Franz Kafka (la ricerca dell’Assoluto nella letteratura)

Tematiche: Letteratura
  1. Da Max Brod a Karl Erich Grözinger o l’interpretazione di Kafka quale mistico ebreo

 MAX BROD, l’amico intimo di Kafka, definì lo scrittore come “homo religiosus”. Questa definizione però, viene accettata oggi solamente dagli studiosi che si sono occupati in particolare dell’ebraismo di Kafka. Soprattutto gli aforismi stesi da Kafka in due quaderni in ottavo nell’inverno 1917/18 durante la crisi seguita al definitivo scioglimento dei fidanzamento con Felice Bauer, che Max Brod pubblicò solo anni dopo la morte dello scrittore (1931) con il titolo di Meditazioni su peccato, dolore, speranza e la Vera via sono considerati come testimonianza del suo pensiero teologico Questi aforismi contengono di fatto importanti elementi del pensiero kafkiano, quantunque, lo formulino sotto forma di paradossi e di enigmi. Lo sviluppo concettuale contenuto nel titolo dato da Brod, dal “peccato” attraverso “la speranza” alla vera via” è una costruzione dell’amico adottata per dare un senso,, alle parole di Kafka “devo chiarirmi a riguardo delle cose ultime“.

FEUX WELTSCH, un altro amico di Kafka, è invece più cauto. Nella sua, analisi degli aforismi infatti afferma che Kafka trattava del rapporto tra l’uomo e Dio, tra la vita quotidiana e l’esistenziale situazione dell’essere umano, ma che non aveva trovato la giusta connessione tra queste due sfere. Questa è anche la posizione di recenti studi italiani come quello di PIETRO PRINI su Kafka e l’esistenzialismo.

Un aforisma di centrale importanza mi sembra essere il sessantanovesimo:

“Teoricamente esiste una possibile felicità piena: credere nell’Indistruttibile in se stessi e non aspirare ad esso”.

Secondo i due aforismi che seguono nella raccolta “l’indistruttibile” è uno e indivisibile, proprio di ogni uomo e al contempo comune a tutti; produce inoltre un legame inscindibile tra gli uomini. La fiducia nell’indistruttibile è il presupposto del vivere. Però sia la fiducia che l’indistruttibile possono rimanere nascosti. La fede in un Dio personale è una delle possibili espressioni di questa assenza di securità “reale” .

KARL ERICH GROZINGER mette in relazione questo pensiero con la dottrina teosofica chassidica, secondo la quale il passaggio di Dio nella creazione (emanazione) sarebbe pensabile solo come esteriorizzazione dell’Uno nelle molteplicità individuali. La dissoluzione dell’Uno che ne risulta, secondo il modello neoplatonico, si può intendere come origine dei male nel mondo.

La paradossale affermazione di Kafka negli aforismi, che non vi è nient’altro all’infuori del mondo spirituale, che il mondo sensibile sarebbe il corrispondente della stessa, è una significativa affermazione teologica sull’esistenza dell’uomo peccatore sospeso tra la vita dell’Uno divino e la conoscenza della propria scissione da esso. Sulla base di queste asserzioni teosofiche il significato di che cosa sia l’indistruttibile in noi non diventa senz’altro più chiaro. Nella contrapposizione tra il credere e l’aspirare invece si può riconoscere una ripresa dei primi due aforismi della raccolta. Là Kafka afferma che l'”impazienza”, cioè “curiositas” l’ aspirare impaziente, è il nostro “peccato capitale” e che essa ha causato la cacciata dall’Eden.

Qui, l’impazienza e la volontà di disporre di qualcosa sono strettamente connesse. L Indistruttibile non si può pensare come qualcosa di disponibile. Si può intravedere la negazione kafkiana del legame che Goethe riconosceva nel potere salvifico dell’aspirare:

“Chi si affatica in un aspirare perenne, / costui lo possiamo salvare”.

Molti studiosi hanno tentato ripetutamente di trovare una chiave di lettura degli aforismi nei racconti e nelle parabole dello scrittore praghese. Per esempio nel racconto “Prometeo” inserito nelle’ “Meditazioni” del terzo quaderno in ottavo.

Kafka narra in quattro diverse varianti la vicenda dei titano che fece andare in collera Giove facendo dono del fuoco agli uomini. Tutte e quattro le versioni cercano invano di dare una spiegazione all’inspiegabile, tematizzano concetti come il “dolore”, l'”oblio” o la “stanchezza”, formando un intreccio, sebbene alla fine rimanga solamente l’inspiegabile, montagna rocciosa di cui trattavano anche le antiche leggende Attraverso la lettura delle varianti proposte da Kafka il lettore non giunge a nuove conoscenze nè dell’inspiegabile, nè dell’indistruttibile. Quindi anche se si intravedono dei collegamenti tra gli aforismi e le parabole non si ottengono che singoli tasselli di un mosaico che non è ricostruibile nella sua totalità.

Per questo non è nostra intenzione spiegare la posizione religiosa di Kafka deducendo – come fa PIETRO PRINI – “il messaggio autentico di Kafka” da una combinazione di citazioni prese da aforismi e racconti (Secondo Prini questo sarebbe “la forza della credenza nell’Indistruttibile, nell’assolutezza di un mondo”). Mi sembra invece più interessante analizzare le strategie concettuali, le immagini, metafore e i paragoni che Kafka utilizza nel proprio processo narrativo per proporci le stesse domande a cui egli stesso non era riuscito a dare delle risposte univoche. Leggendo per esempio:

“Una fede come una mannaia, così pesante, così leggera”

viene spontaneo domandarsi che cosa abbiano in comune la fede e la ghigliottina. Il binomio fantastico (fede – mannaia) fa parte della grammatica di nostra fantasia.” Vediamo come Kafka guida la nostra ricerca del suo “messaggio autentico”.

  1. La paradossalità degli aforismi kafkiani – o l’invito ad una doppia o tripla lettura

 In uno dei suoi aforismi Kafka scrive a riguardo del linguaggio che esso appartiene al “mondo sensibile”. Poiché questo tratta adeguatamente solo la proprietà e i rapporti di possesso ad essa connessi, non sarebbe in grado di esprimere una verità trascendente: quindi può essere usato soltanto in modo allusivo.

Gli aforismi trattano situazioni esistenziali sotto forma di segni ambigui. Sono parte però del linguaggio e dunque non possono formulare ciò che intende colui che parla. Soltanto. la stilistica delle allusioni può indurre pertanto il lettore alla riflessione su ciò che prima sembrava indicibile rendendolo così dicibile come fiducia in ciò che rimane nascosto.

I termini usati in modo allusivo sono quelli sopra menzionati ripresi dalla teologia chassidica e dalle Sacre Scritture, come. per esempio il “Paradiso”, il “peccato”, “il cielo”, la “vita” e la “conoscenza” o l'”Iindistruttibile in noi”. Kafka li impiega in modo ambiguo, senza poggiarsi su una definizione filosofica, spesso in combinazione con immagini mitologiche (per esempio: l'”albero della vita” e l'”albero della conoscenza”, “la roccia di Prometeo”) o in combinazioni inattese tra concetti astratti e concetti concreti come “fede” e “mannaia”, che vi chiedono una lettura metaforica.

Kafka esprime i propri pensieri in forma narrativa e figurativa mediante racconti e parabole. Egli utilizza elementi del linguaggio quotidiano, parla di vicini, di ragazze, di maestri, e li trasforma in metafore in cui il lettore può riconoscere pensieri filosofici. Forse il carbonaio è uno scrittore, perchè sta riordinando fogli di carta, forse il cavaliere che cavalca sul secchio dei carbone attraverso le nevi bianche polari è un autoritratto dell’autore a cavallo di Pegaso. Questo uso è simile a quello teologico delle Sacre Scritture. Per esempio negli aforismi troviamo:

“Visti con l’occhio terreno impuro, ci troviamo nella situazione di viaggiatori in treno che infortunati in un tunnel, e precisamente in un punto nel quale la luce dell’inizio non è visibile e quella della fine è fioca al punto che l’occhio la deve cercare di continuo per poi perderla continuamente, nonostante non sia nemmeno certo se vi siano un inizio e una fine. Attorno a noi però abbiamo – nella confusione dei sensi o nella massima ipersensibilità – una gran quantità di mostri e, a seconda dell’umore e delle ferite dei singolo, un gioco caleidoscopico incantevole o affaticante.

L’occhio terreno impuro è usato come metafora per indicare la limitatezza della conoscenza. La metafora della vita umana vista come infortunio in un tunnel fa allusione all’allegoria platonica della caverna che allo stesso modo tematizza la limitatezza della conoscenza umana. La luce flebile dell’inizio e della fine dei tunnel fa pensare anche alla luce ingannevole della parabola kafkiana Davanti alla Legge. L’uomo di campagna, che ha aspettato tutta la vita per avere accesso nella legge, vede questa luce irrompere dalla porta della Legge in punto di morte. Cosa rimane a quel punto? La conferma di impressioni sensoriali illusorie e la riconferma dei processo di ricerca del significato che si mette in moto nel lettore. Sulla base di questi riconoscimenti si spiana una nuova lettura. Tutta la parabola è un atto linguistico e, in quanto tale, di limitata attendibilità. L’aforisma ottantasei descrive questo dilemma interpretativo riferendosi alla Genesi: conseguentemente al peccato originale l’uomo ha acquisito la possibilità di riconoscere il male e siccome, in conformità a questa consapevolezza, gli riesce difficile agire, cerca pertanto di revocarla. Sa che questo non è possibile e così si crea un mondo di “motivazioni” che la mascherino. Gli sventurati dei tunnel, come anche gli abitanti della caverna di Platone, preferiscono gli occhi brucianti alla luce, per avere il diritto di dire che – forse – si tratta di un fantasma.

Il “messaggio” degli aforismi kafkiani, visto nel diversi contesti, resta sempre lo stesso: siamo nel dubbio e di ciò che supponiamo nulla è attendibile, addirittura non sappiamo nemmeno se possiamo supporre qualcosa o se anche questo è solo una parte dell’inganno universale nel quale viviamo. Dal punto di vista religioso – filosofico Kafka è quindi agnostico.

  1. I racconti parabolici dei peri odo 1917/1919 o il proseguimento narrativo degli aforismi

Per non annegare nel flusso della compassione con i personaggi infortunati di Kafka, il lettore deve spiegarsi le contraddizioni testuali come potrebbe cercare di spiegarsi un incubo; così adotta il ruolo ermeneutico senza avere un obiettivo preciso, egli ha la forte sensazione che il testo parli di problemi che lo riguardano, ma non sa quali siano. Sia i racconti che gli aforismi suggeriscono un “tua res agitur” senza definire di quale “res” si tratti. Ho scelto il racconto Un incrocio, scritto da Kafka, senza titolo, pochi mesi prima degli aforismi, nell’aprile 1917 nel secondo quaderno in ottavo.

LETTURA DEL TESTO Un Incrocio

3.1 Costellazioni dell’agnosticismo universale: Analogie biografiche

In una delle sue ultime lettere a Felice Bauer, Kafka aveva scritto di se stesso che non poteva avere “né famiglia né amici; parla altresì del coltello del macellaio ebreo come mezzo per la sua redenzione. Possiamo quindi concludere che, narrando della bestia, Kafka parla di se stesso, affermando di non avere familiari e di desiderare la morte. Dobbiamo quindi cercare nel contesto biografico il significato dei racconto? L’ambizione di numerosi studiosi è stata quella di trovare così il “senso nascosto” del racconto. Essi invitano il lettore a salvarsi. dal mare insidioso delle letture incerte sulla terraferma rappresentata dal significato biografico da loro elaborato.

L a costruzione del significato viene operata sempre sullo stesso modello: vengono ricercati degli elementi nella biografia dell’autore che si possono riconoscere nelle sue figure letterarie, nelle loro azioni e nei loro destini in modo da trovare in un secondo momento il significato metaforico del racconto. Successivamente queste analogie vengono ricondotte al sistema socio-culturale in cui ha vissuto l’autore stesso.

  1. Kafka e la sua città natale Praga: Kafka non la lasciò mai. Ai tempi dell’autore essa era popolata da una maggioranza ceca e da un’autorevole minoranza tedesco-austriaca. Viveva inoltre il lento sgretolamento dell’Impero asburgico. Seguendo il filone storico-sociologico, visto che Un incrocio tratta di un animale nato da un incrocio non naturale di animali dissimili, viene interpretato come la rappresentazione dell’eterogeneità dell’Impero austro-ungarico, formato da ungheresi, slavi, ebrei, tedeschi e italiani, il quale verrà distrutto alla fine della Prima guerra mondiale, e cioè un anno dopo che Kafka aveva scritto il racconto.
  2. Kafka e la psicologia: Egli si interessava di psicanalisi, leggeva Freud e nei suoi diari tendeva a forme di autoanalisi psicologica. Il suo scrivere per lui era molto vicino ai suoi sogni. Argomenti cruciali di ambedue erano la famiglia, la sessualità e la creatività letteraria come mezzo di autogiustificazione esistenziale. Anche Un incrocio potrebbe quindi essere risultato di un sogno – e sarebbe da spiegare come tale.
  3. Kafka e l’ebraismo: Lo scrittore diceva di essere il più occidentale degli ebrei. La famiglia Kafka si era adeguata alla vita moderna in una città di tradizione cristiana. Kafka stesso però studiava – e dopo il 1912 (milenovecentododici) lo faceva con passione – le forme di religiosità degli ebrei ortodossi che si erano rifugiati nelle città dell’Impero austro-ungarico a causa delle persecuzioni in Russia e in Polonia.

Secondo alcuni studiosi molti dei suoi racconti tratterebbero quindi delle problematiche sorte dal conflitto tra la tendenza all’integrazione nella società tedesco-austriaca e l’ortodossia ebraica o la spiritualità chassidica che Kafka aveva conosciuto attraverso l’amico Löwy e Martin Buber. Egli aveva pubblicato anche alcuni testi in prosa sulla rivista “Die Selbstwehr” (“Autodifesa”) edita dallo stesso Buber.

Questa ricerca biografica non accontenta gli critici che studiano le strutture formale del racconto. Preferiscono spiegazioni di genere storico-culturale come suggerisce il concetto dell’intertestualità.

3.2 Prima lettura di Un incrocio: un racconto favoloso

Sin dall’inizio alcuni studiosi osservarono che i racconti di Kafka assomigliavano a delle favole. Lo scrittore stesso nei suoi diari aveva messo in evidenza il valore mitologico delle favole:

“Narrando delle favole, tutti sanno bene che ci si affida a forze sconosciute che escludono la giustizia di oggi”.

Questo passaggio ci riporta altresì al romanzo Il processo e a Josef K in cui il protagonista deve trattare con una giustizia immaginaria.

Nell’ultimo capitolo (“La fine”), che Kafka concepì subito dopo il primo intitolato “L’arresto”, Josef K. viene assassinato con un coltello da macellaio da parte di due funzionari della corte suprema: quindi niente finale da favola, né soddisfazione delle aspettative del lettore, né speranza per il protagonista. I studiosi parlano di una “anti-favola kafkiana”. Calando il racconto fantastico Un incrocio nel contesto di motivi favolosi, seguiamo dunque delle tracce conosciute: l’animale viene descritto come eredità ricevuta dall’io-narrante da parte del padre. In un passaggio finale, che Max Brod aveva cancellato, troviamo:

“Un giovanotto non aveva ereditato dal padre nient’altro che un gatto. Con l’aiuto di questo divenne sindaco di Londra. Cosa diventerò io grazie al mio animale, la mia eredità? Dove si estende la città. gigante?”

La favola romantica (Tieck) “Il gatto con gli stivali” (“Der gestiefelte Kater” ) narra di un figlio che, trascurato dal padre, trattando bene il gatto ereditato e a prima vista inutile, entra in possesso di ricchezze e felicità. Questi paralleli bastano per condurre la mente dei lettore nel mondo della favola – e per fargli notare le differenze con esso. Il racconto, redatto nello stile realistico e obiettivo di Kafka, offre una prospettiva ambigua che da una parte evoca un episodio favoloso e una bestia imbastardita che ricorda – oltre le favole – le figure mitologiche greche, come – per esempio i centauri, e che dall’altra non corrisponde allo stile narrativo della favola. Alcuni elementi dei testo ci mostrano un mondo fantastico, altri invece, come ad esempio i bambini del vicinato che vengono a fare visita all’animale, ci ricordano il racconto realistico. L’io-narrante non è ingenuo come dovrebbe essere l’eroe della favola: è interessato, calcolatore e riflette sui vantaggi. Possiede un’eredità che lo potrebbe salvare ma (autoironia kafkiana!) i suoi pensieri sono invece diretti a capire come può diventare sindaco di Londra.

Così i rapporti intertestuali tra il racconto kafkiano e la tradizione della favola, si dimostrano essere molto labili essi trasmettono al lettore un conglomerato di elementi e relazioni che lo portano alla deriva:

  • La bestia e l’io-narrante sembrano essere individui, ben definiti, separati l’uno dall’altro dalla frontiera. Uomo-animale. Potrebbero anche essere fratelli visto che – nella mitologia – bestie e uomini possono discendere dallo stesso padre.

Metamorfosi, filiazioni e fratellanze tra non – uguali hanno sempre invitato a una lettura metaforica. Quale sarebbe il significato dell’animale ibrido? Esso potrebbe risultare anche da un peccato, come per esempio il minotauro. Quale peccato del padre fa l’eredità paterna dell’io narrante?

3.3 Seconda lettura: delusione di colui che cerca di capire

Attraverso il confronto del racconto Un incrocio con alcuni elementi tipici della favola siamo arrivati ad affrontare la struttura del “paradosso scivolante”. Veniamo a trovarci infatti nella stessa situazione che osserviamo per l’io-narrante: cerchiamo continuamente delle spiegazioni che non ci mettono in grado di capire di che cosa si tratta. Sperimentiamo quindi una doppia delusione: la storia che ci viene raccontata non ha niente di favoloso e il nostro sforzo di trovare un senso più profondo si è rivelato vano.

A questo punto si fa strada un’ulteriore riflessione ad un livello più alto, e cioè: Per quali motivi Kafka manifesta questo estraniamento volontario dalle strutture della favola e del racconto mitologico?

La prima ipotesi considera una categoria dell’estetica moderna, ossia la delusione delle aspettative (“Erwartungstäuschung”). L’aspettativa tradizionale è un testo letterario a un significato. Vuole comunicarci qualcosa. La struttura del testo moderno ermetico invece provoca nel lettore un processo di speculazioni in tutte le direzioni, che però non gli servono per uscire dal raggio di influenza di questo vortice, in quanto egli non fa altro che cercare di combinare tutti i dettagli ritrovati con altri, senza tuttavia trovare la “traduzione” semantica convincente.

3.4 Terza, quarta e quinta lettura: entrano in concorrenza i metodi critici della spiegazione metaforica del testo

Il procedimento delle scienze interpretative nei confronti di testi del genere è quello di inserire il testo enigmatico in contesti ipotetici che aiuteranno a spiegarlo.

La ricerca biografica aveva proposto come contesto teorico l’ipotesi che Kafka narrasse di se stesso. Nei suoi romanzi e racconti tratterebbe delle situazioni conflittuali vissute: il rapporto con il padre rozzo e prepotente; il dubbio se orientarsi alla vita coniugale o se restare celibe, il conflitto tra il lavoro estenuante e il desiderio di dedicarsi, esclusivamente alla letteratura.

Oltre a tutti i problemi specifici, Kafka vive anche la problematica generale dell’intellettuale moderno alla ricerca di una vita spirituale in un ambiente materialista e capitalista.

Al centro dei conflitti biografici troviamo il bisogno morboso dell’autore di dedicarsi alla composizione letteraria. La scrittura per Kafka si presenta come una forma di riscatto che contemporaneamente rivela delle connotazioni diaboliche. Come i testi suoi tematizzano questo suo problema? Lo invitano a riflessioni, svolgendo storie simile a sogni. La riflessione narrativa prende allusioni al sapere collettivo come punti di riferimento. La struttura è quella di un rebus. Narrando l’autore si trova nella situazione di un pilota in simulatore. Kafka, nel racconto La metamorfosi, per esempio avrebbe trattato il proprio problema personale dello scrivere: se mi ritirassi nella mia stanza e lasciassi il lavoro che odio, come si comporterebbe mia famiglia, non potendo capirmi? La risposta letteraria sarebbe: Mia famiglia soffrirebbe per questa mia vita da “parassita” (“ungeheures Ungeziefer”). Il mio scomparire per questo è necessario e libera mia famiglia di un incubo. Anche in Un incrocio si tematizza la problematica dell’identità e del ruolo di un essere strano all’interno dei sistema familiare. Il “gatto”, con la sua vitalità e la sua aggressività, potrebbe simboleggiare l’eredità da parte della famiglia paterna, l'”agnello”, invece, la famiglia materna Löwy, più pacifica e di tradizione più spirituale. Nella famosa Lettera al Padre Kafka ci dà questa spiegazione delle due famiglie. Questa lettura biografica è improntata sul significato metaforico ascritto a determinati elementi del racconto (in questo caso la bestia ibrida), questi tuttavia non racchiudono un senso definito e univoco. Che cosa potrebbe significare per esempio il fatto che la bestia piange con le lacrime dell’io-narrante? Piangere è anche un simbolo di compassione. Allora il tratto caratteristico del “gatto” potrebbe essere non la “vitalità” (famiglia del padre), ma bensì la capacità di immedesimazione, ossia una metonimia della vicinanza, di tutte le creature nella sofferenza?

Tutti questi elementi narrativi non possono venir “trasferiti”, uno dopo l’altro, all’interno di un preciso contesto biografico. Dunque, normalmente, nell’interpretazione allegorica vengono tralasciati.

Se la produzione di significati proveniente della fantasia deriva da strutture psicologiche, diventano importanti le relazioni tra le figure: l’animale, infatti, viene trattato come un bambino ed è seduto sulle ginocchia dell’io-narrante come fosse un tutto unico con questo.

Se invece la produzione di significati proveniente della fantasia deriva da strutture psicologiche, diventano importanti azioni e relazioni tra le figure: l’animale, infatti, viene trattato come un bambino ed è seduto sulle ginocchia dell’io-narrante come fosse un tutto unico con questo. Secondo la psicologia di Jacques Lacan il rapporto tra l’io-narrante e la sua bestia rappresenterebbe lo stadio psichico, tra madre e bambino, detto “dello specchio”, nel quale il bambino incomincia a percepire la divisione della propria individualità dall'”altro”. In questo stadio il bambino non sa ancora distinguere tra se stesso ed altri bambini e se per esempio un bambino piange, piange anche lui. Questa identificazione immaginaria con l’altro (l’aforisma sopra citato parla di “legami inscindibili”) esiste anche nel racconto di Kafka. Secondo la teoria di Lacan, durante la fase di sviluppo “dello specchio”, il comportamento della madre plasma l’inconscio dei bambino. In Un incrocio pertanto il comportamento del narratore ha perso l’ingenuità della madre, presenta il suo animale ai bambini senza dare spiegazioni, ma osserva con interesse le loro reazioni, mira a modellare l’identità della bestia, classificandola tra i gatti e gli agnelli.

I rapporti così stabiliti tra la teoria psicologica e il racconto kafkiano suggeriscono che lo scrittore potrebbe aver intuito in modo geniale, narrando le sue storielle, quelle che sarebbero diventate le teorie psicologiche del nostro secolo. Lo scopo dell’interprete diventa pertanto quello di riconoscere una rete di analogie tra la teoria psicologica e il racconto, leggendo quest’ultimo in senso metaforico e spiegando il comportamento dei personaggi secondo i riconoscimenti della teoria.

3.5. Una variante postmoderna all’interpretazione biografica e psicologica

Questa lettura di Kafka parte dall’ipotesi che l’autore, nel processo dello scrivere, non tematizzerebbe nient’altro che lo scrivere stesso. Questa teoria dell’autoreferenzialità del testo letterario sostiene, come affermano anche gli studiosi dei filone psicologico, che un testo letterario parla sempre di qualcosa che non dice (“espressis verbis”).

Se accettiamo per un momento questa posizione, troviamo dei segnali che ci fanno vedere Un incrocio come l’allegoria dello scrivere e della crisi che Kafka visse nei mesi della “creazione” dell’animale strano.

  • Egli affermava – nella famosa Lettera al padre – che lo scrivere gli serviva per liberarsi dell’influsso paterno. In Un incrocio l’io-narrante dice che il suo animale si è sviluppato con lui e non prima. Quest’affermazione può essere letta quindi come concezione dello scrivere kafkiano, che viene così a presentarsi come “eredità” paterna.
  • L’io-narrante e la bestia non si possono neanche separare l’uno dall’altra e il primo tratta la bestia come se fosse un suo bambino. Tale interpretazione ci viene confermata anche dal fatto che Kafka parlava delle sue opere come se fossero dei suoi figli.
  • Come l’io-narrante mostra la sua bestia ai bambini dei quartiere, anche Kafka amava leggere i suoi racconti agli amici e li leggeva anche in pubblico. Le domande dei bambini del racconto si potrebbero quindi mettere in: relazione con le domande del pubblico presente alla lettura. Il fatto che il narratore non dia spiegazioni corrisponderebbe altresì al comportamento kafkiano di leggere senza poi commentare il testo presentato.
  • Il corpo disomogeneo dell’animale potrebbe essere visto anche come allegoria dei testi letterari di Kafka. L’autore stesso indicava i materiali più eterogenei quali fonti della propria ispirazione letteraria, come l’esperienza personale e la lettura delle opere dei suoi “padri” spirituali come Goethe, Kleist o Dostojewski, favole e racconti mitici.
  • Prima di morire Kafka diede un giudizio finale della propria produzione letteraria chiedendo all’amico Max Brod di bruciare tutto quello che aveva scritto e che fino a quel momento non era stato pubblicato. A questo punto ci ritorna in mente la bestia e il suo desiderio ambiguo di venire sgozzata con il coltello da macellaio che corrisponderebbe, in linea con questo pensiero, all’ultima volontà dell’autore di distruggere la propria produzione. Allo stesso modo anche l’io-narrante non è in grado di appagare il desiderio della bestia, perché la bestia ricevuta l’eredità paterna non è a sua libera disposizione.
  1. L’interpretazione teologico‑filosofica

Tutte le interpretazioni biografiche, psicologiche e anche quella che tratta il racconto come testo autoreferenziale hanno una plausibilità limitata; esse, infatti, possono essere messe a confronto con quella teologico-filosofica che parte dall’ebraismo dell’autore. Negli aforismi abbiamo visto che secondo il pensiero di Kafka l’uomo moderno ha perso il contatto con l’indistruttibile in se stesso.

Anche se nel racconto il problema dell’integrazione non viene trattato direttamente, possiamo intravedere nella situazione conflittuale vissuta dall’animale quello dell’ebreo occidentale (“Westjude”) che si è allontanato dal Dio dei padri e che per questo si trova a vivere un conflitto d’identità L’io narrante lo possiamo vedere come uno che dal padre ha ereditato una fede già imbastardita tra cristianesimo e ortodossia ebraica.

  • L'”agnello” si potrebbe vedere così come il simbolo del cristianesimo;
  • Il “gatto” invece come il simbolo dell’ebraismo degenerato metamorfosi del leone di Davide in un gatto domestico indicherebbe all’io narrante che l’eredità ricevuta dal padre ha perso il suo valore religioso.

Kafka, per spiegare il proprio isolamento spirituale, scrive di sentirsi come “l’ebreo più occidentale che esiste”. Nel racconto l’io-narrante ci rivela che la bestia fugge i gatti e che é aggressiva nei confronti degli agnelli. La fuga potrebbe pertanto rappresentare la volontà dell’ebreo occidentale di eludere la religione di Davide, mentre la sua aggressività contro l’agnello. potrebbe simboleggiare l’odio verso il cristianesimo che ha dovuto accettare.

Kari Erich GRÖZINGER stabilisce altre relazioni tra l’opera di Kafka e le leggende chassidiche. Nella leggenda “Ein Frosch” (“Una rana” )si parla di un rabbi (Ba’al Schem Tov) il quale, mentre stava meditando, si perde nel deserto dove incontra una rana gigantesca. Quella gli racconta di essere un discepolo della tora che non aveva adempiuto il suo obbligo di vivere secondo le regole della religione. Il diavolo dopo avergli fatto compiere il male, aveva ottenuto dalla corte suprema di giustizia la sua condanna. Dopo la morte fu trasformato in rana e a causa del primo peccato che era stato il non essersi lavato le mani prima dei servizio religioso, fu messo anche al bando nel deserto dove non c’è acqua e nessuno si aspetta di incontrare una rana. Così il suo riscatto, che dipende dalla compassione di un ebreo ancora in vita, è quasi impossibile. La rana gigante invoca quindi la compassione dei rabbi, la ottiene e trova la morte che lo libera dalla sua miseria.

Non è sicuro se Kafka avesse conosciuto questa leggenda, ma le affinità tra essa e il racconto di Kafka si possono riconoscere nelle forme e nelle dimensioni dell’animale senza simili e nel desiderio di riscatto che si può realizzare attraverso la morte. Anche le differenze tuttavia giocano un ruolo importante: la bestia in Kafka non sa comunicare, l’io-narrante non sa come fare per aiutarla e non sa nemmeno che la sua bestia è un peccatore condannato alla metempsicosi. Analizzando le analogie e le differenze, GRÖZINGER conclude che Kafka avrebbe trattato il rapporto dell’uomo moderno con la tradizione religiosa. Lo studioso trova anche dei paralleli con altre leggende della tradizione chassidica. Per esempio se ne trova una in cui si parla di un caprone che chiede al rabbi di ammazzarlo con un coltello da macellaio non affilato perché nella vita precedente aveva ucciso una capra con un coltello poco tagliente. Per ottenere il riscatto deve sottostare a una sorta di legge del contrappasso, ossia deve subire la stessa sorte che egli aveva procurato ad altri. Anche il motivo centrale di questa legenda, il coltello del macellaio come mezzo di riscatto, ritorna nel raccontò kafkiano. Perché non fare un nodo, un intreccio tra leggende, aforismi e racconti? Gli aforismi di Kafka sono come abbiamo visto prima costituiti principalmente da riflessioni sull’esistenza umana, sull’ordine del mondo e sulla situazione paradossale in cui si trova l’uomo dopo la perdita della fede religiosa; ma altri trattano anche la situazione specifica del singolo ebreo. Nella raccolta dal titolo “Er” (“Egli”) Kafka scrive in merito alla propria situazione in terza persona:

“Egli ha sete ed è separato dalla sorgente soltanto da un cespuglio, però egli è diviso in due: una parte di lui domina tutto e vede che egli sta qui, accanto alla fontana, l’altra non vede niente, al massimo, immagina, che forse la prima parte veda tutto. Siccome questa, però, non si accorge di niente, non può bere.

Quest’aforisma delinea la storia di un uomo che presagisce quale sarà la sua sorte e si trova nella situazione in cui non capisce quale sia la vera via da imboccare per giungere al riscatto. Ed è anche il destino dell’io-narrante di Un Incrocio. Una parte di questo vede che la bestia (= metafora della sua fede ibrida) gli potrebbe essere utile, l’altra invece non si accorge di niente. Siccome non “vede” non può usufruire dell’eredità paterna.

Non è sicuro se Kafka avesse conosciuto bene, la teologia chassidica, e in particolare la dottrina della metempsicosi, non è sicuro che Kafka abbia pensato in questa maniera della fede. Secondo GRÖZINGER qualsiasi ebreo, anche quello che si è allontanato maggiormente dalla propria tradizione religiosa, porta in sé l’intuizione dei significato della vera via (che in questo caso corrisponderebbe alla fontana dietro il cespuglio). Kafka sempre secondo GRÖZINGER ne parlerebbe anche nel suo racconto enigmatico e frammentario. Kafka non riproduce pertanto degli aspetti della dottrina chassidica, crea piuttosto allusioni alle leggende come crea allusioni alle favole e alle racconti mitici. Kafka è un agnostico e riflette sulla propria situazione attraverso visioni le quali fanno tra altro parte della tradizione chassidica.

Anche questa lettura teologica tratta l’opera di Kafka come un’allegoria. Molti dettagli del mondo testuale ripropongono elementi dei mondo religioso degli ebrei orientali. Il fatto che l’io‑narrante presenti la sua bestiola ai bambini dei quartiere la domenica mattina ha un significato speciale: è l’ora della Messa durante la quale gli ebrei battezzati vengono presentati ai cristiani della parrocchia.

Le letture allegoriche dei racconti di Kafka sono considerate altamente problematiche dalla critica letteraria. Esse pretendono di conferire alla narrazione un significato univoco, mentre la scienza letteraria invece tende a sottolineare la polivalenza semantica dei testo letterario. Le letture allegoriche che mirano a mettere in luce l’ebraismo kafkiano racchiudono un ulteriore problema: sostengono che un ebreo moderno, come lo era Kafka, conservi nella propria memoria brandelli di cultura ebraica che in realtà fino a quel momento non aveva ancora conosciuto. Lo sfondo sarebbe una sottocoscenza collettiva ebraica.

Molti studiosi ebrei si sono opposti alle spiegazioni di questo genere della prosa di Kafka e hanno messo in evidenza l’affinità dello spirito ebraico con la plurisemanticità di testi letterari. Harold Bloom, per esempio, riconosce nell’ambiguità dello scrivere kafkiano l’appartenenza del pensiero dello scrittore allo spirito del suo popolo. Allude qui alla disputa “ebraica” tra Josef K., eroe dei romanzo Il processo, e cappellano della corte suprema. In questa discussione, che ha per oggetto la parabola Davanti alla Legge, si giunge alla decomposizione di ogni possibile significato univoco.

Secondo Bloom questa discussione circolare dimostra l’affinità occulta tra lo spirito ebraico e il pluralismo del postmodernismo.

Noi, poveri lettori non ebrei di Kafka, ci troviamo pertanto di fronte a due spiegazioni ebraiche concorrenti tra di loro:

  • l’una che sostiene che i pensieri religiosi dell’autore corrispondono ai pensieri della mistica chassidica e
  • l’altra che ci propone di vedere, oltre i testi enigmatici, un’allusione di Kafka ebreo al postmodernismo “ante litteram”.

Ci troviamo quindi nella situazione dello spettatore goethiano del “Faust”: “Der Vorhang zu – und alle Fragen offen.” – (“sipario chiuso – problematiche aperte”).

  1. La costruzione di domande sul significato come attività del lettore

Al termine di questa rassegna nella polivalenza dell’opera di Kafka, ritorno all’osservazione secondo la quale Kafka nei suoi testi dissimula il passaggio tra discorso diretto e discorso metaforico stimolando in questo modo gli innumerevoli sforzi di interpretazione dei suoi lettori. Cosa si domandano i lettori “non esperti” quando leggono attentamente i testi di Kafka?

Già 25 anni fa, Hermann KINDER e Heinz‑Dieter WEBER avevano analizzato le dichiarazioni di alcuni alunni che avevano letto la Piccola Fiaba di Kafka.

“‘Ah!’, disse il topo, ‘il mondo si restringe ogni giorno di più. In principio era così vasto da farmi paura. Correvo, ed ero felice quando finalmente potevo vedere i muri lontani a destra e a sinistra. Ma questi lunghi muri convergono l’uno verso l’altro così in fretta, che io sono già nell’ultima stanza e lì, nell’angolo, si trova la trappola verso la quale sto correndo.’ – ‘Devi solo cambiare direzione’, disse il gatto – e se lo mangiò.

La favola del topo rimanda i lettori dodicenni a domande sulla condizione esistenziale:

  • ci creiamo falsi concetti della libertà;
  • la vita è una catena di decisioni poco chiare
  • il concetto di vita di molte persone si basa sull’illusione.

Gli alunni quindicenni che affrontano i testi di Kafka a scuola, tendono a dare interpretazioni allegorico-morali:

  • il topo concretizza il singolo uomo il quale, in preda al terrore, comprende che non può sfuggire al suo destino.
  • Il gatto rappresenta la morte, la società, il medico – o Dio.

Le interpretazioni di questi lettori sono paragonabili alla spiegazione di una metafora: aliquid stat pro aliquo (un’immagine utilizzata al posto del concetto che si vuole exprimere). Attraverso l’interpretazione del testo si produce un sottotesto. Questo, nel caso di letture non specialistiche, è sempre legato a problemi esistenziali riguardanti il senso della vita, i turbamenti, le colpe o forme di dipendenza impenetrabile. Il filo conduttore nella ricostruzione del significato da parte di lettori non specializzati, è spesso un concetto filosofico. Nel caso della Piccola fiaba si tratta della mancanza di una via d’uscita. I testi di Kafka vengono considerati come messa in scena narrativa di questo concetto.

Anche lettori adulti di oggi (studenti) che affrontano Kafka, e che appartengono ad un certo ambiente culturale, sono più interessati a tematiche riguardanti l’esistenza umana in generale, la teodicea, che non a conoscere la visione dei mondo di un ebreo di Praga al tempo della Prima guerra mondiale – spiegazione che invece viene tematizzata dagli studiosi germanisti di Kafka. Questi lettori possono riscontrare, come su un livello soggettivo il significato di Un Incrocio si concretizzi nella loro interiorità.

Non sono l’io-narrante e il suo “animaletto” (l’autore è la sua opera) a creare in questi lettori un collegamento con la loro vita, bensì i significati che vengono attribuiti a queste figure, come per esempio l’eredità del padre, l’esistenza ibrida, la condizione di bambino, l’impossibile comunicazione con altri esseri, il desiderio di morte. Da questi frammenti di significato attraverso una rete di collegamenti deve essere costruito un tutto che sia il più possibile sensato.

Uno dei collegamenti possibili è la storia di una dolorosa autoriflessione: qualcuno vede se stesso come un essere la cui identità è costituita da parti eterogenee che si scontrano l’una con l’altra. Il desiderio e la norma non possono essere messi in corrispondenza. Un altro collegamento può essere quello di un senso di colpa: qualcuno considera una mancanza che l’ha portato ad una posizione senza via d’uscita e riflette se da qualche parte si possa sperare in un riscatto. Testi letterari che alcuni studenti hanno prodotto in un seminario su Kafka, dopo la lettura di Un incrocio, (il compito era: “Scrivi le idee che ti vengono in mente subito dopo la lettura”) non ricercano più il senso psicologico o quello “ebraico” di una storia enigmatica, ma proseguono con la storia iniziata dall’autore in modo vario e con i loro mezzi’., narrativi. Non osservano solamente il testo kafkiano, anzi intervengono.

Una prima rielaborazione collega la storia kafkiana alle esperienze quotidiane. Collegamenti sono i motivi dell’eredità e le componenti eterogenee di questo oggetto ereditato. La scrittrice infelice e disorientata si rivolge al padre in una “lettera al padre” e esamina in maniera kafkiana l’eterogeneità delle parti ereditate dai genitori che hanno condotto ad una separazione di questi ultimi. Il senso di scissione, provato dalla ragazza si concretizza nell’immagine del bambino il quale si trova, non colpevole, in una situazione di alienazione dalla società ed è assillato dal pensiero della morte:

“spesso penso al suicidio, così questa strana vita avrebbe fine”.

Un’altra studentessa pone al centro della sua ripresa produttiva del racconto di Kafka una creatura ermafrodita e si identifica con essa. L’Io di questa creatura, è costituito da una sensazione di estraniamento e allo stesso tempo di responsabilità:

“Perché ci sono creature come me? Posso vivere. con questa mia unicità?”

Lei racconta di esperienze che qualche volta l’aiutano a superare l’estraniamento da lei sentito. Ma anche allora rimane la solitudine. Gli altri

“non mi capiscono, ma per rendermi felice mi danno da intendere di aver capito qualcosa e annuiscono.”

A causa dell’insicurezza vengono trattenuti i pensieri di

“porre fine alla mia vita.[ … ] Perciò continuo a vivere e aspetto finché non abbia esalato il mio ultimo respiro.”

Un suo compagno di studi tenta per tre volte di riprodurre le sue esperienze di lettura in un proprio racconto. Nella terza versione, quella più convincente, si ripete la struttura enigmatica dell’originale. L’animale strano che possiede non mangia e non beve, si nutre del corpo dello stesso narratore:

“Strappa dei piccoli pezzi di carne dal mio corpo e poi li mastica per dei giorni. Questo a volte è un po’ faticoso.”

Qui è nata una storia nella quale l’io-narrante presenta un’esperienza che Kafka compie in altri racconti, come per esempio nell’Avvoltoio. Così come l’aquila di Zeus dilania di giorno in giorno Prometeo, allo stesso modo, in questo frammento di Kafka, l’io narrante viene tormentato da un avvoltoio. Il lettore-narratore nella propria rielaborazione vede se stesso come vittima di una aggressione inspiegabile da parte del suo animale.

“Strappa dei piccoli pezzi di carne dal mio corpo e poi li mastica per dei giorni”.

Questo a volte è un po’ noioso.” Si può parlare di una variazione del prototipo originario del mito greco, il quale attraverso la rielaborazione letteraria di Kafka, penetra nella fantasia dei lettore e lì mobilizza di nuovo l’immagine della “punizione della colpa”.

La nostra rassegna delle rielaborazioni dei testi kafkiani riconferma che il fascino delle opere kafkiane deriva dal processo di ricerca del significato che queste mettono in moto.

NOTA: Testo rivisto dall’Autore, della conferenza tenuta a Brescia il 28.3.2000 su invito della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura.