Kant tra cielo e legge morale

Immanuel Kant nacque il 27 aprile 1724 a Königsberg, nella Prussia orientale, e morì nella stessa città il 12 febbraio 1804. I suoi genitori erano di modesta condizione. Il padre, sellaio, era figlio di oriundi scozzesi; la madre, Anna Regina Reuter, era profondamente religiosa e frequentava i collegia pietatis promossi dal pastore Franz Albert Schultz, rettore del ginnasio Fridericianum e professore di teologia all’università. Kant ebbe a scrivere di loro: “I miei genitori sono stati per me un modello di probità, di onestà, di ordine; senza lasciare un patrimonio (ma nemmeno debiti tuttavia), mi hanno dato un’educazione che, dal punto di vista morale, non avrebbe potuto essere migliore, e per la quale ogni volta che penso a loro, mi sento preso dai sentimenti della più viva gratitudine”. La biografia scritta da uno dei primi studenti di Kant, il Borowski, rivista dallo stesso maestro e pubblicata solo dopo la sua morte nel 1804, reca il seguente giudizio: “Il padre desiderava un figlio laborioso e pienamente leale, la madre voleva anche un figlio pio. Il padre esigeva laboriosità e onestà, e aveva soprattutto orrore della menzogna, la madre santità”. La madre seppe ispirargli la devozione al dovere, la schietta fede morale, il saldo convincimento della sovranità del bene. Dagli 8 ai 16 anni Kant frequentò il Fridericianum, il collegio pietista diretto da Schultz, caratterizzato da una disciplina severa, da un pesante programma di studi e da una pratica ossessiva di esercizi di pietà che contribuì ad allontanare Kant dalla religione positiva, ma non dal sentire cristiano di sua madre. Iscrittosi alla modesta università di Königsberg, Kant si fece un suo piano di studi e volle conoscere quante più scienze poté. Dal 1747 al 1754 fece il precettore in casa di famiglie nobili della Prussia orientale e, come per il nostro Vico, quelli furono anni di intenso studio. Tornato a Königsberg, Kant iniziò la carriera accademica nel 1755, ottenendo la libera docenza. La posizione economica del magister era allora assai precaria: non aveva stipendio fisso, ma percepiva solo le quote di iscrizione dei suoi uditori e si sa che, quando gli capitava un giovane povero, Kant rinunciava all’onorario. Per guadagnarsi di che vivere, egli dovette tenere molte ore di lezione di logica e metafisica, ma anche di meccanica, aritmetica, geometria, trigonometria, geografia. Nel 1758, malgrado l’appoggio del suo maestro Franz Schultz, a Kant non fu assegnata la cattedra vacante di logica e metafisica: un episodio questo che ricorda quello di cui fu vittima Vico quando tentò di salire sulla cattedra di filosofia del diritto a Napoli. Nel 1766 accettò per necessità economiche il posto di vice bibliotecario nella Schloss Bibliothek di Königsberg: la biblioteca non era riscaldata, il pavimento era di pietra e d’ inverno il freddo era tale da far gelare l’inchiostro. Kant fu lì, a disposizione degli studiosi, due pomeriggi la settimana per parecchi anni. Nel 1770 si rese di nuovo vacante la cattedra di logica e metafisica e Kant poté diventare ordinario, a 46 anni, con una dissertazione che segnava l’orientamento critico del suo pensiero. Con raro esempio di probità scientifica, Kant attese oltre un decennio alla elaborazione del suo pensiero prima di pubblicare la “Critica della Ragion pura”.

Lo stile tormentato e l’ originalità delle tesi sostenute non contribuirono ad assicurare alla prima “Critica” un immediato successo e ancora oggi danno – a chi si ostini a separarla dagli sviluppi e dalle integrazioni della “Critica della Ragion pratica” e dalla “Critica del Giudizio” – un’immagine inadeguata del pensiero di Kant. Un contemporaneo deplorava «il rozzo e barbaro linguaggio della filosofia critica», non tenendo conto dello sforzo di un pensiero originale e profondo, proteso verso mete ben diverse e più lontane dall’espressione elegante o retorica. Ma il genio di Kant si rivelava sulla cattedra con potenza tanto suggestiva, che ispirò a un discepolo di ben diverso temperamento espressioni ammirate e nostalgiche. Johan Gottfried Herder, infatti, così ricorda Kant professore:”La sua vivacità intellettuale era giovanile, la fronte aperta, fatta per il pensiero, era sede di una lieta e inalterabile serenità. Il suo discorso fluiva sempre ricco e arguto dalle sue labbra e la storia degli uomini, dei popoli, della natura, la scienza fisica e matematica, l’esperienza erano le fonti da cui attingeva per alimentare le sue lezioni e la sua conversazione. Nulla che fosse degno di essere conosciuto gli era indifferente. Nessun intrigo, nessuna setta, nessun pregiudizio aveva per lui importanza di fronte alla verità. Egli incoraggiava e stimolava dolcemente a riflettere da sé». Kant affrontò tutti i problemi, scaturiti dall’Aufklarung e dallo Sturm und Drang, esaminò tutte le più travagliose e tormentose antinomie, che potesse porsi la sua mente scossa dalla scepsi humiana, senza che la sua audace speculazione intaccasse la certezza della legge morale, che egli volle anzi preservare da ogni possibile dubbio, enucleandola nella sua purezza teoretica e pratica dal magma incandescente delle motivazioni psicologiche. In questo aspetto del suo pensiero e della sua personalità egli si rivela come un’alta incarnazione del genio filosofico che non arretra dinanzi a nessun problema, a nessuna indagine, ma non permette che alcune possibili alternative del pensiero teoretico turbino le supreme certezze, senza le quali la filosofia stessa perde ogni significato autentico. La contenuta, anzi inespressa ricchezza di un’ anima grande traspare dalla chiusa della “Critica della Ragion pratica”: “Due cose mi colmano l’anima di sempre nuova e crescente ammirazione e rispetto, quanto più spesso e più attentamente il pensiero vi si rivolge: il cielo stellato sopra di me e la legge morale in me”. Nessun migliore epitaffio per la solitaria tomba di Königsberg, dove sono incise appunto queste ultime parole.

Kant morì nella sua Königsberg il 12 febbraio 1804; ma già da alcuni anni le ombre della senilità avevano invaso lentamente, fino a oscurarla, la mente che aveva indagato con spregiudicata audacia i limiti della ragione umana nei campi più ardui del sapere, spingendosi di là dai chiusi confini della critica all’ austera riaffermazione dei valori morali contro l’utilitarismo e lo scetticismo della sua epoca. Ma non mancavano nel suo coma vigil momenti di lucidità e allora l’umanità di quel genio trovava ancora modo di manifestarsi. Nove giorni prima di morire Immanuel Kant ricevette una visita del suo medico. Benché vecchio, malato e quasi cieco, si levò e se ne stette in piedi, tremante di debolezza, mormorando parole incomprensibili. Alla fine il suo fedele amico comprese che egli non si sarebbe seduto finché lui stesso non si fosse accomodato. Il che egli fece e Kant si lasciò accompagnare alla sua poltrona e osservò: “Das Gefuhl fur Humanitat hat mich noch nicht verlassen ("Il senso dell’umanità non mi è ancora venuto meno")”. I due uomini erano commossi fino alle lacrime. In realtà, benché il termine Humanitat significasse nel Settecento ormai poco più che educazione o buone maniere, per Kant aveva un significato molto più profondo che la particolare circostanza accentuava. Quella parola significava per lui la nobile e tragica consapevolezza di principi liberamente accettati e imposti a sè stesso, di fronte alle imposizioni esterne della malattia, della decadenza e di tutto ciò che si intende per condizione mortale dell’uomo. L’episodio è riferito da uno dei primi biografi di Kant, A. C. Wasianski, in “Uber Immanuel Kant”, vol.III, 1804. 

Giornale di Brescia, 7.2.2001. Articolo scritto in occasione dell’incontro con Giovanni Ferretti su “La personalità e il metodo di Kant”.