La morale in Kant (appunti)

Introduzione

1. L’equivoco a cui Kant si presta: una morale tanto rigorosa quanto vuota di contenuti.

  1. L’altro possibile equivoco: che la Critica della ragion pratica sostituisca la Critica della ragion pura.

Seconda Introduzione alla Critica della ragion pura, III, 19: «Ho dovuto eliminare il sapere per far posto alla fede» (Colli); «Ho dovuto dunque sopprimere il sapere per sostituirvi la fede» (Mathieu); «Ho dunque dovuto togliere (haufheben) il sapere per far posto alla fede» (Ferretti). “Togliere”, dunque, direi anche “superare”, ma sempre nel significato di un “porre da un’altra parte”, come suggerisce Ferretti: dove l’aufheben scaturisce dal potere limitante della ragione che, mentre definisce le possibilità dell’intelletto, dischiude da un’altra parte quella riflessione trascendentale che – dice Kant – «ha generato la metafisica, come il suo figlio prediletto: generazione che, come in ogni altra circostanza, non è dovuta al capriccio, ma ad un germe originario, preformato saggiamente in vista di altissimi fini» (Prol. § 57).

  1. Prospetto di risoluzione

– L’imperativo non è un formalismo vuoto. Se non lo è e se Kant indica l’evento etico nel segno della fede, di quale fede si parla?

– Quale fede? E quale il rapporto di questa fede con l’ideale della ragione nella Critica della ragion pura?

– Contenuti di questa fede:

  • nella prospettiva della vita personale
  • nella prospettiva della coscienza storica.

 Le risposte

 1. Sul formalismo e sulla sua “materia”

1.1.    Contro ogni forma di utilitarismo, contro ogni forma di fondazione empirica (superamento dell’adesione pre-critica alla fondazione nel sentimento), Kant cerca una fondazione a carattere universale.

Critica della ragion pratica, 175-176: ricerca dell’Incondizionato che non può essere affidato ai nessi empirici.

Una introduzione che richiama in particolare la seconda introduzione alla Critica della ragion pura: l’esperienza attraversata dall’idea di Incondizionato, non risolvibile nel mondo dell’esperienza.

→ Un imperativo categorico, non ipotetico:

Critica della ragion pratica:

Dovere, nome grande e sublime, che non contieni nulla che lusinghi il piacere, ma esigi sottomissione; né, per muovere la volontà, minacci nulla che susciti nellanimo repugnanza o spavento, ma presenti unicamente una legge, che trova da se stessa accesso all’animo, e tuttavia ottiene a forza venerazione (anche se non sempre obbedienza); una legge davanti a cui tutte le inclinazioni ammutoliscono, anche se, sotto sotto, lavorano contro di essa: qual’è l’origine degna di te, dove si trova la radice della tua nobile discendenza, che alteramente respinge ogni parentela con le inclinazioni; quella radice da cui si deve far derivare la condizione inderogabile di quel valore che è il solo che gli uomini possano darsi da sé? (290).

E allora:

Critica della ragion pratica: Teorema I

Tutti i principi pratici che presuppongono un oggetto (materia) della facoltà di desiderare come fondamento di determinazione della volontà sono, dal primo all’ultimo, empirici, e non possono fornire alcuna legge pratica (198).

Teorema III

Se un essere razionale ha da pensare le sue massime come leggi pratiche universali, può pensare quelle massime solo come principi tali che contengono il motivo determinante della volontà, non secondo la materia, ma unicamente secondo la forma (206-207).

Nessuna determinazione che non sia quella di un rinvio al dato ricorrente della coscienza:

…pensare una legge che serva unicamente a determinare la forma soggettiva dei principi, come tale che costituisca un fondamento di determinazione grazie alla forma oggettiva di una legge generale. La coscienza di questa legge fondamentale si può chiamare un fatto (Factum, non Tatsache) della ragione. […] Tuttavia, per poter considerare senza equivoci tale legge come data, occorre osservare che non si tratta di un fatto empirico, bensì dell’unico fatto della ragion pura, la quale, per mezzo di esso si annunzia come originariamente legislatrice (sic volo, sic jubeo) (214).

Formalismo puro = vuoto? La domanda richiama per analogia quella che lo stesso Kant poneva al Deismo. Si apre la via dei critici…

1.2.    Si consideri il fatto della ragione:

→La ragione è l’organo dell’universale, la legge morale deve avere il crisma dell’universalità. La prima massima della Critica della ragion pratica, § 7, 213, come nella Fondazione della metafisica dei costumi (115) dice infatti:

Agisci in modo che la massima della tua volontà possa valere sempre, al tempo stesso, come principio di una legislazione universale.

→L’esigenza (oggettiva) dell’universale è costitutiva dell’umano:

Fondazione della metafisica dei costumi:

Ora, l’uomo trova effettivamente in sé una facoltà, con cui si distingue da tutte le altre cose, anzi, anche da se stesso in quanto riceve impressioni dagli oggetti: e questa facoltà è la ragione. Questa, come pura attività spontanea, s’innalza anche al di sopra dell’intelletto, perché, sebbene anche quest’ultimo sia attività spontanea e, a differenza del senso, non contenga solo rappresentazioni che si formano unicamente quando si riceve l’impressione delle cose (perciò passivamente), pur tuttavia non può trarre dalla propria attività altri concetti se non quelli che servono unicamente a portare sotto regole le rappresentazioni sensibili, unificandole così in una coscienza: senza il qual uso della sensibilità, l’intelletto non penserebbe nulla; mentre la ragione manifesta nelle idee una spontaneità così pura, da trascendere di gran lunga completamente tutto ciò che la sensibilità possa offrirle, e sviluppa il suo ufficio più elevato nel distinguere tra loro un mondo sensibile e un mondo intelligibile, e nell’indicare così allo stesso intelletto i suoi limiti (156-157).

Dunque l’uomo come portatore di un senso:

Critica della ragion pratica – Il Dovere:

Non può essere nulla di meno di ciò che innalza l’uomo al di sopra di se stesso (come parte del mondo sensibile): di ciò che lo lega a un ordine di cose che solo l’intelletto può pensare, e che al tempo stesso ha sotto di sé l’intero mondo sensibile e, con esso, l’esistenza empiricamente determinabile dell’uomo nel tempo, e l’insieme di tutti i fini (il solo adeguato a una legge pratica incondizionata, qual è la legge morale). Non è niente altro che la personalità – cioè la libertà e l’indipendenza dal meccanismo dell’intera natura -, considerata al tempo stesso come la facoltà di un essere sottoposto a leggi pure pratiche, a lui proprie, dategli dalla sua stessa ragione: sicché la persona, in quanto appartenente al mondo sensibile, è sottoposta alla sua propria personalità in quanto appartiene, al tempo stesso, al mondo intelligibile. E non c’è da meravigliarsi che l’uomo, in quanto appartenente a entrambi i mondi, debba considerare il proprio essere, rispetto alla sua seconda e suprema destinazione, non altrimenti che con venerazione, e le leggi di questa destinazione con il più profondo rispetto.

Su tale origine si fondano ora alcune espressioni, che denotano il valore degli oggetti secondo le idee morali. La legge morale è santa (inviolabile). L’uomo è, bensì, abbastanza poco santo, ma 1’umanità nella sua persona dev’essere santa per lui. Nell’intera creazione si può adoperare anche come semplice mezzo tutto ciò che si vuole e di cui si dispone: solo l’uomo, e con lui ogni creatura razionale, è uno scopo in se stesso (291).

È la seconda massima della Fondazione dove si dice che l’esistenza dell’uomo ha in sé un valore assoluto, fine in se stesso (124-126), sicché

L’imperativo pratico sarà, dunque, il seguente: agisci in modo da considerare l’umanità, sia nella tua persona, sia nella persona di ogni altro, sempre anche al tempo stesso come scopo e mai come semplice mezzo.

1.3.    Notiamo:

  1. Concetto di persona al centro:

come portatore di tutti i fini, come superiore all’intera fenomenicità e perciò libero:

L’idea di persona (Critica della ragion pratica, 290-291)

ci pone davanti agli occhi la sublimità della nostra natura (quanto alla sua destinazione), e ci fa, al tempo stesso, notare l’inadeguatezza del nostro comportamento rispetto ad essa, abbattendo così la superbia – è naturale e facilmente percepibile anche dalla ragione, sicché la persona, in quanto appartenente al mondo sensibile, è sottoposta alla sua propria personalità in quanto appartiene, al tempo stesso, al mondo intelligibile. E non c’è da meravigliarsi che l’uomo, in quanto appartenente a entrambi i mondi, debba considerare il proprio essere, rispetto alla sua seconda e suprema destinazione, non altrimenti che con venerazione, e le leggi di questa destinazione con il più profondo rispetto.

  1. Il rispetto:

salvaguarda e custodisce l’alterità dell’altro. Mi limito per ora a sottolinearne due aspetti.

Il primo è quello che indica nel rispetto un sentimento autenticamente morale: sentimento in quanto legato alla corporeità e alla finitezza dell’uomo, ma sentimento morale in quanto legato alla cognizione dell’uomo come persona, ossia come luogo dell’intelligibile e dell’universale. Kant parla precisamente del rispetto come di un effetto della legge morale «sul sentimento, e pertanto sulla sensibilità di un essere razionale». Sentimento che, dunque implica la «finitudine» dell’uomo, ma che ad un tempo «è inseparabilmente connesso con la rappresentazione della legge morale in ogni essere razionale finito». In questo senso è sentimento che si rivolge non a cose, ma solo alla persona dell’uomo che è tale in quanto appartenente sia al mondo sensibile, sia al mondo intelligibile (Critica della ragion pratica, 276, 281, 291).

Secondo aspetto. Sviluppando questa prospettiva si può allora dire che la relazione interpersonale trova nel rispetto la propria dimensione etica: capacità di riguardare (respectus ® respicere) alla singolarità finita e sensibile dell’altro, co­gliendovi una presenza dell’universale; riguardo per un’identità non altrimenti declinabile che per se stessa e per la sua capacità d’essere quell’unica ricomprensione dell’intero; riguardo che dunque non vede mai nell’altro qualcosa da usare come mezzo, ma piuttosto sempre un fine in se stesso (p. 291). Kant dice pure – ed è il secondo punto – che al sentimento del rispetto si avvicina il sentimento dell’ammirazione (Critica della ragion pratica, 276). Forse ora si può dire di più, notando che non potrebbe darsi rispetto senza ammirazione: l’altro ci si annunziava appunto come quella singolare donazione di senso che non potevamo costituire nel nostro orizzonte e che dunque resta come motivo di stupore, come principio di nuova conoscenza.

Il rispetto è essenzialmente rivolto alla libertà quale ratio essendi dell’imperativo morale (che ne è la ratio cognoscendi) → Critica della ragion pratica, 176.

  1. La libertà e il regno dei fini

Coniughiamo ora libertà e fine in sé di ogni uomo.

Si qui nasce l’idea di un regno dei fini.

Idea per una storia universale dal punto di vista cosmopolitico (1784): una società «in cui si attui, da un lato, la massima libertà congiunta con un generale antagonismo dei suoi membri e, dall’altro lato, la più rigorosa determinazione e sicurezza dei limiti di tale libertà affinché essa possa coesistere con la libertà degli altri» (Id., 22; SP, 128-129)[2].

  1. Il regno dei fini

 Il tema della libertà e quello del rispetto sono così considerati da Kant in una prospettiva non solo etica, ma storica:

  • L’uomo come parte del fenomenico e del noumenico, del sensibile e dell’intelligibile: istinto e ragione.

Una dialettica naturale, sin dalle origini, come Kant – nelle Congetture – rilegge il conflitto Caino-Abele di Gn 3.

Nella lettura dei due racconti delle origini giocano per opposizione istinto e ragione: un rapporto dialettico che già era venuto a tema nell’Idea. Si ricorderà che, sin dall’inizio, Kant era partito col notare una duplice oscillazione: l’uomo, come ogni animale, vive secondo istinti ma non si comporta interamente, come gli altri animali, secondo il puro istinto; e, d’altra parte, pur fornito di ragione, l’uomo non certo vive come un cittadino ragionevole del mondo. Detto altrimenti, l’uomo appare garantito dalle difese dell’istinto, ma solo debolmente; è certamente fornito di ragione, ma la sua razionalità si dispiega per ora fra mille con­traddizioni ed è ben lontana da quell’esercizio sovrano che dovrebbe competerle.

Pare che qui la natura si sia compiaciuta della sua massima economia e di aver commisurato le qualità animali dell’uomo strettamente, rigorosamente al bisogno supremo d’una esistenza iniziale, quasi volesse che l’uomo dall’estremo della barbarie si conquistasse col proprio lavoro la più grande abilità, l’interiore perfezione del pensiero e, quindi, per quanto è possibile sulla terra, la felicità, in modo che egli ne avesse tutto il merito e non dovesse rendere grazie che a se stesso: e con ciò mirasse a destare in lui la stima razionale di sé più che non a procurargliene un benessere (Id., 20; SP, 126).

Nelle Congetture viene poi a farsi chiaro l’intreccio dialettico che via via connette la forza e la debolezza di queste due risorse. Si direbbe che il processo della storia, sia pure su tempi molto lunghi, proceda secondo un metro inversamente proporzionale: alla sicurezza, alla forza iniziale dell’istinto e al suo prepotere nei riguardi di una ragione incipiente, si sostituisce per gradi la crescente forza della ragione; e la forza della ragione sarà veramente piena solo quando essa avrà saputo guadagnarsi la sicurezza che all’inizio poteva venire proprio dall’istinto. Alle origini dunque l’istinto, pur nelle sue strutture elementari (gusto, odorato ecc.), costituisce una guida sicura per l’uomo e tanto più sicura finché la ragione non venga ad indebolirne il potere. E così da quando la ragione viene a «destare» l’uomo, il campo dell’istinto, che Kant indica come la «voce di Dio», si fa sempre più ristretto. Il rapporto con la natura viene sottratto alla pura ed immediata condizione della consumabilità: l’uomo dell’Eden giungerà a desiderare persino cibi che l’istinto rifiuterebbe come ripugnanti e degni solo del serpente. Kant rilegge così il racconto del divieto e dell’infrazione originaria:

Finché l’uomo incolto obbediva a questa voce della natura, egli se ne trovava bene; ma la ragione venne presto a destarlo e cercò di estendere le sue conoscenze degli alimenti oltre i limiti segnati dall’istinto, paragonando alle sensazioni già ricevute dal gusto quelle della vista, cui non si legava l’istinto, ma che gliele faceva credere simili alle prime[3].

La sospensione o la distanza dall’istinto pone la ragione come attesa: una prospettiva che non si limita a godere del presente, ma che abbraccia un avvenire spesso lontano: un avvenire che è anche via via segnato da una signoria sul mondo delle cose e dei viventi[4]. L’indicazione non va qui intesa nel tono di un tranquillo ottimismo: la progettazione del futuro è fonte di ricchezze, ma anche fonte di inquietudini e di sofferenze. L’attesa del futuro – scrive Kant, commentando Gen. 3, 13-19[5]:

… serve a preparare l’uomo per scopi lontani, conformi alla sua destinazione, ma è nel tempo stesso una fonte inesauribile di inquietudini e di preoccupazioni a causa dell’incertezza di questo avvenire, da cui gli animali vanno esenti (MA, 113; SP, 200).

La destinazione sembra tuttavia contraddetta dal percorso della storia.

  • Il Conflitto e la Provvidenza

Kant conteso fra un pensiero trascendentale:

Tutte le disposizioni naturali di una creatura sono destinate un giorno a svolgersi in modo completo e conforme al loro scopo (Id 18; SP, 125)[6].

E lo spettacolo della storia: contraddizioni incessanti:

Non si può reprimere un certo risentimento a vedere gli uomini operare sulla grande scena del mondo, e trovare talvolta una apparente saggezza in casi isolati, ma da ultimo nell’insieme un miscuglio di stoltezza, di infantile vanità, spesso anche di infantile malvagità e mania di distruzione (Id, 18; Sp, 124)[7].

Tuttavia:

Un organo che non dev’essere usato, un ordinamento che non raggiunge il suo scopo sono contraddizioni nella dottrina teleologica della natura. Poiché, se noi prescindiamo da questo principio fondamentale, non abbiamo più una natura regolata da leggi, ma un giuoco senza scopo, e il caso sconfortante regnerebbe in luogo della guida della ragione (Id, 18; SP, 275-276).

E allora la domanda:

…se in questo contraddittorio corso delle cose umane è possibile scoprire un disegno della natura, da cui si possa, da esseri che procedono senza un piano proprio, trarre ciò nonostante una storia che si svolga secondo un piano naturale determinato. Noi vogliamo vedere se ci riesce di trovare un filo conduttore di questa storia e vogliamo poi lasciare alla natura di far sorgere l’uomo che sia in grado di valutarla secondo questo principio direttivo (Id, 17-18; SP, 124).

È la via delle “controfinalità”, l’astuzia della natura o della provvidenza che gioca con la socievole in socievolezza dell’uomo, con i tornaconti che si traducono in progresso comune:

Singoli individui ed anche interi popoli non pongono mente al fatto che, pur perseguendo i loro particolari fini, ognuno a suo modo e spesso in contrasto con gli altri, procedono in realtà inavvertitamente secondo il filo conduttore di un disegno della natura e promuovono quell’avanzamento che essi stessi ignorano e al quale, se anche lo conoscessero, non farebbero gran caso (Id, 17; SP, 123-124).

Alla fine di questo percorso la federazione:

Come la generale violenza e i mali che ne derivavano dovettero da ultimo portare un popolo alla decisione di sottoporsi alla coazione (che la ragione medesima gli imponeva come mezzo), ossia alla pubblica legge, e di entrare in una costituzione civile, così i mali derivanti dalle continue guerre, per le quali gli Stati cercano a loro volta di indebolirsi e di soggiogarsi reciprocamente, dovranno da ultimo portarli, anche loro malgrado, o a entrare in una costituzione cosmopolitica o […] a una condizione giuridica di federazione sulla base di un diritto internazionale stabilito in comune (Gem., 310-311; SP, 278).

  • Il progetto federale

2.3.1 L’ideale è la coesistenza delle libertà:

Agisci esternamente in modo che il libero uso del tuo arbitrio possa coesistere con la libertà di ognuno secondo una legge universale (MS, 230-231; [35] ).

Dove l’antagonismo, come si è ricordato, è propositivo, non più negativo.

L’idea finale:

…per gli stati che stanno fra loro in rapporto reciproco non vi è altra maniera razionale per uscire da uno stato naturale senza leggi, che è stato di guerra, se non rinunciare, come i singoli individui, alla loro selvaggia libertà (senza leggi), sottomettersi a leggi pubbliche coattive e formare uno Stato di popoli (civitas gentium), che si estenda sempre più fino ad abbracciare da ultimo tutti i popoli della terra (WeF, 352 [182]).

Le formule che ora ricorrono in questa direzione sono diverse, ma in definitiva complementari: alleanza, congresso permanente, federazione, confederazione di Stati. Sottendono per un lato l’esigenza inderogabile di approdare ad una legislazione universale, per l’altro esigono che l’unione degli Stati (Völkerbund) non equivalga ad uno Stato di popoli (Völkerstaat), con un unico potere sovrano: deve trattarsi appunto soltanto di un’associazione, d’una confederazione «che può essere disdetta in ogni tempo e per conseguenza deve essere periodicamente rinnovata»[8]. La correzione ha un senso.

Nella Metafisica Kant sembra far propria l’idea della lega permanente e non ne denunzia più il carattere surrogatorio: l’idea di una repubblica universale è ormai decisamente accantonata a tutto vantaggio di un’alleanza o d’un permanente congresso di stati. Si tratta in questo caso d’una prospettiva che non è semplicemente registrata dall’esterno e come accettata in forza d’una constatazione puramente pragmatica: il testo sembra suggerire al contrario il tono di una condivisione in proprio. Kant, è vero, torna a dire che si possono e si debbono porre le condizioni per un avvicinamento alla meta dell’unione di Stati[9], ma nota ad un tempo che l’idea d’uno Stato universale è non priva di rischi: per la sua estensione è impraticabile perché non consente una effettiva protezione dei suoi membri[10]. Nel Gemeinspruch aveva del resto già notato che uno Stato universale comporta pur sempre un pericolo per la libertà, «potendo originare il più orribile dispotismo»[11]. Anche questa era una considerazione che, certo, obbediva ad una considerazione realistica dell’esperienza storica, ma che peraltro corrispondeva alla tutela di un a priori, qual è il principio della libertà.

2.3.2  Ritorna la chiave del rispetto

Il rispetto è una modalità di rapporto che Kant elabora più propriamente in sede morale: si tratta infatti di una disposizione sensibile, ma squisitamente soggettiva. Tuttavia, a differenza dell’amore che implica in ogni caso una vicinanza e dunque una consonanza prevalentemente interiore, il rispetto è soprattutto una disposizione negativa, un porsi a distanza per non prevaricare sulla libertà dell’altro. In questo senso Kant può stabilire una «analogia con il dovere di diritto che ingiunge di non danneggiare nessuno in ciò che gli è proprio»[12]. Potremmo formulare una proporzione e dire che, come il rispetto costituisce una doverosa distanza riguardo alle intenzioni e all’esercizio delle libertà, così il diritto costituisce il legittimo riconoscimento degli spazi concreti, di quel mio e tuo in cui si materializza l’esercizio dei fini e delle libertà.

Ma c’è di più. Se è vero che il circolo dell’avere costituisce lo spazio e la manifestazione reale della persona, si deve poi riconoscere che questo circolo trova la sua autenticità nel considerarsi «parte di un circolo più grande». Kant parla a questo punto esplicitamente di un «circolo dei sentimenti cosmopolitici» e precisa che, in tal senso, si tratta di mettere in atto tutti quei mezzi, tutte quelle «opere esteriori» che servano a promuovere il sentimento della virtù o della perfezione interiore dell’uomo[13].Nel circolo dei sentimenti cosmopolitici la disposizione del rispetto è inscritta in analogia con il diritto che salvaguardia l’antagonismo delle libertà. In questa prospettiva, che certo rinvia alla fondazione tanto del diritto, quanto della morale, può allora chiarirsi il senso riposto nell’ideale confederativo.

Kant mira certamente ad una costituzione a priori dei costumi, ma non dimentica che, nel concreto e nelle personali declinazioni dei fini, l’ethos si traduce pur sempre in stili di vita, in determinati modi di vivere[14]. Nell’Antropologia pragmatica, Kant tornerà ad indicare nell’antagonismo delle libertà la chiave del progresso e lo farà precisando che l’esercizio della libertà si dà proprio attraverso le diverse costruzioni della tecnica, della cultura, dei costumi. In questa prospettiva il cammino verso una società cosmopolitica risulterà appunto da una progressiva coniugazione delle differenti civiltà:

… la natura ha posto e voluto nella specie umana il germe della divisione, mentre la sua ragione ne trae l’unione o almeno il continuo progresso verso di essa: in linea ideale questo è il fine, in linea di fatto quella (la divisione) è, nel piano della natura il mezzo proprio di una suprema e per noi inattingibile sapienza, che mira a produrre il perfezionamento dell’uomo per mezzo di un incivilimento progressivo (ApH, 322 e ss. [216-217 e ss.).

Non è certo un caso che questa conclusione segua ad una rassegna dei caratteri nazionali, che Kant descrive pensando alle diverse civiltà europee, così come gli sembravano formate dall’interagenza di culture, sentimenti, condizioni ambientali, operosità tecniche e commerciali. Il tracciato, che anche qui viene svolto in vista di una possibile società cosmopolitica[15], può ritenersi una conferma di quanto dicevo nel considerare l’ideale confederativo della Metafisica dei costumi: ideale d’una unità che sia ad un tempo rispetto e coniugazione delle differenti civiltà. Del resto, lo stesso Kant alla fine della Dottrina del diritto, rende in certo senso esplicita questa prospettiva richiamando un caso esemplare ai fini di una corretta interpretazione del diritto cosmopolitico: il caso dell’espansione coloniale in America e nella Nuova Olanda che con speciosi argomenti tentava di giustificare le violenze perpetrate contro gli indigeni. Ed è ancor più significativo che, in questo caso, Kant si levi a difesa di quei popoli che altra volta, per esempio nelle sue Congetture sull’origine della storia, aveva considerato del tutto primitivi, popoli di pastori e cacciatori «che per il loro sostentamento hanno bisogno di vaste e deserte contrade»[16].

  1. Metafisica della fede

 I percorsi che si sono delineati ci riportano per vari aspetti al tema della fede, di cui si è detto all’inizio. E di fede si tratta sia nell’istituzione di una morale, sia nel pensiero della storia. Si è appena ricordato come Kant, pensando alle possibilità di un progresso storico abbia trovato il suo fondamento «in una suprema e per noi inattingibile sapienza, che mira a produrre il perfezionamento dell’uomo per mezzo di un incivilimento progressivo». Lo spazio della fede si colloca fra l’asserto di una «suprema sapienza» e quello della sua «inattingibilità». Inattingibile è questa sapienza perché la sua assolutezza non è traguardabile nel campo dell’esperienza, cui siamo comunque consegnati. E tuttavia il suo asserto si dà come un’esigenza inderogabile della ragione[17]. Nel campo dell’esperienza resta dunque possibile solo una fede, ovvero la certezza morale che il compimento dell’umano sia possibile, anzi destinato.

Così, ancor prima che sul piano della coscienza storica, nel campo della morale interiore: l’esperienza non mostra il compimento del destino umano (il bene sommo e dunque anche la felicità), ma il “fatto” dell’imperativo morale lo esige. Di qui i postulati dell’oltre vita e di Dio.

Dunque fede che conforta gli eventi dell’esistenza in nome di un’esigenza puramente razionale. Tornando alla domanda iniziale, si vede che l’Aufheben del sapere non è una sostituzione, ma un “porre da un’altra parte”.

Sono due i passaggi da tenere alla base del nostro confronto. Il primo è quello in cui Kant situa in modo alquanto sorprendente la fede fra opinione e sapere: una collocazione risolutiva fra due modi opposti dei quali Kant dice che il primo è «troppo poco» e il secondo«troppo»[18].

3.1.    La fede dunque come un quasi sapere che rimedia all’impossibilità ultima del sapere: soggiorno alle soglie del vero, come traccia e tuttavia indizio ben «saldo» della verità. L’altro passo, che del resto sta a fondamento del precedente, è quello che stabilisce i termini del problema: l’opinione (Meinen) come un tener per vero «insufficiente tanto oggettivamente quanto oggettivamente», la fede come un tener per vero «sufficiente solo soggettivamente», il sapere come un tener per vero «sufficiente tanto soggettivamente quanto oggettivamente»[19]. Quel che ora è indispensabile chiarire è il carattere «soggettivo» della fede. In che senso Kant parla qui di una dimensione soggettiva che garantisce la fede e la cui mancanza non concede altro che incerta opinione? Il termine ha nei testi di Kant significati diversi, ma in questo caso, proprio in quanto contrapposto alla mera opinione, non può essere inteso in senso negativo, relativistico.

3.2.    L’asserto dell’Incondizionato non è a questo livello che il rilievo di una condizione trascendentale e, come tale, non implica alcuna determinazione concreta: non è che un concetto limite[20] o – come Kant scrive nelle Reflexionen – non è che un conceptus terminator[21]. È dunque un’indicazione protesa di là da ogni determinazione possibile, di là da ogni possibile esperienza e in questo senso costituisce solo un riferimento noumenico: un riferimento che tuttavia non è privo di realtà[22] e che in quanto tale, per quanto indeterminabile, costituisce a suo modo un qualche sapere[23].

3.3.    Torniamo ora alla domanda che ci veniva dalla definizione della fede intesa come un «tener per verso soggettivamente». Il tener per vero era relativo ad un trascendimento dell’esperienza, verso una noumenicità transtemporale dello spirito e soprattutto verso una noumenicità propriamente teologica. Ora sappiamo che questo rinvio è dato sul filo di una riflessione trascendentale, rilevando cioè un’esigenza originaria della ragione: un’esigenza che, quando non fosse soddisfatta, renderebbe priva di senso anche l’esercizio della vita intellettiva e infine la stessa gestione dell’esperienza. È appunto quest’esigenza che, come prima notavo, implica in generale, ancor prima dell’asserto teologico, il riferimento ad una dimensione noumenica dell’essere, senza di cui l’orizzonte dell’apparenza fenomenica resterebbe del tutto inintelligibile[24]. Possiamo qui riprendere un’annotazione di I. Mancini, che, a proposito del nesso fenomeno-noumeno, diceva: «Aut simul stabunt, aut simul peribunt. Questo vuol dire fare uso della ragione, che dichiara reale non solo quello che ha direttamente percepito, ma anche quello che viene inferito»[25].

3.4.    Il percorso di Kant , così come ho potuto ricostruirlo sin ora, potrebbe essere raccolto sinteticamente in questa sequenza:

  1. a) l’esperienza dell’imperativo morale, che è proprio il dato originario del sentimento morale, viene chiarita nell’intenzione che mira al sommo bene;
  2. b) questa relazione, inadeguabile sul piano dell’esperienza finita, risulterebbe infine contraddittoria senza un riferimento trascendente, che Kant garantisce con una riflessione di tipo trascendentale;
  3. c) l’approdo al trascendente è però tanto razionale quanto inesperibile e proprio per questi due aspetti si costituisce precisamente come una fede razionale.

Un pensiero per concludere:

«…ciò che noi sappiamo,

ma non conosciamo,

fonda ciò che noi conosciamo

ma non comprendiamo…»

(Eric Weil)

[1] Testo dell’Autore che riprende, in forma di appunti, gli argomenti trattati nella conferenza bresciana del 4.3.2004 su invito della CCDC.

[2] Ritenendo che la formula kantiana corrisponda al telos proprio dell’umano, conviene segnalare come la stessa idea del regno delle libertà debba necessariamente trovarsi al fondo di ogni seria prospettiva utopica. Sono allora tutt’altro che impertinenti le analogie con contesti diversi e persino molto lontani. Penso, per esempio, alla città celeste disegnata da Agostino dove non è più questione di un bene quasi privato, ma solo d’un bene comune ed immutabile (De civ. Dei, XV, 3). Penso anche al Manifesto marxiano ove di nuovo si disegna l’idea di una società nella quale la libertà di ciascuno possa darsi come condizione della libertà di tutti (Marx-Engels, Manifest der Kommunistischen Partei, Werke (MEW), Dietz, Berlin 1959, IV, 482). Sul senso, non più negativo, con cui Kant usa nel testo citato il termine antagonismo cfr. K. Düsing, Die Teleologie in Kants Welbegriff, cit., 219-222.

[3] MA, 111; SP, 197-198. Kant si riferisce qui a Gen. 3, 6: «Allora la donna vide che l’albero era buono da mangiare, gradito agli occhi e desiderabile per acquistare saggezza». E Kant così commenta: «è una proprietà della ragione che essa, col soccorso dell’immagina­zione, provochi artificialmente desideri, che non solo non sono fondati sui bisogni naturali, ma sono con essi direttamente in contrasto».

[4] Kant rilegge in quest’ultimo senso Gen. 3, 21: «Il Signore Dio fece all’uomo e alla donna tuniche di pelli e li vestì». Più precisamente Kant scrive al riguardo che quando l’uomo disse «alla pecora: – La lana che tu porti la natura non te l’ha data per te, ma per me –, quando egli la spogliò e se ne vestì (Gen. 3, 21), riconobbe di avere per natura al di sopra di tutti gli animali il privilegio di non più considerare gli animali come suoi compagni nella creazione, ma come dei mezzi e degli strumenti abbandonati dalla natura al suo arbitrio per servirsene secondo i suoi scopi. Questa idea implicava, sia pure ancora confusamente, anche la proposizione opposta: che egli non poteva tenere questo linguaggio ad un altro uomo, ma doveva considerarlo come un eguale partecipante ai doni della natura» (MA, 114; SP, 200).

[5] Si ricordi che in questi versetti il testo biblico, per un verso, allude ad un tempo in cui ogni male sarà calpestato e vinto, ma per altro si sporge drammaticamente sul tempo intermedio, inteso come il tempo che vedrà le fatiche e i dolori del parto, le fatiche e i dolori del lavoro: «Alla donna disse: “Moltiplicherò i tuoi dolori e le tue gravidanze, con dolore partorirai figli. Verso tuo marito sarà il tuo istinto, ma egli ti dominerà”. All’uomo disse: “Poiché hai ascoltato la voce di tua moglie e hai mangiato dell’albero, di cui ti avevo comandato: Non ne devi mangiare, maledetto sia il suolo per causa tua! Con dolore ne trarrai il cibo per tutti i giorni della tua vita. Spine e cardi produrrà per te e mangerai l’erba campestre. Con il sudore del tuo volto mangerai il pane; finché tornerai alla terra, perché da essa sei stato tratto: polvere tu sei e in polvere tornerai!”».

[6] «… si chiede di poter affermare assertoriamente, secondo il principio costitutivo della ragion giudicante teoretica, che il genere umano si trova effettivamente in tale progresso, e vi si è trovato fin da principio. Ma poiché ciò non può esser ricavato da nessuna esperienza, sarebbe necessario stabilire tale verità con un giudizio a priori e, quindi, con la coscienza della necessità di tale procedere verso il meglio; in altri termini apoditticamente: poiché senza di ciò non si potrebbe predire in modo naturale l’ordine degli accadimenti per tutti i tempi futuri e per l’intero genere umano in base all’agire dell’uomo: per questo è necessario la conoscenza della sua necessità» (Obg, 621-622; SP, 229)

[7] «Se è spettacolo degno di una divinità vedere un uomo virtuoso lottare contro le avversità, contro le tentazioni del male, e ciò malgrado rimanere fermo di fronte ad esse, è d’altra parte spettacolo altamente indegno, non voglio dire di una divinità, ma dell’uomo più comune, purché benpensante, vedere la specie umana fare di periodo in periodo progressi verso la virtù e tosto ricadere nuovamente nel vizio e nella miseria. Può essere commovente e istruttivo guardare per un certo tempo a questo spettacolo tragico, ma su di esso deve pure una buona volta calare la tela. Altrimenti a lungo andare diventa una farsa: e se anche gli attori non se ne stancano, perché sono pazzi, ben può stancarsene lo spettatore, il quale ne ha abbastanza dell’uno o dell’altro atto, quando ha motivo di presumere che l’opera, non andando mai alla fine, sia eternamente la stessa. […] Io potrò pertanto assumere come principio che, come la specie umana è in continuo progresso nel campo della cultura, che è il fine naturale dell’umanità, così essa deve anche progredire in meglio rispetto al fine morale della sua esistenza, e che questo progresso può essere a volte interrotto, ma non mai arrestato» (Gem., 308-309; SP, 275-276).

[8] MS, 344 [180]. Ma si rilegga in tal senso anche la conclusione del § 61.

[9] Ritorna qui quasi alla lettera la conclusione del Gemeinspruch, dove a chi riteneva priva di valore l’ultima meta cosmopolitica, Kant contrappone la propria fiducia teoretica: «Per parte mia ho invece fiducia nella teoria risultante dal principio giuridico che indica quale deve essere il rapporto tra gli uomini e gli Stati e che raccomanda agli dèi della terra questa massima: di condursi sempre nei loro conflitti in modo che una siffatta repubblica universale dei popoli venga preparata e sia considerata possibile (in praxi) e tale da poter esistere» (Gem., 313; SP, 280-281.)

[10] MS, 350 [187-188].

[11] Conviene ricordare per esteso e nuovamente il passo, ove appunto si dice che i popoli per uscire da uno stato di conflittualità perniciosa dovranno, loro malgrado o «entrare in una costituzione cosmopolitica, o, siccome un tale stato di pace universale (come è avvenuto più volte tra gli Stati assai grandi) è per un altro aspetto ancora pericoloso per la libertà, potendo originare il più orribile dispotismo, questa necessità dovrà portarli non a una comunità cosmopolitica sotto un unico sovrano, ma a una condizione giuridica di federazione sulla base di un diritto internazionale stabilito in comune» (Gem., 310- 311; SP, 278). Si veda in questa direzione lo studio di G. Marini, Il diritto cosmopolitico nel progetto kantiano per la pace perpetua, in AA. VV. Kant politico, Istituti editoriali e poligrafici, Pisa 1996, 5-30.

[12] MS, 449-450 [317].

[13] MS, 473 [351]. Si noti ora che nella distinzione, sopra ricordata, fra amore e rispetto, Kant implica anche un chiaro orientamento del rispetto verso l’amore: «il dovere del libero rispetto verso gli altri, essendo esso propriamente un semplice dovere negativo (cioè il dovere di non innalzarsi al di sopra degli altri), […] può essere considerato come un dovere stretto, quantunque poi, come dovere di virtù, esso abbia relazione con il dovere dell’amore, che deve pertanto essere riguardato come un dovere largo» (MS, 449-450 [317]).

[14] Cfr. MS, 216 [17] dove Kant fa rilevare come, stando alla tradizione semantica, «la parola tedesca Sitten, come del resto la corrispondente latina mores, significhi soltanto maniera e modo di vivere».

[15] ApH, 331 [227].

[16] MS, 353 [190].

[17] «… si chiede di poter affermare assertoriamente, secondo il principio costitutivo della ragion giudicante teoretica, che il genere umano si trova effettivamente in tale progresso, e vi si è trovato fin da principio. Ma poiché ciò non può esser ricavato da nessuna esperienza, sarebbe necessario stabilire tale verità con un giudizio a priori e, quindi, con la coscienza della necessità di tale procedere verso il meglio; in altri termini apoditticamente: poiché senza di ciò non si potrebbe predire in modo naturale l’ordine degli accadimenti per tutti i tempi futuri e per l’intero genere umano in base all’agire dell’uomo: per questo è necessario la conoscenza della sua necessità» (KU, 373[242).

«Questo principio, veramente, se si guarda all’occasione della sua origine, è da ritenersi derivato dall’esperienza, cioè da quella esperienza istituita metodicamente e che si chiama osservazione, ma per la universalità e la necessità, che esso afferma di una tale finalità, non può riposare semplicemente sopra principi dell’esperienza, e deve avere a fondamento qualche principio a priori, sia pure soltanto regolativo» (KU, 373 [245]).

[18] Kritik der reinen Vernunft, (d’ora in poi Critica della ragion pura) 17872, Gesammelte Schriften, Akademieausgabe (d’ora in poi AK) Bd.III, p. 533; tr. it. di G.Colli, Critica della ragione pura, Adelphi, Milano 1976, p. 799.

[19] Critica della ragion pura, p. 535; tr. cit., p. 802.

[20] Cfr. tutto il § 57 dei Prolegomena zu einer jeden künftigen Metaphysik, die als Wissenschaft wird auftreten können, 1783, AK, Bd. IV, tr. it. a cura di P. Martinetti e M. Roncoroni, Prolegomeni ad ogni metafisica futura che vorrà presentarsi come scienza, Rusconi, Milano 1995.

[21] Reflex. 4039, 4039, AK XVII, pp. 391-392, 393-394.

[22] Nella citata prefazione alla seconda edizione della Cristica, Kant scrive che «Ciò che ci spinge necessariamente a oltrepassare il limite dell’esperienza e di tutte le apparenze è infatti l’incondizionato, che rispetto ad ogni oggetto condizionato la ragione esige, necessariamente e a buon diritto, nelle cose stesse» (Critica della ragion pura, pp. 13-14; tr. cit., p. 26).

[23] «La limitazione del campo dell’esperienza per via di qualche cosa, che rimane sotto ogni altro rispetto ignoto, è pure una conoscenza che rimane alla ragione da questo punto di vista; per la quale essa non rimane chiusa entro il campo del sensibile e nemmeno può vagare fuori di esso, ma come si conviene alla conoscenza d’un limite, si restringe al rapporto di ciò che è fuori con ciò che è dentro il limite stesso» (Prolegomena…§ 59; p. 361; tr. cit., p. 237 ).

[24] Fra i tanti passi che indicano questa unità delle tra funzioni conoscitive, questo mi pare il più esplicito: «In effetti la legge della ragione, in base a cui essa cerca tale unità, è necessaria, poiché senza questa legge non vi sarebbe più la ragione, senza ragione non vi sarebbe più alcun uso coerente dell’intelletto, e in mancanza di tale uso non vi sarebbe più un criterio sufficiente della verità empirica: è a riguardo di quest’ultimo, perciò, che noi dobbiamo presupporre l’unità sistematica della natura proprio come oggettivamente valida e necessaria». In effetti la legge della ragione, in base a cui essa cerca tale unità, è necessaria, poiché senza questa legge non vi sarebbe più la ragione, senza ragione non vi sarebbe più alcun uso coerente dell’intelletto, e in mancanza di tale uso non vi sarebbe più un criterio sufficiente della verità empirica: è a riguardo di quest’ultimo, perciò, che noi dobbiamo presupporre l’unità sistematica della natura proprio come oggettivamente valida e necessaria» (Critica della ragion pura, p. 452; tr. cit., pp. 664-665).

[25] I. Mancini, Guida alla Critica della ragion pura, Quattro venti, Urbino 1982-1988, vol 2, p.335. Questo passo viene qui citato in consonanza con Ferretti che, a sua volta, lo cita con particolare consenso (Cfr. Ontologia…, cit., p.76).