L’avventura della ragione e della grazia in Agostino

«Non volli leggere oltre, né mi occorreva. Appena terminata infatti la lettura di questa frase, come una luce di certezza penetrò nel mio cuore e tutte le tenebre del dubbio si dissiparono».

A sedici secoli dalla sua conversione, Agostino è ancora una forza spirituale di straordinaria efficacia per le coscienze che entrano in dialogo con lui ed è l’autore cristiano più letto e amato. Come si spiega un fatto del genere? «La sua voce risuona come un appello al risveglio in questa nostra epoca di crisi» annota Norberto Bobbio e con ragione.
Il grande africano, la cui vicenda terrena si situa negli anni fra il 354 e il 430, visse infatti in tempi di paurosa disgregazione politica e sociale; ma contro la tentazione della resa e del pessimismo, egli è lì a ricordarci, con l’immensità della sua opera di pensiero e con la sua azione intrepida, instancabile, di pastore e vero leader spirituale dell’Occidente che la legge del progresso reale è di poter avanzare anche tra ostacoli e malvagità e che, in ultima analisi, il senso della storia è racchiuso, per ogni uomo e per ogni epoca, nelle parole del Siracide: «Contro il male il bene e contro la morte la vita». Non la resa, dunque, non la fuga dalle responsabilità e dall’impegno è il messaggio di Agostino, ma l’essere nella storia da cristiani, l’assunzione umile e coraggiosa del compito di redimere il tempo, facendo circolare in esso l’ispirazione evangelica che riscatta, risana, eleva ogni cosa: quella ispirazione per cui ogni epoca diventa contemporanea a Dio ed è equidistante da lui.

Il risveglio della coscienza e la passione della verità

Agostino nacque nel 354 a Tagaste, l’odierna Souk-Ahras, nell’entroterra algerino dell’Africa romana. Tagaste sorgeva a settecento metri di altitudine e distava duecento miglia dal mare. Africano di pura razza berbera, Agostino era figlio di un piccolo proprietario terriero in fase di proletarizzazione, Patrizio, di religione pagana, e di una cristiana di fervida pietà, Monica. A sedici anni i suoi genitori non possono fargli continuare gli studi, malgrado la loro «ostinata risolutezza» nel voler assicurare al figlio, «ragazzo di belle speranze», un’educazione classica. L’anno di forzata sospensione degli studi fu per Agostino un’occasione di vita scioperata e uno «spinaio di impudicizia». Quando un gran signore di Tagaste integra i sudati risparmi di Patrizio e Monica, Agostino può frequentare a Cartagine, che era pur sempre vera capitale dell’Africa, la scuola di retorica. Amorazzi e gusto per gli spettacoli fanno da intervallo all’intensa applicazione allo studio. Ma solo per qualche tempo.
Due fatti nuovi si verificano durante il soggiorno a Cartagine e modificano considerevolmente la sua vita. Il primo è che s’innamora sui diciotto anni di una giovinetta e l’amore, afferrando il suo animo nel profondo, ne scaccia gli amorazzi. Quella donna, innominata nelle “Confessioni”, gli darà un figlio, Adeodato, e Agostino, pur non essendo cristiano, a lei serbò assoluta fedeltà per quattordici anni. Il secondo avvenimento è la lettura di uno scritto di Cicerone, l’“Ortensio”: «Quel libro, devo ammetterlo, mutò il mio modo di sentire (ille vero liber mutavit affectum meum)», scrive Agostino; «mutò le preghiere stesse che rivolgevo a te, Signore, suscitò in me nuove aspirazioni e nuovi desideri. Quel libro svilì d’un tratto ai miei occhi ogni vana speranza e mi fece bramare la sapienza immortale con incredibile ardore di cuore… Amore di sapienza ha un nome greco, filosofia. Del suo fuoco mi accendevo in quella lettura. Taluno seduce il prossimo mediante la filosofia, colorando e truccando con questo grande, mite e onesto nome i propri errori (sunt qui seducant per philosophiam magno et blando et honesto nomine colorantes et fucantes errores suos). Ebbene, quasi tutti coloro che, sia al suo tempo, sia prima, agirono in tal modo, vengono bollati e denunciati in quel libro. A quel tempo una cosa sola bastava ad incantarmi in quell’incitamento alla filosofia: le sue parole mi stimolavano, mi accendevano, m’infiammavano ad amare, a cercare, a seguire, a raggiungere, ad abbracciare vigorosamente non già l’una o l’altra setta filosofica, ma la sapienza in sé e per sé là dov’era (non illam aut illam sectam, sed ipsam quaecunque esset sapientiam)». Era la prima conversione di Agostino: dal mondo esteriore, dalla corsa al successo e ai piaceri all’interiorità della coscienza, alla passione più alta di tutte, quella della verità, della ricerca del significato. Nel giovane retore nasceva allora il filosofo. Era già un cominciare ad alzarsi per muovere incontro a Dio (et surgere coeperam ut ad te redirem). Ma la via del ritorno sarebbe stata assai più lunga e difficile a causa dell’incauta adesione di Agostino alla setta manichea. Impreparato a capire la Bibbia, la fede di sua madre appariva ad Agostino insostenibile, puerile. Il manicheismo, invece, era «la gnosi» del tempo e assicurava di poter spiegare in modo definitivo, a fil di logica, proprio tutto: la realtà dell’universo, la storia, la religione. Il mito di una dottrina totalizzante che cerca di accreditarsi come scienza non è forse ancora la tentazione più forte, la miseria più grande di tante ideologie del nostro tempo? Il manicheismo inoltre sembrava offrire uno sbocco al tormentoso problema del male col suo determinismo dualistico, che sanciva l’irresponsabilità dell’uomo. Nella setta Agostino rimase nove anni, ma con crescente disagio.

La fuga a Roma e la crisi scettica

L’insegnamento nella natia Tagaste prima e poi a Cartagine lo appassiona, ma le violenze degli eversores, i contestatori di allora, lo addolorarono e la sua mente ha bisogno di stimoli che l’ambiente africano non gli può dare. A queste ragioni si aggiunga il desiderio di sottrarsi alle eccessive premure di una madre che non si rassegna a vedere il figlio più caro irretito nella pseudo-religione del manicheismo e non si dà pace. Agostino fugge a Roma, ma fugge altresì da sua madre e per mettere a segno il suo piano non esita a ingannarla. A Roma però le cose non andarono bene. Per una brutta malattia Agostino fu lì lì per andarsene. Dal manicheismo era ormai lontano, ma persisteva in lui la pregiudiziale materialistica. L’incursione nell’una o nell’altra filosofia si accompagnava a un senso di paura: la paura di finir preda di nuovo di qualche altro errore. Gli studenti romani erano assidui alle lezioni, ma… non amavano pagare l’onorario pattuito. Tuttavia quell’anno passato a Roma un risultato positivo l’ebbe: servì a procurargli la nomina per concorso a professore di retorica nella città di Milano, allora capitale dell’impero, e di oratore ufficiale a corte. Gli andò bene perché il prefetto di Roma e capo del senato, Sìmmaco, del partito filopagano, apprezzò la sua preparazione, ma anche perché era ben felice di affidare quell’incarico ad un eretico anticlericale, a un potenziale nemico del vescovo Ambrogio, suo lontano cugino e agguerrito avversario.

La decisione che muta l’esistenza

Agostino arriva a Milano alla fine del 384 e ne riparte per sempre nel maggio del 387. In questo spazio di neppur tre anni si colloca la sua conversione, uno degli eventi più decisivi e ricchi di implicazioni nella storia del pensiero filosofico e teologico e nella stessa evoluzione culturale e sociale che ha dato vita all’Europa.
Il primo incontro con Ambrogio si dimostra molto affabile e gli dà il benvenuto satis episcopaliter: espressione che può esser resa «da perfetto vescovo» o, in un senso limitativo, «in modo abbastanza episcopale». Agostino ascolta la predicazione di Ambrogio, quasi per dovere d’ufficio, per giudicare il collega in oratoria sacra; ma ascoltare Ambrogio era un momento pieno di significato per chiunque. Lo fu anche per il retore africano. Parlando al popolo e quasi evitando di proposito ogni discussione diretta, che sarebbe stata inutile e fors’anche dannosa, con il retore africano, il santo vescovo dissipò in lui i pregiudizi manichei sull’Antico Testamento, fugò ogni antropomorfismo nella concezione di Dio e gli insegnò a cercare nelle pagine della Bibbia lo spirito che vivifica e non la lettera che uccide. A poco a poco la dottrina cattolica appare perciò ad Agostino non più vinta, sebbene non ancora vincitrice. Rimane il fatto che quei due grandi erano fatti per capirsi a distanza. Uno spiraglio sul rapporto sui generis che intercorse tra loro forse ce l’offre una singolare osservazione di Agostino: «Io non potevo allora comprendere le lotte che Ambrogio sosteneva contro le tentazioni della sua stessa grandezza». Questo passo ha forse ispirato Eliot nei passaggi più forti del suo “Assassinio nella cattedrale”?
Agostino però non può avanzare nella comprensione della verità religiosa se la sua ragione non supera in maniera esplicita e per sempre il duplice ostacolo: il materialismo e il dualismo. L’autore di cui allora Agostino aveva bisogno era Plotino, avversario degli gnostici, antenati in linea diretta dei manichei; e il suo messaggio, favorevolmente accolto nell’ambiente culturale cattolico di Milano grazie anche alla traduzione delle “Enneadi” fatta da Mario Vittorino, gli diede il colpo d’ala, aiutandolo a comprendere e a giustificare alcuni presupposti razionali del Cristianesimo, quali la realtà di Dio, la vita dell’anima, il principio dell’interiorità.
Simpliciano, il vero animatore della cultura cattolica a Milano, aveva lavorato ad assimilare il neoplatonismo, in ciò che esso aveva di vero, all’organismo culturale della concezione cristiana della vita. Amico fraterno e guida spirituale di Mario Vittorino, retore e africano, lo sarà anche Agostino, retore e africano anch’egli, anch’egli sulla via dell’incontro con Cristo.
Il cammino di Agostino, di liberazione dell’intelligenza e il faticoso mutamento di abitudini di vita, ebbe un brusco arresto quando Monica, in vista di una sistemazione matrimoniale adeguata all’alto ufficio del figlio, gli strappò dal fianco la sua donna a cui impose di tornarsene in Africa. Quella donna se ne andò, «facendo voto di non conoscere alcun altro uomo». Il fatto positivo di quel doloroso sacrificio, a ben vedere, andò oltre ogni aspettativa. Agostino però reagì male al diktat materno e tornò agli amorazzi. Ma per poco. La partenza per l’Africa della madre di Adeodato fu una spinta ulteriore al grande passo. Il giorno della decisione venne, nell’agosto del 386. Nell’aprile del 387 Agostino fu battezzato per mano di Ambrogio, in maggio la partenza per l’Africa.

La «seconda conversione»

La conversione è un istante biograficamente databile che fa irruzione nella vita e le dà una fondazione nuova. La conversione è oltre gli stimoli acceleratori provocati da Cicerone e da Plotino. È un avvenimento unico, diverso da ogni altro per essenza ed efficacia.
Un uomo diviene conscio, in profondità, che Dio c’è ed è Amore e questa certezza muta quell’uomo in tutto, nei suoi impulsi e nei suoi scopi, nel suo modo di pensare e nel modo di vivere.
E tuttavia la chiarezza e l’approfondimento della trasformazione essenziale operantesi entro la fede dovevano dare i loro frutti solo in progresso di tempo: occorreva che il convertito accettasse di rinunciare anche al christianae vitae otium che aveva progettato e di non riservare nulla per sé, offrendo a Dio proprio quanto aveva di più caro, la prospettiva di un «rifugio» popolato di amicizia, preghiera, studio e di interventi programmati a servizio della comunità.
Tornato in Africa, dopo una breve sosta a Cartagine, raggiunge Tagaste, ove attuò senza indugio il suo programma di vita: costituì una piccola comunità di laici – fondata sulla preghiera, lo studio e il lavoro manuale – e continuò con inesausta vena la sua attività di scrittore.
Dopo la prematura morte di Adeodato, pensò di allontanarsi da Tagaste, per sottrarsi ai troppi incarichi che i suoi concittadini gli affidavano, ma il corso della sua vita sarebbe stato ben diverso dai progetti che egli andava accarezzando.
Recatosi ad Ippona, l’attuale Bona, per cercare un posto dove viverci con i suoi confratelli, entrò per caso nella “Basilica pacis” mentre il vescovo Valerio parlava dell’urgente bisogno ch’egli aveva di un presbitero.
Gli occhi dei fedeli si volsero su Agostino, che era in mezzo a loro nella navata, ormai noto in Africa per dottrina e santità di vita.
Lo afferrarono e lo presentarono al vescovo, chiedendo ad alte grida, con un procedimento tumultuoso, allora non insolito, che lo ordinasse sacerdote. Agostino paventava la responsabilità del ministero sacerdotale e fece di tutto per esimersi.
Pianse, e non di gioia. In un’occasione del genere un altro grande, il dalmata Gerolamo, accettò l’ordinazione sacerdotale, ma non la cura d’anime; Agostino, invece, si assoggettò senza riserve al servizio del popolo. Fu la sua «seconda conversione». Era la primavera del 391.
Quello che a partire da quel 391 Agostino divenne e quello che fece, con instancabile dedizione, in un mondo che andava in frantumi, ha dell’incredibile. La tragedia “Amleto” – osservava Bergson – dirla «possibile» prima che Shakespeare la inventasse, non avrebbe senso: la sua possibilità si comincia a vedere solo dal momento in cui Shakespeare l’ha messa al mondo.
Lo stesso deve dirsi di quel capolavoro che fu la nuova vita di Agostino, il cui genio fu elevato a potenza dalla santità.
Opere come le “Confessioni”, la “Città di Dio” e “Sulla Trinità”, sbalorditive per altezza speculativa, furono scritte nel tempo penosamente sottratto al sonno, al termine di giornate di eccezionale operosità.
Di salute malferma, Agostino esercitò sino alla fine il ministero della parola ed è commovente pensare che i suoi “Discorsi” e il suo ampio “Commento ai Salmi” sono giunti a noi grazie ai tachigrafi che captavano le sue parole – come scrive lo stesso Agostino – «non solamente con le orecchie e col cuore, ma anche con lo stilo».
In una società in totale sfacelo, sulle spalle del vescovo vennero a rovesciarsi anche i compiti sociali a cui nessuno era in grado di provvedere, come ad esempio l’esercizio dell’attività giudiziaria: Agostino offrì per decenni a folle di litiganti, pagani ed eretici non meno che cattolici, la soluzione rapida, gratuita ed incorrotta delle loro controversie.
Ne soffriva, ma non si sottrasse neppure a quella pesante fatica.
Al centro del dibattito religioso dell’epoca, sebbene vescovo di una piccola diocesi, Agostino fu costretto anche ad una lotta lunga contro le eresie del pessimismo (manicheismo), dell’autosufficienza umana che cancella la grazia (pelagianesimo) e dell’intransigentismo puritano (donatismo), testimoniando così anche in un campo tanto difficile la volontà eroica di conseguire la verità, perché essa sola può unire gli uomini e arrecare la pace.
Gerolamo, il biblista filologo sommo non sempre equanime verso l’Africano, comprese anch’egli la grandezza del vescovo di Ippona e ad essa rese omaggio in una lettera che è quasi certamente del 418.
«Grazie all’ardente tua fede – scrive il dalmata ad Agostino – sei rimasto saldo contro la furia dei venti, solo piuttosto che con quelli che andavano incontro alla rovina.
Gloria a te per il tuo valore! Tutto il mondo parla di te con onore. I cattolici ti venerano e ti ammirano come il secondo fondatore della loro fede».

Scuola Italiana Moderna, 15 febbraio 1987.