Il Nuovo Testamento, compimento dell’Antico

Già i primi cristiani malgrado la polemica, talora rovente, con l’ebraismo, riconoscevano unanimi come merito storico fondamentale d’Israele l’affermazione del monoteismo più rigoroso, e quindi, implicitamente, la continuità tra la sinagoga e la loro chiesa.
L’Antico Testamento, infatti, se letto con la consapevolezza storica del suo carattere evolutivo, ha per i cristiani di ogni tempo una validità permanente. Esso è un’insostituibile sorgente per capire che cosa è Dio e la vita con Dio, la giustizia e la misericordia di Jahvè, la speranza religiosa, il valore del singolo e la dimensione sociale della fede, l’esperienza dell’esodo e dell’esilio, l’elevazione della coscienza morale mediante la Legge, il male che s’annida nel cuore dell’uomo per poi dilagare nelle istituzioni prodotte e gestite dall’uomo. L’Antico Testamento è una scuola di vita e contiene mirabili tesori di spiritualità, di preghiera, di saggezza, di poesia. Doni così grandi non potevano però essere accolti che gradualmente dai popoli, in rapporto alle loro condizioni storiche.
Una verità in cammino – per quanto vada contro corrente, opponendosi a costumi ed idee dominanti – non si apre, d’altra parte, un varco nel cuore di coloro ai quali é proposta senza la contropartita, inevitabile, di rapportarsi ad una data situazione storica, incorporando a sè qualcosa di imperfetto e di provvisorio. Il cristiano avverte che Israele è parte del mistero di Dio che si rivela agli uomini e fa sue le parole di Paolo: “(Gli ebrei) sono amati a causa dei loro padri, perché i doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili” (Rm 11, 28-29). Espressione profonda, a cui fa eco quella pronunciata da papa Pio XI, quando l’hitlerismo trionfante stava per scatenare la più orrenda persecuzione contro gli ebrei: “Spiritualmente noi cristiani siamo semiti” (J. Maritain, Il mistero d’Israele, trad. it. Morcelliana, Brescia, 1964, p.142).

Dal Nuovo Testamento quale giudizio emerge sull’Antico? Gesù in quali termini esprime il suo atteggiamento nei confronti dell’Antico Testamento? Egli ne usa le immagini e le locuzioni, lo riconosce ispirato da Dio, collega la sua polemica antifarisaica ai Profeti, invoca la testimonianza che a lui rende la Scrittura ed inizia i discepoli alla sua comprensione. Gesù ha detto: “Non pensate che io sia venuto ad abolire le Legge ed i Profeti: non sono venuto per abolire, ma per dare compimento” (Mt 5, 17). Questa solenne affermazione fa in Matteo da introduzione alle nette antitesi (“Avete inteso che fu detto… ma io vi dico”) con cui Gesù mette energicamente al primo posto l’interiorità del cuore aperto a Dio e l’amore, dando così a tutta l’antica economia la forma nuova e definitiva, in cui si realizza il fine verso cui la Legge era avviata.
Per Gesù il legalismo ha prevalso per troppo tempo sulla originaria volontà di Dio; di qui l’accorato rimprovero: “Voi trasgredite il comandamento di Dio in nome della vostra tradizione” (Mt 15, 3). Le verità che la Legge ed i Profeti hanno portato nel mondo attraverso Israele non andranno perdute, avendo rilevato il Nuovo Testamento tutta l’indivisibile ricchezza del pensiero divino che la Torà racchiude. A causa di ciò il discepolo di Cristo sarà “simile ad un padrone che trae fuori dal suo tesoro cose nuove e cose antiche” (Mt 13, 52). Gesù non rifiuta nemmeno il tempio e il suo culto. Tuttavia egli insorge contro la profanazione della casa di Dio, dice di sè “qui c’è qualcosa più grande del tempio” (Mt 12, 6) e denuncia il farsi peccato del culto quando, invece di essere celebrazione dell’amore di Dio, fa passare in second’ordine “le prescrizioni più gravi della Legge: la giustizia, la misericordia e la fedeltà” (Mt 23, 24).

Per Ireneo, che scrive intorno al 180 Contro le eresie (trad. it. Jaca Book, Milano 1981), i due Testamenti sono plasmati della medesima sostanza e comunicano mirabilmente tra loro, sì che il passaggio dall’uno all’altro è dialettico proprio perché consiste nello sviluppo perfettivo, nell’approfondimento, nella festosa liberazione dal secondario e dall’inessenziale, assai più che nella contrapposizione. “C’è una sola salvezza ed un solo Dio, ma ci sono molti precetti per formare l’uomo e non pochi sono i gradini che conducono l’uomo fino a Dio. Un re terrestre, che pure è un uomo, può talvolta dare ai suoi sudditi avanzamenti più grandi: e Dio, che è sempre lo stesso, non potrà distribuire al genere umano in misura sempre maggiore la sua grazia? (IV, 9, 3)… Dio non cesserà mai di beneficare e di arricchire l’uomo, né l’uomo cesserà mai di essere beneftcato ed arricchito da Dio. Colui che si apre a Dio sarà sempre in perfetta crescita, progredirà sempre verso Dio” (IV, 11, 2).
Per i cristiani il Logos incarnato, Gesù Cristo, toglie di mezzo e nello stesso tempo assume su di un piano più alto la figura, la promessa, il preannuncio che strutturano l’Antico Testamento nel momento stesso in cui egli viene come loro effettivo compimento. Nell’Antico Testamento il Logos era, appunto annunciato ed atteso,ma, osserva Ireneo, non era arrivato. Ed ecco che con Cristo la promessa si fa adempimento. “Se vi viene in mente – scrive Ireneo – questo pensiero: Ma allora il Signore cosa è venuto a portare di nuovo?, sappiate che ha portato ogni novità, portando se stesso (omnem novitate in attulit, semetipsum afferensu) (IV, 34, 1).
Noi non riusciamo oggi ad immaginare lo sconvolgimento che questa affermazione portò nell’anima antica. L’umanità fu sollevata nella speranza. Il Dio trascendente e amico degli uomini apriva a tutti una via che nulla avrebbe potuto più chiudere. Di qui quel sentimento di gioia intensa e di raggiante novità che si respira nel Nuovo Testamento ed in tutti i primi scritti cristiani.

Giornale di Brescia, 12.10.1988.