Il delirio di Cavour morente

Mercoledì 29 maggio 1861 Cavour rientrò in casa esausto e preoccupato. «Non ne posso più – confidò al domestico – ma bisogna lavorare lo stesso. Il Paese ha bisogno di me». La notte si sentì male e il mattino seguente gli furono praticati tre salassi. Di giorno in giorno il peggioramento divenne evidente. La malattia di Cavour era una malaria perniciosa con accessi di febbre intermittente accompagnati da delirio.
Il martedì sera, 4 giugno, essendosi diffusa in Torino la notizia della gravità della malattia, il palazzo Cavour fu come assediato dalla popolazione e si dovette tenerlo aperto tutta la notte. Fuori, per le strade adiacenti, vegliava in silenzio una folla cupa e desolata, a tratti minacciosa per il timore che il clero rifiutasse i sacramenti al presidente del Consiglio.
Il 5 giugno, verso le nove, il sovrano venne a visitare l’ammalato. Il conte lo riconobbe e gli chiese subito se fosse giunto dalla Francia il riconoscimento del Regno d’Italia. E aggiunse: «Sire, ho tante cose da comunicarvi, ma sono troppo malato». Le sue parole passarono allora alla questione che più lo assillava: il Meridione o, com’egli diceva, i napoletani, cioè gli ex-sudditi del regno di Napoli: «…E i nostri poveri napoletani così intelligenti! Ve ne sono che hanno molto ingegno, ma ve ne sono altresì che sono molto corrotti. Questi bisogna lavarli…».
Quando Vittorio Emanuele si fu accomiatato, Cavour cominciò a delirare. Le sue parole furono raccolte e messe poi per iscritto dalla nipote Giuseppina Alfieri, che assisteva amorevolmente lo zio; William de La Rive le riporta nel penultimo capitolo del suo “Le comte de Cavour”, la biografia apparsa nel 1862, l’anno seguente alla morte dello statista, a Parigi (traduzione italiana 1911 e, con il titolo “Vita di Cavour”, 1951, Rizzoli-Bur). Ecco le parole estreme di Cavour: «L’Italia del Settentrione è fatta, non vi sono più né lombardi, né piemontesi, né toscani, né romagnoli, noi siamo tutti italiani; ma vi sono ancora i napoletani. Oh! Vi è molta corruzione nel loro Paese. Non è colpa loro, povera gente: sono stati così mal governati! È quel briccone di Ferdinando! No, no, un governo così corrotto non può più essere restaurato: la Provvidenza non lo permetterà. Bisogna moralizzare il Paese, educare l’infanzia e la gioventù, creare sale d’asilo, collegi militari; ma non si pensi di cambiare i napoletani coll’ingiuriarli. Essi mi domandano impieghi, croci, promozioni; bisogna che lavorino, che siano onesti, ed io darò loro croci, promozioni, decorazioni. Ma soprattutto non lasciargliene passare una: l’impiegato non deve neanche essere sospettato. Niente stato d’assedio, nessun mezzo da governo assoluto. Tutti sono buoni di governare con lo stato d’assedio. Io li governerò con la libertà e mostrerò ciò che possono fare di quel bel Paese dieci anni di libertà. In venti anni saranno le province più ricche d’Italia. No, niente stato d’assedio, ve lo raccomando. Garibaldi è un galantuomo: io non gli voglio alcun male. Egli vuole andare a Roma e a Venezia; anch’io. Nessuno ne ha più fretta di noi. Quanto all’Istria e al Tirolo, è un’altra cosa. Sarà il lavoro di un’altra generazione. Noi abbiamo fatto abbastanza, noi altri: abbiamo fatto l’Italia, sì l’Italia e la cosa va…».

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Quando a scuola leggevo questo documento, umanissimo e alto, era assai difficile che giungessi alla fine perché la commozione ad un certo punto mi serrava la gola. Cavour pronunciò quelle parole sul letto di morte e la sua voce si sentiva distintamente anche nelle altre stanze, come se immaginasse di tenere un discorso in Parlamento. Nel suo delirio Cavour morente ci ha lasciato il ritratto della sua anima e il suo vero testamento. Il conte enuncia con appassionata convinzione ciò che egli intende fare in prima persona per l’Italia appena assurta all’unità: moralizzare il Paese; assicurare l’onestà, il rigore più intransigente nel rispetto della legge, l’efficienza dell’amministrazione; diffondere l’istruzione; educare alla libertà, sì che si governi senza stati d’assedio; essere fedeli al principio «Libera Chiesa in libero Stato». Ma ecco, all’improvviso, si affaccia la consapevolezza che egli ha già fatto la sua parte e che ora toccava ad altri farsi carico di compiti immani, assumersi la responsabilità delle decisioni conseguenti. L’intensa drammaticità delle parole estreme di Cavour tocca il culmine, infatti, in questo sovrapporsi di espressioni quali: «Io li governerò… io mostrerò ciò che possono fare dieci anni di libertà…» ed altre come: «No, niente stato d’assedio, ve lo raccomando…» o «Sarà il lavoro di un’altra generazione…».
Colpisce inoltre nelle sue parole, così percorse da lampi di angosciata preveggenza, che un uomo di grandi idee e battaglie come lui non abbia avuto durante il delirio neppure una parola di odio, di risentimento o di critica per l’uno o per l’altro dei suoi tanti avversari, che con lui sarebbero stati invece implacabili e ingenerosi anche dopo la morte. Michelangelo Castelli, il giorno dopo il decesso di Cavour, scrisse a Massimo d’Azeglio: «Tutti i sentimenti suoi erano di amicizia, di stima, di compatimento, di speranza!».
Il mattino del 5 giugno venne chiamato il parroco della Madonna degli Angeli, fra Giacomo di Poirino, col quale il conte si era inteso fin dal 1854. Da lui, dopo una cordiale stretta di mano e senza aver nulla ritrattato, Cavour si confessò e ricevette l’assoluzione. Il colloquio tra il sacerdote e il penitente durò mezz’ora e quando padre Giacomo si ritirò, Cavour disse a Carlo Luigi Farini: «Debbo prepararmi al gran passo dell’eternità. Mi sono confessato e ho ricevuto l’assoluzione; più tardi padre Giacomo mi comunicherà. Voglio che si sappia. Voglio che il buon popolo di Torino sappia che io muoio da buon cristiano».
Nel pomeriggio gli furono amministrati i sacramenti. Il giorno seguente alle ore 5,30 fra’ Giacomo fu chiamato d’urgenza per impartire al moribondo l’estrema unzione. Il conte lo riconobbe, gli strinse la mano e disse: «Frate, frate, libera Chiesa in libero Stato». Fra’ Giacomo da Poirino, colpevole di aver assolto senza ritrattazione lo statista colpito dalla scomunica del 26 marzo 1860 contro gli usurpatori degli Stati pontifici, venne convocato a Roma e sospeso a divinis con un provvedimento revocato solamente sotto Leone XIII.
Il conte pronunciò ancora una sola frase e fu per l’amata patria: «L’Italia è fatta, tutto è salvo». L’uomo che poche settimane prima, mentre Garibaldi lo ingiuriava in Parlamento, aveva detto al fedele Nigra: «Preferisco veder sparire la mia popolarità, perdere la mia reputazione, ma veder fare l’Italia», sapeva di aver impegnato la sua stessa vita in qualcosa che ai suoi occhi appariva come «la più bella impresa dei tempi moderni».
Alle 6,45 di giovedì 6 giugno 1861, previa un’ora di calma, Cavour spirò. Era vissuto quasi cinquantuno anni. Enorme fu l’eco della morte in Italia e all’estero, a livello di opinione pubblica, di stampa, di ambienti politici e diplomatici. Spiace, però, dover ricordare che neppure in quell’ora Mazzini e la «Civiltà cattolica» siano stati capaci di superare il loro odio teologico verso Cavour.
L’uno ritenne che la morte del grande statista sarebbe stata «vantaggiosa», non avendo i suoi successori la sua popolarità e il suo stile; l’altra scrisse addirittura che era «una vendetta celeste». E non furono i soli ad essere ingiusti e meschini. Ben diverso fu il giudizio di uno dei maggiori storici tedeschi, Heinrich Von Treitschke, che nel 1869, a otto anni di distanza dalla morte dello statista, dedicò a lui un saggio, “Il conte di Cavour”, che fu molto letto e commentato. Von Treitschke rende un appassionato omaggio all’uomo di Stato che ha creato l’Italia: Cavour «non se ne stette a scaldarsi le mani alle rovine fumanti della patria, ma compì il più grande atto di moralità che ad un mortale sia concesso», lavorando alla resurrezione del suo popolo, alla sua indipendenza dallo straniero, e a stabilire un sistema politico tra i più avanzati in Europa.
Cavour dopo l’unificazione si sarebbe misurato con mali e arretratezze plurisecolari, non sanabili certamente con il genio di un solo uomo. Lo spaventoso degrado economico e lo stato d’abbandono in cui versavano vaste zone del Mezzogiorno, l’analfabetismo di massa delle loro popolazioni, il dilagare in esse dell’illegalità erano piaghe di cui l’intera nazione doveva ormai farsi carico; né dipendeva da Cavour portare i cattolici sulle posizioni di un Manzoni, per il quale l’unità nazionale dello Stato italiano, liberando la Chiesa dalla sciagura del potere temporale, era via obbligata perché la fede cattolica tornasse ad animare liberamente, col suo messaggio religioso e morale, l’Europa dei tempi moderni.
Cavour, d’altra parte, era drammaticamente consapevole della gravità dei problemi ed aveva altresì intravisto – il delirio è lì ad attestarlo in modo commovente e sublime – la direzione in cui muoversi, confidando nel dinamismo della libertà e nella forza ordinatrice della legge. Comunque, al di là del problema, del resto privo di qualsiasi possibile riscontro, sul «come» Cavour avrebbe governato l’Italia unita, stava dinanzi allo storico tedesco e sta dinanzi a noi la realtà, imponente, di ciò che lo statista italiano aveva fatto. «Il cuore – scrive von Treitschke – gli si era dilatato per la coscienza di una missione che apparteneva alla storia del mondo… Così, compiuta nella pienezza delle sue opere, la vita di Cavour ci dà l’immagine di quella virtù che orgogliosa si esprime con l’omerico Ettore: Non v’ha che un’insegna / salvare la patria!».

Giornale di Brescia, 15 dicembre 1993.