La D.C. fuori convalescenza

Con l’editoriale «una casa per l’Italia» Adesso (1 marzo) ha tempestivamente impostato il problema della scambievole fiducia tra i partiti della concentrazione democratica, domandando ai compagni di cantiere della D.C. una dichiarazione di lealtà verso i cattolici.
Per non creare equivoci pericolosi, si vuole dissipato il pregiudizio che i cattolici al governo non rappresentano una vera garanzia di libertà, di democrazia, di giustizia se non sono stimolati e controllati dai liberali, dai repubblicani e dai socialdemocratici. Il «monopolio del ben-pensare politico» come ci disgustava ieri, quando alcuni pezzi grossi d.c. se lo accapparravano in nome della D.C., così ci urta oggi se direttamente o indirettamente rivendicato dai movimenti laici nei confronti dei cattolici e della D.C.
Tutto ciò è giustissimo, ma è del pari evidente che a liquidare le diffidenze anticattoliche devono essere anzitutto gli stessi cattolici ed in modo speciale quelli delegati a precise responsabilità politiche. Certe diffidenze, prima di paralizzare gli amici ed ingenerare derisione negli avversari, pongono in angoscia i cristiani impegnati a trasformare in imperativo ad agire la visione cristiana del mondo. Sarà un bene per tutti convincerci che la D.C. e le forze democratiche e sociali devono guardarsi insieme dalle peste dei «grandi» cristianamente senza fede che giocano a fare i machiavellici, mentre coloro che intendono essere integralmente fedeli alle aspirazioni evangeliche della loro azione politica e sociale non possono tendere a far proprio l’anelito fondamentale della civiltà contemporanea: lavorare alla conciliazione delle moderne esigenze dell’economia socialista con l’eredità politica del liberalismo finalmente ricongiunte nell’etica cristiana, sorgente prima e più feconda, interiore vivificazione e superiore compimento delle convenzioni democratiche e socialiste.
La D.C. esca dunque di convalescenza, riprenda coscienza del suo compito fondamentale che giustifica la sua presenza politica in questo dopoguerra, operi senza mimetismi e senza filìe, lealmente collaborando con tutte quelle forze i cui ideali, di gran lunga superiori a quelli eminentemente anticristiani delle dittature di destra (comprese quelle dei clericali) e di sinistra, proclamano, nel rispetto della persona umana, la preminenza della giustizia e la subordinazione dei beni terreni ai beni immateriali.
Non si può tentare di piacere a tutti o alternativamente a destra e a manca, senza perdersi nell’insignificanza; ma la D.C. non può permettersi il lusso di giocarsi l’anima. L’anima deve salvarsela ritrovando, nell’unità e nella novità, lo slancio e il coraggio necessari per ripudiare gli espedienti di una «salvezza accomodatizia» (propter vitam vivendi perdere causas).
Bisogna risollevare il Paese da quel senso di esasperata e scontrosa stanchezza, da quel senso di stordimento che lo avvelena e lo mortifica e che prepara le condizioni psicologiche più atte al maligno riflusso del passato (monarchismo e fascismo) e all’avanzata del totalitarismo comunista. L’insecuritas del 7 giugno, se avrà contribuito a rendere chiare le direttrici di marcia, più nette le mani, più sincere e costruttive le amicizie, gioverà a noi e al Paese ben più dell’orgogliosa sicurezza creata dal 18 aprile.
I meriti e le colpe di ieri è bene che ci siano di stimolo e di monito, non di peso; oggi i cattolici sanno che è estremamente pericoloso perder tempo e che questa legislatura potrebbe bastare a perderci o a salvarci con onore.
Oggi il popolo cristiano non può più accontentarsi di deboli prove e di sparute testimonianze per sostenere, anche in politica, dinanzi alla propria coscienza prima ancora che dinanzi agli amici «laici» e agli avversari, la propria fede nelle più grandi verità: non induciamolo più oltre in tentazione.

Adesso, 15 marzo 1954.