Platone, il padre di ciò che è idea e pensiero

Ralph Waldo Emerson, il più affascinante pensatore statunitense del XIX secolo, nel 1845-46, tenne una serie di conferenze su “Uomini rappresentativi”. Quelle conferenze furono raccolte in un volume che ebbe vasta risonanza e nelle pagine dedicate a Platone si legge: “Da lui ha origine tutto ciò che si scrive e si discute tuttora tra gli uomini di pensiero”. È vero, la conoscenza di Platone è fondamentale, è qualcosa da cui non si può prescindere. Egli non è certamente la filosofia, come pure qualcuno ha scritto, perché nessun uomo potrà mai esaurire le conquiste dell’umana ricerca del vero, ma non è difficile consentire con il Reinach e il Reale che vedono in lui il filosofo per eccellenza, “il più grande filosofo in assoluto”. La lettura dei suoi scritti è quindi un passaggio obbligatorio e insieme un’esperienza esaltante, almeno per quanti hanno compreso che tutti in un certo senso debbono farsi filosofi nella misura in cui vogliono diventare veramente uomini. Occorrerebbe cominciare con i dialoghi di illustrazione e difesa di Socrate, come quelli interpretati da Romano Guardini in uno dei suoi scritti più belli, “La morte di Socrate”, tradotto in italiano dalla Morcelliana, per poi gradualmente risalire ai dialoghi della sintesi sistematica: “Repubblica”, “Fedro”, “Fedone”, “Simposio”, “Teeteto”. Coloro che vogliano infine esplorare il Platone dialettico e della revisione del sistema dovranno fare i conti con le ultime opere della sua vigorosa vecchiaia, che sono però di non facile lettura. Un’analisi chiarissima e organica di tutti gli scritti platonici ci viene data nello stupendo volume, “Platone-L’uomo e l’opera”, di Alfred Edward Taylor, pubblicato in italiano da La Nuova Italia di Firenze. Ed è un vero godimento starsene in compagnia dei due volumi, “Studi platonici”, di Hans Georg Gadamer, editi dalla Marietti, così come del “Platone-Alla ricerca della sapienza segreta”, di Giovanni Reale, pubblicato da Rizzoli.

Il suo nome vero sarebbe stato Aristocle, ma dai contemporanei e dai posteri fu chiamato Platone, che significa largo: largo per il suo grande volto e l’imponenza del suo aspetto, essendo un vero e proprio “fusto”, o, come altri dicono, largo per l’eccezionale vastità del suo spirito. L’arco cronologico della sua vita è compreso tra il 427 e il 347 a. C. e quando Socrate fu messo a morte, nel 399, Platone aveva ventotto anni. Scrisse allora la sua opera prima, l’“Apologia di Socrate”. L’incontro tra i due – decisivo per i loro destini personali, ma anche per quelli della civiltà occidentale e del mondo intero – era avvenuto un decennio prima. Diogene Laerzio ne parla in questi termini: “Si racconta che Socrate abbia sognato di tenere sulle ginocchia un piccolo cigno, che mise subito le ali, volò via e cantò dolcemente, e che il giorno successivo si presentò a lui Platone, ed egli disse che quel piccolo cigno era proprio lui” (“Vite dei filosofi”, III, 5). Platone fu in effetti il più geniale discepolo e continuatore di Socrate, il suo più alto capolavoro; ed è inevitabile chiedersi che cosa mai sarebbe giunto a noi di Socrate senza la testimonianza appassionata di un discepolo come Platone.
L’insegnamento e la tragica morte di Socrate costituirono per Platone il più grande pungolo, ma anche il più alto dramma. Un padre è assassinato, non un padre secondo il sangue, ma un padre secondo lo spirito: un uomo che è stato incomparabile maestro di sapienza e padre della parte migliore dell’anima. Ma c’è di più: con Socrate viene ucciso il giusto, e non cade vittima di un delitto, o di un tradimento interessato, ma in forza di una solenne sentenza pubblica emanata da un potere legittimo, nella democrazia ateniese. Egli è stato ucciso non in base a una condanna legale per delle colpe, ma proprio per la sua giustizia, per la sua indomita decisione nell’assolvere fino in fondo il proprio dovere. Il destino di Socrate venne deciso dalle parole che egli pronunciò davanti ai giudici: “Io vi rispetto e vi amo, cittadini ateniesi, ma devo obbedire a Dio più che a voi, e finché avrò forza e respiro non smetterò di filosofare, di esortarvi e di correggervi con i miei soliti discorsi” (“Apologia”, 29e). La tragedia sta nel fatto che la migliore società umana del tempo, Atene, non aveva potuto sopportare la testimonianza nuda e semplice di un giusto. La vita sociale si era, dunque, rivelata incompatibile con la coscienza personale e la morte era il risultato inevitabile per un uomo come Socrate. La tragica forza di questa situazione fu colta in tutto il suo significato da un’individualità elevata e ricca come quella di Platone.

In uno dei suoi ultimi scritti, “Il dramma della vita di Platone”, apparso nel 1898 e pubblicato in italiano nel volume “Il significato dell’amore e altri scritti” (La Casa di Matriona, Milano 1983), Vladimir Solov’ëv sottolinea la differenza abissale fra Amleto e Platone. Quando Amleto pronuncia il suo essere o non essere, egli intende “essere o non essere per me, Amleto”. Il problema è personale e tutto il monologo ruota attorno a elementi personali: i colpi del destino, la malerba che cresce nel giardino dell’esistenza, i sogni dell’oltretomba. Per Platone, invece, il problema è un altro: il dilemma “essere o non essere” deve essere applicato al destino della giustizia sulla terra. Si tratta di un problema universale, anche se è evidente che il suo significato profondo poteva essere percepito pienamente solo da una personalità superiore; ma sta appunto in questo il vero accordo, l’autentica sintesi dell’universale e dell’individuale, del principio soggettivo e di quello oggettivo nel dramma. E tale sintesi, che nessun poeta poteva mai immaginare, si è realizzata nella realtà della storia e costituisce la vera fonte ispiratrice della filosofia platonica.
Si comprende allora perché Socrate sia il protagonista di quasi tutti i dialoghi di Platone, che non si stancò mai d’illustrare il significato vitale del messaggio, della personalità e del metodo del maestro, dall’“Apologia” alla commossa rievocazione del “Teeteto”. E così la più originale e la più bella filosofia è nata da un atto di rinnovata e profonda fedeltà, una fedeltà non di ripetizione ma di approfondimento e di sviluppo.

Giornale di Brescia, 31.1.2002. Articolo scritto in occasione dell’incontro con Giovanni Reale su “La personalità e il metodo di Platone”.