Gli eroi e le dimensioni della Storia

Voltaire scrisse senza mezzi termini: “Io non amo gli eroi, perché fanno troppo fracasso”, e Jean Jacques Rousseau non esitò a dichiarare nell’”Emilio” che “gli eroi della storia sono gli eroi del vizio”. Il paradosso di Rousseau nasceva da due fonti diverse, ma confluenti: anzitutto il temperamento di moralista che caratterizzò il Ginevrino, nonostante la scarsa sensibilità etica dimostrata in non pochi casi della sua vita, esibiti nelle sue “Confessioni”, così diverse e lontane da quelle di Agostino, e poi la concezione corrente della storia come susseguirsi di vicende militari e politiche. Nella concezione hegeliana della storia, che dominò dall’età romantica alla Seconda guerra mondiale, l’interpretazione della parte degli eroi, individui d’importanza storica mondiale, ha, invece, un posto di primo piano, come incarnazioni dell’Idea che opera, immanente nella storia. L’eroe hegeliano ha sempre, però, un destino tragico, non solo per il concludersi precoce o sanguinoso del suo mandato, ma forse soprattutto perché il suo valore si esaurisce nell’opera compiuta, essendo scritta sulla sabbia della storia. È quello che accade ai due “eroi mondiali” sul cui destino il pensatore di Stoccarda indugia di più: Alessandro e Napoleone. Quando l’Idea si ritira dalla personalità dell’eroe, questi non è che un “guscio vuoto”: altri personaggi, altre vicende si rincorrono sul grande schermo della storia, tutti investiti dall’Idea di un particolare compito, ma tutti, in ultima analisi, effimere comparse.
È tempo, anche a livello di pensiero comune, che si prenda coscienza del fatto che alla storia integrale dell’umanità appartengono a pieno titolo la storia dell’arte, del pensiero scientifico e filosofico, della vita religiosa e della prassi eroica, diretta non a moltiplicare, ma a ridurre le miserie e le sofferenze umane. Alla storia appartengono non solo Alessandro, ma anche Socrate, Sofocle, Platone e Aristotele; non solo Augusto e Tiberio, ma Cristo e i suoi apostoli; non solo Federico Barbarossa e Filippo il Bello, ma anche Francesco e Giotto, Dante e Tommaso; non solo Wallenstein e Cristina di Svezia, ma anche Cartesio, Pascal, Vico, Leibniz; non solo Robespierre e Talleyrand, ma Schiller, Mozart, Goethe; non solo Vittorio Emanuele II e Disraeli, ma anche il Cottolengo e Giovanni Bosco, Manzoni, Rosmini, Pasteur, Edison, Newman, e l’elenco potrebbe continuare. Se aver vinto una battaglia o una guerra, aver fondato un’istituzione, un Governo, uno Stato merita l’attenzione dei posteri, che possono anche individuare i limiti di tali imprese, aver creato nuovi tipi di pura bellezza, aver dato un nuovo corso alle idee e alla ricerca della verità, aver illuminato la via che dalla sofferta precarietà del relativo porta all’Assoluto, aver indicato i mezzi per superare le barriere del finito, aver prodigato tutte le risorse dell’intelligenza e dell’ amore, della giovinezza e dell’età matura per il sollievo dei diseredati e per l’educazione dei giovani alla stessa ascesa che, attraverso la storia va oltre la storia, merita non solo l’interesse, ma l’ammirazione incondizionata e la riconoscenza dell’umanità.
L’uomo vive unicamente per la realtà del finito, immagina il mondo dello spirito come fatto e popolato di larve, quasi “ombre vane fuor che nell’aspetto”. Egli non pensa che la storia non sarebbe più storia umana se le luci dell’arte, del pensiero, della religione si spegnessero ad un tratto; non si avvede che la sua vita stessa scadrebbe a pura vita animale, se non potesse godere della bellezza di un fiore, di un panorama, del cielo stellato, se non potesse neppure un istante raccogliersi per interrogarsi sul significato della vita umana e della fiumana della storia, se non sentisse talvolta un’inquietudine inesprimibile o inespressa, una nostalgia per qualcosa che doveva essere ricercato, acquisito, conquistato. La terra stessa diventerebbe uno squallido paesaggio lunare, se nessuno sapesse apprezzarne gli aspetti più belli e fascinosi, se nessuno ne indagasse le energie latenti, se nessuno si ponesse il problema della sua origine e sentisse il richiamo che parte da essa, tacita testimonianza dell’Infinito.
Secondo Hegel, nulla di grande si fa senza passione; ma questo è vero soprattutto se si parla della passione della “verità che tanto ci sublima” e dell’amore, l’agape del Nuovo Testamento, che infiamma il genio etico, immortalato anche dalla poesia e dall’arte autentica. Come aveva ben visto Platone, c’è pure un pathos del vero e del bene e questo pathos agisce in profondità nei solchi della storia. Gli eroi della storia non sono, dunque, coloro che presumono di interpretare o di incarnare addirittura lo spirito di un popolo, che poi trascinano alla schiavitù e alla rovina, bensì coloro che sui flutti limacciosi della vita fanno risplendere il fascino della bellezza, gettano sulla bilancia della storia non una spada, ma il peso della verità, aprono le molteplici vie del bene fra le asperità di situazioni avverse, infrangono con sforzi titanici le barriere dell’odio e dell’egoismo. Questa prospettiva sulla storia ha trovato la sua elaborazione teorica più alta nell’ultima opera di Bergson “Le due fonti della morale e della religione”, che pone al vertice del cammino dell’umanità i “collaboratori di Dio”, gli eroi della vita morale, i grandi santi, i mistici autentici. La loro vita e il loro esempio sono fonte di ispirazione perenne per quanti hanno a cuore la costruzione, su questo nostro pianeta refrattario, di una società aperta al soffio dello Spirito.

Giornale di Brescia, 4.8.1996.