La stella sulla scuola del latifondo

Nell’Avvento del 1945 mi giunse la nomina di supplente in una scuola rurale del mio Mezzogiorno.
La mia scuola cadeva sotto la giurisdizione di uno dei «fattori» del Marchese. M’accorsi subito di trattare con un uomo di ottime qualità native, contorte purtroppo da quel «sistema» feudale e spagnolesco che, inceppando la vita di gran parte del popolo meridionale, contribuisce potentemente a porlo in un tragico complesso di inferiorità.
Quest’uomo che io vidi piangere dirottamente ascoltando la lettura de’ «Fratelli Karamazov» di Dostoevskij, doveva «distaccarsi» dai mezzadri che da lui dipendevano, trattarli a distanza. Sempre intimamente preoccupato di adattarsi al nobile «padrone», doveva imitarlo verso i mezzadri i quali, a loro volta ci tenevano a farsi chiamare «padroni» dal pastore o dal misero bracciante: servendo tutti da schiavi e ciascuno cercando di comandare da despota, quasi per una segreta rivincita dell’umiliazione che si è costretti a subire.

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La sera del mio arrivo in campagna, un ragazzo dodicenne mi accompagnò dalla fattoria a scuola, e, approfittando del buio, si prese una vendetta preventiva sul «maestro di scuola»: mi fece sprofondare malamente in un fossato. Ma il caro Michele, orfano di padre, lontano dalla mamma, a servizio di estranei, fu conquistato dalla mia carezza, e il giorno seguente mi confessò il brutto tiro giocatomi e mi rivolse la domanda più bella ch’io potessi attendere da lui: «Mi insegni a leggere e a scrivere? Verrò da te un poco. Ogni sera, dopo il lavoro!». Ma la gioia di aver imparato a scarabocchiare il suo nome e i primi numeri, anche se sopraffatto dalla stanchezza, al lume fioco di un lucignolo alimentato da sentina d’olio, si tramutò ben presto in lacrime di rabbia: il massaro più anziano gli rese impossibile quel sacrificio a lui pur tanto caro, anticipandogli di due ore la sveglia e tenendolo impegnato fino a tarda ora la sera. Ecco la conclusione logica della vigente… gerarchia dell’oppressione!
… Quando potevo, prima di ritornare alla scuola-dormitorio, entravo nella stalla per baciare in fronte quel fanciullo che, accucciato, dormiva su di una brandina di assicelle, non svestito, riscaldato dal fiato velenoso degli animali che ruminavano; spesso ho colto sulle sue labbra un inconscio sorriso: sognava forse una carezza materna, o trasfigurava fantasticamente in vittorie quei violenti ed aperti moti di ribellione che, durante il giorno lo avevano sconvolto e rattristato dinanzi all’asprezza di un comando, alla viltà di un abuso, alla dolorosa cecità di un’ingiuria.

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Alla residenza marchesale io mi recavo in bicicletta ogni domenica, per ascoltare la messa, in una antica chiesetta.
Le pubbliche accoglienze fatte al maestro furono solenni: non deve la gleba convincersi che le persone «per bene» e «quelli che sanno» stanno tutti da una parte e che le stesse scuole sono frutto generoso dell’illuminismo padronale?
Ma il marchese, che pur si fregiava del titolo ad honorem (!) di «avvocato», avendo capito che le mie preferenze erano per lo studio e che ignoravo la caccia, non esitò a manifestare il suo disprezzo per gli «idealisti gratta-nuvole».
Né dimenticherò mai la sgradita, malcelata sorpresa dei figliuoli del marchese che, in visita turistica alla mia umile e umida scoletta – ne fui malato dopo, per due anni – scoprirono tra i libri un fascio di riviste che portavano un motto pericoloso: «Né la monarchia, né il conservatorismo ci attireranno mai nella loro orbita». Come potevano conciliarsi quelle tendenze del maestro col fatto ch’egli faceva la comunione ogni domenica? Ah, sì, doveva essere proprio un … sovversivo quel giovane che ogni pomeriggio conversava sul Vangelo coi pastori comunisti riuniti a quotidiano convegno per abbeverare le pecore: ero un eretico, un cattolico… comunista!

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Due settimane prima del Natale si lavorò a preparare cori di fanciulli e di contadini, a scavare e ad impastare la creta, a fare e rifare ponti e grotte, animali e Re Magi.
La vigilia tutti si dettero appuntamento alla scuola: fu una festa bellissima, originale, ordinata.
Io tacqui; parlarono i fanciulli che, con le loro poesie, dissero a Gesù i loro propositi, affidarono alla Sua benedizione il lavoro e le speranze dei familiari, e, mentre invocarono da lui la forza di non rassegnarsi alla ingiustizia perché l’ingiustizia è un male e cedere al male è peccare. Gli dissero «Grazie» per il privilegio concesso ai bimbi e ai poveri nell’economia meravigliosa del Suo Regno.
Insieme pregammo per l’affratellamento di tutti gli uomini nella divina eguaglianza del Vangelo.
Che cosa passò nella mente della famiglia marchesale, per la prima volta, senza saluti e auguri speciali, accomunata da «un maestro di scuola» alle famiglie ch’essa sfruttava, i cui ragazzi osavano con semplicità e carità indicar loro la via della salvezza?
Nacque anche in loro Gesù? Se la voce della scuola popolare cristiana non trovò pratica risonanza nei cuori «padronali», essa fu generosamente raccolta da tutti gli altri come un’alba di vita nuova.

Pubblicato su una rivista di pedagogia non identificata presumibilmente nel 1946. La nota in premessa dice: “Abbiamo pubblicato un articolo che è un’opportuna rivalutazione del Mezzogiorno e delle sue possibilità spirituali. Pubblicheremo via via documenti e relazioni sulla realtà scolastica e sociale del Sud. Ecco un’autentica pagina di un caro giovane tarantino. É un’esperienza rivelatrice. Perché è proprio davanti a un Presepio che si ripensa alla giustizia dei poveri e al vero rinnovamento sociale, in Cristo. Sollecitiamo gli amici ad inviare altre pagine sincere alla Rivista, che non ha come centro né il nord né il sud, ma tutta l’anima dell’educatore italiano”. L’articolo è firmato M.P.