La critica dell’inautentico e il rinnovamento educativo

LA CRITICA DELL’INAUTENTICO E IL RINNOVAMENTO EDUCATIVO IN KARL JASPERS[1]

Karl Jaspers, in un’opera della fase più matura del suo pensiero[2], ha rinunciato a caratterizzare il suo atteggiamento come filosofia dell’esistenza per presentarlo piuttosto come filosofia della ragione, perché «se la ragione va perduta, va perduta anche la filosofia» e, noi aggiungeremmo, vanno perduti tutti i valori di cui si alimenta la civiltà. L’avversario della ragione – scrive Jaspers – è lo spirito dell’antiragione. Questa assai spesso avanza e domina le intelligenze, servendosi proprio del linguaggio della ragione, padroneggiato allora con somma maestria, pur essendo intimamente estranea allo spirito di verità, che è la prima e fondamentale espressione della libertà interiore. «Col sacrificio della libertà della ragione la non filosofia prepara l’uomo alla illibertà politica». Il filosofo, nella sua lotta per la ragione e per la libertà dell’uomo, si trova dinanzi alla necessità di un’opzione fondamentale: la ricerca della verità, per ostica, impopolare, pericolosa che possa essere, o l’adulazione di potenti e di folle mediante la giustificazione e il consolidamento di idee correnti o dominanti, assai comode per gli uni e per le altre, in grazia di un virtuosismo formale, dialettico o analitico che sia. Insomma, o ci si pone e si cammina nello spirito di ricerca disinteressata della verità o si è fuori della filosofia; o si è uomini e filosofi con Socrate, o si è sofisti con i Sofisti. Certo, chi si guarda intorno può essere tentato di vedere in questo nostro tempo il trionfo dell’irrazionale, tanto grande è la babilonia delle idee e tanto incessanti sono la produzione e la diffusione di vere e proprie «mitologie dell’anti-ragione», che non si conoscono e non si danno a conoscere per tali. Tuttavia non si deve indulgere a un pessimismo fatale e radicale, che sarebbe più assurdo delle assurdità scaturienti da un corrotto modo di pensare e di vivere: l’inautentico suppone l’autentico, altrimenti non si potrebbe riconoscerlo, né se ne potrebbe parlare. Oggi il compito più urgente è quello di riscoprire l’autenticità dei valori attraverso la ricognizione e la critica dell’inautentico, nei vari aspetti che esso assume nelle attività fondamentali dell’uomo.

A questo difficile lavoro ha dedicato la sua opera più recente, dal titolo emblematico Critica dell’inautentico[3], uno dei più illustri pensatori italiani, Nicola Petruzzellis, non certo nell’illusione di cambiare il mondo con un libro, ma per adempiere serenamente un dovere, particolarmente rigoroso e perentorio per chi professa filosofia ed è impegnato nello studio dei problemi educativi.

Le negazioni della possibilità e dell’autonomia della ricerca filosofia

Come ogni attività specificamente umana, anche la filosofia è esposta allo scacco, al disvalore; conosce anch’essa la sua trahison des clercs  e con conseguenze più gravi. Dalla storia del pensiero, a ben considerarla, emergono le costanti e la problematica universale della filosofia, sulla cui trama si disegnano le innumerevoli variazioni della realtà storica. La filosofia ha una problematica, che, pur risentendo come tutto ciò che è umano, l’influenza dei tempi, nel senso che si allarga o si restringe, si arricchisce e si impoverisce secondo gli interessi particolari delle varie epoche, rimane tuttavia costante nelle sue linee essenziali. Fin quando la filosofia sarà tale non potrà non porsi il problema di se stessa e del pensiero, il problema del sapere nelle sue varie forme, nei suoi vari gradi, nei suoi diversi livelli, il problema della realtà, il problema del significato e dei fini della vita umana. La ricerca filosofica non è attività artistica o letteraria, così come si distingue dalle scienze matematiche e sperimentali. la filosofia è logos, pensiero, ragionamento, discorso, che obbedisce a leggi intrinseche, formulabili sempre più efficacemente, ma qualitativamente identiche, pensiero che, nato dalla vita e dalla storia, vi riconfluisce e vi trova le sue conferme. Essa ha le sue condizioni intrinseche, e la sua metodologia parte sempre da esperienze elementari, fatti collaudabili da tutti, altrimenti si rivela labile e artificiosa, come un mulino che macina a vuoto o un computer  che elabora dati sbagliati. La filosofia è certamente l’espressione della coscienza umana nel suo divenire storico, in quanto ne accoglie in sé le esigenze e gli atteggiamenti, ma non senza beneficio d’inventario, non senza valutazione critica. La filosofia autentica non insegue miti, non ratifica il fatto compiuto, anche se, protesa alla verità liberatrice, porta in sé le premesse, se non l’anticipazione di una nuova storia. A fare i filosofi è l’orientamento verso il valore che pone in essere la stessa ricerca filosofica, non già i mass-media, l’idolatria del progresso, la teoria e la prassi del girellismo (in questo campo c’è chi fa miracoli, nella sua proteiforme mutevolezza, congiungendo la critica scettica di ogni principio e di ogni valore ed una fiducia fanatica nella scienza, assumendo maschere continuamente diverse che gli permettono di passare, ad esempio, dall’idealismo al neopositivismo, dalla filosofia del fascismo a quella del comunismo). Né si può confondere l’umanissimo pathos della ricerca col «sadismo da necrofori» della nuova retorica del tragico, annunciante di volta in volta la morte del bello, la morte dell’arte, la morte di Dio, la morte della filosofia, la morte dell’umanesimo, la morte della scuola e di chissà che cos’altro.

La ricerca filosofica non conosce l’ipse dixit, che non è prerogativa di un’epoca o di un filosofo, ma fenomeno di mediocrità, che si ripete in tutti i tempi nei pagi della cultura; ma critica altresì l’illusione prospettica di credersi veicolo di un progresso in linea retta che rompe tutti i ponti col passato. L’avvenirismo, il profetismo, la presunzione di presegnare il futuro le sono estranei così come ogni ufficio consolatorio. La filosofia non è «esorcizzazione della disperazione», non è né un narcotico, né un eccitante intellettuale; non è né prodotto né sostegno di forze economiche e di ideologie politiche, egemoni de facto o in pectore. Il carattere costante delle pseudo-filosofie, oggi come ieri, è la dissoluzione del concetto stesso di filosofia, del suo significato, della specificità e autonomia della sua problematica e della sua metodologia. Gli indirizzi di pensiero che costituiscono le pseudo-filosofie sottopongono deliberatamente o anche inconsapevolmente il concetto stesso di filosofia ad un logorio, a un’erosione che distrugge la sua possibilità[4]. L’autodistruzione è dunque il carattere intrinseco che le costituisce, così come è il loro segno di riconoscimento più sicuro.

Ma delineare la fenomenologia dell’inautentico non si può senza, nel contempo, giustificare e difendere la più umana delle scienze, «dal grande e onesto nome», come dice sant’Agostino (Conf. III, 4) e la sua immensa potenzialità educativa. Senza dubbio vi sono molteplici forme di svuotamento e di eliminazione della filosofia: oggi sono prevalenti il culto dell’incertezza sistematica, lo scientismo, il sociologismo, l’elevazione del freudismo a Weltanschauung esclusiva, il carattere inevitabilmente parziale e alienante di una cultura che vuol tutto ossessivamente ricondurre alla pressione dei fattori economici, la carenza del senso dell’essere, l’antitesi artificiosa fra storia e metafisica, il relativismo di chi non sa cogliere il rapporto tra la pluralità delle esperienze storiche e l’universalità dei valori. Certamente anche un’osservazione incompleta, un punto di vista unilaterale può svolgere, in determinate condizioni e situazioni, una notevole funzione storica, richiamando l’attenzione su fenomeni trascurati, su esigenze neglette o comunque insoddisfatte. L’idealismo ha messo in maggior rilievo la potenza dello spirito, il positivismo l’esigenza di aderire al reale, il materialismo storico l’importanza dei fattori economici nel moto della storia, il problematicismo la necessità di una ricerca che non si acquieti in facili soluzioni, l’esistenzialismo la drammaticità della vita umana. Ma questa funzione storica non basta ad accreditare positivamente quegli indirizzi nelle loro linee sistematiche e nei loro presupposti. Una corrente di pensiero si può valutare da un triplice punto di vista: dal punto di vista storico, dal punto di vista della potenza speculativa, donde nascono l’architettonica di un sistema e la genialità di alcune vedute, e dal contenuto di verità; confondere insieme questi punti di vista significa mancare di quella chiarezza logica, ch’è fondamento dello spirito critico.

Cause molteplici emergenti dal momento storico che viviamo hanno concorso a far sì che il possibilismo e il problematicismo, per un verso, il sociologismo, per un altro, venissero a costituire, anche là dove non si esprimono con questi termini, il sottofondo di atteggiamenti e concezioni di diversa provenienza e di vario contenuto. Qualcuno potrebbe nobilitare il culto dell’incertezza, ricollegandolo all’antica suggestione della ricerca socratica, al motivo lessinghiano dell’incapacità dell’uomo di fronte all’infinita, assoluta verità, all’inquietudine metafisica del migliore esistenzialismo di Kierkegaard, di Jaspers e di Marcel. Ma l’umiltà di Socrate era autentica ed operante e non tarpava lo slancio del pensiero e la fecondità della ricerca, così come la consapevolezza dell’infinito non inaridiva in Lessing la forza drammatica e le sorgenti della poesia. Certo, a nessuno è lecito dimenticare l’inesauribilità del vero, onde il monito posto in bocca ad Amleto da Shakespeare (There are more things in heaven and earth, Horatio, / Than are dreamt of in your philosophy) è sempre attuale. La stessa esigenza suggerisce a Pascal riflessioni indimenticabili sui limiti e insieme sulla forza insostituibile del pensiero. Ma il problematicismo è, per così dire, al di qua e se si vuole al di là di queste considerazioni. La sua originalità sta proprio nel non superare lo scetticismo, ma nello stesso tempo nel vanificare anche la parte che ad uno scetticismo franco ed aperto può spettare nella ricerca filosofica come termine di un sempre rinnovato processo di superamento del dubbio. L’esibizione di umiltà e di modestia intellettuale, che fornisce lo spunto iniziale, si trasforma ben presto e clamorosamente in un non larvato dommatismo, dall’alto del quale si condannano secoli e millenni di speculazione e di civiltà, nonché il perenne travaglio del pensiero nell’approfondimento di irrinunciabili valori, senza dei quali la ricerca è ricerca di nulla e la possibilità stessa è sterile e distruttiva. Dal che è facile rendersi conto se si riflette che il pensiero umano è sotto un certo aspetto dubbio e ricerca, ma anche conquista e certezza. Se si nega questo secondo momento, il primo momento invade e sopraffà talmente l’altro da renderlo inconsistente e insignificante. In filosofia, poi, non ha senso la pretesa di sostituire alla verità la «sincerità», che senza il valore di verità sarebbe impossibile e diverrebbe posa dilettantesca e vaniloquio. Né vale dire che i problemi della filosofia, per il fatto di essere sempre di nuovo alimentati dalla vita, debbano ritenersi per questo insoluti e insolubili. I problemi della filosofia sono perenni non perché insoluti e insolubili, ma perché tali che ogni generazione e ogni persona deve porseli come che sia. Chi non si lascia frastornare, chi ascolta un po’ da vicino le voci dei sommi – artisti, uomini di religione, maestri del pensiero – sa che essi, pur partendo da punti di vista differenti, significativamente convergono nell’affermazione e nella difesa dei valori fondamentali. In tal modo essi attestano, nel modo più alto l’unità della famiglia umana e l’universalità dei valori nell’atto di alimentarne la coscienza[5].

Il grande sviluppo della sociologia ha dilatato la sua influenza a tal punto da surrogare la ricerca e la metodologia filosofiche, degenerando così in sociologismo[6]. Il sociologismo non è la corretta sociologia, ma un atteggiamento intellettuale e spirituale comune ad alcune sociologie di moda. Il sociologismo esaspera l’influenza della società sull’individuo, ne fa un nuovo Leviatano, non ne precisa i limiti di fatto e di diritto, nega che esistano verità e valori che trascendono le caratteristiche storicamente determinate di una società. Il sociologismo è una forma di determinismo che lascia assi poco spazio alla concreta libertà dell’uomo, quando non la sopprime apertamente facendo del singolo un epifenomeno del tutto, dell’uomo il prodotto o il succube della società, esposto alla violenza aperta della forza brutale o alla persuasione occulta dell’inconscio. Il sociologismo accomuna positivisti e marxisti ed una precisa linea storica che va da Comte a Marx a Durkheim, da Lévy-Bruhl agli strutturalisti contemporanei. Lungo questa direttrice si è mosso anche un pensatore geniale come Max Scheler nel tentativo di spiegare i sistemi metafisici con la sociologia. L’affermazione secondo cui «i ceti e le classi, cui appartengono i metafisici, sono di grande significato per la struttura delle metafisiche; i ceti e le classi dei metafisici sono sempre, o per lo più, ceti e classi che hanno cultura e ricchezza»[7] suona categorica, ma né Scheler né altri hanno mai dimostrato le basi storiche o le ragioni filosofiche che possono giustificare un siffatto canone interpretativo. Qualche esempio può valere più di un lungo discorso. Socrate era povero. Platone era ricchissimo, ma disprezzò tanto le ricchezze da ritenerle piuttosto una concessione da farsi alle classi più incolte della società. Aristotele era agiato, ma non ricco. Entrambi non esitarono a porre in luce le carenze e le responsabilità delle classi e dei ceti da cui provenivano. Tommaso d’Aquino ripudiò privilegi, ricchezze, prospettive di successo mondano per far parte di un ordine mendicante. Spinoza fece il pulitore di lenti e rinunciò ad ogni carriera, pur essendo amico intimo di Jan de Witt; scelse un mestiere di piccolo borghese, ma non ebbe l’animo del piccolo borghese, nel senso che noi oggi attribuiamo dopo Marx a questa espressione. Né erano ricchi Vico e Kant, che erano professori. Si può dunque legittimamente concludere che, senza negare la varia incidenza dei fattori sociali nel pensiero filosofico, si deve tuttavia circoscriverla entro ben definiti limiti, con un valore il più delle volte marginale, per la semplice ragione che quando l’influenza di un certo tipo di società diviene determinante, non ci troviamo più in presenza di una filosofia, ma di una ideologia, trionfante o velleitaria che sia. Il sociologismo sembra essere l’ultimo grido della cultura ed è invece, assai spesso, l’ultima personificazione di una ragione pigra, che senza spingere lo scandaglio oltre la superficie di fatti rilevati e descritti, emette sentenze che vorrebbero essere inappellabili, mentre investono problemi la cui soluzione non può venirci dalla sociologia. Così ad esempio, concediamo pure che sia possibile in campo morale formalizzare in tabelle, come raccomandano F. Rauh e J. Piaget, le norme di comportamento con le relative varianti di un certo numero di soggetti viventi in una data società. Che cosa potremo stabilire? Niente di più che la «media» del loro comportamento. Ma quale che sia il rilievo che possa avere per l’educatore, per il sociologo, per il politico la funzione segnaletica di una media, il fatto è che una media di comportamenti non soddisfa l’esigenza morale che scaturisce dalla coscienza umana. «Se un’indagine statistica fosse possibile in questo campo – osserva Petruzzellis – forse si dovrebbe concludere che la più diffusa è la morale degli immorali. Quale conclusione dovremmo ricavare da questa eventuale constatazione? Quella di diventare del bel numero uno? Questa sarebbe la morale del gregge, del conformista, dell’utilitarista» (p. 16). Ma Kant e Rosmini ci hanno illuminato in profondità sui controsensi di ogni «morale dell’egoismo» e sui limiti di ogni «fisica dei costumi».

La nuvolaglia delle utopie pseudo-pedagogiche e l’inevitabile problema della «selezione»

Quanto s’è detto finora ha una diretta e fin troppo scoperta connessione con il problema educativo, perché non c’è rinnovamento o crisi di cultura che non si manifesti e non si ripercuota, dilatandosi nella scuola e nel costume di un popolo, e in primo luogo nel modo di pensare e di vivere della gioventù, così come è evidente la duplice, correlata influenza della cultura e della scuola sulla politica e della politica sulla cultura e la scuola. Petruzzellis, che in altre opere ha recato molteplici e personalissimi contributi di ordine teoretico e storico agli studi pedagogici[8], dedica quasi tutta la seconda parte del volume alla denuncia e all’analisi dell’inautentico in pedagogia e nella scuola in questo momento storico, particolarmente difficile per il nostro Paese[9].

In una situazione del genere, ogni forma di risposta positiva è necessaria,, ma la più urgente, che dà vigore a tutte le altre iniziative, consiste nello spazzar via quella che Petruzzellis chiama icasticamente «la nuvolaglia delle utopie pseudo-pedagogiche» (p. 519). Anche i filosofi hanno talvolta delineato utopie, ma con la consapevolezza che si esprimeva persino nella parola scelta non a caso da Tommaso Moro. I grandi pensatori hanno sempre auspicato e promosso, per quanto potevano, una rivoluzione nel pensiero e nella coscienza dell’uomo, premessa indispensabile della rivoluzione nel costume e nella vita pubblica, ma, fedeli più di quanto non si creda al senso del reale, non hanno mai confuso gli ideali della ragione e le concrete prospettive storiche con la mitopoiesi che ignora la realtà della natura umana e della storia anche quando dell’una e dell’altra ci offre le semplificazioni arbitrarie che tanto piacciono alla superficialità imperante. Le utopie in circolazione prescindono proprio da questa consapevolezza o comunque la smarriscono per via: l’esigenza giusta da cui prendono le mosse scompare, infatti, nel gioco delle contrapposizioni astratte, che irrigidisce e falsa i dati dell’esperienza secondo una mentalità dommatica e manichea.

Tra gli spunti di riflessione che Petruzzellis ci dà[10], scegliamo come tipici aspetti di un dilagante ed errato modo di pensare il rigetto aprioristico del concetto di selezione e l’ultimo mito per il quale è stato coniato un orribile neologismo, la «descolarizzazione». Ogni epoca ha i suoi tabù; la pedagogia della nostra epoca ha anch’essa le sue parole-tabù. Una di esse è «selezione». Non si può nominarla, se non per escluderla e chi tenti di esaminarne la reale portata pedagogica e sociale, dissipando la cortina fumogena che ci fa perdere di vista la sorte delle persone e la loro destinazione sociale, è un appestato, un reazionario, un nemico del popolo e del progresso, un razzista e chi più ne ha più ne metta. Nondimeno la questione è inevitabile. Contro certe presupposizioni del tutto infondate, forse è bene ricordare che anche Rousseau nel famoso Discorso sull’origine e i fondamenti dell’ineguaglianza prende atto delle differenze di età, di salute, di qualità fisiche e psichiche, che hanno fondamento nella natura, per criticare quella disuguaglianza che nasce dal privilegio. È una verità di facile e comune constatazione che fin dalla vita prenatale siamo diversi gli uni dagli altri ed in tal senso disuguali. Sagge e tempestive riforme sociali e non solamente sociali, un’appassionata opera di educazione, che assicuri veramente per tutto l’arco della scuola dell’obbligo le stesse opportunità di formazione integrale a ognuno, devono far sì che tutti nel cammino della vita partano senza handicaps proibitivi, non commisurati alle forze di chi deve superarli.

Ogni comunità deve impegnare le sue migliori energie affinché sui piccoli, sui ragazzi, sugli adolescenti non pesi lo svantaggio di condizioni ambientali negative. La qualità dell’insegnamento, la personalità dell’educatore, l’efficacia delle attività integrative concorrono a fare della scuola non l’unico, ma, soprattutto per i meno abbienti, il fondamentale organo di «decondizionamento» sociale. La scuola dell’obbligo, se adempie al suo compito, mentre dà a tutti la formazione basilare dell’intelligenza e del carattere, pone le premesse del ricambio sociale e dell’avanzamento dei migliori, com’è necessario che avvenga in una società promotrice di effettiva giustizia sociale. Una scuola, invece, le cui capacità formative siano ridotte al minimo, la scuola facile della degradazione culturale e della promozione obbligatoria è talmente priva di valore da non garantire coloro che l’hanno frequentata dall’analfabetismo di ritorno. Una scuola è non classica, è democratica se dà a chi la frequenta quella formazione umana e quel grado di cultura a cui ha diritto per non essere ingiustamente emarginato e quindi costretto a una destinazione sociale immeritata. Il nostro Paese ha bisogno non di gonfiare artificiosamente le promozioni, non di elargire «una licenza comunque» – col pretesto di eliminare così la selezione che discrimina e umilia – ma d’una scuola non evasiva, non pressappochista, non inconcludente, aperta al mondo ma non asservita alla cronaca e non dissacrata dall’aggressiva deformazione ideologica di ogni problema. Una scuola dell’obbligo culturalmente dequalificata, essa, sì, è uno strumento profondamente reazionario, perché non solo disserve la società in evoluzione, ma danneggia in primo luogo i figli della povera gente per i quali la scuola ha un’importanza decisiva, insurrogabile. Il miraggio tipicamente piccolo-borghese del «pezzo di carta» e del «lavoro che non sporca le mani» sospinge in massa nelle scuole superiori adolescenti senza attitudini e senza interesse per gli studi. Costoro non possono chiedere il «sei garantito» e urlare contro la selezione, il nemico in agguato, se non si impegnano ad un comportamento logico e coerente al tipo di scuola scelto. Né si può nel nostro strano Paese giocare sempre a scarica-barile, per cui ogni scuola rinvia la selezione all’ulteriore grado o ordine di studi. Questo punto di vista qualifica o meglio squalifica i docenti senza carattere, in fuga dalle loro responsabilità, travolti da pressioni dirette ed indirette, ed è rovinoso per gli studenti e per la società perché distrugge in alto e in basso il senso del dovere, l’impegno nel lavoro, che per gli studenti è lo studio, preludio di più dirette e personali responsabilità, vero e indispensabile tirocinio di più complesse e ardue attività.

Al non-studio, al sistema della promozione immeritata, ai don Abbondio in cattedra sono connesse, è inutile nasconderlo, disfunzioni sociali che a brevissimo termine si traducono in altrettante premesse e concause di insopportabili ingiustizie sociali: sì che, alla fine dei conti, giova ripeterlo, sono proprio i giovani che provengono dai ceti meno abbienti i più defraudati da una scuola cui la burocrazia, la contestazione endemica, l’elevato assenteismo dei docenti e l’annuale lotteria dei loro spostamenti non permettono di funzionare che a singhiozzo. La pressione della realtà – in questo caso scuole superiori e università rigurgitanti, laureati e abilitati in massa, un proletariato intellettuale sempre più inquieto e preoccupante, l’inflazione e la svalutazione dei titoli di studio – ha indotto anche accademici che sono in fama di «progressisti» a sostenere la necessità di «una selezione almeno al vertice», cioè all’università stessa, che trabocca di elementi non chiamati agli studi e alle professioni. La proposta, che riserverebbe all’università quella funzione selettiva rigorosamente inibita alle scuole medie superiori, fa intravvedere un barlume di resipiscenza, ma lascia molto perplessi. Infatti la selezione ha possibilità di successo, nonché di essere una operazione indolore,solo se è graduale e progressiva, se è accompagnata dalla possibilità di recupero; riservata, invece, agli ultimi stadi del curriculum non solo susciterà proteste e recriminazioni, ma non eviterà le vocazioni sbagliate. «Uno scolaro di scuola media o di liceo – osserva Petruzzellis – può essere ammonito da un insuccesso scolastico e posto utilmente nell’alternativa di impegnarsi sufficientemente o di abbandonare una via non conforme alle sue possibilità e ai suoi interessi per seguirne con profitto un’altra, per intraprendere un’attività socialmente più utile. Uno studente universitario, che si veda bloccato un esito che la facilità dell’itinerario già percorso gli faceva presumere sicuro, andrà ad ingrossare le file dei disadattati sociali, dei protestatari e dei velleitari di professione» (pp. 407-408). «Ci  penserà la società a operare la selezione», si sente ripetere spesso e la frase non sarebbe così d’uso corrente se non costituisse un comodo alibi per tante mezze coscienze. «La società – risponde il Nostro – certamente seleziona una volta, ma la sua selezione è spesso brutale e impietosa e agisce in senso contrario a quello auspicato, perché in una società corrotta che la scuola non ha saputo rinnovare, non sono i migliori che riportano la palma del successo» (p. 520).

In ogni caso, una selezione a laurea conseguita avverrebbe troppo tardi, ossia quando non è più possibile orientare i singoli verso mete più consone alle loro attitudini. La selezione, invece, conserva un carattere eminentemente pedagogico e di alto valore sociale se è lenta, graduale, tempestivamente orientativa, se sa tenersi lontana tanto dal rigorismo che dal lassismo. Il giudizio negativo a scuola non può essere un atto di arbitrio e non dovrà mai escludere un orientamento che indichi un capo di attività più consone alle attitudini di ogni educando[11]. La scuola ha il compito di rivelare e saggiare le attitudini (intelligenza, volontà, impegno morale, vocazioni particolari), di corroborarle dove sono più deboli, di orientarle, là dove manchi un deciso spirito d’iniziativa. Ma la scuola non può essere orientativa, senza essere anche selettiva: l’orientamento è una scelta che si promuove, là dove esistano i presupposti e le condizioni necessarie. La scuola non può creare dal nulla, né iniziare tutti al paese di Bengodi, bensì alla vita che è una cosa seria, tanto seria da essere spesso drammatica. Non si tratta di escludere nessuno dal banchetto della vita (dato che la vita sia un banchetto) e tanto meno dalla società, ma di dare ad ognuno la consapevolezza della sua personalità e la misura delle proprie possibilità e dei propri limiti. Se tale è il compito della scuola, quello di un buon governo consiste nell’aprire sbocchi sempre più ampi e differenziati al lavoro e alle attività di ciascuno in modo che nessuna energia si perda o si disperda, che tutte le forze vengano utilizzate in un’armonica collaborazione. In tal modo si eviterebbe che tutti imbocchino la stessa strada, seguendo ingannevoli miraggi, lacerando la pace sociale, disperdendo le proprie energie in lotte infeconde, imboccando vicoli chiusi.

L’ultimo mito: la morte della scuola

L’ultima utopia, perentoria, paradossale e già celebre, ce la dà I. Illich nel suo libro-manifesto Descolarizzare la società (trad. it. Mondadori, Milano, 1972). L’autore opina che «oggi occorre il disconoscimento costituzionale del monopolio della scuola, cioè di un sistema che associa legalmente il pregiudizio alla discriminazione». «Occorre una legge che proibisca nelle assunzioni, nell’esercizio dei diritti elettorali o nell’ammissione ai centri di apprendimento, ogni discriminazione basata sul possesso o meno di determinati titoli di studio». In cambio dei famigerati titoli di studio sarebbero possibili «prove pratiche di idoneità a ricoprire una funzione o un ruolo». La scuola non è necessaria dal momento che «quasi tutto ciò che si impara lo si apprende casualmente, e anche l’apprendimento più intenzionale non è il risultato di un’istruzione programmata». Basta con la scuola e col «gioco rituale delle promozioni graduate» che le è così caro. Se l’istruzione è «la scelta delle circostanze che facilitano l’apprendimento», perché questa scelta non lasciarla la maggior interessato, a colui che deve istruirsi? «Descolarizzare significa abolire il potere di una persona di costringere un’altra a partecipare ad una riunione. Significa anche riconoscere che ogni individuo, di qualunque età e sesso, ha il diritto di indire una riunione». «Comunque è meglio combinare un incontro al caffé, magari attraverso un computer, tra due sconosciuti, aventi in comune l’interesse per un libro o per un problema, che iscriversi a una università e, peggio, frequentarla». «Autodidattica», dunque, e «educazione per tutti da parte di tutti», ecco le nuove direttrici della liberazione dell’uomo dalla tirannia della scuola. I. Illich, come si vede, procede col metodo solito della letteratura protestataria: colpisce qua e là l’abuso, ma non riesce a salvaguardare l’uso legittimo di un organismo come la scuola. Descrive la patologia della scuola e ne ignora totalmente la fisiologia. Constata  la crisi della scuola, ridotta ormai a un distributore automatico di diplomi, e ne decreta la morte, invece di ricercare le cause effettive di un fenomeno che, purtroppo, mai è stato così massiccio come da quando sulla scuola si è abbattuto il ciclone della contestazione.

La scuola è in crisi come è in crisi la società, di cui è insieme espressione ed organo, ma molte carenze che vengono imputate alla scuola sono il riflesso della società a cui appartengono docenti, discenti, genitori. L’educazione non è mai l’opera esclusiva della scuola (il «monopolio della scuola» di cui parla Illich è un fantasma privo di consistenza, il bersaglio di una polemica sfocata), essendo il punto di convergenza di azioni e influenze diverse di singole persone, di famiglie, di gruppi e istituzioni pubbliche e private. La proposta di far ricorso a «prove pratiche di idoneità a ricoprire una funzione o un ruolo» come sostitutive in tutto dei titoli di studio può sembrare plausibile, ma è in fondo inattuabile. Si pensi, infatti, al carattere poco attendibile di una prova «pratica» che dovesse accertare in una sola volta l’idoneità di un candidato sconosciuto ad adempiere funzioni complesse, non tutte ipotizzabili e prevedibili, quali sono quelle di un avvocato, di un giudice, di un medico, di un ingegnere. Quanto dovrebbe durare una prova del genere prima di poter affidare i beni, l’onore, la vita del prossimo ad un aspirante alle professioni sopra citate? E chi sarebbero i giudici di siffatta prova? Rousseau, Lambruschini, Schneider – per citare solo alcuni dei maggiori – hanno distinto con chiarezza l’educazione indiretta e l’educazione diretta, l’istruzione funzionale e quella intenzionale e hanno indagato con profondo acume le differenze e le interferenze inevitabili tra l’uno e l’altro momento, ambedue essenziali, del processo di formazione umana. Illich, invece, è perentorio: ciò che s’impara, lo si apprende casualmente e non occorre nessuna istruzione programmata. Il fatto è che gli enunciati del frettoloso monatto della scuola non corrispondono alla realtà dell’esperienza educativa, così come si manifesta nei suoi caratteri più semplici e irrefutabili.

Non è vero affatto che l’istruzione parte dalla scelta, operata dall’educano, delle circostanze che facilitano l’apprendimento; essa è piuttosto un complesso processo multipolare il cui risultato è quello di porre il soggetto in grado di operare quelle scelte in maniera sempre più razionale. Se l’educando avesse la facoltà di scegliere le circostanze che facilitano l’apprendimento, sarebbe già maturo e non avrebbe più bisogno di apprendere e di educarsi; potrebbe se mai scegliere e predisporre le condizioni per un perfezionamento ulteriore, come difatti fa l’adulto che voglia approfondire la sua cultura o la sua competenza specifica. «Questa confusione tra l’educando che muove i primi passi nella via del sapere ed ha bisogno di guida, come quando ha appreso a camminare, e l’individuo adulto e maturo, che prosegua consapevolmente per la sua strada, è l’equivoco fondamentale alla base di queste presunte didattiche, che in realtà vanificano le condizioni primarie dell’istruzione. Questa, se ha e deve conservare un senso, è fatta d’insegnamento, da un lato, e quindi di iniziative nel predisporre l’ambiente, le circostanze, i fattori dell’istruzione, e di apprendimento, dall’altro, in quanto il discente abbia consapevolezza, sia pure oscura o aurorale, anzitutto della sua esigenza di apprendere, come componente in pieno spontaneo dinamismo della sua personalità in fieri» (pp. 543-544).

Il mito dell’autodidatta in senso assoluto crolla di schianto non appena si commisura alla realtà quale è data dalla concreta esperienza di chi educa ed insegna. Neanche Emilio, protagonista del romanzo pedagogico di Rousseau, può considerarsi, a conti fatti, un vero e proprio autodidatta, perché senza le precauzioni, la predisposizione dell’ambiente, la programmazione segreta, il puntiglioso controllo preventivo del precettore, messo costantemente alle sue costole, da sé non imparerebbe nulla o ben poco a caso. Prendere come un dato di fatto, legittimamente generalizzabile, l’ipotesi o piuttosto il sogno di un enfant prodige, che per scienza infusa o diritto di nascita sappia tutto ciò che deve cercare e il metodo col quale si deve ricercare, senza che mai nessuno glielo abbia insegnato, presumere che questo semidio possa estendere e arricchire il suo sapere solo mediante l’incontro e la conversazione con altri semidei suoi simili, vuol dire decollare dalla realtà per spaziare nei regni fioriti, ma piuttosto nebulosi e insidiosi della fantasia, sottratta al controllo del pensiero critico.

Uno dei compiti della scuola è anche quello di pervenire a un giudizio di valutazione del grado di cultura e di maturità degli studenti. Non si tratta affatto di un rituale o di un gioco, come pensa Illich, ma risponde a un’esigenza legittima e insopprimibile. «Una legge della didattica, che nessuna utopia potrà mai cancellare, richiede la gradualità del processo di apprendimento e di assimilazione, al quale non può non far riscontro, per l’ulteriore continuità dell’insegnamento, l’accertamento del profitto realizzato in ogni grado o momento culminante di quel processo» (p. 549). L’insegnante non ha il potere, contro cui insorge Illich, di «costringere un’altra persona ad una riunione», cioè a frequentare la scuola. Se mai è la legge, almeno dove l’istruzione elementare e media è obbligatoria, che potrebbe costringere gli scolari a frequentare la scuola. Che poi un bambino possa indire una riunione non solo per un gioco o per uno sport, ma anche per insegnare ad adulti e a coetanei ciò che non conosce è una «trovata» che fa colpo, ma non è tesi sostenibile da nessun punto di vista. francamente riesce difficile pensare come uomini i quali fanno spreco di genialità non si rendano conto che i loro miti non possono avere che un risultato e un prodotto: una formazione egocentrica che prolunga il naturale egocentrismo dell’infanzia nell’innaturale egocentrismo del giovane e dell’adulto. «Chi non ha imparato per tempo – scrive Petruzzellis – a dominare i propri istinti egoistici, chi si sottrae ad ogni disciplina interiore ed esteriore, chi pretende di “specializzarsi” secondando non una libera scelta razionale, di cui è necessaria premessa una seria cultura di base, ma seguendo un arbitrio, un capriccio, un’idea oscura e confusa di ciò che potrebbe o dovrebbe essere, secondo la propria incontrollata fantasia, chi crede di formarsi e di temprarsi in “istituzioni conviviali”, dove “s’ei piace ei lice“, come nell’età dell’oro dell’Aminta tassesco, non imparerà mai ad amare e a servire disinteressatamente i fratelli, ma piuttosto a servirsene come strumenti di utile o di piacere. Chi è abituato a considerare la modesta disciplina scolastica come un attentato alla sua personalità e alla sua libertà non potrà non arretrare dinanzi ai sacrifici che la professione, la famiglia, la società richiedono ogni giorno. La speranza, in cui si rifugia Illich, come altri prodotti di moda, è solamente un’illusione senza fondamento» (pp. 550-551).

Il lettore che voglia rendersi esatto conto del libro del Petruzzellis deve ripercorrerne per conto suo l’itinerario logico e speculativo, sempre aderente ai fatti e immune da ogni esoterismo. Pure dall’analisi degli argomenti scelti, tra i molti affrontati dall’Autore, ci pare di poter concludere che Petruzzellis, attraverso diagnosi puntuali e acute, ha saputo risalire alla patologia generale dei mali di cui soffre più dolorosamente l’umanità di oggi e in particolare la società e la scuola italiana. La maggior virulenza del malore intellettuale, morale e civile è rilevabile dagli stessi sforzi di nasconderlo e di additare false cause o di spostare l’attenzione su fenomeni superficiali, che sono effetto o sintomi e non cause, o se mai cause prossime. Occorre invece, con determinazione, resistere al bombardamento delle ideologie e alla pressione sociomorfica per veder chiaro, per acquistare la maggior consapevolezza possibile della logica delle idee e degli eventi; bisogna volere la verità non per indulgere ad uno stolto e paralizzante catastrofismo, ma per dare slancio vigoroso e concretezza massima all’opera di ricostruzione e di riscoperta dei valori, in primo luogo da parte delle nuove generazioni. I mali sono ancora sanabili se non ci diamo ad una fuga generale e sia pure ad una fuga in avanti, che non è meno frutto di pusillaminità di qualunque fuga alle spalle o in retrovia.

La Critica dell’inautentico è opera di alta passione educativa, che congiunge il rigore logico a un severo, schietto amore per gli uomini, nata com’è da un atto di fiducia nella forza liberatrice della ragione e nella sincerità con la quale ogni uomo può, se vuole, socraticamente rapportarsi all’universalmente umano, cioè a quella verità che la sofistica può oscurare, ma non distruggere. Certo, la mediocrità conformista di individui e di gruppi, osannanti agl’idoli di turno o soltanto succubi di essi e incapaci di evaderne, può disdegnare o fraintendere ogni appello alla ragione critica e al coraggio. Atteggiamenti del genere imperversano oggi come grave fatto di costume e si giudicano da sé. V’è però tra i giovani e i non più giovani chi cerca in spirito di verità, chi studia e lavora sul serio, deciso a non riecheggiare passivamente l’ultima parola d’ordine, a non piegarsi alla moda imperante, alle astuzie dell’egoismo individuale o di parte, all’impudente sopraffazione ideologica; e soprattutto fra gli uomini di scuola v’è pure chi, tra ostacoli di ogni genere, onora non a parole l’umanità ch’è in sé e negli altri, nell’atto d’insegnare e di educare coloro il cui sviluppo perfettivo gli è stato affidato per quel che gli compete. Pochi o non pochi che siano, costoro, i non conformisti veramente pensosi di ciò di cui più ha bisogno il figlio dell’uomo, costituiscono la vera forza riparatrice e innovatrice che prepara un avvenire più degno. Essi sanno di dover affrontare, per le scelte operate, il rischio della «emarginazione faziosa», ma sanno anche che la civiltà deve tutto agli emarginati, la cui lista, più lunga e cospicua di quanto si creda, fatta da uomini grandi e meno grandi, può essere agevolmente compilata da chiunque non sia digiuno di storia civile, politica, culturale. A noi basti qui ricordare i grandi prototipi: Socrate e Cristo. È essenziale per il destino presente e futuro dell’umanità che Socrate e Cristo abbiano ancora dei discepoli.

[1] Pedagogia e Vita, 2 / dicembre 1974 – gennaio 1975.

[2] K. Jaspers, Ragione e antiragione, trad. it. Sansoni, Firenze, 1970.

[3] Il volume di Nicola Petruzzellis, Critica dell’inautentico (Napoli, Editore Giannini, 1974, pp. 568), che qui presentiamo soprattutto nel suo esplicito significato pedagogico, svolge una tematica molto ampia e difficilmente riassumibile. Nella prima parte, sotto il titolo Per una ricostruzione filosofica, l’autore raccoglie saggi che affrontano problemi fortemente incidenti sull’orientamento degli spiriti: le illusioni dello scientismo e le sedimentazioni positivistiche in Jean Piaget; la possibilità in senso formale come soluzione fittizia del problema dell’esistenza; l’oblio dell’essere e il recupero della problematica ontologica; la cosiddetta «antinomica» dei valori e la concezione dello spirito obiettivo di Nicolai Hartmann, il geniale filosofo tedesco spentosi nel 1950; la falsa antitesi tra proposizioni descrittive e proposizioni normative e i sofismi del «non cognitivismo valutativo» di J. E. Appenheim;  l’universalità dei valori e il pluralismo delle forme storiche di civiltà; l’uomo nella prospettiva della «eticità», cioè l’illustrazione dello statuto comune alle distinte attività fondamentali dell’uomo, ciascuna delle quali è caratterizzata da una tensione che la orienta verso una determinata meta, in funzione della quale l’attività stessa si svolge e si qualifica; l’analisi delle passioni, un argomento di vibrante interesse umano, in tre grandi pensatori, Tommaso d’Aquino, Cartesio e Spinoza; il significato dell’estetica schellinghiana e la critica dell’irrazionalismo; l’ambivalenza del concetto di «teatralità» e il rapporto tra politica e teatro, tra l’autore e i suoi personaggi; Antonio Fogazzaro e il neo-modernismo. La seconda parte del volume è dedicata alla «crisi del costume», indagata sia attraverso la rassegna critica delle idee correnti, nate spesso dalla esasperazione di quegli indirizzi del pensiero contemporaneo che fanno moda, sia attraverso l’esame spregiudicato dei problemi educativi che oggi sono sul tappeto, problemi gravi e urgenti la cui soluzione è resa più difficile dalla virulenza dei molteplici fattori che inquinano la cultura e l’insegnamento. La molteplicità degli argomenti non è mai dispersiva, perché una visione teoretica coerente è sottesa alla loro trattazione ed emerge da essa, trovando a sua volta una conferma particolarmente feconda nell’intelligenza dei problemi pedagogici, etici e politici e nello scandaglio di fenomeni storici e sociali del nostro tempo. In tal modo l’impegno speculativo della prima parte si salda a quello etico-pedagogico della seconda parte, conferendo all’opera una sua effettiva, intrinseca unità e una forte caratterizzazione culturale.

[4] La pseudo-filosofia distrugge la ragion d’essere di una ricerca specificamente filosofica nella coscienza di chi ne accoglie le produzioni, senza raffrontarle, col rigore dovuto, a quelle dei grandi maestri del pensiero, i quali, come si sa, spesso sono del tutto assenti o sono ridotti a caricature odiose, non solo in certe facoltà universitarie, ma anche nell’insegnamento liceale. Si spiega allora come tra i docenti di filosofia, molti dei quali sono valorosi per la preparazione culturale e per gli intenti educativi, stia affiorando un tipo nuovo ed eccentrico che sparla dei filosofi e della filosofia, con un misto inconsapevole di civetteria e di disimpegno apparente, perché non giunge mai alle dimissioni, che pur sarebbero rigorosamente consequenziali. Né vale affatto la scappatoia che insegnare la storia della filosofia non significa essere compartecipi delle astrazioni, delle utopie, delle responsabilità della filosofia, perché non v’è cosa più insensata che insegnare cose prive di senso o addirittura fuorvianti. Il professore di filosofia, che non crede più al significato profondo e all’autonomia della disciplina che professa, è anche più esposto di altri alla suggestione ideologica. «Frustrato dalla ricorrente accusa di essere lontano dalla realtà, senza il freno di una critica autentica ed efficiente, che è anche, inseparabilmente, autocritica, trascinato da spinte psicologiche molteplici e dall’abito di teorizzare a tutti i costi, anche a costo di farsi sfuggire la tanto decantata realtà, egli accoglie nel suo pensiero motivi ideologici correnti, cercando di nobilitarli con la dialettica, che è un ferro piuttosto logoro del mestiere, con citazioni che non hanno ormai più nulla di nuovo e di illuminante, tanto sono scontate e risapute. Ma il rivestimento è superficiale, la teorizzazione è una fragile e instabile sovrastruttura e non riesce a dissimulare la confusione delle idee e degli intenti» (Critica dell’inautentico, p. 397).

[5] «La lettura di Omero, di Eschilo, di Sofocle, di Erodoto, di Tucidide, di Demostene, di Plutarco, di Epitteto, di Marco Aurelio  (è meglio leggerli accuratamente in una traduzione piuttosto che imparare la loro lingua e leggerne solo qualche brano); la lettura di Virgilio, di Terenzio, di Tacito e di Cicerone; di S. Agostino, di Dante, di Cervantes, di Montaigne, Shakespeare, di Pascal, di Racine, di Montesquieu, di Dickens, di Goethe, di Dostojevskij, alimenta lo spirito del senso e della conoscenza delle virtù naturali dell’onore e della pietà, della dignità dell’uomo e dello spirito, della grandezza del destino umano, degli intrecci del bene e del male, della charitas humani generis. Una simile lettura, più di qualunque corso di morale naturale, trasmette alla gioventù l’esperienza morale dell’umanità » (J. Maritain, L’educazione al bivio, trad. it. La Scuola Ed., Brescia, 1950, pp. 97 – 98) Esiste, a dire il vero, tra le diverse grandi filosofie, se riconoscono la dignità dell’uomo, e tra le diverse forme di credo cristiane e anche di credenze religiose in genere, «una comunità di analogia» assai profonda, essendo la nostra una civiltà greco-giudaico-cristiana.

[6] Petruzzellis sviluppa la critica del sociologismo nei volumi Problemi e aporie del pensiero contemporaneo, II edizione, 1970, Il problema sociologico nella prima metà del sec. XIX,  I ristampa, 1966 e Lineamenti di filosofia politica,  II ed., 1966, tutti pubblicati dalla Libreria Scientifica Editrice di Napoli.

[7] M. Scheler, Sociologia del sapere,  trad. it. Abete, Roma, 1966, p. 96.

[8] Petruzzellis ci ha dato una esposizione sistematica del suo pensiero pedagogico in  I problemi della pedagogia come scienza filosofica (VI edizione, Giannini Editore, Napoli, 1973). Egli ha scritto, inoltre, Il pensiero politico e pedagogico di G. G. Rousseau (I ristampa della II ed., Libreria Scientifica Editrice, Napoli, 1968), Il pensiero pedagogico di G. F. Herbart (III ediz., Libreria Scientifica Editrice, Napoli, 1970), La scuola del preadolescente (II ediz., Libreria Scientifica Editrice, Napoli, 1961) e una Storia del pensiero filosofico e pedagogico (3 vol. Libreria Scientifica Editrice, Napoli, 1966). Una sezione di Sistema e problema (nel vol. II, pp. 293 – 408, Libreria Scientifica Editrice, Napoli, 1968) è dedicata ai «Problemi pedagogici e didattici».

[9] Generoso fu lo slancio del dopoguerra, quando si lottò per l’alfabetizzazione del popolo e il rinnovamento della scuola di base; grande fu l’impegno per estendere la scuola dell’obbligo fino alla licenza della scuola media inferiore; poi sono prevalsi l’impotenza rissosa, la stasi, il caos della contestazione, la confusione delle idee. Si direbbe che la scuola sia stata il terreno elettivo su cui la classe politica italiana nel suo insieme, pur con le debite eccezioni, abbia mostrato i suoi limiti e la sua complice sottomissione a una burocrazia capace di qualsiasi intralcio, di qualsiasi favore e dunque di qualsiasi corrispondente abuso. Negli ultimi anni si è tentato di controbilanciare il vuoto pericoloso prodotto dalla politica del rinvio (che è poi la politica dello struzzo) con provvedimenti demagogici che, se non hanno riformato la scuola italiana, ne hanno però accelerato lo scardinamento. Coloro che vivono dei valori della cultura, lavorano nella scuola e accettano sinceramente la democrazia sostanziale come ideale etico-politico, hanno mille ragioni per gridare la loro rabbia nei confronti di una gestione del potere che, con i suoi errori e le sue ancor più gravi omissioni, ha di fatto spinto i figli di un’intera nazione all’infezione della protesta eversiva, che minaccia di fare di tanti giovani degli spostati.

[10] Tra gli argomenti che possono interessare il lettore ci permettiamo di segnalare: il declassamento dell’università, il valore della lezione accademica e delle congiunte esercitazioni, gli equivoci del giovanilismo, che cosa è e che cosa non deve essere il diritto allo studio, le speranze suscitate dalla contestazione studentesca e la sua degenerazione nella faziosità cronica e nell’asservimento ideologico, il necessario rifiuto dell’edonismo nella vita personale per essere strumenti di giustizia nella vita sociale, le tentazioni dell’intellettuale e del professore oggi, la diagnosi della demagogia, il carattere antiborghese dell’ideale politico mazziniano e della morale kantiana, il rapporto tra disarmo intellettuale e disarmo morale, l’uomo «televisivo» e il filosofo dei mass-media, la libertà d’insegnamento, alienazione e massificazione, verifica del concetto e dei problemi della secolarizzazione.

[11] Invece di incoraggiare nelle famiglie, negli studenti, nell’opinione pubblica una specie di «credo» nel diritto di promozione e un vero e proprio riflesso condizionato nell’associare selezione e repressione, con una demagogia di cui dev’essere ancora pagato il prezzo, si sarebbe reso un servizio al bene comune e ai giovani, affiancando alla scuola in maniera non saltuaria e rapsodica «centri di orientamento» che collaborassero anzitutto con gli studenti e le famiglie per la scelta oculata del tipo di scuola o di altro lavoro. In questo campo manca una legge che disciplini tutta la materia e gli organici esistenti e i mezzi sono del tutto insufficienti.