La difficile uscita dal comunismo dei paesi dell’est Europa

I.Un atteso incontro fra due Europe

Nella città italiana di confine per antonomasia, Gorizia, le due Europe finalmente si incontrano per conoscersi meglio, per capire quanto è accaduto nell’ultimo biennio 1989 – 1991, che passerà certamente alla storia come il simbolo stesso della tragedia e della straordinaria volontà di vivere dell’Europa centro-orientale. L’incontro internazionale su «Gli attori sociali del mutamento nell’Europa dell’Est – I nuovi progetti istituzionali e la collaborazione Est-Ovest» ha visto convenire a Gorizia quella parte della intelligencija più attenta allo studio dei grandi fatti sociali nella consapevolezza che uno sforzo di sintesi oggi si impone e con urgenza, perché il mutamento da interpretare è anche una realtà complessa da ricondurre a un progetto, a un ordinamento che renda possibile a tanti Paesi, dopo mezzo secolo o tre quarti di secolo di comunismo, in primo luogo di sopravvivere alla crudele transizione e poi di crearsi un futuro che li ricongiunga vitalmente all’Occidente.
Sopravviverà la ex-Unione Sovietica alla tremenda crisi economica, politica, etnica che il nuovo corso tentato da Gorbaciov non ha potuto né impedire, né tanto meno risolvere? Domande analoghe si fanno per i loro Paesi ex-comunisti i polacchi, i cecoslovacchi, gli ungheresi. È palpabile negli illustri convegnisti l’intreccio di due elementi che rendono drammatici i loro interventi: la consapevolezza che per ricongiungere l’Est all’Ovest bisogna al più presto liberarsi dalla pesante eredità comunista e, dall’altro canto, la consapevolezza, altrettanto lucida, che l’operazione è tanto necessaria quanto difficile ad essere sopportata da popoli che hanno sofferto troppo a lungo. Il timore espresso per la Russia da Solzenicyn sintetizza pure come meglio non si potrebbe, lo stato d’animo dei sociologi, degli economisti, dei diplomatici di tutti i Paesi ex-comunisti: «L’orologio del comunismo ha cessato di marciare. Ma il suo edificio di cemento non è ancora crollato. E che noi, piuttosto che liberati, non si finisca schiacciati sotto le sue macerie».

Quali sono stati e sono tuttora gli attori sociali del mutamento nei Paesi dell’Est europeo? Intorno a questa domanda ha ruotato la prima giornata di relazioni e dibattiti. Le risposte sono state molteplici, e ognuna di esse ha messo in risalto cause reali, talora distinte e di diverso peso, tal’altra convergenti o addirittura interagenti. I protagonisti del mutamento sono nello stesso tempo individui che si fanno portatori di esigenze diffuse e di ideali etici, ma anche gruppi sociali, veri e propri movimenti passati a poco a poco dalla clandestinità a quella «congiura a chiaro giorno» che è la discussione, il confronto. Ma protagonisti sono stati anche quei quadri del Partito comunista che, al di là della retorica ufficiale, volevano riformare il comunismo. In un regime che annienta gli oppositori, solo il partito al potere può generare, infatti, i riformatori del sistema stesso.
Benché l’Occidente lo abbia nel passato sopravvalutato, oggi non si deve per reazione commettere l’errore opposto di negare il ruolo svolto dagli stessi comunisti, una volta divenuti ex-stalinisti e critici del dittatore georgiano. L’idea che il cambiamento fosse necessario e inevitabile era nata proprio nei Paesi comunisti, là dove la dura realtà non permetteva la mitologizzazione del regime, come invece avveniva nei fanatici adepti che vivevano in Occidente. Questo hanno rilevato concordemente il cecoslovacco Jisef Alan e gli ungheresi Gyorgy Csepeli e Antal Orkeny. La critica dello stalinismo – dell’economia di comando, del potere totalitario e del terrore di Stato – esplose dentro il mondo comunista, nell’Urss come nei Paesi dell’Est, subito dopo la morte del tiranno. Già quattro mesi dopo la morte di Stalin, Imre Nagy espose al Parlamento comunista di Budapest il primo progetto di perestrojka del sistema. Nagy vedeva bene il nesso tra economia di comando e dittatura politica e l’impossibilità della propaganda e dei mezzi repressivi a cancellare «il violento contrasto tra le parole e i fatti che scuoteva alle fondamenta il partito». Nel ’56 ci fu il rapporto Krusciov sui crimini di Stalin, ma nello stesso anno, ci furono da parte di Krusciov la repressione della rivolta ungherese e la drammatica eliminazione di Nagy. Poi nel ’68 ci sarà la «primavera di Praga» e il fallimento di Dubcek non sarà meno radicale, anche se gli sarà risparmiata la sorte di Nagy. Da ultimo in Unione Sovietica, quando l’impero comunista era ormai in dissoluzione e la «dottrina di Breznev» sulla sovranità limitata dei Paesi europei comunisti non poteva essere più mantenuta, Gorbaciov ha dovuto cedere al revisionismo; praticando però una politica a zig-zag, ha vanificato ogni seria riforma e ha reso sempre più caotica e disperata la situazione dell’ormai ex Unione Sovietica. Il limite e il falso presupposto di ogni revisionismo comunista sono ben chiari: è infatti, mistificatorio celebrare Lenin, dal momento che il pensiero e la prassi del comunismo staliniano sono filiazione diretta del marxismo-leninismo.

Contributi meno appariscenti, ma non meno incisivi al mutamento sono venuti da altri «attori» quali le chiese, la rinascita della coscienza nazionale, i movimenti di dissenso non-violento per il rispetto dei principi costituzionali affermati in astratto anche dai regimi comunisti (come ad esempio «Charta ’77» in Cecoslovacchia), la crescente domanda di diritti umani, la determinazione con cui nuclei sempre più numerosi di giovani intellettuali hanno saputo dar vita ad una «società parallela» rispetto a quella gestita dal potere. Le relazioni di Achille Ardigò, di Vaclav Belohradsky e di Joanna Kurczenka ne hanno evidenziato l’efficacia e la novità.
Il polacco Wojciech Swiatkiewicz ha analizzato il ruolo svolto dalla Chiesa cattolica nel suo Paese; ruolo unico, si può ben dire, ed anche irripetibile, perché conferito alla Chiesa e da essa assunto in circostanze eccezionali. È bene, tuttavia, non dimenticare l’assai più difficile e tormentata testimonianza della Chiesa ortodossa nell’Unione Sovietica. La Chiesa ortodossa in Russia, quali che siano stati gli inevitabili cedimenti della gerarchia a un’oppressione totalitaria mai vista prima nella storia, è una Chiesa martire che ha percorso la sua Via Crucis fino in fondo. Essa è rimasta pur sempre l’unico luogo libero dalla ideologia e dalla retorica comunista, il luogo in cui si verificava il rifiuto del marxismo in virtù dell’essenza stessa del messaggio evangelico, di cui ogni Chiesa cristiana rimane il tramite. La Chiesa ortodossa nei settant’anni di ateismo di Stato ha testimoniato Cristo con un numero così alto di perseguitati per motivi di fede che a loro confronto l’esercito dei martiri dei diciannove secoli precedenti è piccolissima cosa.
Una particolare attenzione è stata riservata, com’è giusto, dagli italiani Alberto Gasparini e da Laura Bergnach al riemergere delle etnie e delle nazionalità. Il problema è diventato tanto più grave e riveste aspetti assai preoccupanti perché fatto magicamente sparire da ideologie pseudo-universalistiche.
Vladimir Ilic Lenin dichiarava: «Il problema delle nazioni si colloca, in graduatoria d’importanza, al di sotto del decimo livello». Ma le nazioni dichiarate morte, ci sono e i Superstati che avevano preteso di cancellarle, come l’Unione Sovietica e la Repubblica jugoslava, non ci sono più. Un progetto multinazionale oggi per esistere ha bisogno d’una democrazia che rispetti i diritti delle singole nazionalità e al loro interno garantisce i diritti delle minoranze. I modelli ci sono, pur con i loro difetti: la Svizzera, gli Usa, la stessa Europa in cammino verso la confederazione. Ma in che misura quei modelli sono esportabili nei Balcani e nell’ex-impero sovietico? Che fare? Il valore è la forza dei movimenti nazionali in Europa centro-orientale non possono più essere sottovalutati in Occidente; nello stesso tempo l’Occidente deve favorire in ogni sede il sorgere di poteri arbitrali con il compito di spegnere, mediante le garanzie del diritto, le rivalità etniche. Ma una volta riconquistata l’indipendenza, il primo obiettivo dei nuovi Stati non dovrebbe essere proprio quello di entrare questa volta, liberamente, a far parte di una comunità sovranazionale, per trovare una risposta in qualche modo razionale ai loro problemi di sopravvivenza e di sviluppo?

II.Il postcomunismo come dopoguerra

Ecco una piccola, deliziosa città che ha scelto di assumere in termini di cultura e di civiltà la sua situazione storica. Si capisce allora perché l’Istituto di Sociologia Internazionale, grazie all’intuizione e all’impegno di studiosi come Mario Brancati e Alberto Gasparini, abbia lavorato in una direzione ben precisa, attestata tra l’altro anche dalle sue pubblicazioni: Temi di sociologia delle relazioni etniche, La nuova Ungheria e i rapporti internazionali e, per i tipi della Franco Angeli, Attori del mutamento nell’Est europeo, libro questo la cui tematica, unitamente a quella concernente «i nuovi progetti istituzionali e la collaborazione Est-Ovest», è divenuta, dopo i tumultuosi avvenimenti svoltisi tra il 1989 e il 1991, il titolo stesso dell’incontro internazionale di fine gennaio ’92 dominato dalla massiccia presenza dei cultori di scienze sociali della Mittel Europa (ungheresi, polacchi, sloveni, cecoslovacchi) e soprattutto della Russia.
Gli apporti sono stati assai diversi e riguardavano questioni distinte e distinte aree geo-politiche e tuttavia, prepotentemente, in ogni relazione – riguardasse il ruolo nell’editoria clandestina, l’economia sommersa o le conseguenze disastrose del collasso dell’economia di comando – si faceva avanti un triplice interrogativo.
Come è potuto accadere – ci si è chiesto – che un impero come quello sovietico e il suo dominio in mezza Europa si sia dissolto senza colpo ferire? Come i diversi ceti sociali vivono oggi la tragedia della penuria di beni e il passaggio ad un’economia di mercato, per il successo della quale sembra che manchino quasi tutte le condizioni? Quale è stato ieri, durante i regimi comunisti, e qual è oggi il ruolo dei cosiddetti «intellettuali»?

La sorte di Gorbaciov

Uno dei paradossi per cui c’è stata un’accelerazione, imprevedibile per chiunque, nei mutamenti nell’Est consiste proprio in questo: le diffuse, crescenti spinte anti-sistema sono state addirittura elevate a potenza, e a grande potenza, in ognuno degli Stati comunisti proprio da coloro che, intendendo salvare i regimi al potere, più avvertivano la necessità di riformare il sistema. È un caso tipico di eterogenesi dei fini, per cui i risultati di un processo voluto per il raggiungimento di determinati scopi mette capo a risultati non solo diversi ma opposti rispetto a quelli che si intendevano perseguire. Ed è la sorte toccata a Gorbaciov e alla sua «perestroika».
Nel momento in cui si apre un dibattito nessuno, infatti, può sapere quando e come si concluderà. Gli unici leaders comunisti che si sono sottratti a questa logica sono stati quelli conservatori ortodossi della Germania Orientale e della Cecoslovacchia. Anch’essi, però, sono stati rapidamente travolti dalla direzione generale che avevano preso gli avvenimenti negli altri Paesi comunisti in Europa e perché sempre più sovrastati dall’emergere della «società parallela»: parallela a quella ufficiale e, dunque, costruita tutti i giorni attraverso gruppi familiari, gruppi di amici, club di giovani, ecologisti micro-ambienti di studio e di lavoro, tra uomini con motivazioni religiose e intellettuali umanisti (poeti e musicisti, gente di teatro, filosofi, sociologi, ecc.) tutti determinati a vivere finalmente senza menzogna. Il formarsi di tanti milieux non ufficiali, o mondi vitali (Lebenswelt) della vita quotidiana secondo Achille Ardigò, ha distrutto le società repressive comuniste. Tra questi attori del mutamento io ho sempre prestato un’attenzione particolare alla editoria clandestina, nota ormai col nome di Samizdat che ebbe in Russia. Il fenomeno merita di essere studiato in tutte le società dominate dal comunismo. Dal ruolo svolto dal Samizdat in Cecoslovacchia ha parlato con finezza, senza enfasi, Miroslav Petrusek, preside della facoltà di Scienze Politiche all’Università Carlo IV di Praga. A quel tipo di pubblicazioni mancava, certamente, un qualsiasi riscontro da parte dei lettori, anch’essi a loro volta partecipi e diffusori di un messaggio vietato. Tuttavia in un piccolo Paese, che era sotto il controllo del neo-stalinismo, sorsero ben ottanta riviste clandestine e almeno il 5% della popolazione entrò a far parte di quel tipo di comunicazione. Il Samizdat fu, pertanto, mezzo di auto-espressione per i dissidenti che volevano salvare la propria dignità umana e civile, ma fu anche, almeno per i giovani più pensosi, scuola di critica sociale e di formazione etico-politica, il Samizdat, inoltre, ha assolto la duplice funzione di tener desta la coscienza della memoria, come momento decisivo del processo di liberazione da un potere ideocratico che manipola in primo luogo la storia, e di gettare un ponte con la cultura internazionale e i movimenti occidentali in difesa dei diritti umani. Che cosa rimarrà nel futuro di quegli scritti? Secondo Petrusek un quarto di essi ha un valore di documento storico, su alcuni eventi importanti per la vita di un popolo, e un decimo merita di entrare a far parte del miglior patrimonio culturale del Paese e della biblioteca ideale della nuova Europa. È una percentuale molto alta, a veder bene.

Incapacità di autoriforma

Quali sono i dati che emergono dagli studiosi russi sulla situazione economica e politica dell’ex-Unione Sovietica, quali gli scenari possibili che si delineano, quali le trasformazioni a breve e a medio termine? Vladimir Rukaviscnikov, che dirige l’Istituto di Studi socio-politici a Mosca, sintetizza così la situazione in termini assai preoccupanti. «La gravità della crisi dell’Unione Sovietica era, da anni, tale da degenerare, per l’incapacità di autoriforma del sistema, in catastrofe nazionale. Il nostro Paese è una realtà insolita anche per noi russi. Tante cose sono cambiate. Ma la caduta del tenore di vita della stragrande maggioranza della popolazione in seguito all’inflazione continua senza soste. La tensione sociale è elevatissima. I conflitti di carattere etnico si inaspriscono e si estendono. E gli Stati successori dell’Unione Sovietica sono divisi su tutti i problemi più importanti: il destino delle forze armate, il futuro del rublo, le strategie per il passaggio all’economia di mercato».
Per svolgere una qualsiasi politica e per suscitare intorno ad essa un reale consenso occorrono molti fattori e questi sono quasi inesistenti in una società post-comunista. Il sistema comunista continua a colpire, e duramente, in ogni aspetto della vita sociale come della psicologia individuale e collettiva, anche ora che il Pcus non c’è più. Ad esempio, cessata la mobilitazione propagandistica delle masse, è la passività che prevale, eccettuati pochi grandi centri in cui, però, solo una minoranza è politicamente attiva. Le prime elezioni del 1989 e del ’90, ed anche quelle presidenziali in Russia, non erano completamente libere, né realmente concorrenziali, ma erano dominate da un’alternativa secca: «a favore» oppure «contro» i candidati del Pcus. Il confronto, insomma, era tra il Pcus e l’opposizione e il Pcus fu sconfitto. Ma ora che il Pcus non c’è più e le sofferenze derivanti dal collasso economico continuano a crescere invece di diminuire, come reagirà l’elettorato? Chi può parlare di tempi lunghi a gente che lotta ogni giorno per la sopravvivenza. Le indagini svolte dall’Istituto russo di Studi socio-politici registrano scoraggianti variazioni nell’orientamento degli elettori tra il febbraio del ’91 e il novembre dello stesso anno. Il peggioramento della situazione e la paura del futuro tendono a far rialzare le azioni del pur screditato Pcus. Di più: solo i comunisti dispongono di collegamenti in ognuno degli Stati successori dell’Unione Sovietica, mentre i raggruppamenti e i partiti democratici sono numerosi e quindi, divisi tra loro, deboli sul piano organizzativo, privi di strutture che permettano di operare con linee comuni nel contesto odierno della comunità degli Stati Indipendenti (Csi). E c’è un altro dato su cui Ovsey Shkaratan, dell’Accademia delle Scienze della Russia, invita a riflettere. L’impianto politico-militare dell’economia sovietica fa sì che molti milioni di dirigenti comunisti continueranno comunque a controllare i gangli dell’apparato produttivo e la distribuzione, a dare e a togliere prebende e incarichi, disporre cioè di un reale potere. E nei pochi settori aperti alla privatizzazione i grandi mercanti, i nuovi ricchi sono proprio coloro che disponevano di capitali, e ingenti, cioè gli ex-funzionari regionali e centrali del Pcus. La rete affaristica di tipo mafioso, che operava prima attraverso le stesse istituzioni statal-partitiche, non è certo sparita ed è una forza che gioca ancora a favore dell’antico regime.

Aiuti dall’Europa

La coscienza delle terribili difficoltà che l’eredità del comunismo comporta per i Paesi ex-comunisti non deve, però, incoraggiare la cecità e il pilatismo dell’Occidente. L’Europa che aiutò generosamente la Russia comunista di Lenin negli anni della carestia, nel primo dopoguerra, perché non dovrebbe impegnarsi ad aiutare seriamente la Russia di Eltsin, non più nemica e ormai avviata a darsi un ordinamento democratico? Al di là dei personali convincimenti politici di ognuno, tutti gli studiosi russi presenti al Colloquio internazionale di Gorizia lo hanno detto a chiare lettere: il futuro della democrazia in Russia, e quindi della pace, è legato al successo o meno delle dolorose riforme economiche avviate dal presidente della Russia. Se non aiutiamo subito la Russia a superare i guasti e le strozzature soffocanti di un regime incapace di produrre beni e libertà, nell’immediato futuro potremmo pagare un prezzo incalcolabilmente più alto. Nel secondo dopoguerra l’Europa Occidentale fu salvata dal Piano Marshall, dall’intelligenza politica e dalla generosità degli Stati Uniti. E non tutti sanno che il primo organismo europeo, l’Oece, nacque proprio per l’attuazione dei programmi di ricostruzione fissati dal Piano Marshall, da cui venne la prima spinta a mettere in moto il processo di integrazione europea. Perché non avviare un’iniziativa analoga, che sia americana ma in primissimo luogo europea, per i nostri fratelli dell’Europa centrale e orientale?

Giornale di Brescia, 5-6- febbraio 1992.