La politica e il male

Quando sono arrivato al termine della lettura del libro La politica e il male, mi è tornato alla mente l’apologo del clown che Harvey Cox mutua dal Kierkegaard nella parte quarta de La città secolare. Cox, che non viene mai citato da Nicoletti, l’applica a chi oggi voglia parlare di Dio. Mi pare che Kierkegaard l’applicasse al filosofo. L’apologo è, a grandi linee, questo: «Alle porte di un villaggio danese si era accampato un circo viaggiante, e mentre gli attori si stavano preparando per lo spettacolo, il circo prese fuoco. Allora il direttore del circo pregò gli attori di correre in paese a chiamare aiuto. Il clown si precipitò, già pronto, imbellettato, coi suoi costumi strani, in paese a chiedere che la gente corresse per spegnere il rogo. La gente interpretò la presenza del clown nel paese come una trovata pubblicitaria. Alla fine le fiamme dal circo si diffusero al paese che bruciò»

Mi è venuto in mente questo apologo per due ragioni fra di loro convergenti. La prima, perché l’autore in questo libro parla con audacia della politica in riferimento alla verità; la seconda, perché legge la condizione umana nel suo dipanarsi nella storia in riferimento continuo alla trascendenza. E proprio per questo l’opera appare inattuale sia per la fiducia che mostra nella possibilità di accedere ad una verità ultima, a fronte del chiacchiericcio diffuso sul così detto pensiero debole, sia per il coraggio di legare politica e trascendenza a fronte di una dichiarata e, a mio modesto avviso, male intesa laicità della politica.

È ovvio che con questo, l’autore, non voglia prospettare una concezione teocratica; piuttosto vuole affrontare in modo acuto un problema che potrebbe essere così formulato: di fronte al male che attraversa la storia umana che funzione può svolgere la politica? Il problema mi pare del tutto pertinente per due ragioni: la prima, perché appartiene al comune modo di sentire che la politica debba risolvere i problemi della convivenza, e là dove sorge il problema, vuol dire inevitabilmente che si avverte disagio perché la condizione vitale non è quale dovrebbe essere; la seconda ragione, relativa alla res, alla cosa, perché l’organizzazione politica nasce per difendersi. Il libro prende il via dal mito di Caino, il primo costruttore di città. E a questo mito l’autore collega altri miti. Tutti che richiamano l’avvio della vita della polis, della città, connesso con un male, con la violenza; non tanto una violenza verso esterni quanto piuttosto verso il prossimo, verso i fratelli. Ritorna con una certa insistenza, nella prima parte del libro, il detto: fraterno primi maduerunt sanguine muri (le prime mura grondano di sangue fraterno). Se l’organizzazione politica nasce per difendersi dalla violenza scatenata, dal rapporto di invidia, di gelosia tra i fratelli, allora si potrebbe dire che la politica porta nel suo codice genetico traccia di quel male che vorrebbe combattere. Coerentemente, la politica si presenta sempre come ambivalente: porta in sé la volontà di vincere il male conseguenza del primo atto di violenza e, nello stesso tempo, porta in sé la traccia di quella violenza mai riscattata. Ed è solo nel riconoscimento di questa ambivalenza che la politica potrà svolgere il suo compito, il quale si muove tra due facce della medesima medaglia, che sono, per un verso, consapevolezza del limite, per un altro verso, assunzione di responsabilità. Si tratta di due facce della medesima medaglia; infatti, solo nella coscienza di dover rendere conto (l’autore nel capitolo dedicato al governo responsabile, anche attraverso scavi etimologici, mostra che responsabilità richiama anche dover rendere conto) si mantiene il senso del limite, e quindi non ci si arroga il compito di salvatore ultimo. Quando la politica perde il senso del suo limite e pretende di essere la via di salvezza dell’umanità, diventa fonte di male; contraddice, per così dire, l’intenzionalità originaria. Se questo è vero, l’azione politica diventa espressione della necessità umana di vincere il male, mettendo in conto però la sua radicale contingenza, meglio sarebbe dire: la sua radicale incapacità a realizzare il compito che percepisce essere suo. Se la politica esprime la necessità umana di vincere il male, e nello stesso tempo porta in sé le tracce del male, vuol dire che la radice della necessità stessa sta altrove: la ricerca di una liberazione dal male è iscritta nel cuore degli umani perché alla loro origine sta il bene. Vi sono delle pagine, nel libro, nelle quali, l’autore mostra che alla città terrena si contrappone come maggiormente originaria la città celeste. E la socialità che l’uomo cerca dopo l’atto di violenza non è niente altro che il riemergere della socialità nativa immessa dal creatore. Prima della violenza sta la fraternità. Se le mura della città trasudano sangue fraterno, vuol dire che prima c’era la fraternità. E questo sta a dire che non c’è posto per la rassegnazione. Mi pare di vedere nel libro profilarsi precisamente l’idea che di fronte al male è possibile vincere. La rassegnazione, che è l’opposto dell’atteggiamento prometeico, non trova spazio nella vicenda umana, quando la si legga nella sua profondità; allo stesso modo anche il prometeismo sarebbe inefficace. Di fronte a questa constatazione sembrerebbe che la politica sia ricondotta dentro dei limiti troppo angusti. Ma una tale conclusione lascerebbe intendere una concezione, lo dico tra virgolette, «onnipotente» della politica. Il rischio di questa concezione a me pare sia tutt’altro che assente; e la ragione sta in questo (si tratta di una ragione di carattere psicologico): il problema visto come più urgente, più immediato, quello che ci tocca più da vicino, si configura come la cifra del male da sconfiggere, e chiunque si presenti, mediante la propaganda, come capace di risolvere il problema cifra del male, appare come il salvatore. Merito dell’autore, mi pare, sia invece quello di ricondurre la politica al suo vero limite. Il che, l’ho imparato leggendo il libro, mi pare comporti cinque cose.

La prima, accogliere la lezione di Benjamin. Sono interessanti le pagine nelle quali l’autore, parlando del governo angelico, fa riferimento all’angelus novus di Klee che ha colpito Benjamin: è l’angelo che dal futuro guarda verso il passato. Nel frammento politico teologico del 1920/21 Benjamin scriveva: «Soltanto il Messia determina il compimento di ogni divenire storico, nel senso che egli soltanto libera, compie e produce la relazione tra questo divenire e il messianismo stesso. È per questo che nessuna realtà storica può in sé e per sé volersi riferire al messianismo. È per questo che il regno di Dio non costituisce il telos della dynamis; esso non può essere posto come fine, storicamente non costituisce un fine ma un esito»; e commenta Nicoletti: «l’angelus novus è l’angelo della storia che desacralizza la storia che custodisce la differenza tra tempo ed eternità».

La seconda: introdurre nella politica meccanismi di controllo. Dove si parla del governo senza orgoglio, l’autore fa vedere con ricchi, dotti riferimenti ad autori del passato, come sia necessario che la politica stessa si dia controlli in modo tale da non assolutizzarsi in una delle sue forme di esercizio. E questo nasce appunto dalla consapevolezza del limite vero.

La terza: avere fiducia che la politica può togliere solo una parte del male, non tutto il male. C’è una perorazione, mi pare, per la fiducia nelle possibilità che l’umanità al suo interno conserva di far fronte alla violenza che connota l’esistenza umana.

La quarta: attendere la liberazione dal male dall’alto. Qui mi sarebbe piaciuto veder citato il capitolo ventisei di Isaia. Un testo che non ho trovato citato, anche se il tema della città celeste che scende dal cielo ripresa dall’Apocalisse è abbondantemente richiamato. Scrive Isaia nella così detta piccola apocalisse: «In quel giorno si canterà questo canto nel paese di Giuda, abbiamo una città forte, egli ha eretto a nostra salvezza mura e baluardo, aprite le porte, entri il popolo giusto che mantiene la fedeltà, il suo animo è saldo, Tu gli assicurerai la pace, pace perché in Te ha fiducia. Confidate nel Signore sempre, perché il Signore è una roccia eterna, perché Egli ha abbattuto coloro che abitavano in alto, la città eccelsa l’ha rovesciata, rovesciata fino a terra, l’ha rasa al suolo, i piedi la calpestano, i piedi degli oppressi, i passi dei poveri». Non si può qui non richiamare quanto Max Horkheimer scriveva in quella piccola operetta, un’intervista a Gumnior, La nostalgia del totalmente altro: nostalgia di perfetta giustizia, una perfetta giustizia che può venire solo dall’alto, dalla città che Dio costruisce.

Infine, la quinta: vivere l’azione politica come dedizione. Il capitolo sul governo del martire è, a mio parere, uno dei più alti del libro, forse anche più inusuale, rispetto al modo abituale di pensare: il martire come testimone della verità, perché è solo la verità che può vincere il male anche quando sembrerebbe conculcata. Vorrei leggere una pagina di questo capitolo, e la leggo perché mi sembra di particolare attualità nell’inattualità: «Il governo del martire si afferma come l’unico possibile là dove la logica mondana che si impone come assoluta è quella della folla che nella contemporanea società di massa giunge al massimo della sua potenza. È questa la società che ha fatto del numero, della quantità, della forza il principio supremo. Il suo soggetto è la folla, divorata dall’invidia verso ciò che da essa si distanzia, preoccupata di essere come gli altri, e di annientare ciò che si eleva sopra la media età perché chi rompe la solidarietà del così fan tutti, costringe ciascuno a prendere coscienza del suo poter essere diverso, del suo kantianamente dover essere se stesso. Per questo la folla non sopporta la differenza e la vuole abolire attraverso il livellamento. Il dominio della quantità, l’affogare la parola nella chiacchiera; di fronte ad un tale dominio della quantità nessun governo è più possibile, nessun ordine è pensabile, ma semplici somme e scontri di forze. Chi può reintrodurre la qualità è il singolo attraverso quella particolare via che è la sofferenza, che non è via di espiazione di una colpa, ma via di liberazione di sé e dell’altro dal rapporto basato sullo scambio e sul dominio. In ciò il martire governa in quanto afferma l’indisponibilità della soggettività ad essere ingoiata nell’idolatria dell’ordine costituito».

Vorrei concludere con un invito rivolto soprattutto a chi bazzica negli ambienti politici, un invito a leggere il libro, ma temo che potrebbe apparire come l’invito del clown.

NOTA: testo, non rivisto dal’Autore, della conferenza tenuta a Brescia il 128.3.2001 su invito della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura. Intervento di mons. Giacomo Canobbio, presidente dell’Associazione teologi italiani, in occasione della presentazione del libro di Giovanni Nicoletti La politica e il male, edito dalla Morcelliana.