Gorkij e il comunismo

Aleksej Maksimov Peskov nacque il 16 marzo 1868 a Niznij Novgorod, oggi Gorkij, dallo pseudonimo che Aleksej Poskov assunse intorno ai tren’anni e che significa ‘Amaro’. Gorkij si spense il 18 giugno del 1936 e la sua salma fu vegliata al Cremlino dai sette uomini più influenti del regime comunista, Stalin in testa. Chi fu realmente lo scrittore che il comunismo elevò a mito, a simbolo della nuova letteratura? Domanda ancora più imbarazzante: Gorkij, che Lenin prima e Stalin poi vollero fosse l’araldo del verbo comunista nel mondo, e come tale effigiarono la sua immagine presso l’opinione pubblica, che cosa pensava del comunismo? Fino a che punto nel suo animo si succedono, si mescolano, si contrappongono adesione e rifiuto nei confronti del comunismo, ateismo e confusa ricerca di Dio, obbedienza a un potere sopra ogni altro oppressivo e critica del dommatismo comunista? A questi inquietanti interrogativi ha cercato di rispondere una studiosa seria e fine scrittrice, Curzia Ferrari, nel volume pubblicato dalla De Agostini di Novara “Il vagabondo e le stelle”. L’autrice – che ha già dato prova di competenza e di grande sensibilità nel campo della letteratura russa (ha pubblicato un volume su Majakovskij e splendide versioni da Esenin) – ricostruisce la vita di Gorkij nelle sue linee essenziali, nei suoi poli di oscillazione, e la narra, con taglio giornalistico nel senso migliore del termine.
Gorkij nacque in una famiglia in cui la violenza più brutale era di casa, ma una luce illuminò l’amarezza e il buio profondo in cui sin dall’infanzia sprofondò il piccolo Maksimov: la sua povera ba, la nonna materna, l’unica persona mite, tenera, intimamente religiosa nello squallido paesaggio umano che circondò il futuro scrittore. Nella persona di sua nonna – forte nel patire, tenace nel risanare e soccorrere, umile e ardente nel suo rapporto di unione a Cristo – Gorkij sperimentò la realtà cristiana. E quella realtà, percepita esistenzialmente nella vita di una creatura del popolo, l’ateismo marxista e leninista non riuscì forse mai del tutto a cancellare e a rimuovere. Non a caso il vecchio Lev Tolstoj, durante un incontro, dirà a Gorkij: “Voi dite di non credere in Dio, ma non è vero. Voi siete per natura credente e non potete vivere senza Dio. Non credete per ostinatezza, offeso dal fatto che il mondo non sia stato creato com’era necessario a voi!”. Orfano di padre a sette anni, abbandonato a se stesso dalla madre, il ragazzo e l’adolescente Gorkij fece cento mestieri: calzolaio, facchino, ambulante, mozzo, apprendista tipografo… Ma nel suo vagabondare un tesoro egli l’aveva scovato e quel tesoro divenne il suo segreto. Aveva scoperto il valore dei libri, queste “sacre scritture dello spirito umano”; e dall’amore per i libri germinò la vocazione dello scrittore. Gorkij, che per tanti anni si sentì tradito nelle sue naturali attese, conobbe il successo strepitoso a partire dal dramma “I bassifondi”, andato in scena nel dicembre 1902. Da quel momento cominciò l’apoteosi e i quattrini si moltiplicarono prodigiosamente nelle sue mani. Gorkij si assunse il ruolo di bardo e genio incomparabile della letteratura proletaria assai prima che Lenin e Stalin glielo conferissero a nome del comunismo; ruolo che non si opponeva per nulla, né agli occhi dei suoi sostenitori, né, quel ch’è peggio, ai suoi stessi occhi, a uno standard di vita che avrebbe fatto invidia a qualsiasi “sporco borghese”, perché al Nume della nuova era non c’era lusso o privilegio principesco che non fosse dovuto sia fuori dell’Urss, a Capri o a Sorrento, sia nell’Urss.

Ambivalente il rapporto di Gorkij con il comunismo e con lo stesso Lenin, che conobbe nel novembre 1905. Lenin dominò i suoi pensieri negli anni 1905-1907; poi Gorkij fu attratto dal gruppo marxista, ma antileninista, di Bodanov e Lunaciarskij e finanziò il loro quotidiano “Vperiod!” (Avanti!). Furono questi amici gli ispiratori di quella strana scuola di partito, tesa a dare incremento ai quadri direttivi dell’Internazionale comunista che Gorkij promosse a Capri, suscitando l’indignata protesta di Lenin. A veder bene, la radice del contrasto era religiosa: Gorkij e i marxisti antileninisti, a cui egli era vicino, consideravano la fede in Dio e la vita interiore non ridicolaggini e superstizioni da eliminare con ogni mezzo, ma valori da porre a fondamento del movimento rivoluzionario. C’era di che far saltare i nervi a Lenin, il quale, finché visse, tallonò e redarguì Gorkij, con toni di un’asprezza talora umiliante, nella fondata certezza che nelle penose oscillazioni della mente dello scrittore egli avrebbe avuto partita vinta e che occorresse fare qualche sacrificio per utilizzare al servizio della causa del comunismo il prestigio di cui godeva Aleksej Maksimov. A cui, peraltro, sul piano umano voleva bene.
In pieno 1917 Gorkij, proprio nel momento in cui la rivoluzione (meglio: il putsch) leninista era vincente, Gorkij misura la distanza che lo separa dalle idee e dai metodi comunisti. E passa arditamente alla denuncia. Sono i giorni in cui Gorkij di contro al furore anticristiano della rivoluzione esalta in Cristo, “il più grande simbolo delle aspirazioni dell’umanità”. In quel breve periodo di opposizione democratica alla rivoluzione leninista, Gorkij seppe essere grande. In un articolo del 10 novembre 1917, dopo aver accusato Lenin di “introdurre in Russia il socialismo col metodo di Necaev”, Gorkij proseguiva: “Costretto il proletario ad acconsentire alla distruzione della libertà di stampa, Lenin e i suoi accoliti hanno così legittimato per i nemici della democrazia il diritto di tapparle la bocca. Minacciando di fame e di massacri tutti quelli che non sono d’accordo col dispotismo di Lenin-Trockij, questi capi giustificano il dispotismo del potere, contro il quale così a lungo hanno lottato tutte le forze migliori del Paese”. Seguì però la riappacificazione, come al solito, con Lenin, nel corso della quale Gorkij svolse un’utile opera di soccorso a favore dell’intelligencija perseguitata.
Nel 1923, mentre abitava a Sorrento, ci fu nell’animo di Gorkij un altro conato di rigetto nei confronti dell’amata e propagandata rivoluzione. La moglie di Lenin, Nadezda Krupskaja, impose un giro di vite nel campo della cultura. Andavano tolte dalle librerie e dalle biblioteche le opere dei borghesi… Platone, Kant, Schopenhauer, Tolstoj, Solov’ev eccetera; a nessuno era permesso conservarle, leggerle, citarle. In una lettera dell’ 8 dicembre di quell’ anno a un amico poeta, emigrato a Parigi, Gorkij si sfogava: “Sono rimasto talmente impressionato dall’iniqua disposizione che mi sono subito messo a scrivere a Mosca chiedendo che mi si revochi la cittadinanza russa”. Ma poi Gorkij rientra nei ranghi. D’altra parte l’appannaggio garantitogli dal governo dell’Urss era assai considerevole e Stalin provvide ad elevarlo ad una cifra che allora era da capogiro (un milione di lire italiane, se è vero quello che allora si diceva), senza peraltro nulla defalcargli dai cospicui diritti d’autore.

Gorkij tornò in patria nel 1929, preceduto da una campagna pubblicitaria senza uguali, e poté recarsi nel villaggio natio ormai ribattezzato da anni con il suo nome. Molti episodi attestano la sofferenza di Gorkij per i guasti che ai popoli dell’Urss procurava il terrorismo di Stato; ma egli al gioco del georgiano ci stette. Superpagato, superesaltato, felice di “farsi monumento a se stesso”, come ben dice Curzia Ferrari. Gorkij, però, fece assai di più. Fu soprattutto col suo aiuto che si realizzò l’asservimento morale dell’Urss. Egli giunse a impegnare il proprio prestigio di scrittore, che una volta era stato un grande umanitario, per inculcare nei popoli dell’Urss l’idea che l’organismo della più spietata repressione poliziesca, la Ceka, fosse una forza… culturale importantissima per il Paese. Gli ultimi dieci anni di Gorkij vanno forse indagati meglio per essere valutati a dovere. Fu lui, l’ex difensore della povera gente perseguitata, a scrivere nel gennaio del 1936 l’apologia infame degli aguzzini dei lager staliniani: “Tra una cinquantina d’anni, quando le cose si saranno calmate un po’ e la prima metà del XX secolo apparirà come una stupenda tragedia e un’epopea del proletariato; allora forse l’arte, e anche la storia, chiariranno lo straordinario lavoro culturale di tanti semplici cekisti nei campi”. Dopo quarant’anni, Alekander Solzenicyn, avendolo sperimentato sulla propria pelle, documentò come funzionavano i campi di concentramento e di lavoro forzato nella patria del socialismo e in che consisteva “lo straordinario lavoro culturale dei cekisti”. Scrisse, infatti, “Arcipelago Gulag”.

Giornale di Brescia, 15.05.1990.