Il dilemma della non-violenza in Platone

Nel 1961 Giovanni Reale affidava alla Scuola Editrice il suo primo lavoro sul grande pensatore greco: la traduzione di un dialogo apparentemente minore, il “Critone”. Trentacinque anni dopo, Reale torna su quel dialogo, enigmatico nella sua ap¬parente semplicità, e lo ripubblica in un’edizione coi testo a fronte, per i tipi della Rusconi (1996, pp. 212). La traduzione è quasi identica a quella del ’61, mentre è interamente nuovo il saggio introduttivo. Sulla data di composizione del dialogo i filologi Turolla e Montuori la pongono il più lontano possibile da Socrate, sino a fare del “Critone” una sorta di «proemio alle Leggi» che, com’è noto, è l’ultimo scritto di Platone. Il Reale riconosce con molto buon senso che la questione non può essere risolta con sicurezza, anche per il fatto che «Platone ritoccava più volte i suoi scritti, e in modo sistematico». Poi, però, inclina fortemente verso quella ipotesi. Molto puntuale è la rassegna delle diverse interpretazioni del dialogo. A me sembra tuttavia che, fatte poche eccezioni, le interpretazioni di più alto profilo possano essere viste più come complementari tra loro che in un rapporto di reciproca esclusione. Nel paragrafo conclusivo Reale richiama i grandi concetti morali contenuti nel “Critone” e li sintetiza sostanzialmente nel celebre passo, che fa anche da esergo al volume: «Non il vivere è da tenere in massimo conto, ma il vivere bene… e il vivere bene è lo stesso che il vivere con virtù e con giustizia» (48b).
Come conseguenza di questo altissimo principio, Platone presenta nella cosiddetta prosopopea delle “Leggi” quello che potremmo a giusta ragione chiamare il «messaggio della rivoluzione della non-violenza». Ed è un messaggio di eccezionale portata: «La violenza non è mai vittoriosa; la sua apparente vittoria è sempre una perdita di ciò che ha dignità e valore per l’uomo; il vero vincere consiste nel con-vincere, nel persuadere sulla base del ragionamento». Sono testi che – come ricorda il Reale – i seguaci della rivoluzione non violenta, promossa da Martin Luther King, citavano accanto alle pagine del Vangelo.”
Qualche lettore più sagace e paziente ricorderà che del “Critone”, questo testo-modello di apparente facilità, mi sono occupato in due distinti articoli, scritti prima di leggere la nuova introduzione di Reale. In essi io ricordavo la teorizzazione che Platone fa della persuasione coercitiva e dell’uso aggiuntivo della violenza in politica. Questo si vede chiaramente non solo nella “Repubblica”, ma anche nel “Politico” e nelle “Leggi”: mi limito qui a ricordare il passo 308b-309a della seconda opera e il 907d-e della terza. Certamente Platone assegna dei limiti all’uso della forza per l’attuazione dello Stato ideale ed è in virtù di quei limiti che non può essere annoverato tra i filosofi del totalitarismo, come invece sostiene Popper. Ci si deve chiedere allora: come possiamo attribuire allo stesso Platone le teorie dell’uso aggiuntivo della violenza dei grandi dialoghi politici e insieme l’etica della non-violenza, che caratterizza così radicalmente il messaggio del “Critone”? Come si vede, il problema posto non è facile da eludere e ci rafforza nella convinzione che il “Critone” è nato come dialogo schiettamente socratico, non nella fase in cui Platone scriveva i dialoghi della revisione del suo sistema e neppure nel periodo centrale della sua produzione, in cui invece si colloca la “Repubblica”.
 

Giornale di Brescia, 5.1.1997.