Karl Marx

«Non è la coscienza degli uomini che determina il loro essere, ma è l’esistenza sociale che determina la loro coscienza» (K. Marx)

Definizioni del marxismo

Il marxismo si è definito materialismo economico o storico, materialismo dialettico, socialismo scientifico.

Materialismo storico o economico è la dottrina che fa del rapporto di produzione della vita economica d’una società la base reale e la matrice effettiva dell’intero processo sociale, politico, etico, giuridico, religioso, culturale. La base economica di una società ne determina sia la struttura sociale sia nel suo complesso la psicologia delle persone che la compongono. Poiché la struttura sociale è determinata dai suoi fondamenti economici, ne consegue che il corso della storia è determinato dai cambiamenti che avvengono a livello di questi fondamenti economici.

Per materialismo dialettico si intende quella concezione della realtà naturale che sta a fondamento della concezione comunista, che estende i processi della dialettica (la conversione reciproca della quantità e della qualità, per cui è impossibile mutare la qualità di un dato corpo senza aggiungere o togliere della materia o del movimento; la compenetrazione degli opposti; la negazione della negazione) dalla storia della società umana alla natura. Karl Marx e Friedrich Engels concepiscono l’evoluzione come autogenesi e autocreazione, per cui il mondo esiste da se stesso, eterno, increato, per il processo stesso del suo sviluppo, autosufficiente nella totalità organica dei suoi momenti interrelativi e reciprocamente condizionantisi. Le affermazioni di Marx in questo campo sono state sviluppate da Engels con la Dialettica della natura e l’Antiduhring.

Il marxismo si definisce socialismo scientifico perché l’avvento di una società comunista è fondato su una certezza scientifica: una certezza che non nasce da un imperativo etico, da una determinazione morale, come pensavano i socialisti utopisti, ma dalla scienza totale della natura, dell’uomo e della storia.

Su questo punto Marx si appoggia esplicitamente alla dialettica hegeliana, che aveva la pretesa di essere l’unica visione autenticamente scientifica della realtà: in questo modo, mentre credeva di aver fatto compiere al socialismo il passaggio dall’utopia alla scienza, di fatto regrediva verso una visione animistica del mondo, caratterizzata dalla confusione tra nessi reali e nessi ideali, fra l’ordine delle idee e l’ordine della realtà.

«Certo, Marx definisce il suo metodo materialistico e non perde occasione per polemizzare con le filosofie idealistiche, che vedevano nello spirito il motore della storia; ma poi, curiosamente, attribuisce alle forze produttive ciò che è proprio dello spirito: il desiderio di trascendersi, di progredire, di tendere a una meta. Egli assegna al Weltmarkt lo stesso ruolo del Weltgeist hegeliano: quello di ordinare secondo un disegno prestabilito i materiali della storia e di orientarli verso quel rovesciamento dialettico dal quale sarebbe magicamente scaturita la riconciliazione finale dell’uomo con se stesso, con gli altri e con la natura. Così operando, egli costruì un materialismo provvidenzialistico, che è una contraddizione in termini, un mostro logico. Infatti, leggere in chiave materialistica il libro della storia significa rinunciare a vedere in essa un telos, concepire tutto in termini di cause efficienti ed escludere l’idea stessa di una causa finale. Dire che il processo storico è dialettico equivale ad accettare il provvidenzialismo hegeliano e quindi cadere di peso nel pensiero proiettivo, che converte i desideri in leggi oggettive […]. La nuova scienza che Marx ritiene di aver fondato pretende di essere contemporaneamente materialistica e dialettica: essa si presenta come superiore metodo in quanto, oltre a recuperare tutta la tradizione illuministica, la trascende poiché dimostra, more hegeliano, che il mondo ha un senso oggettivo, nella duplice accezione di direzione e di significato. Così, quella che all’empirismo e al criticismo appariva come un’impossibilità logica e ontologica – fondare una scienza dei fini – diventa, a partire dal momento in cui Marx costringe gli asserti dell’economia e della sociologia ad entrare nello stampo della dialettica, qualcosa di indiscusso e indiscutibile, poiché farlo equivale a porsi al di fuori del punto di vista della totalità, quindi guardare il mondo da un punto di vista parziale, limitato e, in definitiva, distorto. Tutto il disegno marxista di fondare scientificamente il socialismo si basa sulla possibilità di una conoscenza che sia materialistica e dialettica ad un tempo. Ripugnava a Marx vedere nel socialismo un semplice dover essere, un Sollen; e tutta la sua vita, conseguentemente, fu dedicata a dimostrare l’indimostrabile, vale a dire che i risultati dell’indagine scientifica portavano là dove egli desiderava che l’umanità alienata ponesse le sue tende: alla società comunista. Nel suo schema rigidamente deterministico deviazioni o incidenti di percorso non erano previsti. Il comunismo, come egli si esprime nel primo libro del Capitale, si sarebbe realizzato con la fatalità che presiede ai fenomeni della natura» (Luciano Pellicani, Miseria del marxismo, SugarCo, Milano 1984, pp. 47 – 48; 190 – 191).

L’uomo come essere naturale e soggetto della prassi

Contro la tesi idealistica che riduce la realtà ad un contenuto di coscienza, il marxismo – qui d’accordo con il realismo – afferma l’indipendenza del mondo esterno dalle rappresentazioni che di esso si forma il soggetto. Il mondo non è la storia dell’idea nel suo estraniarsi, non è l’uomo un’istituzione transeunte dell’Autocoscienza: occorre rimettere in piedi l’immagine del mondo e della storia capovolta dall’idealismo. (In questo «raddrizzamento» il marxismo finirà con l’incorrere nell’errore opposto dell’idealismo, riducendo tutta la realtà a materia). L’idea non è affatto il demiurgo del reale. «Per me – scrive Marx – l’ideale non è nient’altro che il materiale trasposto e tradotto nella testa dell’uomo». L’uomo è un animale di natura che produce una vita materiale cercando di soddisfare i suoi bisogni. L’uomo, che nei primordi della sua storia non può contare che su una pura coscienza di gregge, «non si differenzia dal montone se non in quanto il suo istinto si fa più cosciente» (Ideologia tedesca) ed in quanto comincia a produrre i propri mezzi di produzione. Gli uomini non trovano già fatti, ma producono i mezzi di sussistenza. Producendo i loro mezzi di sussistenza, gli uomini producono indirettamente la loro stessa vita materiale: il modo di produrre quelli determina il loro modo di vita. Ciò che gli individui sono dipende dunque dalle condizioni materiali della loro produzione.

Il rapporto tra l’uomo e la natura dev’essere quindi visto come rispecchiamento, come passività, ma anche in una prospettiva pratica e dinamica. Il reale, l’oggetto, il sensibile non dev’essere concepito come realtà statica che rimanga sempre uguale a se stessa, ma come il risultato della prassi, dell’attività trasformatrice dell’uomo. Il materialismo tradizionale e lo stesso Feuerbach si lasciarono sfuggire la considerazione che se gli uomini sono vissuti dalla storia, nondimeno la fanno e sono proprio essi a modificare l’ambiente da cui pure sono stati prodotti.

Due sono le assunzioni principali sulle quali Marx costruì la sua sociologia deterministica e monocausale. La prima, di natura logico-metodologica e della quale abbiamo già parlato, è che la dialettica non governa solo il pensiero, ma anche la realtà, e che perciò essa è in grado di assicurare il carattere necessario e progressivo del processo storico. La seconda, di natura sostantiva, è che le forze produttive sono le variabili indipendenti del mutamento sociale. Quest’ultima assunzione ha una grande rilevanza sulla stessa concezione dell’uomo. Secondo Marx infatti l’economico spiega l’economico e tutto ciò che economico non è, dal momento che «religione, famiglia, Stato, morale, scienza, arte, ecc. sono soltanto particolari modi della produzione e cadono sotto la sua legge generale» (Manoscritti etico-filosofici, III, 324). Nella Prefazione alla critica dell’Economia Politica del 1859, Marx afferma: «L’anatomia della società civile è da ricercare nell’economia politica. Nella produzione sociale della loro esistenza, gli uomini entrano in rapporti determinati, necessari, indipendenti dalla loro volontà. L’insieme dei rapporti di produzione costituisce la struttura economica della società, ossia la base reale sulla quale si eleva una sovrastruttura giuridica e politica e alla quale corrispondono forme determinate della coscienza sociale. Il modo di produzione della vita materiale condiziona, in generale, il processo sociale, politico e spirituale della vita. Non è la coscienza degli uomini che determina il loro essere, ma è l’esistenza sociale che determina la loro coscienza».

La base economica di una società ne determina sia la struttura sociale nel suo complesso, sia la psicologia delle persone che la compongono. Sebbene gli uomini siano autori della propria storia, il modo in cui la fanno, la realtà delle strutture del fondamento economico e la direzione che esso prende, sono determinati («La rovina della borghesia e la vittoria del proletariato sono egualmente inevitabili»).

Non che la vita dell’uomo si esaurisca nell’attività economica: l’uomo è anche moralità e religione, arte e scienza, diritto e politica. Si costituiscono sistemi di idee o ideologie, attraverso i quali gli uomini acquistano coscienza di sé, di quel che sono o credono o fingono di essere. Ma questi sistemi di idee o ideologie («ideologi» sono detti in senso dispregiativo da Marx tutti i filosofi che credono di modificare il corso del mondo con le idee, specialmente i giovani hegeliani di sinistra) non sono altro che il riflesso o l’eco – nella coscienza – di quella struttura economica della società, che costituisce la genuina realtà umana: quelle ideologie non sono che «sovrastrutture» della realtà economica, e non hanno alcun valore autonomo, essendo esse determinate dalle condizioni sociali. «Esse non hanno storia, non hanno sviluppo autonomo: ma gli uomini che sviluppano la loro mutevole produzione e il loro mutevole scambio di beni modificano insieme con questa realtà anche il loro pensiero e i prodotti di questo pensiero». Engels, attenuando la portata estremamente materialistica delle affermazioni di Marx, dichiarò che questo voleva significare che il fattore economico è «in ultima istanza» il fattore decisivo della storia, non già il «solo».

Rilievi critici

– Vi è una giustapposizione di motivi materialistici e idealistici, che in un certo senso giustifica una duplice interpretazione di Marx.

– L’azione reciproca e la reazione sono possibili in qualsiasi sistema meccanico, senza che si possa attribuire al medesimo la libertà. Se la libertà non è costitutiva dell’uomo in quanto tale, non può spuntare in un momento qualsiasi della storia, presente o futuro.

– L’uomo non potrebbe conquistare o conservare neppure per un istante l’autonomia del giudizio e della volontà se non potesse contare su altra attività diversa da quella sensibile, diversa dall’attività pratica volta alla realizzazione di determinati fini che premono irresistibilmente sulla volontà.

– Ha il suo giusto peso il fatto che l’uomo sia l’unico animale capace di produrre i propri mezzi di sussistenza e di organizzare la produzione economica. Ma il filosofo deve chiedersi: che cos’è l’uomo e perché gli sia possibile realizzare il lavoro come attività intelligente e ordinata.

– Il materialismo è modificato (perché assume un carattere dinamico e perché la dialettica hegeliana è immersa nella vita stessa della materia), ma non superato. Anzi esso è il presupposto sempre presente nel marxismo.

Non appare infine facilmente conciliabile il determinismo marxista con lo slancio volontaristico con cui il marxismo predica la rivoluzione proletaria, il quale è in ogni caso in contraddizione con le basi deterministiche di tutta la teoria marxista, basi che rendono impensabile una volontà libera. Il cosiddetto volontarismo marxista trae la sua forza nel preteso determinismo sociale, è volontà di credere nella necessità storica dell’avvento comunista. Marx, nel momento stesso in cui faceva appello alla volontà del proletariato, che aveva elevato a classe eletta della storia, annunciò la fine inevitabile del vecchio mondo e l’avvento, altrettanto ineluttabile e immanente, del comunismo. Avendo stabilito una correlazione necessaria fra la morte del capitalismo e la nascita del comunismo, egli attrezzò psicologicamente i suoi seguaci a fronteggiare eventuali sconfitte e li ha resi refrattari ad ogni concezione riformista. Lo stesso Gramsci avalla questa interpretazione: «Si può osservare come l’elemento deterministico, fatalistico, meccanicistico sia stato un aroma ideologico immediato della filosofia della prassi, una forma eccitante, resa necessaria e giustificata storicamente dal carattere subalterno di determinati strati sociali. Quando non si ha l’iniziativa nella lotta e la lotta stessa finisce per identificarsi con una serie di sconfitte, il determinismo meccanico diventa una forza formidabile di resistenza morale, di coesione, di perseveranza paziente e ostinata».

La dialettica della storia, la critica del capitalismo e lo sbocco rivoluzionario

Per Marx il metodo dialettico è un metodo di comprendere la storia esaminandone i conflitti piuttosto che gli aspetti concordi.

Le leggi della dialettica sono le seguenti:

  1. se le cose cambiano abbastanza, diventano qualitativamente differenti da quelle che erano all’inizio;
  2. una cosa nasce da un’altra e quindi entra in conflitto con essa: il cambiamento d’una cosa nel suo opposto è inerente a ogni struttura economica e situazione storica;
  3. la storia procede verso il superamento e la sua visione finale attraverso la soluzione delle contraddizioni insite nei diversi modi in cui, nelle successive epoche storiche, si manifesta il conflitto tra forze produttive (idea complessa che include le risorse naturali, gli strumenti di lavoro, la tecnologia, i lavoratori, la divisione del lavoro) e rapporti di produzione.

I rapporti di produzione in regime capitalistico indicano essenzialmente l’istituzione della proprietà privata e i conseguenti rapporti tra coloro che ne sono privi e coloro che ne sono in possesso.

Il conflitto tra forze produttive e rapporti di produzione è la dinamica del cambiamento storico. La lotta di classe fra lavoratori e padroni è un riflesso sociale, politico e psicologico dei reali conflitti economici.

Il criterio di classe è oggettivo: il rapporto degli uomini con i mezzi di produzione. Nella fase storica in cui vive Marx, l’età del capitalismo vittoriano, coloro che posseggono i mezzi di produzione sono la borghesia, coloro che essi noleggiano con il salario sono il proletariato.

L’indagine marxista sulla società capitalistica è condotta su un modello concepito come basato su un insanabile contrasto di interessi.

La formazione, infatti, del capitale è essa stessa un vero e proprio furto ai danni dei lavoratori. Marx illustra la sua tesi con la teoria del plus-valore. Il valore reale di un prodotto è, secondo Marx, determinato dalla quantità di lavoro che esso richiede, e propriamente dalla somma aritmetica delle ore di lavoro necessarie per produrlo, prendendo a base il tempo medio di lavoro richiesto in una società disciplinata. Ora, il lavoratore avrebbe diritto a ricevere una retribuzione pari al valore della merce ch’egli produce.

Ma in realtà la mano d’opera, essendo sovrabbondante, è acquisita dall’imprenditore ad un prezzo inferiore: la «legge bronzea» dei salari, in un regime di concorrenza e in forza del gioco della domanda e dell’offerta, fa sì che l’imprenditore acquisti la merce-lavoro per un prezzo minimo, ossia retribuisca l’operaio con un salario minimo. Se l’oggetto prodotto ha il valore corrispondente a dieci ore di lavoro (perché tanto è stato costretto a lavorare l’operaio per produrlo), la paga che l’imprenditore è riuscito a imporre all’operaio è equivalente al valore di sei ore, la differenza tra il lavoro prodotto e il lavoro pagato (pari a quattro ore) costituisce il profitto dell’imprenditore, il quale è detto da Marx «plus-valore», ossia il risultato di un aumento artificiale di valore, corrispondente alla quantità di lavoro non pagato. È dunque il risultato della defraudazione del lavoro, di una quota del compenso che spetterebbe al lavoratore e sussiste quindi alla condizione di un suo immiserimento. Queste quote di plus-valore, accumulandosi, danno luogo a ingenti arricchimenti, alla formazione di capitale, il quale è pertanto accumulazione di lavoro altrui, cioè del lavoro non pagato agli operai.

Lo sfruttamento, il profitto esoso, poiché è connaturato al capitalismo come sistema economico, paralizza la struttura di classe, la irrigidisce.

La composizione della società capitalistica dovrà sottostare a vorticosi cambiamenti; la legge dell’accumulazione capitalistica e la corrispondente legge dell’immiserimento progressivo:

  1. restringeranno in poche mani i poteri della borghesia che, come classe media, diminuirà di numero;
  2. le classi intermedie svaniranno dalla scena politica;
  3. i lavoratori diverranno tutti salariati e da «classe in sé» o mero aggregato sociale, si trasformeranno in «classe per sé» o proletari coscienti della loro situazione comune e del loro ruolo nel cambiamento della società capitalistica (nota Charles Wright Mills: «Una tale coscienza di classe non è implicita nella definizione oggettiva del termine classe; è una prospettiva, non una definizione. Come si svilupperà Marx lo chiarisce meno del perché»).

Il capitalismo, in tal modo, nel suo sviluppo produce le forze che lo sotterrano: «la proprietà privata si avvia da sola verso la sua dissoluzione per il solo fatto che ingenera il proletariato in quanto proletariato».

All’inevitabile sbocco della rivoluzione proletaria conducono una serie di fattori:

  1. il progressivo immiserimento dei lavoratori, la loro disperata alienazione: alienazione del frutto del lavoro (dottrina del plus-valore), alienazione dell’uomo da se stesso, alienazione dell’uomo dagli altri uomini;
  2. i meccanismi oggettivi dell’accumulazione capitalistica muovono il sistema verso crisi sempre più gravi. Il proletariato è la «negatività negatrice» che intraprende la soppressione del proprio abbruttimento, con tanta più energia quanto più sarà profonda la presa di coscienza della sua situazione;
  3. la coincidenza delle «condizioni oggettive» e delle «disposizioni soggettive». Il proletariato adempierà al suo compito attraverso l’azione rivoluzionaria che gli spetta (disposizione soggettiva); ma può avere successo solo se agisce in condizioni oggettive adeguate: prima o poi la volontà e le condizioni coincideranno;
  4. la degradazione del ruolo della borghesia nel processo di sviluppo del capitalismo. Nelle fasi iniziali del capitalismo i rapporti di produzione facilitano lo sviluppo delle forze produttive; ma nel suo sviluppo la struttura capitalistica dei rapporti di produzione viene ad intralciare le forze della produzione. L’essere indispensabile, dal punto di vista funzionale, nel sistema economico, porta una classe alla supremazia politica sulle altre. Per questa ragione il capitalismo è succeduto al feudalesimo e, in modo analogo, il proletariato prenderà il posto della borghesia e il comunismo quello del capitalismo.

Durante lo sviluppo del capitalismo, i borghesi, come i nobili feudali che li hanno preceduti, sono diventati dei parassiti. Non possono evitarlo e così sono condannati. «Una formazione sociale non tramonta prima che si siano sviluppate tutte le forze produttrici ch’essa è capace di dare. Nuovi rapporti sociali si sostituiscono ai vecchi, prima che le loro condizioni materiali di esistenza non si siano schiuse precisamente in seno all’antica società».

La critica di Marx alla società liberale non si basa solo sul concetto di sfruttamento. Nella Questione ebraica il concetto di sfruttamento non appare; e tuttavia essa contiene una devastante critica della società moderna, considerata come l’istituzionalizzazione del male assoluto. Non una delle istituzioni fondamentali della civiltà liberale – dalla separazione fra Stato e società ai diritti dell’uomo – viene risparmiata. Tutte vengono condannate senza appello in quanto espressioni di una concezione della vita – la vita come egoismo – che Marx trova ripugnante. E questo perché Marx parte da «un ideale fusionista della solidarietà sociale e da un’antropologia filosofica in cui l’uomo è concepito come un Gattungwesen che può realizzare la sua natura autentica solo identificandosi totalmente con la comunità […]. Posta questa premessa metafisica di natura schiettamente rousseauiana, Marx sferra una vera e propria guerra di annientamento contro le istituzioni e i valori della civiltà liberale […]. Marx vuole sostituire le certezze corrose dagli acidi del processo di secolarizzazione con nuove certezze, in modo da dare alla vita umana quella stabilità che il dinamismo capitalistico aveva fagocitato. A tal fine egli pensò che era possibile costruire una società industriale in cui non ci fosse posto per il relativismo dei valori, l’anarchia filosofica, la conflittualità, il rischio, ecc. Ciò fa della sua filosofia politica una tipica reazione totalitaria contro la società aperta» (Luciano Pellicani, op.cit., pp. 37 – 40).

Che cosa sono – si domanda Marx nella Questione ebraica – i diritti dell’uomo? La sua risposta è tale da escludere in partenza ogni possibilità di conciliazione fra comunismo e liberalismo: essi «non sono altro che i diritti del membro della società civile, cioè dell’uomo egoista, dell’uomo separato dall’uomo e dalla comunità». E che cos’è la libertà proclamata dal liberalismo? «La libertà dell’uomo in quanto monade isolata, ripiegata su se stessa … il diritto all’isolamento, il diritto dell’individuo limitato, limitato a se stesso». Quanto alla separazione tra Stato e società civile, essa viene bollata come «una separazione dell’uomo dalla sua natura comunitaria», quindi come una degradazione e una perversione. La società civile viene definita «la sfera dell’egoismo, del bellum omnium contra omnes».

Suona così il suo apprezzamento critico della rivoluzione liberale: «La libertà dell’uomo egoista e il riconoscimento di questa libertà sono il riconoscimento dello sfrenato movimento degli elementi spirituali e materiali che formano il contenuto della vita. L’uomo perciò non venne liberato dalla religione, egli ricevette la libertà religiosa. Egli non venne liberato dalla proprietà privata. Ricevette la libertà della proprietà. Egli non venne liberato dall’egoismo del mestiere, ricevette la libertà del mestiere» (Sulla questione ebraica, III, 181). Pertanto fra libertà liberale e libertà comunista non vi è nulla in comune. Infatti, come affermano Marx ed Engels nel Manifesto (VI, 496), la rivoluzione comunista impone «la distruzione di tutte le sicurezze private e di tutte le guarentigie private sinora esistite», vale a dire la distruzione dello Stato di diritto. (Lo ammette persino un marxista come Galvano Della Volpe: «Marx rinuncia per una libertà romantica, astratta, mitica, alla libertà reale» in La libertà comunista, Edizioni Avanti!, Milano 1963, p. 117).

Abbiamo visto come la rivoluzione sia il compito storico che Marx assegna al proletariato, che così attua «la condanna che la proprietà privata esegue su di sé producendo il proletariato» (Marx e Engels, La sacra famiglia, IV, pp. 37 – 38). Nell’Ideologia tedesca leggiamo che «la rivoluzione non è necessaria soltanto perché la classe dominante non può essere abbattuta in nessun’altra maniera, ma perché la classe che l’abbatte può riuscire solo in una rivoluzione a liberarsi di dosso tutto il vecchio sudiciume e a diventare capace di fondare su nuove basi la società». L’idea è ribadita con maggiore energia nella Miseria della filosofia: «L’antagonismo fra il proletariato e la borghesia è una lotta di classe contro classe, lotta che, portata alla più alta espressione, è una rivoluzione totale». Infine nelle Lotte di classe in Francia si trova questa definizione di comunismo: «La dichiarazione della rivoluzione in permanenza, la dittatura di classe del proletariato, quale punto necessario per l’abolizione delle differenze di classe in generale, per l’abolizione di tutti i rapporti di produzione su cui riposano, per l’abolizione di tutti i rapporti sociali che corrispondono a questi rapporti di produzione, per il sovvertimento di tutte le idee che germogliano da queste relazioni».

Il senso di queste dichiarazioni è inequivocabile. Il comunismo non può svolgere la sua missione storica senza introdurre una radicale cesura nella tradizione culturale dell’Europa. «Ripudiare il passato e guardare esclusivamente al futuro»: questa è la parola d’ordine e il programma culturale della rivoluzione. «L’universo marx-engelsiano è polemico e manicheo ad un tempo. Contempla solo un tipo di relazione fra proletari e borghesi, la guerra senza riguardi, e attribuisce a tale guerra un significato escatologico: è – come afferma Engels in Schelling e la Rivelazionel’ultima guerra santa, alla quale seguirà il Regno millenario della libertà» (Luciano Pellicani).

La rivoluzione dovrà attuarsi con tutti i mezzi utili allo scopo, comprese le «misure di terrore» (Marx e Engels, Indirizzo al Comitato centrale del marzo, 1850, X, 280) e senza avere alcuno scrupolo morale di fronte all’uso della violenza e dell’inganno, cosa che Marx ed Engels non esitarono a fare, come appare nelle istruzioni da essi inviate a Koettgen: «Agite gesuiticamente, buttate alle ortiche la germanica probità, onestà, integrità […]. I mezzi per noi aumenteranno, l’antagonismo fra il proletariato e la borghesia si inasprisce. In un partito si deve appoggiare tutto ciò che aiuta ad avanzare, senza farsi noiosi scrupoli morali» (Opere complete, vol. VII, p. 373).

Scopo della rivoluzione è quello di instaurare la società comunista, ma questa non viene descritta se non in termini metaforici e generici. Nelle decine di migliaia di pagine scritte da Marx ed Engels vi è un solo tentativo di descrivere la nuova società. Si tratta del celebre passo dell’Ideologia tedesca in cui si dice che «appena il lavoro comincia ad essere diviso ciascuno ha una sua sfera di attività determinata ed esclusiva che gli viene imposta e dalla quale non può sfuggire: è cacciatore, è pescatore, o pastore, o critico, e tale deve restare se non vuole perdere i mezzi per vivere; là dove nella società comunista, in cui ciascuno non ha una sfera di attività esclusiva, ma può perfezionarsi in qualsiasi ramo a piacere, la società regola la produzione generale e appunto in tal modo mi rende possibile il far oggi questa cosa, domani quell’altra, la mattina andare a caccia, il pomeriggio pescare, la sera allevare bestiame, dopo pranzo criticare, così come mi viene voglia senza diventare né cacciatore, né pescatore, né pastore, né critico». Con un lessico analogo, Marx parla del comunismo, che «è in quanto naturalismo compiuto, umanismo, e in quanto compiuto umanismo, naturalismo. Esso è la verace soluzione del conflitto fra esistenza ed essenza, fra oggettivazione e affermazione soggettiva, fra libertà e necessità, fra individuo e genere» (Marx, Manoscritti, III, 324).

Grazie alla sostituzione della proprietà privata con la proprietà statale tutto il sistema delle costrizioni e delle necessità in cui l’uomo vive è abolito.

La società comunista costituisce il punto di arrivo delle lotte del proletariato, ma non si può «da oggi a domani passare da una società non armoniosa a una società armoniosa; è necessario un periodo di transizione, più o meno lungo, a seconda delle circostanze» (Marx). Viene così espressa la teoria delle due fasi, la prima delle quali viene indicata con la formula di «dittatura rivoluzionaria del proletariato», che costituisce il rovesciamento simmetrico del capitalismo, le cui istituzioni vanno abolite e sostituite con il piano unico di produzione e distribuzione. «Tutti i mezzi di produzione devono essere socializzati» (Marx) e l’allocazione dei valori via mercato va sostituita con l’allocazione politica, regolata dal centro «secondo un solo grande piano» (Engels). Di fatto viene perseguita la statalizzazione integrale delle relazioni sociali, la cancellazione di ogni distinzione tra sfera pubblica e sfera privata.

Osservazioni critiche

a) La «miseria» dell’alternativa comunista.

L’alternativa comunista è solo vagamente abbozzata in Marx, che è incapace di definirla in termini positivi, ma solo in termini negativi, cioè di critica dell’ordine sociale dominante. È questo uno dei punti più sconcertanti della concezione politica del marxismo.

«L’idea di instaurare il regno dell’eguaglianza attraverso la rivoluzione violenta era irrimediabilmente mitologica: presupponeva la possibilità, tutt’affatto misteriosa, di trasformare magicamente i rapporti di forza fra le classi, vale a dire di convertire alchemicamente la forza in debolezza e viceversa. Pazzesca è poi l’idea di arrivare alla vera libertà attraverso la dittatura e la statalizzazione integrale dell’economia. Infine, la meta finale dell’Impresa – il Regno delle libertà – era letteralmente impensabile. Come, in effetti, si poteva immaginare una macrosocietà senza divisione del lavoro, senza commercio, senza moneta, senza gerarchie, senza strutture burocratiche, senza Stato ecc., insomma senza tutte quelle istituzioni che sono inerenti lo stesso concetto di società complessa?» (Luciano Pellicani, Miseria del marxismo, ed. cit, p. 15).

b) Le conseguenze dell’abolizione dell’economia di mercato.

Al Regno della libertà, come abbiamo visto, si può pervenire solo tramite la dittatura e l’annientamento dell’economia capitalista. Le conseguenze della distruzione dell’economia di mercato sono state illustrate con sintetica efficacia da Agnes Heller: «Cessano i rapporti di mercato e, insieme, la possibilità da parte dell’operaio di entrare liberamente in rapporto di lavoro. Con ciò viene a cessare qualsiasi iniziativa privata, e viene a mancare la motivazione al profitto, anche da parte dello Stato. Infatti, il vero e proprio potere politico diventa del tutto indipendente dagli esiti della produzione. Il potere e lo Stato intendono infatti raggiungere non il profitto ma la possibilità di disporre completamente di tutti i beni materiali della società». Nasce così la dittatura sui bisogni, che è quel sistema sociale in cui «i bisogni della comunità vengono definiti in base a istanze centrali» (Agnes Heller, Per cambiare la vita, Editori Riuniti, Roma 1980). In questo modo viene compressa o del tutto eliminata la domanda dei consumatori, i cui bisogni sono sacrificati sull’altare della logica politica, che d’altra parte non ha le informazioni necessarie per collocare con un minimo di razionalità le risorse.

Per giungere alla società senza Stato, Marx propone dunque la creazione di uno Stato totalitario, che incentra nelle sue mani il monopolio delle risorse materiali, oltre al monopolio della violenza, per cui Robert C. Tucker ha avuto facile gioco a definire il socialismo statalista di Marx «come la dottrina per cui tutti gli affari umani dovrebbero essere condotti dal governo, senza tener conto delle scelte degli individui».

c) La critica di Proudhon.

La visione politica di Marx era stata oggetto di analisi critica da Proudhon, che già nel 1840 aveva denunciato il carattere regressivo della soluzione comunista. D’altra parte, come diceva Hegel, «le idee hanno mani e piedi», hanno una loro fecondità, anche quelle errate. Esse camminano tra gli uomini e prima o poi generano i loro effetti. Da «errori di dottrina» (Asor Rosa) è vano pensare che non ci vengano «soluzioni catastrofiche». L’operaio Proudhon criticò a fondo – con molto buon senso, con felici intuizioni e preveggenza – i principi che erano alla base del comunismo di Marx: principi di cui intravvide gli esiti totalitari e antilibertari.

Ai suoi occhi la ragione era molto semplice. Egli aveva capito che bisognava sottrarsi all’impostazione manichea data da Marx alla scelta di civiltà che l’Europa doveva compiere: o lottare per far prevalere il collettivismo o difendere l’ordine esistente.

Proudhon voleva il superamento dell’ordine borghese, ma rifiutava il collettivismo marxista, perché il monopolio statale dei mezzi di produzione genera una società bloccata e rende l’apparato burocratico padrone incontrastato, gestore di una schiavitù generale e senza scampo. Per Proudhon il «pazzesco» teorema che fa coincidere socialismo e dittatura dello Stato-partito avrebbe portato al Moloch burocratico-totalitario. Marx aggredì, con intolleranza e con il solito sprezzante disprezzo verso i socialisti, Proudhon, l’autodidatta ridicolo e ancora fermo ai pregiudizi piccolo borghesi, colpevole di ignorare la misteriosa onnipotenza della dialettica, in virtù della quale è proprio il massimo del dispotismo, quello attuato dallo Stato ideocratico comunista, a generare il massimo di libertà, e, con esso, un’umanità nuova. L’abolizione di tutti i controlli logici ed empirici – e proprio in campi come quelli della politica e dell’economia – ha inaugurato una nuova sofistica: chi si affida al gioco dei rovesciamenti dialettici, malgrado il rivestimento culturale che copre la povertà di uno schema ripetitivo, aggira il principio della realtà e si consegna all’arbitrio del desiderio che ci fa credere vero ciò che vogliamo sia tale (quod volumus libenter credimus).

D’altra parte a quel gioco e alle sue ambiguità intendeva far ricorso Marx non solo nella sua febbre di teorizzare, ma anche per mettersi al riparo da qualsiasi smentita potesse venirgli dai fatti. Nella lettera del 15 agosto 1857 ad Engels scrive: «È possibile che si faccia una figuraccia. Tuttavia potremo sempre cavarcela con un po’ di dialettica. Naturalmente ho tenuto le mie considerazioni su un tono tale che avrò ragione anche in senso contrario».

d) Comunismo e stalinismo.

Il mito della rivoluzione comunista innalzato a supremo valore porta ad esiti e atteggiamenti inevitabilmente totalitari, che evidenziano da soli la stretta connessione tra Marx, Lenin e Stalin. Per chi fa suo quel messianismo terrestre non esistono verità che possano contare all’infuori del pensiero marxista-leninista: esso solo costituisce l’intero della verità.

Lenin lo chiamava «dottrina onnipotente» e «metodo infallibile» lo definiva Antonio Gramsci (La costruzione del Partito comunista, Einaudi, Torino 1971, p. 13). Ed era Gramsci a teorizzare, in nome della rivoluzione redentrice, il ricorso a qualsiasi mezzo – ivi compreso menzogna, terrore, violenza – se giudicato, da chi in quel momento detiene il potere nel Partito o nell’Internazionale comunista, utile allo scopo. «Il moderno Principe – scrive Gramsci nei Quaderni dal carcere (Einaudi, Torino 1975, p. 1561) – sviluppandosi, sconvolge tutto il sistema di rapporti intellettuali e morali in quanto il suo svilupparsi significa appunto che ogni atto viene concepito come inutile o dannoso, come virtuoso o scellerato, solo in quanto ha come punto di riferimento il moderno Principe stesso e serve a incrementare il suo potere o a contrastarlo. Il Principe prende il posto nelle coscienze della divinità e dell’imperativo categorico». E il moderno Principe è il partito comunista, che deve – secondo le parole di Lenin (Opere complete, Editori Riuniti, Roma 1968, vol. XXX, p. 351) – «tutto correggere, designare e costruire in base ad un criterio unico».

Ci sono in Marx e nei marxisti le premesse logiche di ciò che fu poi designato come stalinismo. Pierre-Joseph Proudhon («Il pensiero di Marx mi fa paura per la libertà degli uomini. Marx è la tenia del socialismo») e Leszek Kolakowski («Se si facesse un tentativo completo di tradurre i valori principali del socialismo marxista in politica pratica, potrebbe venir fuori come risultato qualcosa di simile al sistema stalinista») lo hanno evidenziato in due epoche diverse, quando il comunismo era allo stato nascente e quando si avvicinava la fine della sua esperienza storica.

e) La fallimentare esperienza storica.

Il comunismo prese il potere in Russia nel novembre 1917, in seguito ad un colpo di Stato contro il governo liberal-democratico in carica dal febbraio 1917. L’esperienza sovietica è stata sinteticamente descritta dallo scrittore e dissidente Andrej Sinjavskij (Servi e padroni al posto delle Classi, Corriere della Sera, 12.1.1988): «Ciò che si è realizzato in Unione Sovietica è qualcosa di molto saldo e definitivo e tutti gli altri Paesi socialisti seguono, con qualche variante, la stessa strada. Cosicché, ci piaccia o no, dobbiamo considerare quello sovietico il modello classico di socialismo. La sua definizione più breve è che in esso tutto appartiene allo Stato: la proprietà, la terra, la stessa vita e coscienza dei cittadini. Lo Stato vi può esercitare, come sappiamo fin dai tempi di Lenin, una costrizione illimitata e il terrore legalizzato in qualsiasi momento possono abbattersi sul singolo cittadino o su tutta la società, e di ciò lo Stato non deve rispondere ad alcuno, salvo che a se stesso. Ma normalmente quello stesso Stato suole presentarsi sotto un aspetto più accattivante e ipocrita, dicendosi espressione della volontà del popolo al quale – sostiene – appartiene ogni cosa. Ma poiché il popolo in realtà non dispone di nulla, neanche della propria volontà, di cui si è impadronito – definendola “suprema volontà popolare” – lo Stato, ecco che proprio quest’ultimo resta il solo e incontrastato e padrone del Paese».

Dall’accentramento del potere non solo non si è passati al Regno della libertà profetizzato da Marx, ma a regimi che «hanno portato a soluzioni catastrofiche» (Roy Medvedev sulla rivista sovietica Fatti e argomenti nel 1989 scrive che furono circa quaranta milioni le persone arrestate, giustiziate o sottoposte ad altri tipi di violenza durante gli anni di Stalin), fino a quando a partire dal 1989 uno alla volta tutte le dittature comuniste sono crollate in Europa, lasciando un’eredità di miseria economica e apatia sociale senza eguali.

La previsione politica ed economica di Marx non si è dunque realizzata, e questo permette oggi un approccio al pensiero di Marx più attento ed equilibrato. I critici del marxismo debbono saper rintracciare i meriti, l’anima di verità, i molti giusti punti di partenza della battaglia marxista, individuando le cose di cui la nostra società è debitrice a Marx, avendo egli aperto gli occhi su molte questioni, come riconosce anche un giudice giustamente severo come Karl Raimund Popper. Ma i marxisti devono fare la loro parte, individuando del marxismo la chiusura di orizzonti, le unilateralità, le contraddizioni insanabili, le conseguenze atrocemente disumane degli innegabili errori di dottrina e di prospettiva storica.

La filosofia della natura marx-engelsiana

Il marxismo si presenta anche come una filosofia della natura che ha elaborato una cosmologia materialista, che costituisce una parte integrante della sua visione della vita e che attesta, anche in questo campo, lo sforzo di dedurre dall’ateismo programmatico anche una conseguente dottrina del mondo. Il materialismo storico è quindi anche una filosofia della natura e, pertanto, una metafisica, un’ontologia, cioè una dottrina dell’essere.

  1. In Economia nazionale e filosofia (1844), Marx fa intravedere il principio fondamentale dell’ontologia marxista. Esso può essere così formulato: la natura e l’uomo non sono creati, non esistono a causa di un altro, ma sono autosussistenti (selbständig), esistono da se stessi (durchsichselbstsein), si sono autocreati, sono causa sui. Affermazioni così impegnative sono enunciate in forma tautologica (un essere è autosufficiente, autosussistente solo se non deve che a se stesso la sua esistenza, se è creatore della sua esistenza).
  2. Marx nello stesso paragrafo osserva che la dottrina della creazione può essere difficilmente cancellata dalla coscienza popolare perché essa esprime sul piano filosofico una nozione pratica: l’uomo è faber, e pertanto l’operaio è abituato a pensare che ogni oggetto prodotto, ogni opera attesta l’esistenza di qualcun altro che l’ha fatta. Gli oggetti della nostra esperienza di lavoro non si fanno da soli, non esistono da se stessi. Ma su questo punto la coscienza popolare ha torto. La filosofia dovrà mostrare ad essa come l’idea di una «esistenza per sé» e «da sé» (aseità) della natura e dell’uomo è pensabile. Marx aggiunge che l’idea della creazione del mondo «ha ricevuto un terribile colpo» dalla scoperta del fatto dell’evoluzione cosmica, che spiega il divenire della terra come «autogenesi» «auto-generazione».
  3. Più avanti Marx sostiene che l’idea di creazione è una pseudo-idea, perché è in correlazione con l’idea del nulla. Essa presuppone che l’uomo si ponga in un momento anteriore all’essere, in un niente fittizio. Ora, dice Marx, quest’astrazione è illegittima, perché l’uomo non può pensare il nulla. Infatti, mentre pensa il mondo come non esistente, egli è presente in quanto soggetto esistente. Non è possibile pensare l’universo non esistente senza annientare anche l’io che lo pensa. Marx si sente autorizzato a concludere: l’idea di creazione presuppone l’idea del nulla, ma l’idea del nulla è assurda, dunque la creazione non è pensabile, è assurda.
  4. Infine, nella stessa opera, Marx suppone che un interlocutore gli chieda: come si può capire lo stesso atto di esistere, di origine, di costituzione della natura (Entstehungsakt)? La risposta di Marx al supposto interlocutore è tanto solenne quanto poco chiara. Essa dice testualmente: «Per l’uomo socialista, ciò che richiama la storia del mondo non è altro che la genesi, la generazione, la formazione (die Erzeugung) dell’uomo attraverso il lavoro umano: l’uomo ha così la prova evidente e irresistibile della propria nascita da se stesso (durch sich selbst), del suo processo di autoproduzione, della sua autogenerazione».

Rilievi critici

L’idea biblica di creazione non è equivalente all’idea di fabbricazione. Dio crea gli esseri senza nessuna materia preesistente. L’idea di creazione è solo da Dio: ben lungi dall’essere un antropomorfismo, essa è senza analogie con l’esperienza umana.

Sulla presunta connessione tra l’idea di creazione e l’impensabilità dell’idea del nulla occorre chiarire non poche cose.

– È perfettamente vero che l’universo, dal momento che esiste, non può essere pensato inesistente dall’uomo che in esso vive e che lo pensa.

– Ma la storia delle evoluzioni testimonia che è possibile fare astrazioni dall’uomo. Ci fu un tempo in cui l’uomo non esisteva e ciascuno di noi non esisteva più di un secolo fa. Un periodo della storia del mondo nel quale l’uomo non esista non è dunque un’astrazione assurda. Certo, ora che noi esistiamo, non possiamo pensarci non esistenti. Ma noi sappiamo bene che un tempo non esistevamo e che ben presto non esisteremo più.

Perché questo non potrebbe essere vero anche per l’universo?

Il fatto che l’uomo oggi esistente non possa rappresentarsi l’universo non esistente dal momento che ne è un elemento, non prova affatto che l’universo sia sempre esistito e che l’idea di un inizio del mondo sia assurda. L’idea di un inizio del mondo o della natura è assurda soltanto se si è previamente supposto che l’universo sia la totalità dell’essere, il solo essere, l’essere in senso assoluto: ed è proprio ciò che fa Marx.

– E ancora: dal fatto che l’uomo, quando pensa, non può pensare se stesso e il mondo come non esistenti, non ne consegue per nulla che l’uomo e il mondo non abbiano origine, non siano cominciati, che siano eterni. Se il ragionamento di Marx fosse valido, bisognerebbe dedurne che l’uomo e il mondo sono necessariamente sempre esistiti e che parlare delle origini del mondo e dell’uomo è un’assurdità. Il fatto strano è che Marx, mentre non accetta certamente questa conclusione per quel che concerne l’uomo, la fa sua quando si tratta dell’universo, che dommaticamente è sempre presupposto come eterno e senza inizio.

– Inoltre: l’idea di creazione non dipende dagli esercizi dell’immaginazione sulla possibilità di pensare o di non pensare il niente. L’idea biblica di creazione si basa sul fatto che la natura, il tutto, l’universo, e tutti gli esseri che lo costituiscono, sono incapaci di rendere conto da se stessi della loro esistenza, della loro natura, della loro struttura, del loro sviluppo e di tutte le loro qualità. Il mondo non è l’Assoluto, non è Dio. Il mondo esiste, ha un’origine. L’evoluzione cosmica e biologica è una genesi continua di forme e di esseri nuovi. Il più appare dopo il meno. Ma niente ci permette di dire che gli esseri e l’universo nella sua totalità siano autosufficienti, dotati di aseità, eterni, auto-creatori.

– Infine, l’ultima ragione avanzata da Marx, e volentieri ripresa in seguito dai marxisti, sembra non pertinente ad un’analisi filosofica del problema. Nessuno contesta che l’uomo lavori al proprio sviluppo, che la storia umana sia opera dell’uomo, e che il lavoro umano abbia una sua immensa efficacia. Ma la questione non è qui. Il problema posto riguarda l’essere stesso dell’universo e dell’uomo. Affermare che il lavoro umano realizza l’apparizione del mondo e la comparsa dell’uomo, e che l’uomo è «auto-creatore», significa parlare per metafore che non possono essere prese alla lettera. Le espressioni «auto-creazione», «causa sui» sono sempre scorrette e diventano assurde se applicate al mondo e all’uomo: infatti per essere causa di se stessi bisogna prima esistere, e se già si esiste, vuol dire che non è proprio il caso di darsi l’esistenza.

Sono questi gli argomenti mediante i quali Marx pensa di «chiarire una volta per tutte» (infatti non ci tornerà più) il suo monismo materialistico. È questo uno dei rari testi in cui Marx espone, in modo che vorrebbe essere filosofico, il proprio pensiero sul problema dell’ateismo e della sua giustificazione.

Le riflessioni di Engels

I presupposti enunciati da Marx nello scritto del 1844 furono sviluppati a più riprese da Engels, soprattutto in tre opere: Feuerbach e la fine della filosofia classica tedesca (1888), Antidühring (articolo pubblicato nel 1878) e nei frammenti raccolti poi, nel 1924, sotto il titolo Dialettica della natura (redatti all’incirca tra gli anni 1870 e 1882).

Engels volle tirare le conclusioni dai principi posti da Marx, ribadendo energicamente i postulati di una cosmologia che vuol essere atea:

– presupposto della eternità della materia in movimento

– presupposto del carattere ciclico del divenire dell’universo

– atto di fede nella capacità della materia di rigenerare continuamente se stessa.

Esaminiamo alcuni testi significativi di Engels.

«Mai e da nessuna parte c’è stata né ci può essere della materia senza movimento. La materia senza movimento è altrettanto inconcepibile che il movimento senza materia. Il movimento, non diversamente dalla materia, non può, di conseguenza, essere creato o distrutto, cosa che la filosofia antica esprime dicendo che la quantità di movimento esistente nel mondo è sempre costante. Dunque il movimento non potrebbe essere creato» (Antidühring).

Si noti il modo di procedere di Engels. Su di una questione di fatto, oggetto di esperienza, su cui si deve essere ovviamente d’accordo, Engels innesta un’affermazione discutibile e si sente autorizzato a concludere, sul piano metafisico, con un’affermazione del tutto gratuita, comunque non deducibile, né dalla questione di fatto né dalla concezione scientifica che si dà per scontata pur senza esserlo affatto. Il dato di esperienza irrefutabile è che materia e movimento non possono essere dissociati. L’affermazione discutibile, che invece Engels dà per certezza rigorosa, consiste nel supporre costante la quantità di materia e di energia nell’universo (è costante o in genesi continua?). La conclusione è da «salto mortale»: Engels non vede che una cosa è constatare che la materia è sempre in movimento, un’altra cosa è dedurne che la materia non può essere creata o distrutta perché è eterna. Ancora una volta si salta dal dato scientifico a una conclusione pseudo-metafisica.

«Come l’astronomia, la fisica giunge a sua volta a esprimere in ultima analisi e con tutta certezza l’eterno movimento circolare della materia in movimento» (Dialettica della natura).

Ebbene, nulla nella fisica permette di sostenere che la materia si muova in un eterno circolo. È un’affermazione che esorbita da qualsiasi fondamento scientifico, è il rinvio ad un’idea tipicamente mitica. Engels dice di scartare il mito ossessivo dell’eterno ritorno, proprio di Anassimandro ed Eraclito, degli stoici e di Nietzsche, ma poi adotta la stessa tesi dell’eterno ricominciare. Si tratta di un’idea molto antica. Se il mondo è eterno, dal momento che esiste il divenire, è necessario che tale divenire ritorni su se stesso, come il serpente che si morde la coda. Engels vuole contrabbandare questa petizione di principio come «il risultato di una ricerca rigorosamente scientifica sperimentale», ma riconosce poche righe dopo che la dimostrazione di tale tesi «non è del tutto senza lacune».

L’universo in regime di evoluzione non è invece reversibile, come dimostrato da Henri Bergson. Paul Couderc lo ha detto in maniera brutale, perché ha dovuto su questo punto dissentire quel tipo di convinzioni che desiderava vivamente essere vere. «Eternità significa reversibilità. Un mondo eterno è un mondo che preso nel suo insieme deve poter fare marcia indietro senza inconvenienti. Ma ciò è in contraddizione con il secondo principio della termodinamica, il principio di Cranot, e con tutto quello che l’evoluzione pone sotto i nostri occhi» (L’architecture de l’Univers, Gauthier-villars, Paris 1947, p. 126).

Engels sa che la nostra esistenza sulla terra, la vita e il nostro sistema solare sembrano orientati verso un termine, verso la morte. Come si concilia questa realtà con il presupposto tipico di ogni materialismo dell’eternità della materia che si autocrea nella sua perfetta autosufficienza e aseità?

Engels non si stanca di ripetere «se è eterno, il mondo non deve morire». Occorre pertanto un atto di fede nell’assioma mai dimostrato: «Noi abbiamo la certezza che la materia resta eternamente attraverso tutte le sue trasformazioni e che essa, con la stessa dura necessità con cui annienta sulla terra il suo fiore più nobile, lo spirito pensante, essa deve anche riprodurlo altrove e in altri tempi». I mondi si succedono in cicli senza fine.

Engels si abbandona ad un insolito lirismo, ma la poesia non è scienza o filosofia.

Di fronte alla domanda sull’ammissibilità che la materia possa invecchiarsi in modo irreversibile, Engels risponde che ciò è «impensabile».

Il procedimento è chiaramente a priori: ci si concede una filosofia previa, che è l’ateismo, il quale implica una metafisica materialistica del mondo; da quella metafisica Engels deduce ciò che deve accadere nell’universo perché l’universo sia conforme all’idea che se ne fa lui. Un’affermazione cosmologica e fisica di primaria importanza è interamente fondata su una petizione di principio.

Il rapporto tra politica e morale in Hegel e Marx

Nello hegelismo vi è la sublimazione del machiavellismo e insieme il tentativo di superare la tensione drammatica tra morale e politica. Hegel comincia con l’affermare l’istanza morale e quella politica, ma configura in maniera talmente falsa e assurda il «dover essere» morale da non rendere plausibile una sua qualsiasi funzione dialettica. E poiché Kant è stato l’ultimo grande filosofo a rivendicare l’universalità e l’autonomia della legge morale con un’altezza speculativa forse mai prima raggiunta, Hegel lo attacca con violenza, fino al fraintendimento e all’irrisione.

La hegeliana «eticità» non ha certo nulla a che fare con la «moralità» di cui Kant ha lumeggiato i caratteri specifici e strutturali, pervenendo su alcuni punti, malgrado certe agnostiche penombre, a verità che debbono essere considerate, a giusto titolo, un acquisto per sempre. L’eticità hegeliana, il cui principale soggetto è lo Stato-dio, celebra la sua concretezza nelle istituzioni storico-politiche nelle quali s’incarna l’idea, il Weltgeist. Nella storia «cercare che cosa sia il dovere è un’autentica pedanteria».

L’eticità hegeliana non tende ad attuare ciò che deve essere, coincidendo con il «corso del mondo», unico bene effettivamente reale. La contraddizione effettiva tra la realtà politica e la coscienza morale non può esistere, se non al livello di «astratta soggettività», poiché il corso del mondo è il cammino di Dio nel mondo ed è sempre quel che deve essere. «Tutto ciò che è reale è razionale e tutto ciò che è razionale è reale», vi è identità assoluta e senza residuo tra realtà e ragione. Tutto ciò che viene detto delitto, immoralità, ingiustizia, male può apparire come negativo, ma solo provvisoriamente e da un punto di vista parziale. Il male è apparenza certo non inconsistente, ma tale che ha per essenza il suo opposto, il bene, di cui è l’insostituibile fermento, quel bene che serve a suscitare e ad accrescere. La logica di una concezione storicistica e immanentistica non può avere che uno sbocco, quello che Hegel ha ripetutamente affermato essere il supremo insegnamento della sua filosofia: «Il mondo reale è come deve essere (wie sie sein soll), il volere razionale, il concreto bene (das konkrete Gute) è in realtà ciò che vi è di più forte, l’assoluta potenza che si realizza». L’effettualità, ciò che irrompe nella storia con il sigillo del successo, è dunque il solo dover essere cui si piega, in adorazione, la superiore consapevolezza dello storicista.

Malgrado la penetrante critica dell’idealismo, è proprio nello storicismo assoluto di Hegel che si collega più direttamente il pensiero di Marx. A prima vista Marx distoglie la sua attenzione dal rapporto tra morale e politica, perché sopprime il primo termine e contrae interamente il secondo nella sua cosiddetta «base reale», cioè nella struttura economica. Michael Polanyi ci dice che Marx nei manifesti e programmi collettivi che gli venivano sottoposti per la firma, cancellava e commentava spregiativamente a margine, tutti i richiami alla «giustizia», alla «uguaglianza», ai «diritti dell’uomo», alla «lotta per la civiltà», eccetera. In effetti il fondatore del materialismo economico elimina con cura dalla sua opera tutti i concetti morali, ridotti a meri elementi della ideologia della classe dominante e comunque a epifenomeno dei rapporti economico-sociali. Questa sua posizione, evidentemente, va ben oltre il rifiuto del moralismo farisaico e l’energica sottolineatura della parte che ha, nella vita umana e nell’azione politica, il fattore economico.

E nondimeno, malgrado le obbliganti angustie del sistema, proprio Marx vide più e più volte nell’offesa delle leggi morali e dei diritti fondamentali degli uomini il segno sicuro della politica oppressiva o della precarietà di un regime, e a quelle leggi e a quei diritti egli rese un omaggio involontario, e perciò stesso assai significativo, nelle infuocate requisitorie che riempiono le sue pagine, a cominciare dalla più celebre ed efficace, quella contenuta ne La lotta di classe in Francia dal 1848 al 1850. «Alla sommità della società borghese trionfava il soddisfacimento sfrenato, in urto ad ogni istante con le stesse leggi borghesi, degli appetiti malsani e sregolati in cui logicamente cerca la sua soddisfazione la ricchezza scaturita dal gioco, in cui il godimento diventa crapula, e il denaro, il fango e il sangue scorrono a fiotti» (Il 1848 in Germania e in Francia, trad. it. di Palmiro Togliatti, Società editrice L’Unità, Roma 1946, pp. 146 – 147). Queste ed altre pagine basterebbero a ridimensionare fortemente, e persino a rovesciare, la tesi centrale e caratteristica del materialismo storico.

In questo dopoguerra, quelle correnti del neo-marxismo che intendono far propria l’ispirazione umanistica della grande tradizione culturale hanno cercato di accreditare «il marxismo come un universalismo che trascende le premesse sociologiche», secondo l’espressione di Sergej Hessen. Ma chi difende questa tesi deve avere il coraggio di portare allo scoperto la contraddizione tra concepire i valori morali come null’altro che proiezioni storiche di contingenti situazioni economiche e l’appello alla libertà e alla giustizia come valori morali, che costituiscono presso folle disagiate ed esposte a ingiuste pressioni economiche e sociali l’attrattiva più potente dell’ideologia comunista. Nella misura in cui l’universalità dei principi materialistici, col conseguente determinismo economico, diventa spiegazione organica, «totalizzante», unica e onnicomprensiva della vita umana e del cammino umano della storia, essa nega l’universalità dei valori morali.

Il messaggio più alto e autentico di una civiltà sta, infatti, nella sua capacità di cogliere ed esprimere in un certo momento storico, aspetti profondi di ciò che essa riconosce per vero e giusto, non in ragione dell’utilità, del potere o dell’importanza di una classe sociale, ma perché universalmente umano, esigito e comandato dalla coscienza di essere innanzitutto uomini e pertanto interiormente obbligati a oltrepassare la «società chiusa» del gruppo, quale che sia l’estensione del suo raggio, dal clan tribale alla razza, alla classe.1

NOTE

1 Il paragrafo riprende la prima parte dell’articolo pubblicato dal Giornale di Brescia in data 9.1.1976 dal titolo «Alcune incoerenze in Marx e Croce».

NOTA CONCLUSIVA: La raccolta di scritti di filosofia di Matteo Perrini nasce dall’esigenza di non disperdere il lavoro di una vita volto in primo luogo a chiarificare a se stesso le idee e le concezioni dei filosofi e, conseguentemente, a tradurle in un linguaggio accessibile ma rigoroso per i propri studenti. I materiali riportati nel volume provengono da diverse fonti, utilizzate per differenti finalità e scritte nell’arco di un cinquantennio, all’incirca tra il 1950 e il 2000. Si tratta di schede ad uso interno finalizzate alla sistematizzazione del pensiero di un autore, di appunti su quaderni per preparare lezioni scolastiche, di articoli pubblicati sul Giornale di Brescia o su riviste specializzate.