I silenzi della stampa

Il titolo non avrebbe potuto essere più pertinente: “I silenzi della stampa sulle resistenze dimenticate”. Me ne sono reso conto recentemente quando ho chiesto all’archivio del Corriere della Sera degli articoli su questo argomento e mi sono visto arrivare a casa pochissimi articoli di giornale italiani ed esteri.
Eppure da otto anni l’Afghanistan è occupato dalle truppe sovietiche; più o meno dallo stesso periodo la Cambogia e il Laos sono occupati dal Vietnam; in Etiopia si combatte una guerra di genocidio nei confronti dell’Eritrea; poi il Nicaragua, il Salvador, l’Angola e la Polonia, che si è auto-occupata per evitare che l’occupassero i Sovietici. Si tratta di un silenzio colpevole dinanzi a fatti reali da registrare tutti i giorni e che la stampa ricorda con una certa reticenza. Qualche tempo fa ho ricevuto un libro dall’amico Glucksmann intitolato “Silenzio si uccide”. In questo libro si racconta che nel 1974, alla vigilia della morte di Hailè Selassiè, in Etiopia morirono per fame duecentomila persone. Se ne parlò molto e si accusò il sistema, che allora festeggiava i duemila anni dalla sua fondazione, di essere reazionario, feudale, e di non aver ancora risolto i problemi del paese.
Dieci anni dopo, nel 1984, Mengistu festeggiava i dieci anni di rivoluzione che avevano fatto cadere Hailè Selassiè; in corrispondenza di quel decennale in Etiopia morirono un milione di persone (cinque volte quelle morte nel 1974), ma nessuno ne parlò perché Hailè Selassiè era un reazionario, mentre Mengistu era un progressista, e in nome del progresso e del socialismo si compiono le più assurde nefandezze. Si ricorderà che subito dopo l’invasione dell’Afghanistan i giornali di tutto il mondo, in particolare quelli italiani, parlarono dei partigiani che combattevano contro le truppe sovietiche, definendoli “ribelli”.
Poiché se si erano chiamati “partigiani” i vietnamiti che combattevano contro gli americani, non si potevano chiamare così anche gli afgani? Apparve un articolo sul Corriere in cui il direttore invitava tutti i giornalisti italiani ad usare la parola “partigiani”, anziché “ribelli”; il termine dava legittimità ad un governo che non l’aveva. Lo stesso giorno che usciva l’articolo, sul Corriere usciva anche un bel titolo: “I ribelli Afgani”. Ciò dimostra non solo la mancata coordinazione all’interno del giornale, ma anche come il riflesso condizionato sia talmente forte che i giornalisti stessi, pur convinti dell’uso di una parola piuttosto di un’altra, rimangono condizionati dalla moda delle false parole. I silenzi della stampa sulle oppressioni dimenticate nascono anche da una mistificazione costante che consiste nel dare alle parole un significato diverso dal loro originario.
Per esempio si usa il termine di democrazie popolari per definire i paesi dell’Est europeo, dimenticando, a parte la tautologia, che questi potrebbero in qualche modo essere definiti socialisti ma non democratici. Quasi quotidianamente i giornali parlano di “spartizione di Yalta”. A Yalta non si decise affatto la spartizione in due dell’Europa, ma nella dichiarazione sui popoli liberati si scrisse addirittura: “Le popolazioni che oggi sono sotto il socialismo reale hanno pieno diritto di autodeterminazione e di scelta del governo sotto cui stare”.
Con questo, si deve concludere che la mistificazione costante delle parole è dovuta all’incapacità dei giornalisti e alla noncuranza degli intellettuali?
Bisogna pensare anche che nel 1917 è accaduto nel mondo un fatto straordinario. In passato, al termine di ogni guerra, quando le potenze si sedevano intorno al tavolo della pace, le vincitrici e le sconfitte usavano essenzialmente le stesse parole, con lo stesso significato, perché la loro concezione del mondo rimaneva la stessa; a partire dal ’17, questo non è più avvenuto.
Si dice che nel ’17 ci sia stata la grande rivoluzione d’Ottobre che ha instaurato il socialismo in Russia; in realtà quella d’Ottobre non è stata una rivoluzione, ma semplicemente un golpe, perché la vera rivoluzione avvenne nel Febbraio, quando fu scacciato lo Zar. Nell’Ottobre del ’17 con la rivoluzione bolscevica, si è semplicemente impedito alla Russia di sperimentare almeno una volta un sistema parzialmente democratico. Il parlamento russo nato con la rivoluzione di Febbraio fu sciolto con la famosa frase “la guardia era stanca”, perché stava prolungando le sue discussioni anche nel cuore della notte per decidere se nella nuova costituzione si sarebbero dovuti includere solo gli ideali della rivoluzione francese o anche i concetti di libertà, i valori e i diritti previsti dalla filosofia socialista. Il parlamento stava per approvare una costituzione che prevedeva solo le libertà di una democrazia borghese; per questo fu sciolto, e la Russia perse l’unica possibilità di incamminarsi verso la democrazia.
Quindi non è la disattenzione di questo o quel giornalista che determina certe dimenticanze, ma è la nascita di una grande menzogna, come la chiamerebbe Solzenicyn, che nasce da una menzogna storica: la negazione di un tentativo di democrazia e di libertà che sorgeva, seppur embrionalmente, nella Russia del ’17.
Per quel che riguarda la stampa, esiste una forte vocazione o una certa inclinazione a tralasciare il significato delle parole e a dimenticare i fatti. Questo nasce da una concezione ancora una volta del tutto teleologica dell’informazione, in base alla quale, se un’informazione contraddice il fine ultimo del giornalista, questa notizia si finisce col non darla. Un piccolo aneddoto conferma ciò. Quando ci fu quella forte nevicata che bloccò in mezza Italia i mezzi pubblici, il Corriere polemizzò con le autorità per l’inadeguatezza con cui si affrontava lo stato di emergenza. Successivamente però apparve in prima pagina un articolo del corrispondente da Londra, in cui si diceva che quando accadevano cose del genere in Inghilterra, gli inglesi non reagivano così impulsivamente. Qualche giorno dopo Rinascita pubblicò un breve corsivo che sottolineava lo strano fatto per cui, su uno stesso giornale, apparivano due articoli contraddittori. Quindi io telefonai al collega di Rinascita e gli dissi: “Vedi che differenza c’è tra uno scrittore liberale e uno marxista? Il giornalista liberale venendo a sapere che a Londra nessuno protesta, ha dato lo stesso la notizia, mentre quello marxista non l’avrebbe fatto perché si sarebbe sentito contraddetto”.
Queste sono le bugie dette nei confronti del socialismo reale, credendo che in tal modo il socialismo stesso avrebbe avuto successo; bisogna invece affrontare coraggiosamente questi fenomeni anche nei confronti delle proprie idee e convinzioni, se si crede che proprio mettendole alla prova, verificandole con fatti e altri dati, si affermano nel modo migliore.
Si può raccontare un altro episodio. Quando vivevo ancora a Mosca, spesso mi incontravo con giornalisti italiani di passaggio e giornalisti sovietici, non certo in odore di santità presso il regime del momento, che correvano un grosso rischio a cenare con giornalisti stranieri. Tra questi ospiti vi era anche un filosofo molto intelligente, georgiano, iscritto ancora al partito comunista, che ormai lo stava rifiutando dal momento che rivendicava troppa libertà e democrazia per il proprio paese. Questo filosofo partecipava attivamente alle nostre discussioni sull’URSS e sulla libertà in generale, perché si sentiva coinvolto in prima persona e non riusciva a capire perché molti giornalisti occidentali chiudessero gli occhi davanti ad una situazione così discutibile. Una sera, dopo una lunga discussione con dei giornalisti italiani che difendevano il regime sovietico, uscì con una frase memorabile: “Io non dubito della vostra buona fede; chiedo solo di non fare pagare a noi il vostro ritardo nel capire”. E’ una frase che potrebbe essere ripetuta anche da noi, che paghiamo un prezzo tanto minore rispetto alla popolazione sovietica.
La cosa più triste che si è potuta constatare riguardo all’informazione nel nostro paese, al modo di fare cultura e di vivere la cultura, è stata la reazione dell’establishment culturale italiano di fronte al tentativo di pervenire ad una maggiore razionalità nell’analisi dei problemi, senza dividere costantemente e giudicare il buono e il cattivo, ma cercando di capire le ragioni degli altri. Lo sforzo che tutti dovrebbero fare risulta stranamente difficile nel nostro paese, perché in queste circostanze si sente rinascere quella che si può chiamare la “bestia”, la vocazione controriformistica nel senso culturale del termine, fortemente censoria, contro chi cerca di capire prima di giudicare. Ai nostri tentativi di cercare di capire e ragionare si è risposto, da parte di molti, solo con insulti. Per esempio, in Italia si tendeva a dipingere Israele come paese fascista quando era governato da Begin, mentre era solo un paese fortemente tormentato da una rivoluzione sociale che lo aveva cambiato. Tutte le volte che si cercava di capire e di far capire come erano andati veramente i fatti, gran parte dei giornalisti italiani rispondeva con l’insulto e la criminalizzazione di colui che cercava di porsi in un’ottica per così dire laica, che prescindesse dal punto di vista ideologico. Questo atteggiamento ha già provocato molti danni e lutti al nostro paese e ancora minaccia di provocarne, perché sta alla base del terrorismo; ma è tanto più grave perché in una società della comunicazione diffusa come la nostra, per istituire il regime della parola d’ordine e degli slogan non sono nemmeno necessarie le leggi speciali: basta una forte pressione di natura sociale. Nella società i comportamenti sono definiti non solo dalle leggi comuni, ma anche dal comportamento dei più. Un comportamento libero che tende a valutare i fatti in un modo non opinionistico viene in qualche maniera criminalizzato, finisce con l’essere sottoposto ad una pressione sociale così forte che ne determina il carattere di devianza rispetto alla maggioranza, contraria a quel comportamento. Ecco perché i silenzi della stampa rischiano di essere qualcosa di più rispetto a semplici peccati di omissione da parte dei giornalisti. Rischiano di essere l’inizio di una fase che l’uomo ha già parzialmente conosciuta, cioè una fase involutiva che tiene alla libertà di espressione non sotto il profilo normativo, ma sotto il profilo del costume e della cultura. Bisogna ricordare la grande funzione storica che ha avuto a partire dal ’74 il “Giornale” di Montanelli, in un paese in cui non avrebbero potuto trovare ospitalità su altri giornali uomini come Rosario Romeo, De Felice, Ricossa e tanti altri. Fu un atto di straordinario coraggio fatto da un uomo allora sessantacinquenne che poteva ritenersi alla fine della carriera, con tutti gli onori che meritava un giornalista della sua fama e del suo prestigio. Fu ed è un uomo di grande coraggio che va sempre ricordato; soprattutto ora che rischiamo di andare incontro ad un periodo di involuzione, non uguale a quello di allora, ma altrettanto pericoloso.
Perché tutto ciò avviene? Forse non solo per tutte quelle ragioni culturali e politiche sopraddette, non solo per il travisamento culturale delle parole, ma anche perché la cultura politica nel nostro paese è ancora di natura ideologica e non empirica. Il nostro paese è troppo spesso descritto e immaginato come vorremmo che fosse e non come in realtà è. Questo è forse il vizio primitivo della nostra cultura, una cultura ancora eccessivamente imbevuta di idealismo di sinistra. Per comodità e per esemplificazione si può dire di “sinistra”: dal punto di vista storico questa cultura progressista, nella convinzione di poter dare risultati soddisfacenti per l’uomo, lo ha troppo spesso mortificato e sacrificato. E’ una cultura dominante sotto molti aspetti, non tanto per i valori che porta, i quali sono entrati obiettivamente in crisi, ma per la capacità dell’apparato organizzativo che le permette di essere egemone su tutto il territorio nazionale. E’ una cultura assai diffusa, che costa poco perché vive di miti ed emozioni, ed assai raramente fa appello alla ragione; è questo il motivo per cui si deve ricordare la frase del collega georgiano che ho prima citato. Tra parentesi ora non è più a Mosca, dove ha perso anche il posto di lavoro; è stato “trasferito” a Tbilisi.
Se si dovesse ridiscutere con gli amici e colleghi di allora, essi non sarebbero ancora in grado di capire, perché nel frattempo sono accaduti altri fatti di cui essi si sono innamorati: l’avvento di un nuovo leader al Cremlino e la convinzione che possa portare ad una liberalizzazione del regime, la speranza che un giorno l’URSS sarà come noi o meglio di noi, perché alla supposta giustizia sociale avrà aggiunto la nostra libertà; tutte illusioni.
Eppure nel ’32 Silone e altri come Saragat avevano capito come stavano le cose, ma l’illusione ha continuato a diffondersi fino al punto di sostenere che era meglio aver torto con Sartre, piuttosto che aver ragione con Aronne. Tuttavia, se aver ragione con Aronne nel nostro paese significa essere in minoranza, ed essere in minoranza vuol dire appartenere alla schiera di coloro che fanno appello continuamente alla razionalità, alla libertà, all’autonomia dell’individuo contro le mode culturali e contro coloro che possono decidere del destino degli uomini, allora è preferibile di gran lunga essere in minoranza piuttosto che essere tra coloro che capiscono con dieci, cinquanta anni di ritardo, si pentono e poi sbagliano ancora.

NOTA: testo, non rivisto dal’Autore, della conferenza tenuta a Brescia su invito della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura il 3.4.1987.