La dimensione etica al centro della vita

Uno dei segni più sicuri di umanizzazione e di reale progresso in questi ultimi anni consiste nel fatto che l’attenzione degli studiosi, dei politici, dell’opinione pubblica in generale è stata notevolmente attratta dal ruolo insostituibile, decisivo a tutti gli effetti, che la dimensione etica sempre più assume nella società contemporanea. Il dibattito sull’applicazione dei principi etici, nei diversi campi dell’azione umana e nell’ambito delle diverse discipline, ha raggiunto, infatti, un grado di ampiezza, di profondità e di articolazione internazionale veramente notevole.
I nuovi fenomeni sociali, i grandi eventi della rivoluzione non violenta nell’Europa dell’Est, l’esaurimento e il collasso di tutti i regimi comunisti a cominciare da quello sovietico, gli stessi pericoli connessi a un’acritica euforia per l’indubbia vittoria dell’economia di mercato rispetto al modello antagonistico, l’avvertito bisogno di uscire dagli enormi sprechi e dall’angoscia di una convivenza basata soprattutto sull’equilibrio del terrore: ecco alcuni problemi, fra i tanti, che riportano l’etica al posto che le spetta, al centro di ogni dibattito su ciò che concerne l’uomo e il dovere di costruire una società futura meno ingiusta e più libera.
Così, ad esempio, in campo politico c’è la prepotente affermazione del tema della libertà della persona, sia nelle società liberal-democratiche avanzate, sia, e a maggior ragione, nelle neonate democrazie dell’Est europeo. In campo politico ed economico la dimensione etica è non meno necessaria e urgente per impostare nel modo più intelligente e concreto il rapporto tra il Nord e il Sud del mondo, le forme di cooperazione allo sviluppo e i difficili problemi che nascono dai vasti processi migratori che sono in atto dalle aree meno sviluppate verso l’Europa.
A questi temi negli ultimi anni se ne sono aggiunti altri più strettamente legati ai successi nelle nostre società della tecnologia, della scienza, dell’economia. L’applicazione delle nuove tecnologie in campo medico e biologico fa emergere in modo pressante quesiti etici che non si possono in alcun modo eludere, tanto da far nascere un nuovo ambito di riflessione: la bioetica. Allo stesso modo lo sviluppo industriale e agricolo ha reso sempre più rilevante la necessità di un rapporto e di un uso dell’ambiente naturale che siano ispirati a principi etici di rispetto e difesa di un bene comune in cui l’umanità intera ha diritto a vivere in modo salutare.
Quelli che Berkeley e Popper chiamano «i filosofi minuti» (e alcuni meriterebbero semplicemente di essere designati come «i filosofi del nulla») mettano pure la loro raffinata dialettica al servizio della negazione dei valori morali, continuino pure a consegnare i giovani all’indifferenza etica e alla disperazione. Il fatto nuovo con cui tutti devono fare i conti è che i problemi stessi che l’umanità oggi deve affrontare obbligano tutti coloro che hanno a cuore le sorti dell’uomo a dare all’etica una rilevanza pubblica, a considerare la dimensione etica come un fattore costitutivo di ogni corretta ricerca nei vari campi disciplinari. Chi sosteneva queste posizioni teoretiche negli anni passati rischiava di essere a torto accusato di moralismo (e il moralismo è la controfigura più ripugnante della schietta e umanissima moralità). Oggi questi concetti sono consapevolmente assunti all’interno delle singole discipline e una prestigiosa fondazione culturale ha istituito esplicitamente, in Italia, il «Premio Internazionale senatore Giovanni Agnelli per la dimensione etica nelle società avanzate».
Nella sua prima edizione dell’87 il premio fu assegnato al filosofo Isàiah Berlin. La sera del 5 marzo, quest’anno, è stato conferito, al Lingotto di Torino, ad Amàrtya Kumar Sen. I consulenti scientifici che individuano i candidati appartengono a diverse aree geografiche e culturali internazionali, come Daniel Bell, Valerio Castronovo, Vittoria Mathieu, Salvatore Veca, Ralph Dahrendodorf, Alain Toauraine, Shuichi Kato. La scelta di Amàrtya Sen non poteva, a mio avviso, essere più felice.
Amàrtya Kumar Sen non è affatto sconosciuto nel nostro Paese ed è cosa assai gradita ricordare che nella nostra lingua sono state tradotte le più significative delle sue opere. Penso a “Utilitarismo ed oltre” (Il Saggiatore, Milano, 1984), a “Scelta benessere equità” (Il Mulino, Bologna, 1986), a “Etica ed economia” (Laterza, Roma-Bari, 1988), a “Beni e capacità” (Giuffré, Milano, 1989) e a “Risorse valori e sviluppo”, che è in corso di pubblicazione presso la Bollati-Boringhieri di Torino.
Sen, nato nel 1933 nel Bengala, in India, ha compiuto i suoi studi alla scuola di economisti di alto livello quali Maurice Dobb, Dennis Robertson, Joan Robinson e Piero Sraffa. Reso celebre per la genialità della sua tesi di dottorato, “La scelta delle tecniche” (che trattava delle tecniche di produzione appropriate a economie povere, con alta disoccupazione e scarsità di capitali pubblici), egli insegnò successivamente a Cambridge, a Delhi, a Londra e a Oxford. Dopo la morte della moglie, l’italiana Eva Colorni, Sen si trasferì nell’87 alla Harvard University, ove ha il privilegio, molto raro, di sedere su due cattedre: quella di economia e quella di filosofia.
È molto difficile sintetizzare per i lettori le linee di pensiero di un economista filosofo o, se si preferisce, di un filosofo economista, non a causa del suo linguaggio meravigliosamente preciso e semplice allo stesso tempo, ma per la sua complessità e per la ricchezza di sfumature che caratterizzano i suoi scritti. Sen è un umanista, un pensatore che per la sua stessa formazione è lontanissimo dal ridurre un problema sociale alle sole dimensioni tecniche, che egli, d’altra parte, signoreggia completamente. Egli appartiene a una razza che non si è ancora estinta, anche se sempre più rara e minacciata di estinzione, la razza dei pensatori, non univisuali, non riduzionisti e intellettualmente combattivi perché capaci di trasmettere una visione globale dei problemi. Sen è in grado di analizzare nelle sue parti i meccanismi sociali ed economici, ma è altresì persuaso, intimamente, di poter contribuire a cambiarli anche in virtù delle sue analisi. Ed è proprio l’ardente slancio morale a conferire alla sua pagina tersa, lineare, che ha in orrore le cortine fumogene dei metalinguaggi attuali, la forza della denuncia, della rivolta all’errore e all’ingiustizia, della profezia.
Qui mi limiterò ad accennare ad un solo punto, che però costituisce il nocciolo della ricerca e della generosa battaglia di Sen: occorre contrastare, stando ai fatti e ragionando sui fatti, l’invadenza asfissiante della mentalità comune e in economia dell’utilitarismo. L’utilitarismo come pseudo-filosofia morale segna il limite negativo più evidente della struttura teorica dell’economia neo-classica. Mi sia permesso uno sfogo: se il nostro grandissimo Rosmini fosse meno ignorato nella sua Italia (ma chi conosce e ama oggi la filosofia dell’età risorgimentale?), i lettori italiani vedrebbero in Sen la conferma, anche sul terreno economico, delle critiche mosse dal filosofo di Rovereto all’inadeguatezza totale dell’utilitarismo e alla visione angusta che esso ha della personalità umana. «L’utilitarismo – ribadisce Sen – non ha un reale interesse diretto a qualsiasi informazione sul mondo delle persone e dei loro diritti, poiché tutto ciò trascende la sfera dell’utilità». Certamente l’interesse individuale ha un ruolo importante in moltissime decisioni, ma nemmeno in economia può costituire l’unica misura di un’attività e del suo risultato. Di qui la necessità di una salutare, sempre rinascente tensione fra democrazia e mercato, fra la titolarità dei diritti e la possibilità reale di esercitarla da parte del maggior numero possibile, fra gli assetti complessi dell’economia mondiale e l’irrinunciabile primato dell’etica. Di questo diremo più distesamente nel prossimo servizio.

Giornale di Brescia, 13 marzo 1990.