore di scuola seduti (o piuttosto rinserrati) sopra seggiole perforate, con un vaso sottoposto che ne raccogliesse gli escrementi, i quali con le evaporazioni danneggiano il fisico dei bambini; utile rudimento intellettuale l’insegnar loro le più sciocche cantilena, delle quali non poche erano laide ed assurde; ed apice di educazione morale l’apprendere loro le preci solite a recitarsi nelle pubbliche liturgie in uno storpiato latino» . Anche gli asili, che sull’esempio della Pastoret di Parigi, i marchesi Falletti di Barolo – di cui fu segretario Silvio Pellico – e la contessa Eufrasia Valperga di Masino fondarono a Torino nei loro palazzi, gli uni nel 1830 e l’altra nel 1833, per quanto fossero assai migliori, tuttavia non si allontanavano dalla categoria del ricovero: ma nel 1830 e nel 1833 erano passati rispettivamente quasi due e cinque anni da quando Ferrante Aporti, con indubbia priorità e con idee non generiche, nell’inverno 1828-29 aveva fondato il primo asilo d’Italia a Cremona (l’approvazione del governo austriaco porta la data del 24 gennaio 1829).
Questa, per rapidi scorci, la situazione storica in cui l’Aporti era chiamato ad operare; si capisce come, malgrado i limiti dell’aportismo, il rinnovamento dell’educazione infantile in Italia muove dall’Aporti e a lui deve risalire, e come nel suo tempo le sue dottrine pedagogiche e la sua coraggiosa iniziativa fossero così innovatrici da suscitare consensi fervidi ed entusiastici e, purtroppo, tenaci opposizioni, aperte o subdole, che, in qualche caso, degenerarono in vere e proprie «diabolie».

Le prime «scuole infantili»

La prima scuola materna italiana sorse, prudentemente, per i figli dei benestanti di Cremona; ma il cuore dell’Aporti con essa mirava soprattutto ad aprire la strada ai più bisognosi, ai figli dei poveri che sono i più . Si affermava in ogni caso, sin dalla prima istituzione dell’asilo, che «la scuola infantile» – come l’Aporti la chiamò – sia che accolga i figli dei benestanti, sia che accolga i figli del proletariato, ha identici fini e metodi. Non è, per sua essenza, un ricovero per determinate categorie di piccoli, ma l’istituto di cui abbisognano, chi più, chi meno, tutti i piccoli in età prescolastica.
In una lettera ad un filantropo ebreo conosciuto a Vienna, Joseph Wertheimer, l’Aporti confessa di aver avuto l’«idea di farsi promotore di tali scuole» dopo la lettura del libro “Sulla educazione e sulle scuole dei piccoli fanciulli” dello scrittore anglicano Samuel Wilderspin, tradotto in tedesco ed accresciuto proprio dal Wertheimer. L’attenta meditazione di questo libro (non citato dall’Aporti per prevenire facile gratuite accuse di eterodossia), la dolorosa constatazione delle gravi deficienze dei fanciulli che frequentavano le classi elementari (e l’Aporti fu per molti anni direttore delle scuole elementari in Cremona), l’appassionata e realistica indagine sulle condizioni di grave povertà e di miseria di larghi strati della popolazione in Italia convinsero l’Aporti a dedicarsi con tutte le sue forze «all’opera evangelica di guidare nel buon sentiero il bambino dal principio della vita». Verso la fine del 1830 l’Aporti riuscì ad istituire, col concorso della beneficenza cittadina, la prima “Scuola infantile di carità” nella quale si impartiva la stessa istruzione ed educazione che nell’asilo a pagamento e, in più, come provvidenziale sussidio alla miseria, si aveva la distribuzione quotidiana di minestra e pane. Nel 1833 poté fondare un asilo gratuito per le bambine ed altri poco dopo: sicché nel 1834 Cremona contava sei asili infantili affidati alla direzione didattica e spirituale dell’Aporti.
È doveroso ricordare che il governo austriaco ne appoggiò l’istituzione e la diffusione nel Lombardo-Veneto e l’Aporti, in segno di riconoscenza, dedicò la prima edizione del “Manuale” e del “Metodo per adoperare fruttuosamente l’abbecedario” rispettivamente al Conte Hartig, governatore di Lombardia, e al vicerè arciduca Ranieri. Nel 1836 fu stampata a spese dell’erario la “Guida pei fondatori e direttori delle scuole infantili e di carità”.

Fervidi consensi e ostinate resistenze

I fini dell’Aporti nell’istituire gli asili non furono né illuministici, né politici, né liberali, come sostennero sia gli avversari reazionari sia gli apologeti incompetenti: l’interpretazione patriottarda e nazionalistica dell’opera di Ferrante Aporti, interpretazione che aduggia ancor oggi numerosi testi di storia della pedagogia, è per lo meno anacronistica, poiché non rende conto con leale obiettività del progressivo travaglio dell’animo del sacerdote cremonese per quanto riguarda la presa di coscienza dell’aspetto nazionale del problema educativo.
«Ho fondato e propagato le scuole infantili al solo scopo di propagare il regno di Dio», confessa il sacerdote Aporti in una lettera al suo Vescovo di Cremona. Egli voleva anzitutto innalzare la dignità del popolo fin dagli esordi della vita, per dare al precetto della carità un’applicazione più consona ai bisogni del tempo, soccorrendo le diverse categorie di lavoratori che sono «i tre quarti della popolazione» con l’educazione e col mantenimento parziale dei loro figlioletti. Qui il nucleo essenziale ed iniziale, questi i motivi ispiratori dell’Aporti. Non si nega con ciò il contributo che la sua opera educativa recò ad avviare in qualche misura l’unità morale degli italiani, unità morale che avrebbe facilitato il raggiungimento della loro unità politica: ma ciò avvenne «non per intenzione sua, bensì per virtù immanente negli sforzi concordi di quanti favorirono il propagarsi della sua benefica fondazione nei vari stati della penisola» .
Dall’Aporti, infatti, si attendevano lumi, incoraggiamenti e quasi l’investitura spirituale quanti – ed era il fiore del patriziato, della borghesia colta e del sacerdozio d’Italia – si fecero propagatori degli asili aportiani, per cui è stato giustamente affermato che alla fondazione di tutti o quasi gli asili infantili che si apersero dal 1833 al 1848 in Toscana, nel Lombardo-Veneto, nella Dalmazia, nel Piemonte, nella Liguria, nell’Emilia, nel Napoletano e negli Stati della Chiesa, si trova associato il suo nome .
Per questi motivi l’Aporti fu in corrispondenza epistolare con i maggiori spiriti del suo tempo, dal Lambruschini al Gioberti, e strinse numerose relazioni personali che, a poco a poco, servirono a slargare il suo orizzonte politico. Dopo il 1843 l’Aporti finì con l’essere e col manifestarsi patriota nel senso risorgimentale della parola. Dalla seconda edizione delle sue opere maggiori scomparve la dedica ai protettori austriaci e nel triste epilogo del 1848 l’Aporti, ormai gravemente compromesso nei confronti dell’Austria, prevenne il ritorno degli stranieri riparando in Piemonte. Il proclama d’amnistia, pubblicato dal Radetsky nell’agosto del 1849, segnava il suo nome fra gli esclusi. Il governo di Torino tentò, sebbene invano, di far cingere l’Aporti della mitra arcivescovile di Genova, ne onorò il nome chiamandolo a far parte del Senato, lo nominò Presidente del Consiglio universitario di Torino e titolare della prima cattedra di pedagogia che l’Italia abbia avuto.
Pure, da altri, Ferrante Aporti, malgrado la purezza d’intenti, l’eccessiva prudenza e la sicura ortodossia della sua fede, fu frainteso, vilipeso, sospettato in modo che oggi ci pare inconcepibile e che ci testimonia le difficoltà, gli ostacoli, i pregiudizi che egli dovette affrontare perché la sua opera desse quei frutti benefici di cui era capace. Monaldo Leopardi, il padre del grande poeta, il conte Solaro della Margherita, l’Arcivescovo Franzoni di Torino, ed altri che non torna conto nominare attaccarono senza alcun ritegno l’uomo e l’opera sua. Per quali motivi? Non è difficile enunciarli. Ci fu errata informazione sulla vera funzione degli asili e ci furono preoccupazioni eccessive ed infondate di eterodossia; ma è indubitabile che fra gli oppositori vi erano spiriti grettamente reazionari, i quali, per cieco attaccamento al passato, vedevano con paura ossessiva l’elevazione intellettuale e morale della moltitudine, ravvisando in essa lo spettro del liberalismo e la rivoluzione.
L’Aporti dette la misura della sua levatura morale e religiosa sopportando in silenzio cocenti calunnie e insinuazioni. Merita però di essere meditato un suo accorato lamento in una lettera scritta a Luigi Lanfranchi, professore di Pavia: «Sono dolente – confessa l’Aporti – perché fra noi cattolici si diano ancora di questi scandali, che ci degradano tanto presso i dissidenti, di attaccare ogni vero e ogni bene che non fu da noi veduto o promosso».Lamento che è monito a vivere con vigile senso critico e con coerenza non timida il motto paolino del «provare» tutte le cose per ritenere le sole buone e valide, perché tutto ciò che è buono è, per così dire, intimamente connaturale al senso cristiano della vita.

Felici premesse e feconde intuizioni didattiche

Dopo aver fatto intravvedere la situazione storica in cui l’Aporti operò e il contrastato affermarsi delle istituzioni infantili che ai suoi princìpi si ispirarono, ci sarà meno disagevole tentare una schematica sintesi critica del suo pensiero pedagogico, sforzandoci di mettere in evidenza ciò che vi è di perenne e ciò che è perento nel suo messaggio educativo.
Il primo grande merito del Nostro ci pare sia stato espresso assai felicemente dal Lambruschini con queste parole: «Tutti presentivamo l’utilità che dalle sale d’asilo veniva alla educazione dei fanciulli. Ma l’Aporti, per primo in Italia, vi ha scorto la base dell’edificio dell’istruzione e dell’educazione pubblica d’ogni genere».
Aporti ha superato di colpo il concetto di asilo-ricovero e ha dato vita alla scuola infantile, che oggi, con reminiscenza comeniana, è detta scuola materna, scuola educatrice del bambino; scuola che, se è assolutamente indispensabile per i figli dei poveri, è nondimeno utile anche ai bambini provenienti da altre classi sociali perché in essa si stringono quei forti legami d’affetto, di rispetto vicendevole, di riverenza al merito personale, che predispongono a «quell’armonia di idee e di sentimenti, che è la base unica della forza morale intellettuale, cristianamente civile».
Gli scritti pedagogici dell’Aporti al loro apparire furono salutati con gioia, non esistendo ancora nulla del genere in Italia, e Lambruschini si augurava che esercitassero una grande influenza «non solamente nel buon ordinamento delle scuole infantili, ma nella correzione dei vizi dell’educazione domestica».
La caratteristica migliore della pedagogia aportiana è la ricchezza di osservazioni particolari che spesso assurgono alla dignità di opportune premesse didattiche. Ci limitiamo a ricordarne alcune tra le più felici.
Il concetto e le finalità dell’educazione dell’infanzia nella pedagogia aportiana ci sembrano chiaramente espressi da queste semplici considerazioni: «L’uomo ha una lunga infanzia di tutte le sue facoltà, e come assai cure è necessità adoperare allo sviluppo delle sue forze fisiche ed a renderle robuste, altrettanto almeno adoperar si deve per le sue facoltà intellettuali e morali . Come cresce e si fa robusto nel corpo (che è strumento delle sue operazioni intellettuali e morali), così deve accrescere e farsi robusto nell’anima, educando a verità la mente, e il cuore a virtù» . E l’Aporti si chiede: ma possono nella prima età i figli degli uomini essere ritenuti capaci di educazione morale, religiosa, intellettuale? La risposta decisamente affermativa non è priva di calore e, se comincia con l’invocare l’autorità di Quintiliano, si fa via via più convincente col richiamo ad esperienze sul cui valore non è lecito dubitare. «Non v’è, dice Quintiliano, nella vita dell’uomo tempo alcuno che non richieda attenzione e cura. I fanciulli sanno imparare tosto che sanno parlare, ed è grave perdita del tempo più prezioso della vita l’occuparli ne’ loro primi anni in bagatelle. Si abbandonano ad un’imperita nutrice o a se stessi esseri cotanto preziosi, mentre se si pianta un albero si adopera ogni cura per allevarlo bene. Quanto poi viene insegnato in codesta età, mette profondissime le radici che si stendono sino alla più tarda vecchiezza, né si eccede mai nel principiare di buon’ora ad istruirli».
«Si pensa altresì a torto che i fanciulli non ragionino: a convincersene basti osservarli nei loro piccoli giuochi e sentirli a discorrere. Sia pure che per sola forza di natura abbiano il raziocinio ancor debole, non può richiamarsi in dubbio che assai più presto si perfezioni mercé una soda educazione» .
Veramente mirabile è quella pagina del “Manuale”, non sufficientemente nota ed apprezzata nel suo giusto valore, in cui l’Aporti con mano maestra traccia le linee ideali di ogni autentica educazione morale con una preoccupazione così vigile e moderna del rispetto dei modi con cui ogni educando può giungere alla scoperta e all’esercizio della virtù, e con toccanti, finissime osservazioni psicologiche.
«È uno degli errori più gravi il condurre con sistema uniforme i fanciulli senza aver riguardo al diverso loro carattere. I princìpi della morale educazione sono invariabili per tutti gli uomini e il loro ultimo scopo è di abituare i fanciulli alla virtù e alla sapienza; ma non si raggiunge menando tutti per le stesse vie. Conviene modellare la forma dell’educazione giusta la differenza dell’indole e del carattere: conviene studiarlo attentamente, e quando si nascondono i fanciulli, allora si esaminino senza parer di farlo, specialmente in quei momenti nei quali, persuasi di non essere osservati, depongono ogni riserbatezza e si abbandonano al loro naturale. Ciò avviene spesso nei loro giuochi, ma si ravvisano ancor più dalla maniera colla quale trattano le bestie più mansuete, dalle espressioni che usano coi loro fantocci, ecc.» .
Grandi assai ci appaiono poi i meriti dell’Aporti per aver egli svolto un’efficace critica degli errori e dei malanni che affliggevano l’educazione infantile del suo tempo. L’Aporti denunzia, infatti, l’inerzia e il torpore in cui sono costretti contro natura i piccoli nelle scolette delle maestre o sale di custodia, «l’assenza di un ritmo alterno nelle occupazioni», «gli errori che si commettono nell’insinuare la religione nell’animo del fanciullo e come sentimento e come istruzione» , le sconvenienze e le insulsaggini di certe cantilene popolari («sciocche ed anche laide tantafere»), la monotonia e la fastidiosità nell’insegnare, l’uso di libretti latini per l’apprendimento del leggere e dello scrivere, la pretesa di voler guidare sempre nella stessa maniera e con gli stessi mezzi, bambini diversi per temperamento ed età.
Aporti ha inoltre sottolineato, e con energia, la necessità di identificare lingua materna e lingua nazionale, richiamando l’attenzione sui danni che derivano dal bilinguismo che, di fatto, si stabilisce insegnando un dialetto provinciale da ritradurre poi in lingua italiana.
Il bambino deve essere guidato ad apprendere per via di fatto, con graduazione logica, i veri nomi di tutte le cose di cui ha contezza per il tramite dei sensi. Le lezioncine di scuola materna devono essere impartite «con vivezza e ilarità», rispondendo con bontà a tutti i perché dei piccoli, in maniera facile e varia; le brevi lezioncine vanno alternate con soste, «frequenti ricreazioni» ed appropriati lavori manuali. I fanciulli siano «sempre occupati, foss’anche nel giocare» .
Il Nostro ebbe anche una chiara idea dell’importanza dell’educazione fisica e igienica: prescrisse gli esercizi ginnastici negli asili d’infanzia e i vari giuochi atti ad addestrare utilmente le forze del bambino, esigendo una lotta graduata e tenace contro le abitudini di mollezza e, d’altra parte, un’attenzione scrupolosa per evitare impressioni e gesti violenti che possono turbare il sistema nervoso dei piccoli.
Le pagine in cui l’Aporti affronta il tema «premi e castighi» preludono chiarissimamente a quelle assai più celebri che il Lambruschini scriverà più tardi nel trattato “Dell’educazione”: è meglio dirigere saggiamente l’istinto di emulazione che fingere d’ignorarlo; è preferibile prevenire, aiutando il bimbo a ragionare secondo le sue capacità, piuttosto che usare il castigo sia pure prudentemente; si deve abituare l’educando ad un esame di sé e della sua propria condotta, esame di coscienza che nelle scuole elementari può divenire vero e proprio diario morale.
Merito non ultimo del sacerdote cremonese fu l’essersi adoperato a preparare educatrici degne per i nuovi asili che, nel suo nome, si andavano fondando in ogni regione d’Italia, e l’aver agitato il problema della formazione della classe magistrale in tutta la sua gravità.
All’inizio gli asili furono affidati ad ecclesiastici, perché non c’erano donne preparate a essere educatrici d’infanzia; ma ben presto egli chiamò a collaborare le educatrici, convinto come era che la scuola dell’infanzia è scuola da affidarsi unicamente a coloro che uniscono alla necessaria preparazione culturale, disposizioni e cuore di madre.

I limiti dell’aportismo

Ed ora ci sia consentito qualche breve cenno a ciò che dell’aportismo era insufficiente e caduco o non sufficientemente immune da pericolose degenerazioni.
La psicologia educativa dell’Aporti è assai povera nel confronto di quella di un Capponi o di un Lambruschini o di un Rosmini, anche se l’esigenza psicologica è spesso vivamente avvertita e se frequenti sono le osservazioni che colgono nel segno.
Aporti fa talvolta un’applicazione infelice di molte buone premesse: «non ha il senso di certe differenze e di certe connessioni», come notò acutamente un suo grande estimatore, il Lambruschini. Il suo pensiero pedagogico manca di consapevolezza critica e di unità sistematica, e da ciò derivano certe discutibili tesi di politica scolastica , l’insistenza eccessiva e monotona su cose ovvie e, d’altra parte, lo scarso rilievo dato a ciò che invece ha più importanza.
Pure il suo difetto principale fu il non avvedersi di anticipare nell’asilo sistemi e programmi della scuola elementare e, si aggiunga, della scuola elementare dei primi decenni dell’800. Sarebbe troppo facile dare numerose esemplificazioni concrete a riprova di questi limiti per i quali anche l’Aporti fu figlio del suo tempo (basti solo ricordare che negli istituti infantili si insegnava già a leggere e a scrivere; interminabili erano poi le nozioni di catechismo in forma di domanda e risposta, proposte dall’Aporti per l’istruzione religiosa dei bambini; ma veramente assurda ci appare la prescrizione secondo la quale i salmi principali tradotti in versi – e tra i salmi, in primo luogo il “Miserere” – dovevano essere imparati a memoria e cantati dai bambini).
I difetti delle educatrici misero in più chiara luce anche i difetti del sistema, esagerandoli. Torna ad onore dell’Aporti, però, l’averli presentiti e deprecati. «I miei asili – scriveva il Nostro all’abate Jacopo Bernardi – si vanno ruinando per la smania di sforzare quelle piccole menti. Non vado più che rare volte all’asilo, perché ne vogliono fare una piccola università». E il grande apostolo, sempre preoccupato delle sorti dell’educazione infantile, nel 1857 sollecitò dal governo subalpino l’invio del Rayneri in Germania per studiarvi i giardini d’infanzia del Froebel, per una possibile riforma dei suoi asili. Egli aveva voluto far prendere coscienza ad un popolo del problema dell’educazione infantile e si era mosso con la sincera convinzione che altri dopo di lui avrebbero fatto assai meglio e della sua impostazione metodologica avrebbero colmato le lacune e corretto le inesattezze.
Ormai prossimo alla morte, il venerando padre e maestro dei poveri fanciulli esultò, commosso, alla notizia della fondazione d’un nuovo asilo nel novarese. «Lì è la rigenerazione», commentò colui che dette ai bimbi d’Italia le prime scuole infantili. In questo estremo atto di fede nella scuola della prima infanzia è racchiuso il segreto di tutta una vita, di una esistenza tra le più nobili, interamente spesa al servizio del «risorgimento» del popolo attraverso l’educazione.

Pedagogia e Vita, 1958. Il testo completo di note si può scaricare nell’allegato file in pdf.