Il messaggio di Adriano Olivetti e l’Italia di oggi

Autori: Vitale Marco

Vorrei iniziare con due definizioni. La prima è di Angelo Maria Roncalli, allora patriarca di Venezia, dopo un incontro con Adriano Olivetti nel dicembre del 1926. “Mi è sembrato un uomo buono, da persone come lui abbiamo molto da imparare”, dice Angelo Maria Roncalli. La seconda è “Olivetti Adriano di Camillo, classifica: sovversivo”. Così sta scritto sulla copertina del dossier che la pubblica sicurezza di Aosta apre su Olivetti nel giugno del 1931. Credo che, tra le tante definizioni che ho sentito, questa di Aosta sia la più bella e la più centrata. Infatti, come può non essere sovversivo un giovane che entra nella fabbrica paterna a 23 anni, nel 1924, e vi entra con la consueta tensione che c’è tra padri e figli. Entra nella fabbrica quando essa produce 10 macchine da scrivere all’anno per addetto. Quando muore prematuramente, Adriano Olivetti lascia una catena di stabilimenti che produce circa 6 macchine al minuto. I dipendenti hanno un livello di vita superiore dell’80% rispetto a quello dei lavoratori in imprese equivalenti. L’Olivetti ha imposto al mondo un design, ha creato la più ricca e significativa scuola di management della storia italiana. Come può non essere sovversiva una persona che per trent’anni – dal 4 dicembre 1932, quando fu nominato direttore generale, fino al 27 febbraio 1960, quando una trombosi cerebrale lo stronca sul direttissimo Milano-Lucerna, – ha sempre spiazzato tutti in avanti. Questa è una grande caratteristica di Adriano.

Egli ha avuto, come tutti, problemi sia nel lavoro sia nella vita familiare. Per lui non è stato tutto sereno e tranquillo. Egli ha sempre fatto salti in avanti per superare i problemi. Durante la crisi del 1954 tutti ordinavano di tagliare, rimpicciolire e stringere i rami, mentre lui diceva: “Avanti”; diceva che si dovevano fare cose migliori, bisognava migliorare. Sempre avanti, nella direzione che è quella degli imprenditori: l’innovazione. Non solo innovazione di processo, ma anche di prodotto. Quindi anche innovazione di organizzazione. Pertanto, la fabbrica come luogo civile che valorizza le risorse umane, non rispondeva solo a una motivazione ideale, ma era qualcosa di profondamente radicato: un concetto che servisse a credere nella fabbrica come un luogo più forte. Non era un idea senza fondamento. Adesso assisto con le lacrime agli occhi a tutta questa paccottiglia che ci viene rifilata sotto l’etichetta dell’“impresa socialmente responsabile”. Il 90% è un filone cabarettistico; l’importante è che tutte le imprese siano socialmente responsabili, cioè tutti i cittadini devono essere socialmente responsabili: questo era il credo di Adriano Olivetti. Lui non faceva i bilanci sociali, non faceva lo show. L’altro giorno abbiamo premiato una fabbrica che si era impegnata a non avere infortuni sul lavoro e aveva anche ottenuto dei buoni risultati, ma questo dovrebbe essere il compito normale dell’impresa. Quello che ora a noi sembra eccezionale, nell’Olivetti di Adriano era normale, era la visione della sua fabbrica. Ecco la caratteristica sua di fondo: innovazione di sistema, cioè tutto quello che abbiamo insegnato in migliaia di corsi e seminari che negli ultimi anni abbiamo dedicato al tema dell’innovazione, per la verità più a parole che nei fatti.

Come può non essere sovversivo un uomo che afferma: “È vero, non siamo immortali, ma a me pare sempre di avere davanti un tempo infinito, forse perché non penso mai al passato, perché non c’è passato in me, guardo sempre avanti”. Quante volte ho letto che Adriano Olivetti era un utopista, come dicono alcuni letterati. Come può essere un utopista un uomo che realizza tutte le cose che ha sognato e quelle che ha voluto? Come può essere un utopista chi nel 1931, in pieno clima fascista, forma ad Ivrea l’ufficio di progettazione che richiama alcuni dei più grandi talenti del mondo, alcuni dei quali ebrei, per studiare il prodotto del futuro? Questo gruppo di grandi talenti mette le basi per l’esplosione del dopoguerra. Egli fu un grande realizzatore, non un utopista. L’Olivetti, all’inizio degli anni Sessanta aveva 1500 addetti alla ricerca e allo sviluppo, aveva 14000 addetti, di cui il 30% occupati in attività impiegatizie, aveva avuto una produttività per unità cresciuta del 580% dal ’49 al ’59, una produzione aumentata del 1300% con 21 modelli diversi di macchine da scrivere sul mercato, un fatturato del 639% in unità localizzate in Italia e 1787% in unità internazionali, con un larghissimo margine di profitto, la presenza in 187 paesi con 26 società controllate e filiali, più di un centinaio tra concessionarie e agenti ed un totale di 26000 dipendenti nelle sedi estere. Aveva il 27% del mercato mondiale delle macchine da scrivere, il 20% del mercato della macchine portatili, il 33% del mercato delle addizionatrici, il 50% globale del mercato italiano, il 30% del mercato europeo in tutti questi campi. Poi sento parlare di utopia! Queste sono grandi realizzazioni. Grandi realizzazioni che sono state stroncate dalla morte improvvisa e prematura di Adriano, che è stato un grandissimo imprenditore ma portava avanti una storia aziendale che dobbiamo vedere nel suo complesso. Le radici forti della Olivetti erano già state poste da Camillo Olivetti e anche grazie ad esse Adriano riuscì a fare così bene. La storia della Olivetti è la più bella storia imprenditoriale italiana e una della più belle del mondo. Ha attraversato un secolo e ha avuto un grande fondatore – Camillo Olivetti – un grandissimo realizzatore – Adriano – e poi un continuatore che tentò di portare avanti l’Olivetti, con minor successo del padre e del nonno. C’è una storia Olivetti da conoscere e da valorizzare. Essa è un patrimonio del paese e della storia del management. Questa storia si è chiusa il 28 luglio 2003. Il signor Tronchetti Provera deliberando la fusione tra Telecom e Olivetti ha fatto sparire il nome dal registro dei nomi imprenditoriali.

Nell’ambito della storia di questa famiglia, c’è un punto in particolare su cui si dovrebbe riflettere. Esso dimostra la capacità di visione e di previsione che aveva Adriano. Dimostra che noi tutti buttiamo via le nostre cose. Mi riferisco all’evoluzione dell’elettronica, dell’informatica. Il 28 luglio 2003 non è morta solo l’Olivetti, ma abbiamo messo fine alla storia dell’informatica italiana. L’Italia, grazie ai pionieri Olivetti, si era collocata molto bene in questa storia. Il primo calcolatore americano viene classificato nel 1945 ed il primo prototipo costruito a Philadelphia era del ’42. Il primo calcolatore istallato in Italia e del 1954. Il secondo è del 1955. Adriano Olivetti costituisce il suo primo impegno nel campo elettronico in un laboratorio negli USA, nel 1952; pochi anni dividono la partenza dell’informatica americana da quella italiana. Nel 1954 la Olivetti sigla con l’Università di Pisa un primo impegno industriale. Siamo agli inizi. Abbiamo qualche anno di ritardo, ma non molto. Aveva l’Italia le risorse per svilupparsi nell’elettronica? Avevamo tutto. Avevamo una delle scuole di matematica più ricche ed importanti del mondo. L’informatica è per l’80% matematica. Incaricato dall’UNESCO di stabilire un centro mondiale di calcolo, un importante scienziato americano propose che venisse posto a Roma, perché, dice lui, “esaminando diverse pubblicazioni del centro internazionale di calcolo italiano, si resta sorpresi per la vastità di indirizzi che la direzione allega alla ricerche matematiche e si resta sbalorditi per l’ampiezza dei calcoli eseguiti e l’elevatezza dell’analisi matematica che essa ha comportato”. Avevamo alcune università, come Pisa, Milano e Napoli, all’avanguardia in questo campo. Cosa ci mancava allora? Ci mancavano le risorse finanziarie; così dissero quelli che volevano stroncare lo sviluppo, ma non era vero. Esse mancavano perché quando Adriano morì, si formò un comitato di intervento che aveva dentro l’establishment italiano e della FIAT al quale non parve vero di poter mettere le mani su questa impresa sovversiva. Perché non era sovversivo solo Adriano, ma anche la stessa Olivetti: era sovversiva in tutto quello che si staccava dal profilo del capitalismo italiano, che doveva essere di basso livello e doveva fare le cose semplici. Ormai gli storici stanno facendo emergere con grande forza questo. L’Italia doveva essere fermata. Fu imputato di ben 34 imputazioni anche Ippolito, che ebbe una vita di sofferenza, dalle quali fu assolto dopo 30 anni, salvo il fatto che fu condannato perché aveva regalato delle borse di similpelle a dei giornalisti durante una conferenza stampa. Si fermò Bovet, all’Istituto superiore della sanità, che era allora un centro di ricerche farmacologiche all’avanguardia in Europa. Poi questa stagione si chiuse con la morte di Mattei: furono gli anni della normalizzazione, dal 1960 al 1962. Questo avvenne anche in Olivetti. Nell’Aprile del ’64, Valletta disse all’assemblea della Fiat che l’Olivetti avrebbe superato le sue difficoltà finanziarie che, come avrebbe poi dimostrato Beltrami erano assolutamente modeste. Disse che però c’era un neo da estirpare. Esso era che l’Olivetti aveva voluto impegnarsi nell’elettronica. Questo neo, per estirpalo tutto, ci hanno messo un po’ di tempo.

La prima divisione dell’Olivetti fu ceduta alla General Electric e sembrava che avesse chiuso con l’elettronica. Era rimasto però un piccolo nucleo di sovversivi, di ingegneri turbolenti, che continuarono le ricerche sull’elettronica, guidati da Perotto. Ne venne fuori, nel 1965, il B101 che fu il primo personal computer della storia. La stampa americana lo capì subito. Questo prodotto fu un altro dei grandi treni che passarono per l’Olivetti e fu bloccato e non poté così esprimere tutto il suo potenziale.

Negli anni ’80, seguii De Benedetti all’Olivetti. Il suo intervento fu eccellente nella gestione finanziaria. Ma De Benedetti aveva una convinzione, cioè che l’Olivetti avesse perso il treno sull’informatica elettronica. Me lo ricordo come ora. In quegli anni venne fuori in realtà l’M24, che fu un successo dopo l’M20 che non era IBM-compatibile. L’M24 non durò molto, per la crisi dei personal computers a livello mondiale. L’Olivetti non si era preparata ad un salto in avanti, perché al momento di passare dalla buona gestione all’innovazione – alla creazione di cose nuove -, non ne fu più capace, perché non c’era più lo spirito imprenditoriale di Adriano. De Benedetti propose di andare a comprare le partecipazioni da altre società. Partì il programma, che comprò a destra e a manca. Non nacque più un pensiero proprio. Il terzo treno passò. Questo portò al declino della Olivetti sul fronte dell’elettronica. L’informatica ormai era elettronica. Avendo perso questo terzo treno, l’Olivetti cadde.

Vorrei chiudere con una osservazione. La storia dell’Olivetti è esemplare come modello, per i suoi significati, per la storia del paese, ma evoca altre storie analoghe. Pian piano, stiamo abbandonano uno dopo l’altro tutti i settori industriali qualificanti. La stessa storia la si può scrivere per la chimica, per la farmaceutica e non è una buona cosa. Allora, se questo ricordo di Adriano e della sua Olivetti deve aiutarci in qualcosa, deve aiutarci a ripensare a questa Italia innovatrice e rinnovatrice di cui Adriano fu uno dei punti di riferimento straordinari. È lì, oggi, come punto di riferimento e insieme pieno di contraddizioni, perché noi stiamo marciando in modo molto diverso e dobbiamo fare uno sforzo per ricollegarci a questa Italia. Nel linguaggio olivettiano si diceva: “dopo Adriano sono arrivati i contafagioli”, i fiscalisti, i finanzieri. Sono stati i contafagioli ad ammazzare l’Olivetti. Oggi però i contafagioli hanno vinto, non solo in Olivetti ma a tutto campo. Ma siccome i loro risultati sono pessimi, è venuto il momento di fare un bilancio. Adriano Olivetti ci può aiutare in questo bilancio.

NOTA: testo, non rivisto dall’Autore, della conferenza tenuta a Brescia il 30.4.2004 su invito della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura.