La profondità dell’anima e l’educazione morale

I due interessi

L’uomo aspira potentemente a conoscere, e questa sua aspirazione si rivolge in tre direzioni: al di sotto di sé e intorno a sé, dentro di sé, sopra di sé.
Il suo primo interesse – primo in ordine di tempo, e pure mai interamente soddisfatto – è costituito da una rispondenza tra il soggetto e gli oggetti è il mondo, che stupisce il fanciullo e l’uomo e suscita la domanda inesauribile: «Perché?».
L’istruzione trova in questo interesse il suo punto di partenza e le sue vie di cui la scuola attiva, la metodologia e la didattica moderna hanno – spesso genialmente – scoperto e divulgato i ritmi, le leggi, i sussidi più vari ed efficaci.
Ma quand’anche potessi abbracciare con la mente e dominare praticamente ogni cosa, se ignoro il fine a cui orientare le mie conoscenze, i miei rapporti umani, me stesso, io non conosco ciò di cui han più bisogno.
Devo pensare l’autore, il fine, il soggetto dei miei pensieri, il mio «io» che si pensa; dal momento in cui prendo consapevolezza di ciò che sono nell’ordine ontologico comincia il mio inserimento nell’ordine morale. Per conoscermi, bisogna che mi metta al mio posto, in ordine.
«Perché è comandato che l’anima conosca se stessa?» si chiede S. Agostino.
«Credo, egli risponde, che le sia comandato così perché pensi a se stessa, e viva secondo la sua natura, cioè cerchi di ordinarsi» .
Vi è dunque non solo una rispondenza tra soggetto ed oggetto , ma tra il soggetto e se stesso, e le esigenze indeclinabili, il destino, i fini della sua natura. L’educando e la realtà che lo circonda, l’uomo e il suo dover essere, l’istruzione e l’educazione morale sono le direttrici di una educazione attiva ed integrale e costituiscono un rapporto i cui termini reciprocamente si arricchiscono armonizzandosi e gerarchizzandosi nella vita dell’educando.
Lavorare a ben conoscersi per farsi migliori, questo il compito proprio di ogni uomo in quanto uomo, l’itinerario di ogni autentica educazione.

Il «nosce te ipsum» e le profondità dell’anima

Fu Socrate il primo filosofo, il primo grande educatore che sul «Nosce te ipsum» incentrò tutta la sua vita sini ad affrontare il sacrificio supremo; pure il mistero profondo dell’uomo gli fu essenzialmente ignoto e toccava al realismo cristiano rivelarlo nella sua tragica complessità.
Creatore del mondo, Dio ha rimesso una parte di governo all’uomo che vi esercita un potere analogo al suo: l’uomo può esercitare tale sovranità (apparsa all’umanesimo ateo addirittura come l’unico fine, quello che emerge dalla realtà stessa della storia).
Ma perché l’uomo è capace di regnare sul mondo e, nel linguaggio cristiano, in qual senso egli è un’immagine di Dio?
Egli è l’unica creatura libera e la radice della sua libertà è nella ragione e nella volontà. L’uomo è inserito nell’ordine cosmico come ogni altro essere, ma non è come gli altri esseri; egli pensa, e col pensiero domina l’universo in cui è come ingoiato, assorbito.
«Dio ha fatto l’uomo a sua immagine nel pensiero: là è l’immagine di Dio. Perciò il pensiero stesso non può essere compreso, neppure da se stesso, in quanto è un’immagine di Dio» .
«Animus ad habendum seipsum angustus est», «ego ipse non capio totum quod sum», incalza Sant’Agostino. Siamo inscrutabili a noi stessi perché partecipiamo alla profondità di Dio, la cui immagine si trova nell’anima – commenta S. Tommaso – «in quanto la sua natura le permette d’innalzarsi verso Dio» .
Si comprende allora perché la visione dell’anima da parte dell’anima sia un’aspirazione che non trova su questa terra il suo compimento. «L’intuizione dell’anima – scrive il Gilson – non è mai equivalente all’anima che l’esercita».
L’anima, causa sufficiente della conoscenza che ha di sé, proprio perché causa, è al di là del suo apprendimento immediato. Le sue profondità superano la sua capacità di captarsi e di esprimersi interamente. Dalla sua essenza, sempre presente, la quale è pronta ad esplicarsi attraverso gli oggetti specificatori dell’esperienza, partono gli atti e in essi l’anima prende coscienza di se stessa.
Di qui procedono un dinamismo interiore, un insaziabile impegno di adeguazione a se stessi, una vigorosa ascetica del «raccoglimento», quanto mai fecondo per la conoscenza e per la vita, per l’educazione e l’autoeducazione.

La scoperta dei valori in connessione con la base ambientale

Come l’educatore promuove l’atto di attenzione con cui l’anima dell’educando distintamente conosca se stessa e intimamente si ami ed ami ogni essere per quel che vale?
L’educando è assetato di esperienze: senza pedanteria e senza paternalismo l’educatore gli è vicino. Il pedante, il paternalista possono anche dire cose giuste e vere e nobili, ma le dicono in una maniera o in un momento in cui non possono essere accolte e amate dall’educando .
Continuando ad educarsi, il maestro rivive nell’attesa degli educandi la sua esperienza di vita e li guida a riflettere sulla vita: in libere conversazioni, stimolandoli a mettere in rilievo quegli aspetti, che poi saranno gradualmente integrati, più adatti al loro sviluppo psicologico e alla loro indole.
È sempre bene cominciare dalla morale civica e sociale: è il campo in cui la morale naturale si sente più a casa sua e meno deficiente .
Nella riflessione sul fatto, l’esigenza, la carenza, la presenza del valore è indotta dagli stessi educandi.
L’uomo tende volentieri al bene, ma il bene a cui noi vogliamo condurlo – osserva il Pestalozzi – non deve essere la fugace idea del nostro capriccio e della nostra passione; deve essere buono in sé e agli occhi dell’educando, il quale avverte la necessità di fare il bene, di vivere il vero, in base alle sue cognizioni e ai suoi bisogni, prima di volere con noi.
Nella vita all’educando saranno date diverse possibilità di scelta, ed egli potrà facilmente dimenticare la verità e il bene secondo questo o quel maestro: invece crederà sempre più fermamente alla verità che egli stesso ha scoperto e visto, come ciò senza di cui non è possibile vivere da uomini.
In ogni esperienza c’è un contenuto obiettivo che, se viene approfondito, ci fa vedere la verità che palpita nel reale, ed è per questo che il nostro pedagogista del carattere, Modugno, ha ripetutamente insistito nel chiarire il punto di partenza dell’educazione morale. Infatti, come nell’insegnamento della lingua, il maestro parte dal dialetto del fanciullo per giungere alla lingua nazionale, così il vero maestro deve partire dal dialetto… morale del fanciullo, cioè dai suoi interessi, dalle sue valutazioni soggettive, dalle sue abitudini, dalla sua condotta e dalla sua vita.
Sorta in intima connessione con la base ambientale, la legge morale è così intima alla vita da essere l’ansia fremente che ne condiziona tutte le ascese e da non apparire mai come una impostura o una convenzione o una sovrastruttura fittizia che cadrà al primo infuriare delle passioni.
L’educazione morale più alta è sempre la più realistica, è la sola capace di indurre dalla meditazione sulla realtà gli elementi ideali e i mezzi per tradurli in atto.
Spesso ci è caro desiderare, come il Capponi fa nel suo “Frammento”, una società in cui il costume pubblico sia di per sé un forte incitamento al bene; ma il miglior modo, attualmente, di preparare una siffatta società nuova è quello di non presupporla; un indirizzo educativo che non sia realizzabile nel nostro tempo si condanna da sé. L’educazione è veramente efficiente solo quando «ogni singolo mezzo ch’essa adopera per promuovere le energie spirituali sia subordinato alle eterne leggi secondo le quali la natura stessa svolge le sue attività e che tutti i suoi mezzi, integralmente presi, abbiano le loro radici al tempo medesimo nell’unità della natura umana e nelle situazioni individuali» (Pestalozzi).

Una esemplificazione didattica

Ci si permetta una esemplificazione didattica suggeritaci da una delle quotidiane conversazioni di scienza ed arte della vita tenuta con i nostri scolari.
«Perché gli uomini non si vogliono bene?», questo l’argomento proposto da un ragazzo.
Invito a pensare il motivo per cui c’è un rancore, un’antipatia, un litigio tra persone che ognuno di noi conosce.
«Perché c’è invidia» risponde un povero ragazzo… zoppo.
«Si vuole avere sempre ragione, anche quando abbiamo torto» così uno degli scolari più litigiosi.
«C’è la volontà di essere prepotenti sui deboli, come fanno i ricchi e le grandi nazioni», osserva lo storico della classe.
Ma le conclusioni più profonde doveva tirarle un ragazzo che il giorno prima, nel campo sportivo, si era divertito ad insultare un suo condiscepolo e, quando un altro amico gli aveva ricordato il suo soprannome, aveva minacciato di batterlo: «Noi ci facciamo due leggi, una per noi e una per gli altri, quasi che gli altri non fossero come noi; invece il Signore ha detto di non fare agli altri ciò che non vorremmo fosse fatto a noi, ma di volerci bene».
La verità si fa strada:
a) passando da un approfondimento ad un altro – come nella esemplificazione data;
b) superando opposte unilateralità;
c) dissipando la confusione di un valore con un disvalore;
d) o addirittura scoprendo il valore insospettato di una azione che prima appariva ripugnante.
A questo punto l’educatore spinge ogni educando a rivolgersi queste domande: «Faccio io quello che ora mi si presenta come cosa ragionevole ed essenziale?».
«In quali casi e in quale maniera debbo rinnovare la mia condotta per vivere in maniera degna della verità?».
Contrapponendosi ai suoi atti per giudicarli e determinarne il calore, l’educando si libera da ogni meccanismo tanto nel giudicare quanto nel volere. Tutti gli impulsi li ferma per valutarli, non meritando di essere soddisfatti tutti in egual grado o escludendosi a vicenda.
Allora il giudice che decide, non turbato da pressioni e timori, vigile contro la passione raziocinante, è l’io autocosciente che, nel silenzio fecondo della interiorità, dice a se stesso quel che egli è e fa, e quel che egli deve essere e fare.
L’auto-oggettivazione è coscienza del proprio valore attuale, della propria essenza ideale, nella gerarchia dei valori: è l’autocoscienza in funzione dell’auto-educazione.
L’educatore ridesta e ravviva con tutta la sua arte, arte persuasiva socratica e non sofistica, le convinzioni migliori, i moti più generosi del cuore, con quel «calore sano e vitale che non sforza, ma sollecita e conquista gradatamente tutte le energie spirituali» .
Una lettura, un motto-sintesi, un ricordo, una poesia, una immagine che potentemente esprime la bellezza spirituale del bene e soprattutto l’accostamento cordiale a quelle grandi figure che più ci affascinano quanto più sappiamo che hanno incarnato l’ideale di bene che unico rifulge per tutti nella sua universalità, e che lega ogni uomo agli uomini: ecco alcuni degli innumerevoli mezzi per venire incontro al fanciullo affinché scelga bene, secondo la verità conosciuta. L’intimità del bene e la sua oggettività esigono che fermamente si creda alla realtà degli altri uomini per trattarli come fini e non come mezzi, per sentire veramente tutte le loro ansie e tutte le loro sofferenze. Questa è la ragione profonda che ci spiega con quanto intensità, ad esempio, un Vincenzo De’ Paoli giungeva all’essere profondo di una creatura e – nota il Laberthonnière – quanto era diverso da coloro per i quali gli altri uomini non sono se non strumenti, e semplicemente «fantasmi di un sogno, di cui non hanno da inquietarsi».
E S: Francesco d’Assisi, vedendo in ogni creatura un fratello o una sorella, fece sentire al mondo che significhi entrare in comunione con gli esseri: ogni essere è se stesso, ma la sua autonomia è solidale col sistema intero degli esseri secondo la gerarchia del loro valore.
S. Agostino aveva visto queste grandi verità e perciò aveva definito giusto «qui rerum integer aestimator est» e la virtù «ordo amoris» , precisando che l’amore non può cominciare se non da sé per dirigersi poi verso le creature a noi inferiori, verso quelle a noi eguali, e verso Colui al quale più crediamo quanto più amiamo.
Nella conoscenza immutabile del bene e del male dobbiamo esercitare le facoltà dell’educando affinché rettamente ami, per potergli poi rivolgere il breve precetto agostiniano: “dilige, et quod vis fac”! Un’obbiezione ci può essere mossa: il ragazzo che raggiunge un tal grado di consapevolezza morale e di amore può essere soltanto uno particolarmente ben dotato.
Numerosissime esperienze ci dicono invece che anche i più tardi, quando sono spinti a riflettere, facilmente conoscono le cose che si avvicendano nelle loro anime e vedono e amano ciò che prima essi stessi credevano di non vedere e di non amare: prova questa che l’intelligenza dei supremi principi direttivi dell’azione è congiunta alla nostra anima ed è esistente in noi per natura, pur determinandosi attraverso una coscienza attuale .

L’arte dell’educatore

A quei primi criteri direttivi l’educatore deve agilmente salire insieme all’educando sia per la forza della logica, sia per quella logica propria della vita morale che ci illumina sulla nostra condotta, di ognuno di noi e della comunità dei popoli, additandoci le prime cause e le prime responsabilità.
Quest’arte, che è il segreto fascino di Platone e di S. Agostino, di Dante e di Shakespeare, di Vico e di Pascal, di Dickens e di Dostoevskij, di Rosmini e di Manzoni, trasmette l’esperienza morale dell’umanità, più di qualunque corso di morale o di psicologia sperimentale, alimentando «lo spirito del senso e della conoscenza dell’onore e della pietà, della dignità dell’uomo e dello spirito, della grandezza del destino umano, degli intrecci del bene e del male, della charitas humani generis» .
Grazie a quest’arte, l’educatore deve formare in sé e nell’educando la capacità di conoscere attualmente, a colpo d’occhio, se stesso, la propria posizione nell’ambiente sociale, il proprio dovere, scegliendo immediatamente ciò che va scelto da un uomo che non abdica alla sua spiritualità.
Chi non sa quante volte l’educatore deve intervenire d’urgenza, e con grande delicatezza?
E quante volte l’educando cede, si perde, rinuncia ad appropriarsi della sua vita perché con l’esitazione ha favorito la tentazione?
«La forza della natura bassa – diceva Kierkegaard – sta nel tirare le cose in lungo» e i peggiori nemici del carattere sono i mezzi termini.
Con la scoperta e l’auto-oggettivazione, la necessità del «sì, sì; no, no» e spesso del «subito» è quanto mai urgente: il bene è dentro di noi e bisogna dare alla scelta la speditezza del bene hinc et nunc.
È un punto di arrivo questa scienza ed arte della vita, ma senza di essa non c’è vero educatore.
Se volessimo scegliere un termine capace di esprimere l’arte dell’educatore nella sua essenza, dovremmo forse riesaminare il significato di una parola sciupata dall’uso comune, ma ricchissima: la prudenza.
La prudenza è tempestività, retta inclinazione e retta scelta, nella conoscenza congiunta dei fini universali, dei fini particolari, e dei mezzi per attuare gli uni e gli altri, in unità gerarchica, nella realtà .
La prudenza non è una verità di cui non si sappia dare la ragione, ma un ragionamento sintetico che dispone fortemente all’azione, aiutandoci a superare sia la miopia dei cosiddetti «pratici», sia l’inettitudine dei cosiddetti «teorici», e preservandoci da uno dei mali più gravi dell’anima moderna, qual è il pensiero disgiunto dall’esperienza, e l’azione staccata dalla conoscenza di sé del proprio bene. E il Modugno, uno dei più geniali e profondi pedagogisti e artisti dell’educazione, a ragione scrive: «L’arte dell’educatore è arte della direzione delle anime e della comunicazione della volontà nella libertà non solo nella guida dei fanciulli e dei giovani, ma anche nei più complessi e imprevedibili rapporti fra gli uomini» .

Perché è duro giudicarsi

L’educatore tenga presente un fatto assai importante volendo guidare gli educandi a conoscersi per auto-educarsi.
L’anima deve conoscersi, per farlo, ma le riesce difficile.
Noi vediamo che la stima è una delle condizioni fondamentali perché l’educando si sforzi di farsi migliore.
Un trattamento riguardoso – nota Dostoevskij – può aiutare a rialzare chiunque, anche colui nel quale l’immagine di Dio è quasi spenta.
Cartesio, nel trattato su “Le passioni dell’anima” (c. 204), osserva che «è un motivo per stimarsi sapersi stimati dagli altri».
Don Bosco, facendo le stesse considerazioni, concludeva che non basta amare l’educando per rendere efficace l’opera educativa, bisogna ch l’educando sappia di essere amato.
Ma ancor prima di essere stimati, noi sentiamo il bisogno di stimarci .
Se a questo irresistibile desiderio di sentirsi un valore, si unisce il fatto che siamo deboli, che possiamo anche diminuirci facendo il male, e l’applicazione dispersiva al mondo esterno, allora comprendiamo perché sia duro all’uomo guidarsi: Pascal ha dimostrato in pagine di alta tragicità come l’uomo cerchi di sfuggire a se stesso.
L’uomo trascinato dall’urgenza delle sue passioni è detto «incosciente» nel nostro linguaggio popolare e «fuori di sé» si diceva S. Agostino parlando delle sue passate dissipazioni. Infatti l’uomo che ha nelle sue mani l’anima sua, l’uomo che non è padrone di sé (compos sui) non ha sempre la forza di essere presente a se stesso (conscius sui): auto-coscienza ed auto-educazione s’implicano e si condizionano a vicenda.
D’altra parte, la più attenta conoscenza di sé, quando l’anima non si dona pienamente ad un ideale superiore, si riduce ad un servizio di vigilanza perpetua della propria fortezza, – per usare l’energica immagine di Nietzsche – oppure alimenta l’orgoglio stoico che fa di tutte le virtù altrettanti splendidi vizi; o segna il passaggio dall’istinto soggettivo alle più raffinate degenerazioni dell’egotismo.

Non essere dimentichi del proprio volto

Non basta conoscersi, e conoscere i valori e sentirne l’attrazione: bisogna cercare il bene della propria anima non sorvolando col giudizio, ma aderendo con l’amore.
Pure se non vogliamo ingannare noi stessi, dobbiamo non rendere sterile la conoscenza, diventando “factores verbi et non auditores tantum” .
Poiché, se uno ascolta la parola e non la mette in pratica, egli sarà simile ad un uomo che mira in uno specchio il suo volto nativo, e, dopo essersi mirato, se ne va e dimentica subito qual egli fosse.
Invece chi si sarà specchiato nella legge perfetta della libertà, e in essa persevererà, non come uditore smemorato, ma come operatore di fatti, questi sarà gioioso nel suo operare, avanzando dall’uso della legge, attraverso il tirocinio dell’azione, al godimento o espansione e riposo della verità vissuta e perciò sempre più amata .
Alcune volte il solo ascoltare una finalità accende in noi il desiderio di farla nostra perché vediamo di poterla raggiungere: sono quei momenti non rari di limpida conducibilità delle anime che fanno benedire l’educazione, confermando lo stesso educatore nella verità. Ma la legge, causa esemplare, non può essere realizzata se non dalla volontà che vuole realizzarla. La volontà è la vera causa efficiente del bene.
Rappresentarsi la legge morale, trarne aspirazione per le nostre azioni, è cominciare ad educarsi da sé, intenzionalmente, e non solo funzionalmente nel contatto spontaneo del soggetto con la vita. L’atteggiamento verso tutti i problemi concreti si chiarisce a poco a poco in autentici giudizi di valore: le conoscenze si ordinano sia spontaneamente, sia riflessivamente, secondo il fine che si è assegnato alla propria vita.
Dal centro verginale dell’io affiora l’uomo nuovo: l’educando si fa umile maestro di se stesso e l’ambiente in cui vive trova in lui non una vittima, ma un fermento ed una speranza di rinnovamento. L’educando che non ha fatto getto dell’eroe nascosto nella sua anima, esercitandosi a conoscere le proprie tendenze, a correggerne le applicazioni errate e a cavarne le superiori e più opportune utilizzazioni nella vita di ogni giorno, diventa un pilota, uno che sa dirigersi, uno che serve da guida anche agli altri.
L’educatore, che non può costruire a priori la vita dell’educando, è però tranquillo se il suo ragazzo ha capito che, comunque vada la vita, non può essere danneggiato da altri fuorché da se stesso.
Quando l’auto-educazione è in atto non vuol essere disturbata.

Pedagogia della persona, I quaderni di Pietralba, Editrice La Scuola, Brescia 1952, p.87-100. Il testo comprensivo di note trova nell’allegato file in .pdf