La figura e il messaggio di De Gasperi

De Gasperi, piaccia o no, sta nella storia d’Italia con Cavour, Depretis, Giolitti tra i grandi protagonisti che danno un nome a un’epoca e che dominano il dibattito storiografico e politico. Sono passati ventidue anni dalla sua dipartita e la sua figura, malgrado l’insistente proposito di svalutazione di certa pubblicistica, va acquistando contorni sempre più netti. Colui che, uno degli ultimi giorni della sua vita, aveva potuto dire alle figlie "cercate tra le mie carte, non troverete nulla di incoerente e di cambiato", ha tutto da guadagnare da una conoscenza documentata e serena della sua vasta attività e delle idee che l’animarono.
Nato da gente semplice, "senza storia per gli altri", gente di una povertà "dignitosa e pulita", fu studente poverissimo che si mantenne da sé agli studi, dando lezioni private e con sacrifici assai gravi. Difensore della italianità nel suo Trentino, giornalista battagliero, fu convinto assertore del suffragio universale nella sua regione contro liberali e socialisti che l’osteggiavano. Deputato popolare alla Camera dell’Impero asburgico, a trent’anni, nel 1911, strenuo difensore dei deportati italiani nel 1915 – 18, ebbe il coraggio di ricordare nel maggio del ’17 in pieno Parlamento austriaco, il sacrificio del collega socialista Cesare Battisti. Deputato del Partito Popolare al Parlamento italiano nel ’19, ne divenne uno dei capi più preparati e fu vicinissimo a Sturzo; il quale, dopo le elezioni del ’24, con cui fu sancita la presa del potere da parte del fascismo, al momento delle dimissioni, gli affidò l’incarico di segretario del Partito.

Volgari insinuazioni

Attaccato con le più volgari insinuazioni dalla stampa fascista, difeso a viso aperto da Giovanni Amendola ("Alcide De Gasperi resta diritto sotto tanta inutile rabbia"), De Gasperi continuò la sua battaglia e nel giugno del ’25 riuscì a convocare a Roma il quinto ed ultimo congresso nazionale del suo partito. Su "Rivoluzione liberale" del 5 luglio, Piero Gobetti scrisse sul segretario del PPI delle note che meriterebbero di essere riportate per intero. "Alto, magro, diritto, non sa fingere indulgenza, non ha bisogno di popolarità rumorosa… La sua relazione aveva una sola idea centrale: tener duro. Egli lanciava le parole come colpi, senza scatti intemperanti, ma sostenendoli con un palese vigore interno. Parla sempre preparato, su appunti; ma la sera del 28 giugno, rispondendo alle osservazioni sulla relazione, improvvisò anche lui e fu formidabile. Si rivide in lui la passione di un aventista, solo, rimasto al suo posto anche nel dubbio di non essere seguito". Il monito, rivolto ad amici il cui destino era ignoto in quel clima di illegalità e di violenza, doveva diventare la sua norma di condotta per quasi quattro lustri: "Aspettate l’ora della giustizia e non disperate della libertà".

Isolamento e arresto

Venne il gelo della diaspora e dell’isolamento; poi l’arresto dell’11 marzo 1927, la malattia, il processo, la disoccupazione, l’esilio in patria. Gli fu data finalmente la possibilità di guadagnarsi un tozzo di pane, ma dalla Santa Sede, e con un lavoro estenuante e senza gioia. Studia, traduce, annota, scrive su riviste estere con pseudonimi, rivede amici che non mollano, soffre fino al disgusto per la confusione degli animi e per i tradimenti. Dinanzi alla Conciliazione, De Gasperi compie un sincero sforzo di obiettività, seguito in questo anche dal vero capo della sinistra popolare, Giuseppe Donati, e da Stefano Jacini. "Di fronte a Mussolini che picchiava forte alle porte di bronzo, il Papa non poteva non aprire". Credo che avrebbe firmato, fosse stato Papa, anche don Sturzo. La Conciliazione è vista oggi in Italia un successo del regime, ma vista nella storia e nel mondo è una liberazione per la Chiesa… Per me l’essenza è che la Santa Sede sia uscita dal vicolo chiuso delle proteste e abbia liquidato la questione temporale… Il pericolo piuttosto è sulla politica concordataria". De Gasperi confidava agli amici che gli scrivevano (cfr. "Lettere sul Concordato", Brescia, Morcelliana, 2.a ed. 1970) il timore che ne venisse una compromissione della Chiesa col regime, ma nutriva anche una speranza: "Il Papa nell’avvenire userà della sua libertà perché le idee non si confondano". La gazzarra degli sprovveduti, di molti cattolici privi di autentica sensibilità storica e politica, la loro ignoranza della natura pagana di ogni totalitarismo lo turba e lo amareggia profondamente. Nella nuvolaglia aumentano, però, gli sprazzi di cielo azzurro: nel ’31 l’enciclica papale "Non abbiamo bisogno" contro il monopolio fascista dell’educazione; nel ’37 la tempestiva e forte enciclica "Mit brennender Sorge" ("Con bruciante preoccupazione") contro il nazismo; nel ’38 l’opposizione cattolica al razzismo importato dalla Germania e il divorzio sempre più aperto della nazione del fascismo. Poi, finalmente, agli "Appelli della lunga vigilia" (scritti, appunti, articoli su giornali clandestini, a firma "Demofilo", amico del popolo), quando Roma fu liberata, e ai rischi continui della lotta clandestina, fa seguito l’azione alla luce del sole, cioè il dibattito pubblico, il confronto con le altre forze, De Gasperi apparve subito come il protagonista numero uno della vita politica italiana.
Quando il 10 dicembre del ’45, con l’appoggio di tutti i partiti del C.L.N., il cattolico De Gasperi si insediava al Viminale, nel momento più difficile della nostra storia, i problemi da affrontare erano tremendi: occorreva garantire la sopravvivenza fisica di un paese in rovina, affamato, diviso su tutto: occorreva avviare in quelle condizioni il popolo italiano all’esercizio della libertà, tenendo unite le forze dell’antifascismo e impedendo ogni sopraffazione da qualsiasi parte fosse perpetrata. De Gasperi osteggiò il vagheggiato colpo di mano ciellenistico sulla questione istituzionale e volle il referendum, cioè la fondazione popolare della Repubblica, come l’unico modo per evitare una seconda guerra civile. Fu quasi solo, sostenuto da Cattani contro Cianca, Scelba, Lombardi, Nenni, Gasparotto; ma la sua lungimiranza nel non voler delegare a nessun gioco di assemblea la svolta istituzionale, permise all’Italia di superare, il 2 giugno 1946, uno scoglio che poteva essere mortale.

Verace democrazia

E così il 25 giugno poté salutare, nell’Assemblea Costituente, raccolta a Montecitorio, il più grande rivolgimento della storia politica moderna del nostro Paese, compiuto legalmente e pacificamente dal popolo in primo luogo per suo merito. "Qual popolo – chiese – può chiamarsi a simile esempio di verace democrazia? Altrove furono il terrore, i massacri, la guerra civile".
Dal giugno del ’46 all’aprile del ’47 De Gasperi presiedette un governo tripartito (DC – PCI – PSI) nella speranza vivissima che i socialisti, allora numericamente più consistenti dei comunisti, e i comunisti dessero il loro pieno apporto a consolidare la nascente repubblica e la democrazia. Avevamo bisogno di tutto. De Gasperi col suo prestigio (lo testimoniano le lettere dell’ambasciatore italiano negli Stati Uniti, l’azionista Tarchiani), seppe garantire all’Italia gli aiuti economici di più urgente necessità.

Progetto futuro

Erano quelli i mesi in cui si andava elaborando la nostra Costituzione, punto di arrivo della lotta resistenziale e progetto del nostro futuro. Si doveva voltar pagina sul passato: De Gasperi lo fece, con grande lungimiranza, "notaio delle sconfitte altrui", con la firma del trattato di pace e con l’accordo De Gasperi-Gruber per l’Alto Adige. Ma in quella angosciosa situazione si misurò il doppio gioco dei comunisti e il loro asservimento a Mosca. Oggi pochi parlano delle manovre di Togliatti (…) proprio nel momento in cui il capo del governo, di cui faceva pure parte in qualità di ministro e come leader di una delle tre forze politiche che lo sostenevano, era impegnato nella più strenua difesa della nostra unità nazionale. Ma in De Gasperi era troppo alto il senso degli interessi superiori del Paese per accettare la polemica. Nondimeno egli sapeva che "nessun governo può stare in piedi col disfattismo". Lo slogan di Nenni "dal governo al potere (e il modello di esercizio del potere era allora il leninismo-stalinismo) conferiva un carattere di provvisorietà alla partecipazione socialista.

Atto di coraggio

I socialcomunisti a Roma occupavano posti di eminente responsabilità al governo, ma agivano contro il governo nel Paese a tutti i livelli. Il patto di unità d’azione che asserviva Nenni a Togliatti, scatenava, a sinistra, una gara nel monopolizzare l’opposizione a quel governo tripartito, di cui oggi una certa parte parla con tanta nostalgia. De Gasperi, parlando della Costituente, il 26 settembre del ’46 chiese ai partners un impegno di lealtà: se critiche dovevano farsi, si facessero all’interno della coalizione. La crisi economica era paurosa, esigeva un governo compatto per essere superata e invece su tutto incombeva la paralisi. Non si poteva continuare a lavorare con De Gasperi al governo, nel contempo additando De Gasperi come "l’uomo da impiccare" in tutte le assemblee e i comizi. L’estromissione dei comunisti dal governo non fu un congegno machiavellico, un’oscura congiura, ma solo un atto di coraggio in una situazione catastrofica. Piccioni, allora segretario del partito, sconsigliò l’operazione, perché troppo pericolosa; ma De Gasperi, dopo aver ascoltato il latore delle non infondate preoccupazioni di Piccioni, rispose: "Lo so che sono solo, ma lo farò lo stesso e ora, perché tra sei mesi sarebbe già troppo tardi".

Politica europeistica

Si iniziò allora, con l’appoggio di Luigi Einaudi e di Carlo Sforza, la battaglia per non cadere nel baratro dell’inflazione, per eliminare la disoccupazione, per scongiurare lo sbocco dittatoriale. L’ardimento operoso contro l’antilibertà e la tragedia della Cecoslovacchia resero possibile il 18 aprile del ’48 la ricostruzione del Paese. Sul quinquennio degasperiano si faranno tutte le riserve che si vogliono, ma nessuno potrà negare alcune caratteristiche di fondo di grande rilievo. In quegli anni si elevò a principio direttivo la permanente collaborazione tra i partiti democratici; si dette il via a riforme decisive, quali la riforma fondiaria, la Cassa per il Mezzogiorno, la riforma tributaria, la ricostruzione edilizia, la politica delle fonti di energia (Mattei e l’Eni). Si promosse una politica di liberalizzazione economica contro ogni protezionismo parassitario; si dette slancio e concretezza a una grande politica europeistica, che proprio allora conseguì i suoi più luminosi successi. De Gasperi fu inoltre l’uomo politico che sempre avvertì il pungolo della coscienza morale e dell’ispirazione evangelica, e proprio per questo sempre ebbe lucidissima coscienza del rifiuto da opporre ad ogni tentazione clericale. E fu forse dai don Chisciotte dell’integralismo italiano che gli vennero i dolori e le preoccupazioni maggiori. Su di un taccuino, dopo l’amaro incontro degli aventiniani col sovrano, ormai prono al fascismo, De Gasperi scrisse, nel giugno del ’25, queste parole di Lacordaire: "Checché accada nel nostro tempo, l’avvenire si leverà sulla nostra tomba. Esso ci troverà puri di tradimento, di defezione, di adulazione del successo e costanti nella nostra speranza di un regime politico e religioso degno del Cristianesimo di cui siamo figli". Quelle parole, a nostro avviso, riassumono, come meglio non si potrebbe, non solo una proposta di De Gasperi, ma il messaggio della sua intera vita.

Il Cittadino. Non è stato possibile rintracciare la  data. Ai fini della pubblicazione sul sito è stata indicata la data del 31.12.1976.