Göring, secondo solo a Hitler

In questi giorni è uscito, per i tipi della Mondadori, un volume di David Irving, con il titolo “Göring, il maresciallo del Reich”. Il libro è di quasi settecento pagine e la sua lettura ci aiuta a capire, attraverso la biografia di un esponente di primissimo piano del regime nazista, come nella storia l’assurdo e il crimine, la fantasticheria delirante e la consequenzialità più rigorosa possano ben intrecciarsi, in un miscuglio incomparabile, e diventare imponenti e vittoriosi, anche se poi non si lasciano dietro che rovine. La vicenda di Göring, così diversa da Hitler e insieme così in sintonia con lui, almeno dal ’22 al ’39, serve anche a dare una risposta più articolata all’interrogativo che ha tormentato la mia generazione: com’è stato possibile nel ’17 in Russia, nel ’22 in Italia, nel ’33 in Germania l’avvento del totalitarismo, con le conseguenze che sono sotto gli occhi di tutti?
In contrasto con i personaggi che conferirono per primi alla corte di Adolf Hitler quel tono inconfondibile di «bohème mista a uno stile da condottieri» – quando negli anni del dopoguerra Hitler si faceva definire il «re di Monaco» – il capitano d’aviazione Hermann Göring, ultimo comandante della leggendaria squadriglia da caccia Richthofen, portò nell’entourage del caporale austriaco un accento mondano e insieme il tocco aristocratico dei «signori della guerra».
Corpulento, gioviale, fragoroso, Göring era immune da quelle storture psicopatiche che caratterizzavano quasi tutti i collaboratori di Hitler.
Egli aderisce ben presto al Partito nazionalsocialista, soprattutto perché ha il gusto dell’avventura, l’avversione per il Trattato di Versailles e la certezza che il nazismo sarebbe risultato di lì a qualche anno vincente – grazie alla gravità della crisi economica e della debolezza degli altri gruppi politici – e non perché attratto, come egli stesso sottolineava, dal «pattume ideologico». Aveva viaggiato a lungo e disponeva di vaste conoscenze grazie anche alla bella moglie svedese, Carin, contessa von Fock (sposata nel ’23 in seguito al divorzio di lei da un nobile ufficiale svedese).
L’eroico reduce della Prima guerra mondiale entra nel movimento nazista nel ’22 e subito tra lui e Hitler si stabilisce un rapporto di fiducia. Nel putsch dell’8 novembre ’23 Göring è ferito gravemente: è la premessa della sua futura ascesa al vertice del potere, ma è pure l’inizio di una brutta abitudine che si porterà dietro sino alla fine, l’abitudine alla morfina.
Eletto deputato al Reichstag il 20 maggio ’28, insieme ad altri undici nazisti, ispirò le campagne di «odio a questo Stato» che caratterizzarono il suo partito. Però sarà lui, l’ex eroe di guerra, nello stesso tempo, a dar al generale Hindenburg, presidente della Repubblica, le più ampie garanzie di legalità e l’assicurazione che «Hitler si sarebbe mantenuto, se portato alla Cancelleria, rigorosamente fedele alla Costituzione». In realtà Göring era un maestro nella politica del doppio binario e il gusto del potere lo spingeva a giocare qualsiasi carta e a barare in qualsiasi gioco.
Dopo la presa del potere, Göring concentra nelle sue mani – o comunque controlla – le leve di comando nelle forze armate, nel partito, nel Governo, nell’economia. Si arricchisce nella maniera più scandalosa e fa della sua tenuta non lontana da Berlino, chiamata Carinhall in memoria della moglie Carin, una residenza oltremodo sontuosa, un museo traboccante di quadri, molti dei quali di altissimo valore.
Il Reich-marschall se lo poteva permettere, anche perché quei quadri in parte erano stati acquistati e in parte erano stati sequestrati agli ebrei fuggiaschi prima dalla Germania e poi dall’Olanda e dalla Francia. Göring riuscì a mettere le mani anche sui tesori d’arte che erano stati posti al… sicuro a Montecassino e così, senza volerlo, li salvò quando gli Alleati distrussero l’Abbazia!
La parte più interessante del volume di David Irving – peraltro assai ben documentata – riguarda l’atteggiamento di Göring poco prima che si scatenasse la bufera e durante il conflitto. Lui che aveva percorso, e da protagonista, tutte le tappe dell’avventura nazionalsocialista, personaggio secondo solo a Hitler, dirà a Norimberga, al processo per i crimini di guerra compiuti dai nazisti, di non aver mai saputo nulla delle nefandezze compiute dalle SS nell’organizzare quella «soluzione finale» del problema ebraico ordinata da decreti che portavano la… sua firma!
Questo criminale, così diverso dagli altri, fu il solo leader nazista popolare, lo «Hermann» nazionale, con i suoi 115 chili di ciccia e le sue sgargianti uniformi. Egli fu anche uno dei pochissimi tra i capi nazisti a capire che bisognava ad ogni costo evitare un conflitto con la Gran Bretagna, prima, e con l’Unione Sovietica poi, perché entrambe quelle potenze non si sarebbero arrese mai.
Dopo l’exploit nazista della primavera 1940, i giochi sembravano già fatti (almeno così parve a Mussolini!) e il millennio nazista che avrebbe cancellato il nome cristiano sulla terra sembrava già cominciato: l’Europa era in ginocchio, e Hitler la dominava.
Ma di lì a qualche mese, fu proprio a Göring, comandante in capo dell’aviazione germanica, che toccò registrare il primo grave scacco dopo tanti trionfi: l’Inghilterra aveva sconfitto in modo nettissimo nei suoi cieli la Luftwaffe, mandando per sempre in frantumi il ventilato progetto d’invasione. Il fatto è che, malgrado la sua amicizia con Hitler, Göring non poté mai fare intendere al suo capo che bisognava fermarsi dopo tanti briganteschi colpi di mano. Come tutti, anche Göring si arrese alla volontà abnorme di Hitler, carica di una sorta di magica irresistibilità. La tragedia degli ultimi giorni di Hitler ha anche aspetti di farsa. Il dittatore il 23 aprile del ’45 ordina persino l’arresto di Göring con l’accusa di alto tradimento; nello stesso tempo però, allo scopo di salvargli la vita, ingiunge al vecchio compagno di dimettersi dalle cariche che ricopriva per ragioni di salute. Due settimane dopo Göring si consegna agli americani. Poi il processo e il suicidio. Aveva cinquantadue anni.
Chiunque rifletta su personaggi del genere, uomini che in qualche modo portano il segno di una «grandezza deforme» come diceva Thomas Mann, non può fare a meno di chiedersi che cosa è che manda alla rovina individui e Stati. Forse una delle risposte più acute la diede nel secolo scorso un eminente storico tedesco, Leopold von Ranke. «Non è cecità, non è ignoranza – scriveva von Ranke – quella che manda alla rovina uomini e Stati. Non a lungo resta loro celato dove li condurrà la strada imboccata. Ma in essi è un impulso, favorito dalla loro natura, rafforzato dall’abitudine, cui non si oppongono e che li trascina in avanti, finché possiedono ancora un residuo di forza. I più vedono la propria rovina di fronte a sé, eppure vi si gettano a capofitto».

Giornale di Brescia, 24 settembre 1989.