Il Discorso della Montagna, manifesto della libertà cristiana

Il Discorso della Montagna occupa nel Vangelo di Matteo i capitoli 5, 6 e 7 -107 versetti in tutto – e in quello di Luca buona parte del capitolo 6 e precisamente i versetti 20-49. Del celebre Discorso esistono, dunque, due versioni; però sia in Matteo sia in Luca l’uditorio (gli apostoli, i discepoli, il popolo) è lo stesso. Il prologo è costituito dalle Beatitudini ed è identico l’epilogo, la parabola dell’uomo che costruisce sulla roccia e di colui che, invece, costruisce sulla sabbia. A parte alcune diversità, ambedue le versioni trattano gli stessi temi e nello stesso ordine ed è facile riconoscere in esse una struttura comune.
Cronologicamente, Luca colloca il Discorso della Montagna poco prima della seconda Pasqua, la penultima della vita pubblica di Gesù; Matteo, che privilegia l’espressione della dottrina rispetto al racconto e al succedersi dei tempi, mette in forte evidenza, all’inizio dell’attività di Gesù in Galilea, l’insegnamento del maestro, di cui offre un quadro di straordinaria efficacia, tale da farne percepire al lettore la profonda unità d’ispirazione. Se poi si tiene conto che i lettori a cui Matteo di preferenza si rivolge sono i cristiani di origine ebraica e gli stessi ebrei, com’è attestato anche dall’originaria stesura del suo Vangelo in aramaico, si comprende meglio la sua insistenza sul parallelo fra la Nuova Legge e l’Antica. Il parallelo – svolto nel capitolo 5, versetti 21-48 – si articola in sei antitesi fra la vecchia e nuova giustizia, in cui Gesù contrappone a una rivelazione necessariamente parziale e progressiva del volere di Dio e, ancor più al pauroso svuotamento che di essa ha operato la tradizione (“É stato detto…”), la sua dottrina (“… Ma io vi dico”).
In tale contesto va situata la sferzante polemica di Gesù contro i formalismi con cui la mentalità farisaica, moltiplicando precetti e pesi, deforma gravemente il rapporto tra l’anima e Dio e opprime le coscienze invece di liberarle, ingenerando in sé e nei suoi seguaci autocompiacimento, disprezzo per gli altri, ipocrisia. La contrapposizione fra le due mentalità, quella farisaica e quella di Gesù, non poteva essere resa in modo più plastico e inequivocabile: da una parte sono i partigiani della legalità avanti tutto e, dall’altra, c’è la festosa affermazione del primato dello spirito, cioè del principio che l’amore è prima di tutto ed è lo scopo vero ed esclusivo della Legge e del culto. Per comunicare la sua dottrina Gesù non procede alla maniera degli avversari, con capziose discussioni sull’uno e sull’altro testo. Pone i suoi critici di fronte a un caso concreto, mette a confronto sotto i loro occhi, mediante il suo stesso agire, il loro legalismo angusto e la vera carità. L’uomo intero, intelligenza e cuore, è interessato al dibattito e prenderà posizione pro o contro la risposta di Gesù. Dai conflitti che si succedono, con asprezza crescente, fra Gesù e i farisei, emergono le indicazioni, i segni, il dinamismo propulsivo della novità cristiana. Quelle di Gesù sono parole che scuotono l’anima.
Sebbene il Discorso della Montagna nella redazione di Matteo possa essere pronunciato, con le dovute pause, in meno di mezz’ora, appare chiaro che l’evangelista ha compendiato in un tutto ordinato cose dette da Gesù anche in altre circostanze, quasi a voler offrire ai lettori il “manifesto del cristianesimo”, cioè l’enunciazione dei grandi principi sui quali si fonda la libertà dei figli di Dio. Il Discorso della Montagna – tenuto probabilmente sul Korum-Hattin, l’altura a doppia punta, situata fra il Monte Tabor e Cafarnao, quasi di fronte a Tiberiade, in un largo “spiazzo pianeggiante” (Lc 6, 17) ove poteva trovar posto una “grande moltitudine” (ibid.) – non è certamente tutto il cristianesimo (anche Bergson parla di “altre parole” decisive sull’uomo pronunciate da Gesù); tuttavia esso ne è l’introduzione più efficace e il testo che rivela con più immediatezza lo spirito animatore. Gesù, però, nell’affermare la novità del suo insegnamento dichiara con pari vigore che esso non sorge nel vuoto, avendo le sue premesse nella Legge e nei Profeti: “Non pensate che io sia venuto ad abolire la Legge e i Profeti. Non sono venuto per abolire, ma per dare compimento” (Mt 5, 17). E significativamente sono proprio queste parole che introducono nel Vangelo di Matteo le sei antitesi con le quali Gesù mette al primo posto l’interiorità del cuore aperto a Dio e l’amore, dando così all’antica economia della salvezza la forma nuova e definitiva.
Dare compimento alla Legge e ai Profeti significa innanzi tutto riconoscerne l’intrinseco valore e la funzione storica e, nello stesso tempo, portarli al più alto grado di perfezione, ricondurli all’originario disegno del Creatore. E il compimento, la pienezza (pleròma) della Legge sta nell’amore (agape), che è inscindibilmente amore di Dio e amore del prossimo (Mt 22, 34-40). Il criterio poi di attuazione pratica dell’amore ognuno lo trova in sé, essendo non solo interiore alla coscienza, ma anche di immediata eviden¬za psicologica: “Tutto ciò che volete che gli altri vi facciano, voi fatelo a loro” (Mt 7, 12). A partire dal XVIII secolo, esso è designato con l’espressione di “regola d’oro” del Vangelo.
L’amore di Dio e, per amor suo, del prossimo è pertanto il precetto centrale, che vivifica tutti gli altri, che solo ad esso devono essere finalizzati. Senza il fuoco dell’amore, che illumina e trasforma l’esistenza, ogni altra prescrizione diventa lettera morta e, dunque, occasione di peccato. Persino il culto a Dio si fa peccato quando invece di essere celebrazione dell’amore di Dio, fa passare in second’ordine “le prescrizioni più gravi della Legge: la giustizia, la misericordia e la fedeltà” (Mt 23, 24). La più alta rivoluzione in campo religioso nacque, pertanto, da una radicale opera di semplificazione e insieme di scavo nelle profondità della vita interiore della coscienza.

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Nel Discorso della Montagna Gesù non enuncia una somma di comandi isolati, ma questi sono tutti come specchi che concentrano i loro fuochi su un medesimo punto.
Gesù, infatti, nell’atto d’indicare le condizioni per “entrare nel regno di Dio”, pone nello stesso tempo nell’interiorità della coscienza personale, nel “fondo del cuore”, nella purezza d’intenzione – che non è mai mero desiderio o indefinito tendere, ma forma dell’agire – il luogo della scelta e il criterio di condotta. La religiosità, in cui anche l’etica rientra, non è più un accumulare adempimenti di precetti, ma è adesione e dedizione della volontà a Dio.
Il punto di gravità dell’etica viene nuovamente trasferito dall’opera compiuta (o inadempiuta) all’atteggiamento spirituale dell’uomo. La volontà di Dio non si estende e non si limita a singole azioni determinate, che la Legge menziona espressamente, ma deve dominare l’intera vita dell’uomo. In tutte le parole di Gesù riluce un’esigenza decisiva: il bene che si tratta di fare, deve essere fatto con tutta l’anima. Chi fa qualcosa parzialmente, ponendo delle riserve, in modo da adempiere a stento la prescrizione esteriore, è come se non avesse fatto nulla.
Chi si trattiene dall’uccidere, ma non vince la sua ira, non ha compreso che deve decidersi totalmente. Chi evita l’adulterio, ma nutre in cuore desideri malsani, non ha inteso affatto il divieto dell’adulterio, che esige da lui purezza totale. Chi rinuncia soltanto allo spergiuro, non ha compreso che quanto importa è la sincerità totale; chi si rivolge contro l’ingiustizia con la vendetta, non sa di consentire egli stesso all’ingiustizia. Chi è gentile soltanto verso gli amici, non sa che cosa sia l’amore, perché l’amore totale significa anche amore per i nemici.
Ci si è chiesto nel corso dei secoli se il Discorso della Montagna abbia validità universale o se non esiga “cose impossibili”; quasi che il suo compito sia quello di precipitare l’uomo nella disperazioneper renderlo, così, maturo a percorrere la via della vera fede. Il testo, però, esclude nettamente la seconda ipotesi interpretativa. In realtà l’uomo nuovo non può esistere senza una nuova condotta di vita. Di qui nasce l’obbligo d’incarnare nell’esistenza la verità accolta dalla mente e dal cuore. “Non chiunque dice: Signore, Signore! entrerà nel regno dei cieli, ma chi fa la volontà del Padre” (Mt 5, 21). E fa la volontà del padre chi reca i frutti che dalla sua attuazione derivano: “Ogni albero buono porta buoni frutti” (Mt 7, 17). I discepoli sono invitati a bandire vigorosamente insincerità, esibizioni, vana gloria e perfino “l’aria triste che si danno gli ipocriti” e le persone falsamente serie (Mt 6, 1-6, 16-18); ma essi sono chiamati altresì a dare chiara, aperta, gioiosa testimonianza della speranza che è nei loro cuori. “La vostra luce deve risplendere davanti agli uomini affinché essi vedano le vostre opere e lodino il Padre vostro che è nei cieli” (Mt 5, 16). Inoltre Gesù ribadisce nel modo più stringente, proprio nella conclusione del Discorso della Montagna, che la conoscenza del volere divino è vana, illusoria e addirittura pericolosa se non si traduce nulla realtà concreta del vivere: “Chiunque ascolta queste mie parole e non le mette in pratica, sarà paragonato all’uomo stolto, che edificò la sua casa sopra la sabbia. Cadde la pioggia e si gonfiarono i torrenti, soffiarono i venti e si scatenarono contro quella casa, ed essa crollò” (Mt 7, 26-27). L’uomo saggio, invece, è chiunque ascolta la parola che cambia l’esistenza e la mette in pratica: “Costui si è edificata la casa sulla roccia” (Mt 7, 24). Gesù dichiara molto impegnativi, certamente, ma attuabili i suoi comandi (“entrate per la porta stretta”, Mt 7, 13-14), la cui osservanza libera e fiduciosa fa sì che essi diventino “un giogo soave e un peso leggero” (Mt 11, 28-30), perché è Dio stesso che rende gli uomini capaci di vivere in profonda unione con la sua volontà.
Né deve trarre in inganno il frequente ricorso ad espressioni iperboliche. Le iperboli servono, infatti, a Gesù a proclamare il carattere assoluto di un’esigenza, che è tale se non comporta eccezioni di sorta, pena la falsificazione profanatrice del volere di Dio e la rovina dell’uomo. L’iperbole, insomma, sta a significare: bada, qui si gioca l’intera posta del significato morale e religioso della tua vita. La formulazione estrema (“se il tuo occhio destro ti scandalizza, strappalo e gettalo via da te…” Mt 5, 29-30) serve a sottolineare la serietà estrema di quanto viene richiesto. Gli ebrei contemporanei di Gesù erano troppo fami¬liari con il parlare per figure e massime paraboliche. Certamente nessuno dei presenti al Discorso della Montagna pensò a strapparsi l’occhio e nemmeno a presentare la guancia sinistra a chi l’aveva colpito sulla guancia destra. Simile equivoco sarà possibile solo per lettori di altre epoche, lontani dalla mentalità del tempo di Gesù. Il discorso conserva da un capo all’altro una salda visione della realtà.
In conclusione, il Discorso della Montagna ci dà in forma paradigmatica l’etica del regno di Dio e susciterà sempre scandalo a causa dell’inaudita altezza a cui chiama l’umanità. La tentazione, pertanto, di limare e ridurre le sue richieste si affaccia di epoca in epoca, togliendo nitore e nerbo alla limpida assolutezza dei suoi imperativi. È anche inevitabile che i cristiani avvertano la loro inadeguatezza rispetto a quel Discorso; essa deve indurli a essere umili e a chiedere perdono delle loro colpe (Mt 6,12 e 18, 23), ma non li autorizza a sminuire la sublime bellezza dell’appello di Gesù.

Giornale di Brescia, 2 e 4.10.1994.