L’amaro sapore della verità in Cornelio Fabro

Nell’introduzione al suo capolavoro, “Il valore della storia”, Nicola Petruzzellis, uno dei maggiori filosofi del nostro tempo, annotava: “È difficile riconoscere l’originalità, là dove questa fiorisce nel solco di una tradizione”. L’osservazione è giustissima e calza perfettamente non solo al Petruzzellis, ma anche a padre Cornelio Fabro, due filosofi così diversi fra loro e tuttavia decisivi nel panorama culturale italiano, e non solo italiano, per il superamento dello storicismo hegeliano e marxista e per la riproposizione critica della metafisica realistica. L’uno e l’altro si sono misurati con il pensiero contemporaneo, ampiamente conosciuto nei suoi autori più significativi, con rigore teoretico, con quell’amore aspro della verità che non guarda in faccia nessuno quando si tratta di difenderla. Ed entrambi scelsero di essere tomisti, contribuendo a rivalutare le intuizioni di fondo e l’autentica filosofia dell’Aquinate contro i travisamenti, gli oblii e l’appesantimento scolastico di sette secoli. A Cornelio Fabro è stato consegnato ieri il premio della cultura cattolica (edizione ’89) e la scelta sta a ricordare ai molti smemorati che la ricerca filosofica si realizza nel rispetto sincero delle rispettive posizioni e nell’approfondimento inesauribile del vero, anche attraverso il confronto, senza cedere al malcostume di “battezzare” chi non vuol essere battezzato. Muovere all’individuazione di un terreno comune per procedere oltre, richiamarsi di continuo a “ciò che a tutti consta” rappresenta il vero metodo critico su cui tutti coloro che hanno un minimo di buona volontà dovrebbero incontrarsi, quali che siano le loro convinzioni e i loro precedenti presupposti. Ma a questo dialogo è radicalmente estraneo il sincretismo, il pasticcio e il calcolo di fornire coperture pseudo-culturali a operazioni politiche.
Nel campo delle idee sono sterili e devono ripugnare i compromessi, che invece stanno di casa legittimamente, quando non siano veri e propri tradimenti, là dove il calcolo dei voti è una via obbligata per concorrere al governo della città. L’avventura filosofica del religioso stimmatino cominciò nel lontano 1938 quando, dopo quattro anni di elaborazione, pubblicò nella prestigiosa collana “Studi superiori” della Sei di Torino “La nozione metafisica di partecipazione”, testo che al suo apparire dette ai lettori non superficiali la prova della vitalità e della fecondità speculativa del tomismo autentico quando sia cercato e ripensato nel suo clima originario e nella familiarità intima e prolungata dei testi. Il risultato teoretico della poderosa ricerca storica consisteva nel superamento del conflitto platonismo e aristotelismo da parte della metafisica tomistica dell’essere. Tommaso, infatti, incorpora gli elementi perenni del platonismo di cui si era nutrita l’epoca patristica e fa di Agostino e Dionigi Aeropagita gli autori più assiduamente interpellati. Tesi questa tutt’altro che compresa neppure da gente che va per la maggiore e che contrappone sistematicamente Tommaso ad Agostino, come fa, per esempio, il tanto celebrato Chenu e non poteva certo succedere a uno studioso sereno e serio come Charles Boyer.
In Fabro la ricerca storica si è andata sempre più intrecciando alla ricerca teoretica, com’è attestato da tre opere di grande rilievo quali “Dall’Essere all’esistente” (Morcelliana, 1957), “Introduzione all’ateismo moderno” e “Il rischio di Dio” (entrambe pubblicate da Studium, Roma). La lettura di queste opere ci fa cogliere la genesi di un dramma, il dramma dell’umanesimo ateo, il passaggio graduale dall’immanentismo all’ateismo, l’inesorabile sbocco della pretesa antropocentrica nella crisi nichilistica dei nostri giorni. Sono opere stupefacenti per vastità di conoscenza e profondità di intuizioni, sì che chiunque voglia afferrare il nocciolo delle questioni più dibattute e i loro sviluppi nel pensiero contemporaneo deve meditare su quelle pagine. Io ho imparato molto da Fabro, anche quando avvertivo di dover dissentire da giudizi troppo netti o da svalutazioni del tutto immeritate, come nel caso di Maurizio Blondel. Ma, si sa, quando la posta in gioco è troppo alta e si fa acuta l’angoscia per la dilapidazione di tante ricchezze spirituali presenti nella filosofia moderna e contemporanea, si corre il rischio di una “maggiorazione polemica”.
Nessuno, però, può parlare di Fabro e tacere il grande dono che egli ha fatto al nostro Paese e alla cultura in quanto tale: egli ha immesso nel dibattito culturale il più grande dei discepoli di Socrate nel secolo XIX, Soeren Kierkegaard, liberato dalla deviante parzialità di traduzioni e da interpretazioni arbitrarie. Il più grande discepolo di Socrate nel secolo XIX è egli stesso il vero Socrate del Nord e ha tenuto testa, mirabilmente, al più grande sofista di tutti i tempi, a colui che ha elevato il relativismo di Protagora a sistema, il sistema appunto dello storicismo assoluto: Georg Friedrich Hegel. Per un’operazione del genere Cornelio Fabro si é impadronito della lingua di Kierkegaard e in essa ha letto i suoi manoscritti. La sua è stata un’impresa grandiosa di cui tutti gli dobbiamo essere grati. Il suo impegno di traduttore infaticabile ci ha fatto conoscere il grande danese in testi indimenticabili: penso alle “Opere di maggior rilevanza raccolte in un volume unico dalla Sansoni, “Gli atti dell’amore” edito da Rusconi, a Esercizio del Cristianesimo” presso la Studium. Soprattutto penso al Diario, oggi disponibile in dodici volumetti presso la Morcelliana. La lettura di quel capolavoro rimarrà sempre un’occasione eccezionale di risveglio della coscienza, un’esperienza spirituale a cui non si deve rinunciare. E di questa possibilità che ci è offerta dobbiamo ringraziare Cornelio Fabro.

Giornale di Brescia, 7.10.1989.