Giovanni Gentile

«L’ideale stimola e spoltrisce il reale e gli fa sentire che quella sua immediata esistenza non è ancora esistere» (G. Gentile)

 L’ATTUALISMO

Importanza speculativa e derivazione storica dell’attualismo

Mai l’identità di pensiero ed essere fu sostenuta con pari potenza dialettica. Portando i temi essenziali della metafisica idealistica all’estremo limite di sviluppo, Giovanni Gentile compie la parabola dell’idealismo e la sua filosofia può dirsi in sé conchiusa (mentre nel pensiero crociano traboccano, di là dalle strutture sistematiche, spunti che possono essere ripresi e svolti fuori di esse).

Gentile affermava che la sua filosofia fosse l’unica posizione spiritualistica e cristiana, fuori o contro la quale si è naturalisti ed atei. La sua dottrina è caratterizzata da continui richiami all’interiorità di esperienze etiche e spirituali, anche se i postulati immanentistici soffocano la possibilità di una vera e propria spiritualità.

Per Eugenio Garin il vero significato dell’attualismo è nel richiamo alla presenzialità attuale della vita spirituale e alla sua profondità; «così è che dentro all’umanità empirica ogni uomo possiede un’umanità profonda, che è alla base di tutto il suo essere e d’ogni essere»; «l’attualista non nega Dio, ma insieme coi mistici e con gli spiriti più religiosi che sono stati al mondo ripete: Est Deus in nobis».

Gentile dichiarò che la sua filosofia si ricollegava alla filosofia tedesca «da Kant a Hegel» e ai neo-hegeliani italiani, per un verso, e alla filosofia italiana della Rinascenza, a Vico, Galluppi, Rosmini e Gioberti, per l’altro.

Occorre muovere tre osservazioni:

  1. va messo in forte rilievo, più di quanto Gentile non lascia apparire, l’influenza di Fichte a tal punto che l’attualismo appare a non pochi come l’instaurazione di un rigoroso fichtismo.
  2. Gentile interpreta e sviluppa originalmente alcune direttrici della filosofia di Bertrando Spaventa (1817 – 1883). All’una impostazione spaventiana si rifà Gentile nel suo primo lavoro dedicato a Rosmini e Gioberti (1898), in quanto in esso si propone di mostrare che la filosofia italiana del Risorgimento «è strettamente connessa col pensiero europeo» e si deve anzi considerare «come il frutto del nostro pensiero medesimo, piantato e coltivato sott’altro cielo». È la tesi svolta da Spaventa in La filosofia italiana nelle sue relazioni con la filosofia europea (1862). In secondo luogo, è Spaventa che gli fornisce con la sua problematica lo spunto per la riforma della dialettica hegeliana. «Per me – scrive lo Spaventa nello Schizzo della storia della logica – tutto il valore di Hegel è questo: provare la identità [di essere e pensiero]. L’ha provata egli davvero? Questa è un’altra questione». Spaventa insinua nelle parole sopra citate che Hegel non fosse riuscito pienamente a concepire tutta la realtà esclusivamente e rigorosamente come spirito e che pertanto la dialettica hegeliana avesse bisogno di una «riforma» che accentuasse l’immanenza eliminando ogni residuo realistico e trascendentistico.
  3. La filosofia italiana, dal Rinascimento a Gioberti, si riconnette all’attualismo solo perché Gentile dà di essa – e persino di pensatori indubitabilmente cattolici come Campanella, Vico e Rosmini – un’interpretazione idealistica. I filosofi italiani sono plasmati alla luce delle idee di Gentile e non restituiti a se stessi: gli studi storici di Gentile sono opere di trasfigurazione o di deformazione dei filosofi presi in esame, non opere di storia della filosofia.

La realtà come pensare in atto

Giovanni Gentile definì la sua filosofia «attualismo». L’attualismo è quella concezione per cui la realtà è tutta e sola nell’atto in cui vien posta dall’io. Tutta la realtà si risolve nell’atto del pensiero. Niente si può presupporre al pensiero e il contenuto del pensiero è prodotto e ricompreso dal pensare in atto. Ogni altra filosofia è naturalismo, è oggettivismo intellettualistico, è positivismo.

Il pensiero antico, greco e medievale, è malato di intellettualismo: è il pensiero che si vede fuori di sé come natura o come idea; in entrambi i casi la realtà è in se stessa quella che è, indipendentemente dalla relazione in cui il pensiero entra con essa quando la conosce. Il suo concetto di verità, la sua logica intellettualistica «importa bensì la presenza delle cose da conoscere, ma non dell’uomo, non dello spirito che le conosce; e che ha appunto questo di proprio e di diverso rispetto alle cose: che essa non è cosa da conoscere».

L’essere come natura (che è il punto di vista proprio del positivismo e della scienza di oggi non meno che del naturalismo greco) o l’essere come idea (che non è atto del pensiero che pensa, ma cosa in cui il pensiero si affisa: oggettivismo platonico) degradano la mente a intelletto nel senso deteriore del termine, e cioè a semplice facoltà passiva, contemplatrice e non autrice.

Il pensiero moderno «afferma semplicemente, con ogni discrezione, questa modestissima esigenza, che il pensiero sia qualcosa». Berkeley ebbe chiara consapevolezza che la realtà non è pensabile se non in relazione con l’attività pensante per cui essa è pensabile, ed è oggetto reale, attuale di conoscenza. Berkeley ci ha insegnato che «quando crediamo di concepire una realtà fuori della mente, in realtà ci dimentichiamo di noi stessi che siamo presenti a quest’atto» e la sua proposizione così suggestiva «ha tanta analogia con la moderna dottrina idealistica»; ma Berkeley si ferma a mezza strada per quella dualità da lui posta fra mente umana e mente divina, ammissione del trascendente con la quale egli vanifica il pensiero umano.

Kant compie un passo avanti decisivo quando chiarisce che il soggetto non va pensato come un dato, un oggetto, ma come una funzione, una operazione e indica il principio della conoscenza con un verbo: Ich denke.

Ma Kant fissa con la molteplicità delle categorie quasi dei dati interni al pensiero; cade in una sequela di dualismi (categoria ed esperienza, categorie ed Io, Io puro come attività sintetica ma spettatrice e Io pratico); fa precedere l’analisi alla sintesi, la molteplicità all’unità, con la nota inevitabile conseguenza del fenomenismo (realtà presupposta al pensiero che la pensa e quindi riduzione del conoscere a indizio o rappresentazione tutta nostra di quella realtà verso cui il pensiero tuttavia si orienta).

Fichte inaugura con l’idealismo l’indirizzo filosofico risolutore del reale nel pensiero, nell’Io puro. Egli ebbe il merito:

– di concepire l’Io come auto-posizione, creazione di sé;

– di porre in luogo della classificazione kantiana delle categorie, la loro deduzione in modo rigoroso dall’attività del pensare;

– di chiarire che l’attività con cui tutto viene pensato non si può oggettivare, in quanto il vero principio non è ciò che vien dato come pensato, ma l’attività che lo pensa.

Fichte, però, ammetteva che il primo atto creativo dell’Io è un momento pre-conoscitivo, è un comando della ragion pratica, è in ogni caso di natura pratica; la conoscenza sorgerebbe solo dalla riflessione dell’Io sul non-Io.

Per Gentile, invece, il momento creativo non è separabile da quello conoscitivo; l’atto che perennemente si attua, o atto puro, non trova nessun limite dinanzi a sé, nemmeno quello derivante da una propria antecedente creazione. La distinzione fra spirito teoretico e spirito pratico implica l’affermazione di una realtà esterna all’Io, che l’attività teoretica dovrebbe presupporre.

Hegel aveva potentemente concepito la realtà come processo, divenire, movimento, attività ed aveva altresì identificato tale processo col pensare. Ma aveva «provato» davvero l’identità di essere e pensiero? – s’era domandato Spaventa. Gentile esamina la filosofia hegeliana per saggiarne la coerenza al presupposto idealistico immanentistico e conclude col porre in esecuzione «la riforma della dialettica hegeliana» (1913). Quali sono le critiche di fondo che Gentile muove a Hegel? Molteplici, ma riassumibili in una sola: Hegel aveva creduto di porre il movimento e il suo svolgersi dialettico anche fuori dell’atto di pensare, nei dati dell’atto, anziché solo nell’Atto; la riforma della dialettica hegeliana punta sul principio per cui solo l’atto di pensare, solo il pensare in atto è dialettica e i prodotti di tale attività vanno visti solo come suoi risultati. Insomma, mentre Hegel intende cogliere il movimento dialettico nelle diverse tappe del cammino dell’idea (Logica, Natura, Spirito oggettivi, ecc.) dando rilievo ai dati del pensiero, anziché all’attività per cui essi vengono posti, Gentile intende riconoscere tutto il reale sempre e solo all’atto pensante della mente che pone, nel suo interno, sia la natura che la storia. Attualismo significa che la realtà è tutta e solo nell’atto in cui essa viene posta.

a. Gentile rimprovera a Hegel di aver anteposto alla Filosofia dello Spirito non solo un’astratta e artificiosa Filosofia della Natura, ma anche una Logica, assurdo tentativo di dialettizzare il concetto in sé, inteso come realtà pensabile, non riferito al soggetto pensante. «Hegel vide che non si concepisce dialetticamente il reale, se non si concepisce il reale stesso come pensiero… Ebbene Hegel stesso… tornato a rappresentarsi questa dialettica come legge archetipa del pensiero in atto, non poté non fissarla pure in concetti astratti e quindi immobili». Poiché Hegel nella Logica si rappresentò la dialettica del reale come ideale presupposto del pensiero in atto, il trascendentismo e il dualismo platonico tornano a farsi valere all’interno dell’idealismo. Per Hegel le categorie sono pensabili dalla mente, ma non sono la mente, sono oggetto di essa, sussistenti anche senza il riferimento alla mente pensante. Ciò spiega il pesante astrattismo della logica hegeliana e l’errore di trattare la nuova dialettica come deduzione analitica di concetti. Così, per esempio, a proposito delle categorie fondamentali poste da Hegel per giustificare il cominciamento della dialettica, essere – nulla – divenire, il nesso dialettico non c’è finché si tratta di tre concetti in sé, considerati nella loro logica oggettività; è dato coglierlo se si dice che l’opposizione fra essere e nulla si realizza per l’attività del pensiero, ed è l’attività del pensiero che, ponendola, risolve anche l’opposizione. Considerazione questa fatta propria da Spaventa e ribadita da Gentile.

b. Il rifiuto dell’hegeliana dialettica della natura. Se l’unica realtà è quella dello Spirito inteso quale atto pensante, non c’è una vera e propria dialettica della natura. La natura è l’atto stesso del pensiero diventato fatto, frammentazione dell’atto nello spazio e nel tempo, l’oggetto che il pensiero si trova di fronte. La dialettica si deve riferire al pensante, non al pensato. La natura è il pensiero fissato nel suo contenuto, quando non si tratta del contenuto del pensare, ma lo si considera per sé stante e indipendente. Gentile respinge la natura come qualche cosa che condiziona lo spirito ed esiste fuori dello spirito, proprio in forza del fatto che la sua stessa indipendenza ed esteriorità sono poste dal pensiero. Le scienze si mettono dal punto di vista del «pensato» e dell’astratto e hanno appunto il torto di prescindere dal pensare concreto, atto ponente di se stesso e delle sue produzioni.

Logica formale e logica dialettica

La generazione immanente del pensato dal pensare è vicenda eterna: il pensiero vive in questa generazione e senza di essa non sarebbe. La logica dell’atto, del pensiero pensante è sintesi dialettica degli opposti, mediazione interna dell’io che si differenzia e si unifica in se stesso. La logica dialettica è l’intima vita del pensiero in atto, un tutto unico in tre momenti (la «monotriade») in cui si mostra «la necessità della distinzione per l’unità» affinché l’unità non sia statica bensì attiva.

La logica dialettica è detta romantica, sintetica, del pensiero pensante: logica della ragione che tutto intende nell’unità dello spirito. Ma poiché, come s’è detto, il pensiero in atto non perviene alla coscienza di sé se non attraverso la riflessione sul pensato, dunque occorre anche una logica del pensato. La logica del pensato è detta classica, logica dell’essere, logica analitica, logica del concetto fondata sul principio di identità, logica propria dell’intelletto che si rappresenta le cose analiticamente, ciascuna per sé, identica a sé e differente da tutte le altre.

Il suo errore? Sta nel prescindere dal rapporto che lega intimamente il conceptum dal concipere. Ma poiché il concetto trae origine dal pensare e concorre alla vita di questo, la logica analitica di Aristotele si inserisce nella logica dialettica.

L’atto puro come processo dialettico infinito

Gentile non fa dell’uomo, del finito, lo stesso infinito. Egli nega l’identità immediata di finito e infinito, ma riconosce l’infinito nel processo dialettico con cui il particolare si universalizza e il finito si infinitizza. L’elevazione del finito all’infinito è dunque negazione della opacità, materialità e immediatezza del finito e sua riaffermazione e trasfigurazione nel piano dell’universalità.

L’infinito è qui fichtianamente un processo dialettico infinito, un infinito tendere.

Il naturalismo e lo storicismo, vedendo l’essere e non il dover essere come compito morale infinito assegnato all’io empirico e come forma propria dell’io puro, sono forme dell’immanenza bruta, si fermano alla mera fattualità e perdono l’uomo come sintesi dinamica di fatto e valore. «L’ideale – scrive nobilmente Gentile – stimola e spoltrisce il reale e gli fa sentire che quella sua immediata esistenza non è ancora esistere». Esso è l’interno lievito dello sviluppo ma non è prima o fuori del reale.

L’Io trascendentale e la molteplicità degli io empirici

Se l’atto è di un soggetto solo, unico, donde gli individui, gli io empirici nella loro molteplicità? E, d’altra parte, come negare che realtà spirituali come lo spirito oggettivo di Hegel, l’arte, la cultura, la scienza sono possibili solo per una molteplicità di individui?

Sì, risponde Gentile, la soluzione del problema si coglie se si concepisce l’io non già come io empirico, ma come Io trascendentale. Lo Spirito è Atto unico che non nega la molteplicità dei soggetti che concorrono a costruire la realtà spirituale, perché è svolgimento, sintesi di unità e molteplicità, un processo costituito di momenti diversi e gli altri non sono altro che momenti necessari di quell’unica realtà che è l’attività dell’io. Gli altri ci sono per noi in quanto noi li comprendiamo (equivocità di quel «noi») e comprendendoli li risolviamo in noi. «L’altro è semplicemente una tappa attraverso di cui noi dobbiamo passare, se dobbiamo obbedire alla natura immanente del nostro spirito». «L’altro da noi non è tanto altro che non sia noi stessi».

Come risolvere la Natura nell’atto spirituale

a. La natura è pura, irriducibile molteplicità? Ma una pura, assoluta molteplicità, che non sia in qualche modo unificata, è impensabile. Ma un fatto privo di intelligibilità, un fatto che non incarni in sé un’idea è impensabile. «L’oggetto irrelativo al soggetto è un non senso». Ancora una volta il concreto, la realtà autentica, il vero positivo «è l’atto del soggetto che vi pone come tale e, ponendo sé, pone in sé, come suo proprio elemento, ogni realtà».

b. E se uno dicesse: ma io per natura intendo quelle realtà che hanno il carattere di presentarsi nel tempo e nello spazio, Gentile gli risponderebbe: lo spazio e il tempo sono l’attività spazializzatrice e temporalizzatrice dello spirito, sono sue funzioni; è lo spirito che pone il tempo e lo spazio ed è pertanto infinito rispetto ad essi. Lo spirito è attività spazializzatrice sebbene fuori dallo spazio; è attività temporalizzatrice, pur essendo eterno si presenta fuori della successione temporale (pur distendendosi in essa).

c. Ma la natura non è serie di fatti condizionati? Gentile risponde: l’affermazione di un legame necessario nella natura è affermazione di unità e intelligibilità, ma quell’unità e intelligibilità sono poste, operate dallo spirito che è mentre si svolge, mentre si fa, atto ponente e condizione incondizionata d’ogni cosa che è suo prodotto. La libertà dello spirito pone pertanto la necessità di natura.

IL CARTEGGIO GENTILE – JAIA (1894 – 1913)1

Con i due volumi che raccolgono la corrispondenza scambiata da Gentile con il suo maestro Donato Jaia, tra il 1894 e il 1913, la «Fondazione Giovanni Gentile per gli Studi Filosofici» ha iniziato la pubblicazione dell’Epistolario del filosofo siciliano custodito nei propri archivi (Gentile – Jaia, Carteggio, a cura di Maria Sandirocco, Vol. I, pp. 415; Vol. II, pp. 400, Sansoni, Firenze 1969).

Il carteggio Gentile – Jaia va dagli anni della Scuola Normale di Pisa (1894 – 1898), a quelli in cui Gentile fu professore di filosofia nei licei di Campobasso e di Napoli (1898 – 1906), e poi, dal 1906, titolare della cattedra di Storia della Filosofia dell’Università di Palermo. Le trecentosessantaquattro lettere coprono un arco di tempo di quasi vent’anni, a cavallo tra la fine del secolo XIX e lo scoppio della Prima Guerra Mondiale e costituiscono non solo un documento dell’umanità e del pensiero dei corrispondenti, ma anche un vero e proprio «specchio dei tempi», uno spaccato sulla cultura e sulla società italiana dell’epoca attraverso i giudizi e le confidenze del filosofo pugliese (Jaia era nato a Conversano, in quel di Bari, nel 1839) e del suo più grande e amato discepolo.

Il carteggio è completo e pochissime sono le lettere che non è stato possibile reperire; i testi sono riportati integralmente, pure c’è stato qualche peccato di… omissione. «Si sono soltanto omessi – avverte l’Editore – giudizi dettati da stati d’animo contingenti e talvolta modificati nel tempo, quando nello stesso epistolario». Le omissioni sono state segnalate con puntini tra parentesi quadre, ma è inutile dire che in un’edizione filologicamente rigorosa certi scrupoli dovrebbero essere banditi.

Tra Pisa e Castelvetrano: un dramma familiare

Le prime lettere di Gentile a Jaia sono scritte, durante le vacanze, da Castelvetrano, in Sicilia. Lo studente della Scuola Normale di Pisa si rivolge al suo professore di Filosofia Teoretica, per continuare, scrivendo, la conversazione interrotta alla fine dell’anno scolastico, in attesa della ripresa autunnale. «Io l’ho amato subito, carissimo Professore, e quando ho visto molto gentile corrispondenza al mio affetto, con una singolare premura per le cose mie, ho cominciato a nutrire per Lei, senz’avvedermene, un sentimento simile a quello, che nel mio cuore ha goduto sempre mio padre» (vol. I, p. 2). Le notizie sulla salute, l’ambiente naturale e la situazione familiare diventano sempre più precise, dettagliate. «Ed io in questi due mesi, circa, di già trascorse vacanze, ho lavorato quanto la salute me lo ha permesso… Ma la salute mi ha concesso poco. Oltre il cardiopalmo, osservatomi a Pisa anche dal capitano della leva, il medico di qua mi ha rilevato un piccolo soffio presistolico, proveniente da anemia» (vol. I, p. 9). «In quest’isola del sole il caldo ci soffoca, e a Campobello, poi, la polvere delle vie si solleva ogni momento in nuvoli bianchi, afosi sotto le ruote de’ carri e le zampe de’ muli. Io me ne sto sempre in casa, rinchiuso, e sospiro talvolta la vita di Pisa» (col. I, p. 10).

Nella lettera del 3 settembre 1896 si prefigura il dramma che angoscerà il giovane siciliano: il trasferimento della famiglia da Campobello a Castelvetrano dà alimento agli «scoppi violenti» del padre («Le dirò soltanto che tutti in casa si è tremati per la ragione di mio padre» vol. I, p. 13). Ogni ritegno cade nella lettera del 2 giugno 1898. Il padre farmacista, che si rifiuta di sottostare alle «mille formalità che le leggi più recenti, per troppi scrupoli di previggenza, facendo de’ farmacisti degli strumenti meccanici del pubblico servizio, avevano prescritte» (vol. I, p. 92), subisce due processi; indotto a rinunziare alla professione e a trasferirsi a Castelvetrano, quell’uomo, «che con amorosa provvidenza aveva per tanti anni vegliato sulle sorti di ben undici figli» (vol. I, p. 93), perdette il senno, prese a odiare chi doveva provvedere con qualche fermezza alla dignità di lui, se ne tornò «solo in Campobello a riaprire a 67 anni, e a un tratto di tanto oltre gli anni suoi invecchiato, l’antica farmacia con gli antichi metodi, col rischio quotidiano di nuovi processi» (vol. I, p. 94). Le manie del vecchio, se procurano a se stesso «disagi inenarrabili», (vol. I, p. 94), spingono alla disperazione i familiari, producendo loro un continuo dissesto, che se continuasse ancora per qualche anno, li ridurrebbe sul lastrico. «Mia madre e tre sorelle mie vivono per soffrire, materialmente e moralmente» (Vol I, p. 94), «lottando continuamente contro una specie di fato crudele e implacabile» (vol. I, p. 95). E poco prima un aspetto di questo «fato» è colto con estrema concretezza: «le mie sventurate sorelle non hanno avuto ancora una gioia e sfioriscono tristemente tra tanti dolori: tre sorelle, cui il sesso, secondo il costume nostro, ha impedito di trarre da quel poco d’ingegno e di natural voglia di lavorare, che tutti in famiglia si è avuta, un mezzo di farsi innanzi nella vita, come nei maschi» (vol. I, p. 93).

In queste condizioni perché concorrere a una borsa di studio per trascorrere un anno in Germania? La risposta di Jaia è d’un mirabile equilibrio: «Era forte persuasione di Fiorentino, più volte a me palesata, che i giovani in sul principio della carriera de’ loro studi debbano starsene lontani dalla famiglia. Non ci sono lusinghe o carezze o vincolo d’affetto che tengano, diceva: allontanatevi, e potrete studiare, restate vicini, e i vostri studi saranno in grave pericolo. Io sono del medesimo avviso. Te chiama presso i tuoi non lusinga, non voce solo di affetto, ma dovere. Va’, compilo; ma ricordati che ne hai insieme un altro, quello che ti lega alla scienza» (vol. I, pagg. 105 – 106). Il giovane laureato non sa, però, se gli sarà possibile insegnare in una qualche scuola e aiutare economicamente i suoi. «Io dico a tutti: coraggio, ci sono io, non vi preoccupate dell’avvenire, tutto si aggiusterà. Ma ho un terribile sospetto… E se io dovessi rimanere qui a casa? Giacché qualunque sia per essere il mio stipendio, dovunque io sia per essere balestrato dalla onnipotente mano dei Giovi della Minerva, io dovrei pur sempre mandare ogni mese qualcosa a mia madre. E se mi fosse negato anche questo?» (vol. I, p. 174).

Le prime opere di Gentile e «il problema» di Jaia

In questi anni la vocazione filosofica di Gentile si precisa in due opere che rimarranno fondamentali: Rosmini e Gioberti, scritta quasi interamente nel 1897, ma pubblicata negli «Annali della R. Scuola Normale Superiore di Pisa» nel 1899, e la tesi di abilitazione, Una critica del materialismo storico, apparsa in «Studi storici» nel 1897 e ristampato con l’altro saggio su La filosofia della prassi nel volume La filosofia di Marx a Pisa nel 1899. L’epistolario situa la genesi e lo svolgimento delle due opere.

Jaia, ex-seminarista e già fervido giobertiano prima di accogliere la filosofia idealistica di Fiorentino e di Bertrando Spaventa, rimane un convinto assertore dell’importanza filosofica dello spiritualismo risorgimentale (Galluppi, Rosmini, Gioberti) e spinge il discepolo a prendere coscienza di questo fondamentale indirizzo di pensiero (1° settembre 1894, vol. I, p. 5). Per conto suo quella filosofia ha l’incontestabile merito di ridare il primo posto al problema dell’auto-coscienza ed in ciò essa si ricollega a Kant. La posizione kantiana, nel suo più profondo significato segna, infatti, con la dottrina dell’Ich denke, un nuovo e grande passo nel ritorno del pensiero sopra di sé. La questione centrale dell’indagine filosofica è «principalmente ed incrollabilmente l’atto intellettivo con la costituzione sua» (lettera di Jaia 20 ottobre 1897, vol. I, p. 54).

Acuta è pure l’osservazione ammonitrice di Jaia a proposito di Rosmini… gentilizzato: «… tocca a Rosmini, non a chi l’interpreta, rispondere innanzi al tribunale inflessibile della ragione [dei due modi opposti di intendere l’intuito dell’essere come forma e come oggetto]. La storia va rispettata davvero… nel tuo modo d’interpretare il Rosmini, vi è il Rosmini, ma tutto il Rosmini no» (7 settembre 1897, vol. I, p. 29). Di rilevante importanza è anche un giudizio di Gentile: «La mia conclusione è questa: che Rosmini risente nella Teosofia gli effetti della critica del Gioberti» (13 aprile 1898, vol. I, p. 85). Se Gentile avesse verificato questo asserto e avesse dato, altresì, il necessario rilievo all’influenza che Rosmini esercitò su Gioberti della Protologia nella più precisa delimitazione dell’intuito a vantaggio della riflessione, avremmo avuto un’opera di autentica ricostruzione storica e di più proficua discussione teoretica del pensiero di quei grandi.

Gentile «professore» e l’amicizia con Benedetto Croce

L’incarico nel Liceo di Campobasso, conferito a Gentile nell’ottobre 1898, pur non sollevandolo da una condizione di ristrettezza propria di chi inizia l’insegnamento, rasserena il giovane professore, il cui interesse per la scuola e i suoi problemi sarà sempre assai vivo. In quegli anni nasceva l’amicizia, nutrita di reciproca, profonda stima, tra Croce e Gentile.

Gentile aveva recensito le memorie in cui Croce cominciava a impostare filosoficamente il problema della storia (Il concetto della storia nelle sue relazioni col concetto dell’arte e Sulla concezione materialistica della storia del 1896). Gli studi di Gentile su Marx e i filosofi della prassi del 1897 e del 1899 svolgevano con motivi originali argomentazioni e giudizi sostanzialmente concordi con quelli di Croce.

Croce, «ombroso dispregiatore della metafisica» (26 ottobre 1898, vol. I, p. 216), loda il Rosmini e Gioberti di Gentile. Questi se ne rallegra col maestro: «… e come negarle che la sincera lode del Croce mi ha recato piacere? Del Croce, che non è certo uso a adulare, e neppure è molto amico della nostra filosofia, per quanto pure nemico di quella de’ nostri nemici in filosofia… Quello del Croce è uno de’ più chiari ingegni che siano oggi in Italia; ed è un danno, secondo me, che non si occupi sempre di filosofia» (vol. I, p. 217).

Croce il 4 luglio 1900 scrive a Gentile (citato nel vol. II a p. 69): «Io avrei grandissimo piacere che voi veniste a Napoli: non solo per vostro interesse, ma per mio. Avrei qualcuno col quale discutere e chiarire i dubbi tormentosi che il lavorare solitario produce». Il suo interessamento per l’amico è sincero e gli detta, nel 1909, una ferma denuncia pubblica, nell’opuscolo «Il caso Gentile e la disonestà nella vita universitaria italiana» (ora in Pagine sparse, Laterza, Bari 1955).

Il trasferimento a Napoli, al Liceo e non all’Università, giunse nell’autunno del 1900. Le impressioni di Gentile sono nitide: «il liceo è una vera baraonda in cui tutti, maestri e scolari, fanno il comodo proprio; e il preside lascia fare, contento come una Pasqua». Gentile s’è innamorato, vuol sposarsi e accetta un insegnamento anche in un liceo pareggiato per raddoppiare lo stipendio (vol. II, p. 125). Né, ahimè, mancano le raccomandazioni: «Durante gli esami, ogni sessione, c’è un amico che non manca ricordarsi di me: il Covolti… Egli che a Palermo era il terrore degli scolari come esaminatore, perché non la perdonava a nessuno, ora non scrive agli amici se non per raccomandare candidati, e i meno meritevoli, e nella forma – devo dirlo – meno corretta. Ciò mi dispiace assai, e in questi giorni, in buona maniera, gliel’ho scritto, e gli ho parlato franco» (9 ottobre 1902, vol. II, p. 178).

Possono ancor oggi suscitare una legittima curiosità i giudizi di Gentile sul troppo celebre testo di storia della filosofia dell’idealista Fiorentino («disadattato al fine speciale didattico, infarcito anche di errori e inesattezze» vol. II, p. 151); su Labriola («che non ho preso mai sul serio col suo facile cicaleccio su ciò, che non conosce neanche nella buccia» vol. I, p. 335); su Engels («il signor Engels sarà stato forse un valente economista, ma è vergogna che i professori di filosofia lo vogliano anche esaltare come un grande filosofo» vol. I, p. 65); sul «buon» Lombardo-Radice o su Salvemini («Il valore scientifico del Salvemini è incontestabile» vol. II, p. 334).

Nel gennaio del 1906 Gentile può annunciare al venerato maestro la sua riuscita al concorso di storia della filosofia all’Università di Palermo: nei precedenti concorsi, per gelosia e angustia mentale, gli scolari dello Spaventa avevano bocciato colui che era stato approvato dai nemici di Spaventa (Acri, Cantoni, Barzellotti).

Due test significativi: caso Dreyfus e assassinio di Umberto I

L’epistolario registra, con l’immediatezza ch’è propria di questo tipo di scrittura, le reazioni dei corrispondenti agli avvenimenti che commossero o turbarono profondamente l’opinione pubblica; fra i tanti ne scegliamo due: il «caso Dreyfus» e l’assassinio di Umberto I.

Jaia, che era essenzialmente un conservatore illuminato, freme d’orrore per «la malvagia persecuzione dello spirito militare francese contro l’innocente Dreyfus» (13 settembre 1899, vol. I, p. 369) condannato per spionaggio a favore della Germania. «Quale perfidia si è consumata in Francia! Ed è nuda nuda perfidia; non c’è scusa, che può attenuarla… Dopo uno spazio di cinque anni… dopo i recenti, inauditi e feroci sforzi, che non hanno potuto dare ombra minima di prova, e che hanno al contrario rivelato impudenti menzogne e propositi i più bestiali di tenere lontana la luce della verità, la colpa sale a un grado, che fa raccapriccio e spavento. Questo tremendo Panama morale [Si allude al clamoroso scandalo scoppiato nel 1892, in cui fu coinvolta tanta parte della classe politica francese: la bancarotta della compagnia costituitasi per il taglio dell’istmo di Panama] peserà lungamente sopra i destini della Francia, e nel suo spirito interno, e nei suoi rapporti colle altre nazioni di Europa» (ivi, p. 371). In una lettera del 18 ottobre 1899 Jaia parla della scarcerazione di Dreyfus come d’una notizia che ha rallegrato la sua famiglia, com’è giusto perché un «caso» come quello dell’ufficiale francese di origine israelita deve riguardare ogni persona onesta. «Il bimbo salta, cresce… Papà, mi disse un giorno, io farei così: direi a Dreyfus, esci di prigione, e va a casa tua coi tuoi bimbi, e metterei al posto di Dreyfus quelli che gli vogliono male, e lo vogliono condannato. E quando poi sentì, che gli era stata fatta la grazia, diede in un sussulto di gioia, si colorò nel viso, ed esclamò: papà, avevo indovinato io, ci ho proprio gusto, che Dreyfus va a stare coi suoi bimbi a casa sua. Non insistè sulla punizione ai suoi carnefici; dimenticò in quel lieto momento l’altrui perfidia» (vol. I, p. 378).

Colpisce dolorosamente che nelle lettere di risposta Gentile non dica una sola parola sul caso Dreyfus, che tanto appassionava Jaia: insensibilità? Taciuta ma reale difformità dal giudizio del maestro? O hegeliana indifferenza verso il dolore degli uomini, per sé poveri gusci vuoti (leern Hülsen) il cui destino è per il Weltgeist insignificante in quanto persone? Non sapremmo dire; ma il suo tenace silenzio sulla questione Dreyfus non è causale e non promette nulla di buono.

Il regicidio di Monza sconvolge il giovane professore siciliano, il quale si chiede «dove si va?» (4 agosto 1900, vol. II, p. 78). Il rimedio – gli risponde Jaia – c’è: «immediatamente, a parer mio, giorno per giorno, nella vigilanza della polizia e nella repressione… e, mediatamente, nella forza da dare alla legge» (31 agosto 1900, vol. II, p. 83). Ma l’onest’uomo si affretta a chiarire il suo pensiero, per evitare ogni equivoco. «Dove il rimedio? dicevo nella mia di ieri. S’intende il primo e più urgente. Tali sono i due cui ieri accennavo. Brucia la casa… chiamate i pompieri. Ci sia presto chi badi a spegnere le fiamme distruggitrici; venga poi chi s’ingegnerà di impedire che sieno al mondo uomini leggieri e imprudenti o birbaccioni, che per sciocchezze o perfidie facciano nascere gl’incendi. Queste cose sono chiare da sé… nondimeno, nello svegliarmi stamane, ho voluto che tu neanche per un istante pensassi, ch’io pensassi, che i rimedi siano lì soltanto, dove ieri accennai, e altro non ci sia da fare» (1° settembre 1900, vol. II, pagg. 84 – 85).

La preoccupata messa a punto è preziosa perché suona esplicito rifiuto di ogni soluzione brutalmente autoritaria e illiberale, tanto più che l’assassinio di Umberto I veniva dopo il «fenomeno Crispi» (l’interprete delle eccessive paure della borghesia italiana di fronte all’incalzare delle forze popolari, «l’uomo forte» che con la sua politica di repressione militare dei moti operai conseguì unicamente l’effetto di risvegliare l’idra dell’anarchia) e dopo i falliti tentativi reazionari che si succedettero tra il 1897 e il 1900.

Al di là delle molteplici ragioni storiche, sociali, culturali che rendono prezioso un documento del genere, il carteggio Gentile-Jaia ci permette anche di risalire da Gentile a Jaia. Dalle lettere è infatti proprio la figura del filosofo pugliese – la cui problematica, limitata ma vigorosa, e la cui rettitudine morale affondavano le loro vere radici in una formazione spiritualistica – che acquista il più forte rilievo, come è proprio di tutti gli spiriti nobilmente pensosi, che vivono intensamente i loro ideali e recano in tutti gli atti un forte accento di sincerità.

CROCE E GENTILE SU MARX2

Croce e Gentile si occuparono ben presto e con notevole acume di Marx. Nel dibattito tra i due filosofi sul significato del marxismo sono anticipate le linee di fondo delle due più coerenti interpretazioni: il marxismo come sistema, esprimente l’intero della verità, e il marxismo come metodo, avente una sua «anima» di verità che va liberata da ogni pretesa totalizzante, da ogni indebita, assorbente assolutizzazione. Il dilemma emerge prepotente nel carteggio Gentile – Croce (cfr. l’appendice che accompagna gli scritti gentiliani sul materialismo storico, raccolti ne La filosofia di Marx, Sansoni, Firenze 1948), in cui numerosi e interessantissimi sono i brani che attengono alla discussione dei due studiosi sul materialismo storico, e che contiene le poche lettere finora reperite scambiate tra Gentile e Antonio Labriola.

Labriola, definendo il materialismo storico come un «filo conduttore» o «metodo di ricerca e di concezione», aveva indotto l’amico e discepolo Benedetto Croce a interpretare il marxismo «come canone di ricerca empirica, tale che non importi nessuna anticipazione di risultati» e a rivalutarlo sotto questo aspetto. Gentile rimane invece colpito da altri giudizi di Labriola, che troppo enfaticamente proclamava il marxismo «ultima e definitiva filosofia della storia», avendo di essa rivelato il corso necessario, giungendo a scrivere che «il comunismo critico… non dice e predice, come per discutere di un’astratta possibilità, o come chi di capo suo voglia mettere in essere uno stato di cose che speri e vagheggi, ma dice e predice come chi enuncia ciò che è inevitabile accada». Gentile concentrò le ragioni del suo rifiuto di questa concezione in un dilemma: «o il canone è speciale e relativo, e il materialismo storico viene negato; o il canone è generale e assoluto, e il materialismo storico è per l’appunto una filosofia della storia».

Croce all’incalzante interlocutore risponde con osservazioni che sembrano andare al cuore della questione marxista. In una lettera del febbraio 1897 Croce scrive testualmente: «Io non sono un cattivo interprete dei libri del Labriola, perché oltre i libri ho letto anche… l’autore; e quindi nel libro veggo spesso più e meno di quel che dicono le parole». Labriola procedeva per «concetti imprecisi» e «impressioni d’insieme», usando ora espressioni sfumate, «ondeggianti», che indicavano una tendenza più che un principio morfologico, ora espressioni recise e dommatiche; l’oscillazione si spiega se si tien conto che la dottrina marxista non regge nella misura in cui vuol essere conseguente e fanaticamente onnicomprensiva.

«Per me – scriveva il Croce il 28 ottobre 1897 – il materialismo storico, per essere vero, deve restare una semplice veduta metodologica; nella espressione socialismo scientifico la parola scientifico è una metafora». È assurdo confondere la scientificità, la validità scientifica di una dottrina con la pretesa di presegnare lo sviluppo storico nelle sue tappe necessarie, con la necessità di un determinato corso storico. «Ora che si abusa tanto della parola scienza, perché impedire ai socialisti di chiamare scientifica la loro concezione, che scientifica non è, ma pure si fonda su tanta osservazione della realtà?». L’autentica considerazione filosofica della storia non comporta nessuna anticipazione dei risultati. Alle obiezioni di Gentile secondo il quale «non è vero, se il materialismo ha un significato e quel significato che il Labriola, fedele agli autori di esso, gli dà, non è vero dico, che la società presente non si debba, ma soltanto si possa, dissolvere per consociare successivamente i mezzi di produzione», Croce replica citando Bismarck: «La politica non è una scienza esatta, come i signori professori pensano».

È insostenibile, scrive Croce, «il monismo storico che pretende di dedurre la storia da un fatto fondamentale, laddove nella storia ci sono fenomeni di concorrenza ed intreccio di cause» (lettera del 4 febbraio 1898). Croce insiste sulla formula «imprecisa e contraddittoria» in cui Marx – Engels – Labriola lasciano assai spesso il loro pensiero, ma finisce con concedere che la formulazione verbale del marxismo sia meglio rispecchiata dalla interpretazione di Gentile; la sua interpretazione «restrittiva ed empirica» è, però, la sola a permettere di evidenziare l’anima di verità del marxismo, mettendo il silenziatore sulla assolutezza dommatica dei suoi enunciati.

«Appercepire Marx come critico della società presente – scrive Croce nella lettera del 21 agosto 1899 – e come storico di essa e come politico del movimento proletario, è prendere Marx in ciò che forma la parte veramente notevole della sua attività. La filosofia è un condimento, e non è un buon condimento, del suo pensiero».

NOTE

1 Articolo pubblicato su Pedagogia e Vita, 1970.

2 Il paragrafo riprende quasi integralmente l’articolo pubblicato dal Giornale di Brescia in data 26.9.1975 dal titolo Croce e Gentile su Marx.

NOTA CONCLUSIVA: La raccolta di scritti di filosofia di Matteo Perrini nasce dall’esigenza di non disperdere il lavoro di una vita volto in primo luogo a chiarificare a se stesso le idee e le concezioni dei filosofi e, conseguentemente, a tradurle in un linguaggio accessibile ma rigoroso per i propri studenti. I materiali riportati nel volume provengono da diverse fonti, utilizzate per differenti finalità e scritte nell’arco di un cinquantennio, all’incirca tra il 1950 e il 2000. Si tratta di schede ad uso interno finalizzate alla sistematizzazione del pensiero di un autore, di appunti su quaderni per preparare lezioni scolastiche, di articoli pubblicati sul Giornale di Brescia o su riviste specializzate.