La società nei tempi incerti

Chiara Giaccardi. Buongiorno a tutti, siamo Chiara Giaccardi e Mauro Magatti. Siamo sociologi dell’Università Cattolica di Milano, moglie e marito, mamma e papà di una serie di figli. Abbiamo ragionato insieme su questo tempo che stiamo attraversando che è stato definito un tempo sospeso, ma è semplicemente un tempo altro, un tempo nuovo. Noi pensiamo che siamo in un kairos, cioè in un tempo denso di possibili cambiamenti. Cambiamenti che non saranno necessariamente per il peggio, né necessariamente per il meglio. È importante comprendere ciò che sta accadendo, per cercare di contribuire in maniera attiva a questo divenire in cui siamo immersi. È un tempo che può essere definito – l’evento di questa pandemia globale, forse la prima pandemia globale a cui assistiamo – come una catastrofe. E, letteralmente, catastrofe significa rovesciamento: katastrophḗ, un rovesciamento drammatico, come ogni rovesciamento perché da un momento all’altro sovverte l’ordinarietà, l’impalcatura delle nostre esistenze e tutto ciò che sostiene la sicurezza ontologica delle nostre vite, le nostre abitudini, i nostri ritmi, le coordinate sulla base delle quali costruiamo le nostre aspettative, e così via. Improvvisamente, da un giorno all’altro, 5 miliardi di persone si sono ritrovate chiuse in casa. È stato un fenomeno inedito, di proporzioni mai viste prima d’ora, un fenomeno che deve aiutarci a capire in che mondo viviamo e, soprattutto, in che mondo possiamo vivere. La catastrofe ha, certamente, una dimensione di azzeramento, una dimensione distruttiva, che ci lascia sbigottiti, spaesati. E l’essere umano non può vivere spaesato, non può vivere senza punti di riferimento, senza criteri di orientamento, senza potere fare delle previsioni per il futuro, senza poter immaginare come agire, come sporgersi sulla vita. Questa è sicuramente una situazione liminale, una situazione di passaggio. La stessa parola “trauma”, significa ferita che ci squarcia, colpo, è un’apertura, un passaggio. E questa occasione occorre saperla cogliere. Nel libro molto importante Per una teoria della crisi, Edgar Morin aveva riconosciuto come ogni crisi ha questa capacità di rompere i determinismi, cioè non soltanto di rompere le consuetudini a cui siamo affezionati, ma anche quelle dinamiche che vediamo come critiche, rompere una serie di inerzie che ci sembrano inamovibili. In questo senso, ogni crisi, che è appunto un momento di passaggio, un momento di confine tra la vita e la morte – e questo la rende così pregnante – può essere un’occasione di progressione o di regressione. La regressione, forse, la vediamo molto chiaramente: la crisi economica, la crisi sociale, scuole che non riaprono, madri che devono rinunciare al lavoro, conquiste di anni che sembrano vanificarsi in un momento, rapporti sociali distanziati e, quindi, impoveriti. Vediamo i rischi di una regressione che è tanto sul piano personale esistenziale, quanto sul piano economico e anche politico, perché molti paesi hanno reagito in maniera autoritaria a questa pandemia. Però, c’è anche la possibilità di una progressione, che non è affatto automatica, ma richiede la capacità di cogliere l’occasione di una rottura di dinamiche, che ci sembravano quasi inamovibili, e che improvvisamente ci aprono il campo a una progettazione nuova. Naturalmente, occorre una visione e ci preoccupano un po’ tutti i discorsi sulla ripartenza, sulla riaccensione dei motori, perché se si pensa di poter ripartire come prima, si commette già un grave errore. Non siamo più dove eravamo prima e, quindi, il ritorno è sicuramente un impoverimento, è sicuramente un tornare più indietro del punto in cui eravamo. Quello che ci aspetta è un guardare avanti, un mettere in movimento dei processi che possano “portare quel cambiamento che vorremmo vedere nel mondo”, per usare una frase di Gandhi. E in questo senso la catastrofe, questo rovesciamento, questo azzeramento, questo spaesamento in cui ci troviamo, può essere vitale, può essere un punto di rottura, di inerzie economiche, sociali, ideologiche, che ci rende più leggeri, più liberi di immaginare un futuro diverso. Bisogna avere una visione e bisogna, soprattutto, imparare alcune lezioni che questo tempo ci ha consegnato. Quindi, è necessario mettere in atto un processo di cambiamento, che deve iniziare da subito.

Mauro Magatti. Questo è un tempo che ci espone a un futuro ignoto: non sappiamo cosa succederà di questo virus, qualcuno afferma che è destinato a passare nei prossimi mesi, a breve, con l’estate, altre previsioni, invece, dicono che si andrà avanti almeno fino alla fine del 2021, perché i tempi del vaccino sono lunghi e, quindi, non sappiamo assolutamente cosa potrà succedere. Sembra che possiamo contare su risorse economiche che vengono dall’Unione Europea e questo, sicuramente, è importante perché in questo momento l’economia ha bisogno di sostegno finanziario, altrimenti va in blocco totale. Lo Stato italiano si sta indebitando e noi pensiamo, peraltro, che sia necessario che anche noi come cittadini, come risparmiatori, ci mettiamo del nostro e riusciamo ad avviare un grande progetto “bene comune Italia”, in cui una quota dei nostri risparmi – che in forma liquida contano 5500 miliardi – possono essere investiti in progetti di valore comunitario. Quindi, in un certo senso, non è un problema di soldi, almeno in questo momento. È un problema di idee, un problema di prospettiva, di superare questo stato di panico, dentro cui tutti comprensibilmente siamo finiti, adottando un approccio trasformativo. Cosa vuol dire un approccio trasformativo? Vuol dire che da una parte abbiamo un percorso che è segnato ed è un percorso infausto: la crisi sanitaria, più o meno prolungata, oltre a dolore e sofferenza, rischia già di tradursi molto concretamente in crisi economica (imprese che chiudono, posti di lavoro che non ci sono più, prospettive che diventano complicate), la crisi economica rischia di trasformarsi in crisi sociale (rabbia, rifiuto dell’ordine delle cose, scontri, lotte e conflitti) e, questo, può portare alla crisi politica, con esiti che non sono prevedibili. Se adottiamo un approccio trasformativo, cioè se comprendiamo che i giorni, le settimane, i mesi che abbiamo davanti non vanno pensati come un tentativo di far ripartire una macchina che funzionava in un certo modo, ma piuttosto come un’occasione per mettere mano, finalmente, a tutta una serie di questioni che già ci opprimevano, specialmente in Italia, ma che non riuscivamo ad affrontare, il percorso che ho detto prima in qualche modo si realizzerà. Con approccio trasformativo si intende che abbiamo alcuni grandi temi da mettere all’ordine del giorno:

  • il tema della sostenibilità: il problema del cambiamento climatico, dell’inquinamento, produce costi concreti. Ci sono ricerche che hanno fatto vedere, con una ragionevole certezza, che il livello di inquinamento delle nostre zone (Brescia, Bergamo, la Lombardia) è stato un fattore che ha moltiplicato la dannosità del virus. E sappiamo che ci esponiamo a rischi molto grandi, se non affrontiamo fin d’ora la questione ambientale;
  • il tema della sanità: la sanità va riorganizzata, va ristrutturata. La sanità non può essere solo la sanità degli ospedali, deve essere una sanità basata sul territorio, sul rapporto tra medico e paziente, che implica anche l’educazione delle persone nei loro comportamenti, nel loro modo di fare;
  • il tema della scuola: la scuola è una risorsa, ma in queste settimane le scuole sono chiuse. È un gran problema, perché la scuola è motore di uguaglianza, che incide fortemente sul clima e sulla vita di molte persone.

Questi sono tutti grandi temi che possiamo affrontare utilizzando le risorse finanziarie straordinarie che in questo momento vengono mobilitate, per generare una riorganizzazione del nostro modello economico e sociale, in modo tale che non ritorniamo al 31 dicembre 2019, ma creiamo un mondo che sia in grado di affrontare meglio anche problemi come quello del virus.

Chiara Giaccardi. Perché questo sia possibile, occorre abbandonare anche alcune delle narrazioni che hanno accompagnato gli anni più recenti, alcuni slogan che si sono rivelati vuoti di significato, come ad esempio la frase “rischio zero”. Abbiamo imparato che il “rischio zero” non esiste, che proprio nel cuore dei luoghi più tecnologicamente avanzati il virus è proliferato in maniera evidente e drammatica, che ciò che ha fatto la differenza non sono stati tanto i dispositivi tecnologici, ma l’impegno delle persone ad auto-confinarsi per evitare il contagio e, quelle in prima linea, a dedicarsi in maniera generosissima e totale per curare gli ammalati. Tutto questo ci deve fare ripensare. Il rischio è diventato emergenza. La possibilità di una lotta tra la vita e la morte, dove la morte sembra affermarsi in maniera drammatica, è diventato molto concreto, è diventato qualcosa che ha sconvolto le nostre vite, ci ha gettati anche in uno stato di timore e di angoscia. Questo snodo tra la vita e la morte va riassunto, ce ne dobbiamo riappropriare in una maniera attiva, come una scommessa sulla vita, anche quando ci sono delle condizioni mortifere che ci circondano, ma, soprattutto, nella consapevolezza che tutta una serie di racconti – come quello dell’individualismo, della libertà di scelta, della connessione volontaria e disconnessione volontaria dai mondi – sono fallaci, si sono rivelati inadeguati a rappresentare il momento in cui siamo. Noi non siamo individui che si connettono e disconnettono dai mondi, siamo esseri in relazione, in un’ecologia integrale che dobbiamo avere in mente nella ricostruzione e in una ripartenza, che è anche una re-immaginazione del nostro vivere sociale. Dobbiamo renderci conto che non si può vivere senza rischiare. Non solo il “rischio zero” non esiste, ma senza rischio la vita non c’è, perché la vita è proprio questo: essere consapevoli che la morte è una compagna di viaggio inseparabile e, nello stesso tempo, scommettere sulla vita, cioè oltrepassare, trascendere il momento della paura. Significa progettare, proiettarsi nel futuro e questo possiamo farlo solo insieme. Abbiamo visto che nessun uomo è un’isola, che soltanto tenendo conto degli altri e dell’impatto che ogni nostra azione (compreso uscire di casa) può avere sugli altri, noi possiamo salvarci. O ci si salva tutti o non si salva nessuno. Nessun uomo è un’isola o, come diceva Kant, la solidarietà non è un lusso che ci possiamo concedere perché siamo anime belle, ma è una questione di vita o di morte. Come scriveva il poeta Umberto Saba, “è il pensiero della morte che, in fine, aiuta a vivere ” La morte non è eliminabile, a differenza dei sogni di immortalità che hanno caratterizzato la società ipertecnica. Questa consapevolezza di un’interconnessione che non è solubile, ma costitutiva della nostra esistenza, è l’impalcatura sulla quale possiamo costruire i passi che ci aspettano, un divenire che possa essere un’avventura di vita e non la rassegnazione alle perdite che abbiamo subito.

Mauro Magatti. Quanto diceva Chiara vale anche sul piano macro delle politiche, dell’economia. Noi pensiamo che la pandemia segni la chiusura definitiva della stagione che si è aperta nel 1989, quella della globalizzazione, che è stata una grande stagione che ha segnato tanti passi in avanti (ad esempio la riduzione della povertà), ma ha creato anche tanti problemi, come quelli della sostenibilità, del terrorismo e quant’altro. Chiude quella stagione perché abbiamo capito nel micro, come nel macro, che da una parte l’idea cosmopolitica globalista, cioè che noi siamo particelle elementari, che come singoli individui possiamo andare dovunque e tutto si muove nel mondo senza nessun radicamento, non si regge, perché ci sono i virus, il terrorismo, la disuguaglianza, c’è una domanda d’identità che rimane importante. Ma abbiamo anche capito che il suo estremo opposto, il localismo, che è l’idea di rinchiudersi dentro un recinto (che sia quello del proprio appartamento, della propria città, della propria regione, della propria nazione), l’idea di confinarsi e di tirarsi fuori dalla dinamica globale, a sua volta è un progetto che non sta in piedi. L’abbiamo sentito dentro i nostri appartamenti: l’uomo è fatto per andare continuamente oltre e qualunque confine, qualunque muro, uccide quelli che stanno dentro, così come esclude quelli che stanno fuori. Dunque, siamo in una stagione in cui, anche dal punto di vista delle dinamiche collettive, delle dinamiche macro, stanno avvenendo cose nuove. Le grandi aree economiche, politiche e culturali, per quanto ci riguarda l’Europa, hanno la possibilità di ricostituirsi, di lavorare su tutto quello che riguarda la gestione degli aspetti economici, sociali, istituzionali e sanitari, però, ricordandoci sempre che siamo gli uni in rapporto agli altri e che non ci sono parti di mondo che si possono separare. Purtroppo, vediamo che ci sono anche segnali di guerra. C’è il rischio che da questa pandemia, dai costi che produce, possano derivare conflitti non solo commerciali, ma anche conflitti armati. Questo è un grande rischio e tra il globalismo cosmopolitico, il localismo reattivo e la formazione di macroregioni in conflitto una con l’altra, vi è anche la prospettiva di mondi che si organizzano, che esprimono delle visioni, concezioni dell’uomo, della società, dell’economia e che stanno in un dialogo proficuo e continuo per arricchire l’umanità nelle sue varie espressioni. Da questo punto di vista, la pandemia e queste settimane, così difficili per tutti, segnano uno stacco storico. Saremo certamente diversi da come eravamo qualche mese fa. Speriamo di essere migliori e non peggiori.

Trascrizione del testo non rivista dagli Autori.