Il problema della libertà in Immanuel Kant

Parte prima

La libertà è il fulcro intorno al quale si raccoglie il progetto della modernità e Kant ne è stato l’interprete più radicale. Gli antichi Greci avevano sì un concetto di libertà, ma esso si limitava a caratterizzare innanzitutto la condizione del non essere schiavi. «Eleutheria è in Omero libertà dalla schiavitù e indipendenza dagli stranieri». Libero è semplicemente «il contrario di schiavo» (Momigliano, 1996: 72-3). Naturalmente già presso i Greci la libertà comincia ad acquisire uno spessore positivo in quanto libertà politica e ancor più presso i Romani. Per Cicerone, paladino della Repubblica romana, «Siamo nati per l’onore e la libertà». Un punto cardine è che per un Romano, così come per un Greco, «dove non c’è legge, non c’è libertas» (Momigliano, 1996: 85-6). «A Roma la libertà è una condizione giuridica, che certe leggi rendono molto precisa. Le leggi determinano che cosa è libertas in confronto con licentia. Licentia è il grande pericolo» (Momigliano, 1996: 87).

Prendo le mosse da qui, non solo per alludere allo scarto tra il modo in cui gli antichi e i moderni questionano sul problema della libertà umana, ma anche perché «Gli autori greci e latini erano la base della cultura non solo filosofica, ma umanistica di Kant, forse persino in misura maggiore di quanto fosse comune all’epoca. Si sa che per Cicerone, Seneca, Orazio, così come per i greci conservò una passione profonda» (Bacin, 2006: 8). Lo stretto, quanto necessario, compenetrarsi di libertà e vincolo legislativo – un punto cruciale per Kant – ha sì a che fare con il senso moderno di auto-nomia dei soggetti moderni, ma preserva anche un motivo antico, proprio in quanto disinnesca il rischio di far scadere la libertà ad arbitrio individualistico.

Se dovessi invece tentare di evocare, sia pure sommariamente, i debiti della libertà kantiana nei confronti del versante teologico giudaico-cristiano, questa mia relazione non prenderebbe mai avvio. Mi limito a due accenni. Il primo riguarda le importanti dispute filosofiche e teologiche sulla libertà umana che concernono il peccato originale: come può un nuovo nato essere colpevole di un peccato che non ha ancora commesso? Il monaco britannico Pelagio, attivo tra Roma e Cartagine all’inizio del V secolo d.C., affermava la libertà dell’uomo di compiere il bene e il male – si veda la Lettera alla nobildonna Demetriade −, e il pelagianesimo divenne poi la dottrina, condannata dalla Chiesa, che negava l’ereditarietà naturale e congenita del peccato di Adamo. Sant’Agostino avversò in modo veemente la prospettiva pelagiana perché vi scorgeva l’inaudita pretesa da parte degli uomini di «simulare l’onnipotenza divina» (Agostino, Confessioni, Libro II, cap. VI). Per Agostino l’uomo è un servo, capace solo di odiare la legge che lo tiene prigioniero, e quindi non può rendersi da sé solo autenticamente libero. Soltanto Dio – per Agostino – può donare una vera liberazione da tutti gli ostacoli e i condizionamenti che separano l’uomo da Dio stesso e quindi dalla grazia.

Kant potrebbe sembrare più vicino a posizioni pelagiane che agostiniane, eppure la libertà kantiana, per quanto pesi tantissimo sulle spalle dell’essere umano, frutto della “scommessa” che ciascuno di noi possa scegliere in maniera ragionata e responsabile se agire in modo giusto oppure malvagio, la libertà kantiana, dicevo, non è sinonimo di responsabilità onnipotente, ma viceversa fa tutt’uno con la finitezza umana e quindi anche con i limiti assegnataci dalla natura. Altrimenti tutto cadrebbe in preda all’astrattezza che rende l’esercizio della libertà, specie la libertà morale, un mito moralista fondato sulla presunta perfezione umana e sull’attribuzione di un potere onnipotente a quella piccola parte della natura che è l’essere umano.

Ora, Kant cresce in un ambiente di stampo pietista, imbevuto di luteranesimo. Ebbene per Lutero, in consonanza con San Paolo e Sant’Agostino, e forse, sotto questo profilo, come l’ultimo dei medievali, anziché come il primo dei moderni, «il libero arbitrio non spetta altri che a Dio». Certo, prosegue Lutero, «[Dio] non opera in noi senza di noi», ma «le cose sono compiute dal solo Spirito, che senza di noi ci rigenera». «Noi cooperiamo», tuttavia «qual è il ruolo assegnato al libero arbitrio [umano]? Anzi, che spazio gli è lasciato? Nessuno, assolutamente nessuno». Inoltre, insiste Lutero, «il libero arbitrio umano non può volere niente di buono» (Martin Lutero, De servo arbitrio, 1525: 179, 265, 354-5).

Non si esagera, quindi, se si sottolinea lo scarto significativo, la cesura netta, prodotta dalla riflessione kantiana sulla libertà umana rispetto all’impianto luterano. L’alternativa rigida per cui noi esseri umani o siamo servi di Dio oppure siamo servi di Satana (De servo arbitrio: 347) in Kant viene meno. Si dissolve, kantianamente, 1. perché non siamo servi; 2. perché siamo liberi anche quando agiamo in modo malvagio; 3 perché la natura umana non è intrinsecamente corrotta e dunque da redimere in forza di altro dall’uomo; 4. perché la libertà umana non mette in pericolo il rapporto dell’uomo con Dio, ma viceversa è il primo modo attraverso cui l’essere umano alza la testa dal piano dei bisogni e degli interessi più immediati e materiali, sino a pensare Dio e a poterne affermare l’esistenza; 5. perché la libertà umana è tale solo in quanto si distingue dall’arbitrio arrogante e senza regole.

Com’è noto, Kant giunse assai tardi − ossia tra i suoi 57 e 66 anni, che nel Settecento erano un’età considerevole − a scrivere le tre Critiche per cui oggi, prevalentemente, continuiamo a ricordarlo e a studiarlo. Egli tuttavia racconta che furono almeno due gli incontri filosofici, precedenti, che risultarono decisivi nello scuoterlo dalle sue consuetudini di pensiero, l’incontro con David Hume e quello con Jean-Jacques Rousseau. Ebbene Kant impatta gli scritti di Rousseau non appena essi vengono pubblicati, ossia nel 1760-1764, ed è questa l’esperienza che ne propizia la trasformazione in direzione morale. Così, nelle note che egli riporta in margine alla sua copia personale delle Osservazioni sul bello e sul sublime, si legge: «Io disprezzavo il popolino che non sa niente, Rousseau mi ha portato sulla giusta strada» (Kant, 1764: 68). Kant racconta che prima era interessato solo al sapere e alla conoscenza, e quindi misurava il valore di un uomo in base alla quantità di sapere teorico accumulato, in contrasto con l’ignoranza imperante tra i più. «Vi è stato un tempo in cui ho creduto che acquisire conoscenza costituisse il punto d’onore dell’umanità» (ibidem), ora invece premono i limiti di tutto ciò, «per non restare in ostaggio dell’amore per i fenomeni» (Kant, 1764: 135). Le considerazioni di Rousseau spronano Kant ad abbandonare ogni intellettualismo e ogni teoreticismo, per scoprire invece l’importanza primaria di quanto ha rilevanza morale, ossia pratico-morale. La dignità di un essere umano non si misura in base all’estensione della sua erudizione. Un individuo può aver accumulato conoscenze sterminate quanto accurate, “può sapere tutto”, e tuttavia restare uno schiavo, senza libertà, senza orizzonte morale, senza autentica umanità. È un aspetto, questo, che nutrirà e sostenterà in maniera decisiva pure la svolta criticista: il reciproco compenetrarsi di libertà e moralità trova una realizzazione anche nel lavoro filosofico come esercizio critico capace di liberare gli umani da illusioni, superstizioni e fanatismi.

Forse, però, l’autentico contributo di Rousseau consiste nell’aiutare Kant a riconoscere che vi è del buono nella natura umana – Rousseau infatti andava sostenendo che è la società a corrompere e a rendere schiavo l’essere umano, la cui condizione naturale sarebbe invece la libertà e l’eguaglianza. In fondo, almeno in Kant, ciò si traduce in una spallata al moralismo: il bene non è estraneo all’essere umano, la natura umana non è irrimediabilmente malvagia e corrotta, in attesa di una liberazione estrinseca. Senza affatto diventare un ottimista naif o semplicista, Kant riconosce che la possibilità di scegliere il giusto e di agire in modo virtuoso è comunque costitutiva dell’essere umano, che dunque non deve attendere dall’esterno la redenzione. Il che però − e questo è un punto altrettanto decisivo − non implica che allora con la propria potestas libertatis e la propria capacità di ragionamento morale l’essere umano kantiano possa pretendere di portarsi alle spalle della possibilità del male, per sradicarla o addomesticarla una volta per tutte. Da un lato «buono o cattivo» non sono proprietà biologiche del fenomeno ‘uomo’, bensì, necessariamente, «un effetto del suo libero arbitrio» (Kant, 1793: 47), dall’altro l’aprirsi della nostra possibile libertà fa tutt’uno con la possibilità di agire bene o di agire male, e il male si presenta con la stessa inaggirabile radicalità della libertà umana (Kant, 1793: 33). Questa si dispiega come bene e come male. Tolta la possibilità del male è tolta anche la libertà umana.

Parte seconda

Va ricordato che rispetto a tutti i contesti storici e filosofico-teologici precedenti, alcune novità rendono la riflessione kantiana sulla libertà del tutto peculiare. Lo scenario moderno è infatti segnato dall’irruzione di due fattori piuttosto ingombranti, che oggi forse tendiamo a dare quasi per ovvi: l’arbitrio soggettivo individuale e il determinismo naturalistico. Kant è quindi costretto a cimentarsi con aspetti che per un greco oppure un cristiano premoderno restavano in posizione del tutto minoritaria. Una volta nato il senso individualistico di io, la questione della libertà diventa il problema se ammettere o arginare una libertà intesa come esercizio arbitrario e senza legge, pericoloso per gli altri e per noi stessi. D’altro canto il necessitarismo della natura greca è sostituito dal ferreo determinismo naturalistico delle scienze moderne.

Ai giorni nostri il naturalismo, specie attraverso i grandi progressi compiuti dalla biologia e dalla neurofisiologia, ha fatto un ritorno in grande stile ed è per questo che acquistano rilevanza le mosse kantiane volte a togliere terreno alle pretese monopolistiche del naturalismo scientista. Peraltro, già molti dei pensatori vicini a Kant sono sostenitori di un ferreo determinismo naturalistico e materialistico, si pensi a Diderot e Voltaire, oppure a Hobbes e Hume. Proprio l’accezione hobbesiana di libertà, per la sua forza persuasiva e per l’influenza storica che ha esercitato, riveste un’importanza esemplare. Nel capitolo 21 del Leviatano, per esempio, viene sottolineato come siamo parte della natura e quindi sottoposti alle sue leggi ferree, e nondimeno possiamo dirci liberi quando nessun impedimento esterno ostacola il nostro movimento. Certo questo movimento è vincolato dalle leggi ferree di un meccanismo (vivente) e tuttavia, tutte le volte che esso non è ostacolato dall’esterno, è libero. Così, insiste Hobbes, l’acqua di un ruscello scende a valle necessitata dalla forza di gravità, ma essa è libera di scorrere in quanto nessuna roccia o argine glielo impedisce. All’essere umano basta la libertà di Hobbes? Certo non all’uomo di Kant. Alla maniera di Hobbes molti deterministi odierni (si veda per esempio Dennett, 1984: passim), aggiungono che, anche se non siamo veramente liberi, il nostro sentirci tali e proclamare di esserlo è comunque un’utile finzione, che propizia il dispiegamento morale, ordinato e responsabile dei nostri comportamenti. Viceversa, per Kant, nemmeno se obbedissimo fedelmente alla più sublime e alla più giusta delle leggi, la nostra azione avrebbe così un valore morale. «Un gioco meccanico di inclinazioni squisite» (Critica della ragion pratica, 1988: 177-178) o una pedissequa conformità alla legge, ossia un agire che, pur “perfetto”, non scaturisse dalla libertà legiferante del soggetto, capace di comandare così la sua volontà, resterebbero lontani da una vera moralità. “Marionette virtuose” che non si trovassero mai a contrastare la propria tendenza a comportarsi male oppure che raccontassero a se stesse di essere “personaggi liberi”, senza essere veramente responsabili di alcunché, costituirebbero per Kant la soppressione controfinale della nostra umanità e della nostra dignità.

Supponiamo che io mi trovi di notte in una strada della mia città. Sono pieno di tensione e di rabbia, la banca dove lavoravo mi ha licenziato oppure ha bruciato tutti i miei risparmi vendendomi delle azioni inaffidabili. Non c’è in giro nessuno, né passanti, né polizia, e nemmeno sono presenti telecamere di sorveglianza. Sono preda di un forte impulso a scaricare tutta la mia rabbia rompendo la vetrina dell’istituto di credito davanti al quale mi trovo. Perché non dovrei farlo? Forse per il timore di essere comunque scoperto e punito? Oppure per ottenere indietro il compiacimento di essermi comportato “come si deve”? Non sono queste le risposte di Kant. Forse perché la mia banca non se lo meriterebbe? La risposta di Kant scavalca ogni logica del merito e della pena ed è risposta per certi versi sorprendente: perché sono libero e quindi devo, e dunque posso, “compiere il mio dovere”. Nel conflitto, anche drammatico, tra il ribollire dei miei sentimenti, e l’altra possibilità, quella di rispettare la legge morale, eviterò di scadere a “marionetta” in balia dei miei privatissimi umori neri, e sarò invece all’altezza della mia dignità umana, se e solo se saprò autolegiferare sulla mia condotta. Kantianamente ‘sono libero’ significa non solo essere capace di valutare razionalmente che cosa sia giusto fare, ma anche che questo ragionamento morale diventa un effettivo movente del mio agire – la ragione da ‘pura’ si manifesta così come ‘pratica’. Infatti valutare che un’azione sia buona non significa ancora essere motivati a compierla (Bacin, 2006: 122, 124, 127). La libertà trascendentale si dispiega quindi come libertà pratica proprio quando la legiferazione razional-morale si rivela come forza che muove la nostra volontà.

 Essere liberi equivale a essere capaci di autogovernarsi e dunque di obbedire a una regola di comportamento che da un lato ci si dà da sé, soggettivamente, e dall’altro, però, è regola (massima) che il ragionamento giudica essere compatibile con una legislazione valida per tutti. Siamo liberi obbedendo! Sottoponendoci a vincoli legislativi che ci autoimponiamo ragionando, siamo obbedienti senza essere schiavi. «La volontà non è semplicemente sottoposta alla legge, ma lo è in modo da dover essere considerata autolegislatrice, e solo a questo patto sottosta alla legge (della quale è autrice essa stessa)» (Fondazione della metafisica dei costumi, 1785: 64). Da un lato siamo liberi in quanto niente o nessuno ci forza dall’esterno ad agire in un certo modo, dall’altro siamo liberi, si noti bene, anche dal nostro “caro io” e quindi da ogni “dittatura interna”, ossia da quanto verrebbe dettato dal vorticoso meccanismo delle nostre passioni e dei pensieri che vanno loro appresso. La libertà kantiana, allora, si solleva oltre l’arbitrio soggettivistico proprio diventando auto-nomia, ossia potere di auto-legiferare sul proprio comportamento senza seguire la legislazione empirica della natura – nemmeno della “propria” natura. Essere liberi è obbedire a se stessi, ma nel contempo equivale a obbedire a quanto emerso da un ragionamento pratico e quindi non frutto di una qualche autoreferenzialità, ancora coatta o privata. Peraltro a ragionare sono proprio io, e quindi sono libero-autonomo anche in quanto non mi limito a prendere atto delle conclusioni prodotte da un calcolo razionale di tipo morale. Questo tipo di ragionamento pratico, inoltre, sopravanza ogni autoreferenzialità in quanto coinvolge implicitamente tutti gli altri soggetti umani. Scegliendo la giusta condotta, o quella che invece trasgredisce la legge, io ragiono e così tengo implicitamente conto anche di ciò che rispetta la volontà degli altri individui. «La ragione riferisce ogni massima della volontà, in quanto legislatrice universale, a ogni altra volontà e a ogni azione verso se stessa e ciò […] sul fondamento dell’idea della dignità di un essere ragionevole che obbedisce solo alla legge da lui stesso istituita» (Fondazione della metafisica dei costumi, 1785: 68).

Riusciamo non solo a comprendere, ma anche ad apprezzare l’accezione kantiana di libertà, se realizziamo che essa non è contrapposta, ma anzi, attraverso l’auto-nomia, facente tutt’uno con il vincolo legislativo – eterogeneo rispetto a quello naturalistico −, e soprattutto se afferriamo quello che forse è il punto più decisivo: l’essere umano in quanto soggetto morale non è schiavo nemmeno della legge a cui si autosottopone. Kantianamente il dovere morale è un imperativo categorico che cioè comanda senza dipendere né dalle circostanze né da qualsivoglia vantaggio, ma il non poter ridurre a strumento l’obbligazione morale fa tutt’uno con il non poter ridurre a mezzo l’essere umano. La dignità umana si mostra e si compie nell’irriducibilità di ogni persona a un mezzo o a uno strumento, e ciò vale anche per il suo agire morale: 1. Essere liberi significa essere fini a se stessi, e quindi a non essere strumentalizzati; 2. Compie il proprio dovere chi agisce in modo da sottoporsi a una regola (massima) che, se dovesse valere come legge universale, preserverebbe l’essere fine a se stesso anche di ogni altro individuo; 3. L’obbedienza kantiana, quella che caratterizza un uomo libero e autonomo, esclude pure la possibilità che obbedire significhi ridursi a strumento della legge (della giustizia).

«Agisci in modo da trattare l’umanità, sia nella tua persona sia in quella di ogni altro, sempre anche come fine e mai semplicemente come mezzo» (Fondazione della metafisica dei costumi, 1785: 61). «È la partecipazione alla formulazione di leggi universali che consente all’essere ragionevole di essere membro di un regno dei fini possibili; alla qual cosa lo destinava già la natura sua propria di fine in sé» (Fondazione della metafisica dei costumi, 1785: 69)

Parte terza

Sin dal periodo precritico Kant aveva ben chiaro che, per quanto condivisa da molti, tutta l’appassionata difesa dell’esistenza della libertà umana poteva e può ridursi a una tappa dell’autoadulazione dell’uomo, il quale non accetta di essere un piccolo ingranaggio vivente della macchina della natura e quindi postula soluzioni capaci di metterlo al riparo dall’umiliazione del naturalismo e del determinismo, materialista il primo, fatalista il secondo. Tuttavia va sottolineato come Kant sia sempre stato un realista e un empirista – in un senso, grazie all’autocritica trascendentale della ragione, immune da ogni riduzionismo scientista −, e ciò lo ha sempre indotto a sospettare criticamente di richieste morali e meta-fisiche che oltrepassino irrealisticamente le capacità umane e l’orizzonte dell’esperienza sensibile (Ameriks, 2012: 8-9).

 Non è esagerato affermare che l’intera impresa criticista è tutta volta a riconoscere i limiti dell’esperienza conoscitiva oggettiva, in modo da preservare la possibilità di quanto attiene alle questioni morali e religiose, senza però travalicare o disconoscere questi limiti – si vedano i paragrafi 57-60 dei Prolegomeni a ogni futura metafisica. Il punto cruciale è che a Kant non basta un’argomentazione di tipo “esigenzialista”, circolare in un senso vizioso e comunque debole: se le azioni dell’uomo sono solo determinate da ciò che precede nel tempo, non c’è scampo per la libertà, ma quindi nemmeno per la responsabilità e la morale (Critica della ragion pratica, 1988: 245); ciò comporterebbe un fatalismo inammissibile, ossia l’azzeramento di ogni “esigenza” meta-fisica umana, dunque dobbiamo ammettere la nostra libertà.

Così come Kant non si affida a voli onirici o a proiezioni irreali che soddisfino quanto l’esperienza oggettiva non può attestare, nemmeno gli può bastare un’argomentazione circolare come quella appena delineata.

«La libertà è una semplice idea, la cui realtà oggettiva non può essere attestata in alcun modo mediante leggi naturali e perciò neppure in qualche esperienza possibile» (Fondazione della metafisica dei costumi, 1785: 102). «La supposizione di questa libertà della volontà […] non solo è possibilissima (come la filosofia speculativa può far vedere), ma è altresì necessario […] porla praticamente, cioè in idea, quale condizione di tutte le sue azioni volontarie» (Fondazione della metafisica dei costumi, 1785: 105).

Ecco, l’intero esame autocritico trascendentale della ragione ha per scopo di mostrare la possibilità della libertà umana sotto il profilo teoretico-conoscitivo e la necessità di essa sotto il profilo pratico. È qui che si palesa come fulcro decisivo la distinzione tra fenomeno e cosa in sé, troppo spesso confusa con una distinzione tra due tipi di cose o tra due mondi, uno empirico e uno irreale, meramente intelligibile – un fraintendimento nutrito e diffuso da tante letture di marca schopenhaueriana. Eppure Kant, già nella Prefazione alla seconda edizione della Critica della ragion pura, è decisamente chiaro nel sottolineare come si tratti di una distinzione critica, anziché ontico-empirica, che «insegna a prendere l’oggetto in un duplice significato, ossia come fenomeno oppure come cosa in se stessa». La stessa cosa può essere conosciuta come fenomeno oggettivabile in senso empirico oppure può essere considerata in se stessa, pensata come noumeno regolativo oppure affermata positivamente sul versante pratico-morale. La stessa volontà, nel medesimo soggetto umano, è sottoposta in quanto fenomeno alla necessità naturale, ma deve poter essere libera in quanto cosa in se stessa. L’esito più importante dell’esame autocritico della ragione è infatti che nessun modo di rappresentare le cose, nemmeno quello conoscitivo esperienziale, che più di tutti è legittimato a dirci che cosa sia veramente reale, può mai saturare la totalità dei significati delle cose (Allison, 2012: 122-123). Chi si illude di poter determinare tutti i possibili significati di qualcosa manca di consapevolezza critica e perciò dimentica o ignora che nessuna realtà si autoconosce (Ameriks, 2012: 79), ma piuttosto acquista determinatezza semantica in quanto dipende dalle condizioni procedurali e categoriali in forza di cui ce la rappresentiamo. Ciò implica che persino il determinismo causale, che per Kant, finché non diventa dogmatico fatalismo, mantiene la massima validità oggettiva, è frutto di un lavorio di ricostruzione e di applicazione di specifici schemi e procedure, e questo esclude che esso possa esaurire tutte le possibilità. Anziché inerpicarsi sul mito del noumenico o di un secondo mondo soprasensibile, trattati come presunte sostanze meta-fisiche (Allison, 2012: 95), Kant si limita a mostrare che dal punto di vista conoscitivo oggettivistico non si può né dimostrare né determinare che la libertà non esista e che siffatta possibilità, oltre che non-contraddittoria, resta legittimamente pensabile. In altri termini, il criticismo, senza indebolire la validità della conoscenza esperienziale, ne limita però l’estensione, chiamando dogmatica ogni eventuale pretesa di monopolizzare il determinabile e il pensabile. Quanto poi dal punto di vista conoscitivo oggettivistico è solo una possibilità, dal punto di vista pratico-morale diviene una possibilità reale ed effettiva (Allison, 2012: 120) e anzi una necessità.

Le osservazioni più pregnanti, e anche più discutibili, Kant le dedica al problema della compatibilità tra temporalità e libertà. Il tempo infatti non è in nostro potere e anzi è proprio quanto sembra escludere la possibilità della nostra libertà. Poiché infatti ciò che accade è necessariamente condizionato da quanto precede nel tempo, «io non sono mai libero nel momento in cui agisco» (Critica della ragion pratica, 1988: 238). Ecco perché Kant ritiene che l’autentica svolta, che partorisce l’intero sistema criticista e schiude un varco decisivo alla moralità, avvenga quando egli “scopre” filosoficamente «l’idealità [trascendentale] dello spazio e del tempo». È solo in quanto presi dalla relazione sensibile con le cose che siamo condizionati dal tempo (e dallo spazio) in un modo che esclude il potere della nostra libertà. Ma nemmeno questa relazione sensibile, pur così reale e determinante, è una cosa in se stessa capace di monopolizzare e ridurre a sé tutte le possibilità. Infatti, insiste Kant, come mai davanti a una situazione reale ingiusta, oppure quando siamo in procinto di scegliere come agire, ci ritroviamo a ragionare, a pensare e a volere quanto non è necessariamente dettato dalla sensibilità e quindi nemmeno dalle circostanze spazio-temporali? Così, secondo Kant, si manifesta la nostra libertà, ossia la possibilità di non dipendere dalle condizionanti relazioni temporali (e spaziali), e la necessità, squisitamente pratico-morale, di essere realmente liberi, volendo che sia quanto segue la legge morale, anziché la necessità naturale. Perciò si legge in una celebre nota contenuta nella Prefazione della Critica della ragion pratica (Kant, 1988: 136): «la libertà è senza dubbio la ratio essendi della legge morale, ma la legge morale è la ratio cognoscendi della libertà».

CONCLUSIONE

Gli aneddoti biografici raccontano che Kant fosse di indole socievole e amante della convivialità – tema valorizzato da lui anche filosoficamente (Tagliapietra, 2016: 61-66) −, e comunque persona estremamente equilibrata. Solo in un’occasione sarebbe stato visto irato e aggressivo: camminando per Königsberg vide un mendicante, piegato, genuflesso, a chiedere l’elemosina. Ebbene, pare che il mitissimo e rispettoso Kant abbia perso le staffe e quasi preso a calci e a colpi di bastone quel mendicante. Non ce l’aveva con quel singolo tizio, né si stava indignando perché il decoro della città ne risultava compromesso. Il suo sdegno irato era dovuto all’offesa arrecata alla dignità che spetta a essere umano. Siamo sì una piccolissima cosa nell’universo eppure la dignità ci è costitutiva. È quella scintilla che ci fa camminare a testa alta, che non ci fa prostrare e umiliare deferenti dinanzi al Re o a qualcuno più potente di noi. È la dignità umana che appartiene a chiunque, anche a chi non ha studiato o proviene da una classe sociale subalterna o ricco non è. “Alzati e cammina”, così l’Illuminismo kantiano ripete a ciascuno di noi, traducendo in maniera secolare, del tutto intramondana, la promessa evangelica della liberazione umana. È una rinascita la cui sublimità non contraddice né disconosce la nostra finitezza, il nostro essere “figli della terra”.

NOTA: testo, rivisto dal’Autore, della conferenza tenuta a Brescia il 15.4.2016 su invito della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura.

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI.

Scritti di Immanuel Kant:

1764, Bemerkungen in den ‘Beobachtungen über das Gefühl des Schönen und Erhabenen’, a cura di M. Rischmüller, Felix Meiner, Hamburg 1991;

1785, Fondazione della metafisica dei costumi, trad. it. di P. Chiodi, BUL Laterza, Roma-Bari 1990;

1788, Critica della ragion pratica, in Critica della ragion pratica e altri scritti morali, a cura di P. Chiodi, UTET, Torino 2006;

1793, Della coesistenza del principio cattivo accanto a quello buono o del male radicale nella natura umana, in La religione entro i limiti della sola ragione, a cura di M. Olivetti, Laterza, Roma-Bari 1994, cap. I, pp. 17-57.

ALLISON, Henry E. (2012): Essays on Kant, Oxford, Oxford University Press;

AMERIKS, Karl (2012): Kant’s Elliptical Path, Oxford, Clarendon Press,

BACIN, Stefano (2006):Il senso dell’etica. Kant e la costruzione di una teoria morale, Bologna, Il Mulino;

DENNETT, Daniel (1984): Elbow Room: The Varieties of Free Will Worth Wanting, MIT Press, Cambridge;

MARTIN LUTERO (1525): De servo arbitrio, trad. it. di F. de Michelis Pintacuda, Claudiana, Torino 1993;

MOMIGLIANO, Arnaldo (1996), Pace e libertà nel mondo antico, a cura di R. Di Donato, Firenze, La Nuova Italia;

TAGLIAPIETRA, Andrea (2016), Kant e la convivialità. Variazioni sul paradigma simbolico dell’assimilazione, in Filosofia e Teologia (rivista ESI), n. 1, pp. 58-74.