Heidegger e Wittgenstein filosofi del Novecento

• “Lezioni di filosofia. Pensatori del Novecento” è il ciclo di incontri promosso dalla Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura, che si è tenuto nella Sala Bevilacqua di via Pace n.10 a Brescia il 9, 16 e 23 aprile. Pubblichiamo un intervento di Luca Ghisleri, curatore delle Lezioni e collaboratore della rivista.

 Un rapporto di identità e di differenza sembra unire fra di loro Martin Heidegger e Ludwig Wittgenstein, sicuramente tra i maggiori pensatori del Novecento. Un rapporto che si dispiega sia in termini biografici sia in termini speculativi. Entrambi nati nel 1889 in paesi di lingua tedesca e accomunati almeno in parte dallo stesso terreno di formazione, costituito dalla reazione antisoggetivistica alle “questioni della logica, del significato e della verità” (Perissinotto), rappresentata da pensatori come Frege e Husserl; accomunati anche dal fatto che il percorso filosofico di ciascuno di loro sia connotabile alla luce di una più o meno netta distinzione tra due fasi di pensiero, ma soprattutto convergenti nel voler porre al centro della riflessione la questione del linguaggio.
Heidegger era nato a Messkirch, uno paesino del Baden nel sud della Germania da genitori cattolici di umile origine, aveva studiato teologia e filosofia presso l’università di Friburgo, dove poi insegnò e di cui nel 1933 divenne anche rettore, pronunciando in questo suo ruolo un discorso considerato di adesione al nazismo, ma dimettendosi da tale carica un anno dopo e tornando a condurre una vita per il resto povera di avvenimenti esteriori di rilievo e trascorsa pressoché interamente in Germania. Wittgenstein invece apparteneva ad una ricca famiglia viennese di origine ebraica (il padre era un gigante dell’industria siderurgica) e aveva studiato prima ingegneria a Berlino, poi filosofia della matematica a Cambridge, dove successivamente insegnò a partire dal 1929, dopo aver fatto il maestro elementare in un villaggio della Stiria e aver trascorso anche qualche tempo in un convento lavorando come giardiniere.
Ma soprattutto Heidegger e Wittgenstein sono spesso indicati come i fondatori delle due correnti che hanno connotato direttamente o indirettamente molta parte della filosofia novecentesca e che del resto continuano ad innervare il dibattito teorico attuale: da una parte, la filosofia ermeneutica – asse essenziale del cosiddetto orientamento ‘continentale’ (europeo) – attenta in particolare alla dimensione interpretativa e storico-umanistica della conoscenza nonché ad un approccio antiscientista basato sulla produzione di opere di “grande sintesi speculativa”; dall’altra, la filosofia analitica – presente soprattutto nell’area anglo-americana – che fa maggiormente riferimento a conoscenze di ordine logico-formale e che pone a tema della propria indagine argomenti più circoscritti affrontati attraverso il metodo dell’analisi del linguaggio (scientifico ma anche comune).
L’originalità di Heidegger consiste nell’estrema radicalità con cui egli esprime l’esigenza di ripensare la nozione fondamentale del problema filosofico, quella di ‘essere’. Per condurre tale indagine appare centrale il ruolo di chi pone la domanda riguardante il senso dell’essere e cioè l’uomo, denominato “esserci”, un ente caratterizzato da temporalità e mortalità, che si trova sempre gettato in una situazione storica particolare e che, a partire da questa e dai significati che in essa si dischiudono, progetta la propria esistenza aprendosi al mondo e agli altri. Essere e tempo, l’opera che affronta queste tematiche e che anche contro le intenzioni dello stesso Heidegger costituirà una delle principali fonti dell’esistenzialismo, doveva terminare con una parte relativa alla questione generale dell’essere, che però non fu mai scritta, perché egli si scontrò con i limiti del linguaggio della metafisica, dominato dal modello della ‘semplice presenza’, che riduce l’essere all’ente, all’oggetto manipolabile, dimenticando la differenza (ontologica) fra essi.
Dopo la cosiddetta ‘svolta’, nella seconda fase della sua riflessione Heidegger ripercorrerà così la storia della metafisica occidentale leggendola in chiave nichilistica proprio perché connotata da tale oblio della differenza ontologica che, sorto con Platone, culmina nel dominio moderno e contemporaneo della scienza e della tecnica. In un’epoca dominata dal primato del soggetto e dal pensiero calcolante si tratta allora di rimettersi in ascolto dell’essere che si rivela nel linguaggio. L’oblio dell’essere è superato infatti mediante un pensiero rammemorante e interpretativo che intende il linguaggio come “casa dell’essere” (espressione contenuta nella Lettera sull’umanismo) e cioè non come un mero strumento del pensiero stesso, ma come l’orizzonte storico e l’ambiente comune all’interno del quale si dischiude la nostra esperienza del mondo. In particolare il linguaggio dei grandi poeti con il suo potere evocativo è il modello di un linguaggio che non oggettiva l’essere ma che lo rivela nel suo nascondimento.
Anche Wittgenstein, nel Tractatus logico-philosophicus, affronta il problema del rapporto tra il linguaggio e la nostra esperienza del mondo, ma lo fa alla luce di una prospettiva secondo la quale le proposizioni del linguaggio stesso sono concepite come “immagini dei fatti del mondo” (nel senso che i termini che le costituiscono stanno fra di loro in relazioni che raffigurano i nessi esistenti tra gli oggetti della realtà), giungendo così a sostenere che solo il linguaggio delle scienze naturali è dotato di senso, proprio perché esso è l’unico che descrive le cose reali. Ma, a differenza di quanto faranno i neopositivisti del circolo di Vienna che si ispireranno ampiamente al Tractatus, per Wittgenstein ciò non implica che oltre alla scienza non ci sia null’altro da dire, ma che l’unico atteggiamento possibile per esprimere ciò che la eccede (e che, come l’arte, l’etica e la religione, risulta essenziale per la vita) è il silenzio: ‘Su ciò di cui non si può parlare si deve tacere’. Certo il primo Wittgenstein, difensore della sensatezza esclusiva del linguaggio scientifico, ricade certamente nella critica alla semplice presenza sostenuta dal secondo Heidegger che infatti, anche se ne aveva sentito parlare molto poco, definì il pensatore viennese come un ‘un crasso positivista’. In realtà i due pensatori sembrano proporre soluzioni diverse allo stesso problema rappresentato dal dominio della scienza: Wittgenstein prospetta il silenzio mistico, mentre Heidegger fa riferimento al linguaggio poetico.
Del resto, una valenza non univoca, bensì polivalente del linguaggio è sostenuta dallo stesso Wittgenstein nella seconda fase del suo pensiero, quella inglese, che trova espressione in particolare nelle Ricerche filosofiche. In esse egli fa infatti riferimento non tanto al linguaggio scientifico ma a quello comune e quotidiano, all’interno del quale il significato delle parole non si basa più sul riferimento preciso agli oggetti, ma su ben determinate regole d’uso, che caratterizzano i cosiddetti ‘giochi linguistici’ (quali, ad esempio, dare ordini, risolvere un problema di matematica, recitare o anche pregare). Essi si radicano in particolari forme di vita e sono sempre il frutto di precisi contesti storici e comunitari, avvicinandosi in questo modo alla concezione ermeneutica heideggeriana.
Pur nelle evidenti differenze, entrambi i pensatori sembrano così accomunati da una concezione della filosofia intesa come riflessione sul linguaggio nel suo riferimento all’essere e alla vita. Proprio per questa concretezza, tornare a meditare il loro pensiero anche mediante l’analisi degli intrecci tra le loro rispettive posizioni può contribuire a una maggiore comprensione di noi stessi e del nostro ruolo nel mondo.

Città e Dintorni, aprile 2010.